E Dio disse: «Non ho sempre ragione»
Una lettura originale di Levinas, Rosenzweig, Buber e Wittgenstein. La morale si lega a un’interpretazione del Talmud che pone al centro l’autonomia e la libertà umana.
di Hilary Putnam (Il Sole-24 Ore, 20 marzo 2011) *
Emmanuel Levinas è famoso per l’affermazione secondo cui l’etica è filosofia prima; con questo intende non solo che l’etica non deve essere ricavata da una qualche metafisica, nemmeno una metafisica "ontica" (ossia "anti-ontologica") come quella di Heidegger, ma anche che l’intera riflessione su ciò che vuol dire essere un essere umano deve iniziare con una simile etica "non fondata". Ciò non significa che Levinas vuole negare la validità, per esempio, dell’«imperativo categorico»: quel che rifiuta è ogni formula come «comportati in questo e quest’altro modo perché...». In molti e diversi modi egli ci dice che è disastroso affermare «Tratta l’altro come un fine e non come un mezzo perché...».
Eppure alla maggior parte delle persone sembra che ci sia un ovvio "perché". Se si chiede a qualcuno: «Perché dovremmo agire in modo da volere che le massime delle nostre azioni siano leggi universali?», oppure: «Perché dovremmo trattare sempre l’umanità negli altri come un fine e mai come un mezzo puro e semplice?», o ancora: «Perché dovremmo cercare di alleviare la sofferenza degli altri?», novantanove volte su cento la risposta sarà: «Perché fondamentalmente l’altro è uguale a noi». L’idea - o piuttosto il luogo comune - è che se capissi in che misura l’altro è come me, sentirei automaticamente il desiderio di dare una mano. Ciò nonostante, basta anche solo accennare ai limiti di una tale "fondazione" dell’etica affinché questi diventino ovvi.
Il pericolo di fondare l’etica sull’idea che noi siamo tutti «fondamentalmente uguali» è di aprire una porta all’Olocausto: basta solo pensare che alcune persone non sono "davvero" uguali per distruggere tutta la forza di una simile costruzione. Non c’è solo il pericolo di una negazione della nostra comune umanità (i nazisti affermavano che gli ebrei erano animali ripugnanti dotati di una forma umana apparente!): ogni buon romanziere ci fa calare nella vastità della diversità umana, e molti romanzi pongono la domanda: «Se tu sapessi davvero come sono le altre persone, proveresti mai compassione per loro?».
I kantiani faranno tuttavia notare che Kant si era reso conto di ciò, e per questo ha fondato l’etica non sulla "simpatia" ma sulla nostra comune razionalità; ma allora che ne è dei nostri obblighi nei confronti di coloro la cui razionalità possiamo, più o meno plausibilmente, negare?
Queste sono ragioni etiche per rifiutarsi di basare l’etica su un "perché" metafisico o psicologico. Levinas considera la metafisica un tentativo di vedere il mondo come una totalità, dall’"esterno", per così dire, e al pari di Rosenzweig, che cita, ritiene che in una tale prospettiva si perda il significato che la vita ha per il soggetto umano. Ecco cosa dice a Philippe Nemo: «Nella storia della filosofia ci sono state poche proteste contro questa totalizzazione. Per quanto mi riguarda, ho incontrato per la prima volta una critica radicale della totalità nella filosofia di Franz Rosenzweig, la quale rappresenta essenzialmente una discussione di Hegel (...) In Rosenzweig si ha dunque una disgregazione della totalità, e l’apertura di una via completamente diversa nella ricerca del sensato».
L’audace mossa di Levinas è di sostenere che l’impossibilità di una fondazione metafisica dell’etica mostra che c’è qualcosa di sbagliato nella metafisica, non nell’etica. (...)
Per comprendere questo pensatore profondamente originale è essenziale capire due fatti: che (1) Levinas attinge a temi e fonti ebraici, e (2) Levinas universalizza l’ebraismo (paradossalmente, perché è un ebreo ortodosso).
A ogni modo, è necessario tenere a mente che il suo ebraismo mostra una diffidenza "lituana" nei confronti del carismatico. Se il cristianesimo conferisce valore al momento in cui un individuo sente la presenza carismatica del Salvatore che entra nella sua vita, l’ebraismo, come lo presenta Levinas, diffida del carismatico. Scrive perciò in Una religione da adulti: -«Ma tutto il suo sforzo - dalla Bibbia alla chiusura del Talmud nel VI secolo e attraverso la maggior parte dei commenti della grande epoca della scienza rabbinica - consiste nel comprendere tale santità di Dio in un senso che rompe con il significato numinoso del termine. Il giudaismo rimane estraneo a ogni ritorno offensivo di tali forme di elevazione umana, le denuncia come l’essenza dell’idolatria. Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà si offende di questi surplus incontrollabili. Tale potenza in certo modo sacramentale del divino appare al giudaismo come qualcosa che ferisce la libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che rimane azione su un essere libero. Non che la libertà sia un fine in se stessa. Ma essa rimane la condizione di qualunque valore l’uomo possa raggiungere. Il sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza.
E in Per un umanismo ebraico Levinas scrive: «Il no opposto dagli ebrei (e in modo tanto pericoloso nel corso dei secoli) agli appelli della Chiesa non esprime un’assurda testardaggine, quanto la certezza che importanti verità umane dell’Antico Testamento si perdono nella teologia del Nuovo».
Quali sono queste «importanti verità umane» che Levinas universalizza? Evidentemente la sua nozione di "ebraismo" è sia selettiva sia idiosincratica, ma non è priva di una base. L’ebraismo rabbinico si è trasformato completamente dopo la caduta del Tempio: tale trasformazione ha comportato sottoporre tutti i testi religiosi, Bibbia ebraica inclusa, a un processo di interpretazione letteralmente senza fine (David Hartmann ha descritto il popolo ebraico come una «comunità di interpretazione»).
La generazione fondatrice dell’ebraismo rabbinico, la generazione che vide la distruzione di Gerusalemme e cominciò a Jamnia la costruzione di una nuova modalità di culto, non basata sul Tempio, includeva figure come il rabbino Johanan ben Zakkai, il rabbino Gamaliel, il rabbino Joshua ben Hananiah e l’immensamente erudito rabbino Eliezer ben Hyrcanus.
Un racconto del Talmud (Baba Metzia 59a-b) riferisce che in una disputa con alcuni degli altri membri del gruppo di Jamnia, Eliezer ben Hyrcanus sollecitò una serie di miracoli (che poi accaddero), inclusa una "voce celestiale" (bat kol), per provare che aveva ragione, ma perse il dibattito nonostante la voce celestiale e i miracoli. «Non teniamo conto di una voce celestiale», dissero i rabbini a Dio, «perché al Monte Sinai hai scritto nella Torah "di seguire la maggioranza"».
Il Talmud continua dandoci la reazione di Dio: narra che il rabbino Nathan, «imbattendosi» nel profeta Elia, chiese cosa avesse fatto allora Dio; «Ha sorriso», rispose Elia, «dicendo: i miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto!». Quantunque alcuni dei commentatori dello stesso Talmud affermino che i miracoli erano solo immaginati e non accadevano effettivamente, non c’è alcun dubbio che in questa riunione cruciale a Jamnia l’ebraismo si allontanò da ciò che Levinas chiama il "numinoso": da allora in poi l’autonomia umana doveva avere una voce nel determinare il significato del Comandamento divino.
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Saggezza ebraica come guida per la vita
Online potete trovare l’articolo «Fatti e valori della conoscenza» che Hilary Putnam, vecchia conoscenza di queste pagine, ha scritto espressamente per noi proprio sui rapporti tra Scienza e filosofia (vedi Il Sole 24 Ore - Domenica del 9 gennaio). E mentre in Svezia gli viene assegnata quella sorta di Nobel per la filosofia che è il Rolf Schock Prize, in Italia esce uno dei suoi libri più sorprendenti, Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein, a cura di Massimo Dell’Utri e con un saggio dello stesso Dell’Utri con Pierfrancesco Fiorato, in libreria il 31 marzo (Carocci, pagg. 144, € 15,00) e di cui proponiamo uno stralcio.
Può un filosofo della scienza coltivare uno spirito religioso senza tradire i propri assunti di fondo? Putnam si è accorto che è possibile fin dalla metà degli anni 70, quando "scoprì" l’ebraismo e si accinse a studiare figure di spicco come Franz Rosenzweig, Martin Buber ed Emmanuel Levinas. A esse aggiunge Ludwig Wittgenstein, che, sebbene ebreo non praticante, ha sviluppato una concezione della religione a loro affine, che Putnam aveva già analizzzato in uno splendido capitolo di Rinnovare la filosofia (1992). Rinnovare la filosofia, appunto, per trasformarla in un’utile guida per la vita. - Ar.M. [Armando Massarenti]
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
di ARNOLD I. DAVIDSON *
Sono americano, quindi comincio in italiano.
Magnifico Rettore, egregi colleghi, gentili studenti, carissimo Hilary Putnam: sono commosso per l’onore di pronunciare questa laudatio. Devo subito dirvi che per me Hilary Putnam non è soltanto un grandissimo filosofo, ma anche un maestro, poi un collega e un amico. La laudatio è indirizzata a voi e allo stesso tempo a Hilary Putnam.
La pronuncio in inglese.
Non credo che ricada fra le competenze dei filosofi fare predizioni sul futuro, quindi mi dovrete scusare se comincio col fare una predizione. Quando gli storici della filosofia cercheranno di scrivere la storia della filosofia contemporanea, non sapranno come classificare Hilary Putnam. Iniziando a esaminare le sue prime opere scopriranno un filosofo che ha dato contributi decisivi alla logica e ai fondamenti della matematica, così come alla filosofia della scienza, della matematica e della logica, tutte aree della filosofia che richiedono una conoscenza tecnica, altamente specialistica. Continuando a leggere si imbatteranno nei suoi contributi, altrettanto importanti, alla filosofia del linguaggio, della mente e delle scienze cognitive. E certamente arriveranno alla conclusione che nessun altro filosofo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha avuto un impatto così profondo sul modo in cui i problemi concernenti la filosofia in un’epoca di scienza (per usare il titolo del suo ultimo libro) sono stati formulati, discussi e ri-elaborati nella storia della filosofia analitica. Arrivati proprio al punto in cui cominciano a intravedere un modo per classificare il contributo di Hilary Putnam alla filosofia, saranno colti da una perplessità e un disorientamento intellettuali. Avranno ormai riconosciuto che, diversamente da molti filosofi della tradizione della filosofia analitica, gli scritti di Hilary Putnam sono permeati da riferimenti alla storia della filosofia, in un dialogo costante con Aristotele, Descartes, Hume e Kant, John Stuart Mill e John Dewey, Ludwig Wittgenstein. Forse interpreteranno questo fatto come una mera idiosincrasia da parte di Putnam, un gusto per la storia congiunto a un interesse per la scienza. Di fatto, questi interessi storici non sono superficiali e non dovrebbero essere sottovalutati. Essi riflettono l’autentico ideale di ciò che per Hilary Putnam significa essere un filosofo, un ideale che risulterà sempre più esplicitamente chiaro più questi storici della filosofia avanzeranno nello studio dell’opera di Putnam. Si confronteranno infatti con profondi e dettagliati contributi ad aree della filosofia che difficilmente sono stati mai neppure sfiorati dalla maggioranza dei filosofi della scienza e della matematica - la filosofia morale e politica, l’estetica, la filosofia della letteratura, la filosofia della religione. Anche in questo caso gli scritti di Putnam hanno rimodellato l’ampio spettro dei problemi avvicinati: per esempio, i modi in cui la pervasiva, e presumibilmente chiara, distinzione tra fatti e valori si è infiltrata in quasi tutte le dimensioni del nostro pensiero devono essere completamente riesaminati alla luce della critica di Putnam rivolta alla rigida dicotomia fatto-valore, ossia alla luce delle sue dimostrazioni delle molteplici sovrapposizioni fra fatti e valori. Il modo in cui comprendiamo l’esperienza religiosa e il suo ruolo nella nostra vita quotidiana, la nostra incessante domanda filosofica per una teoria della conoscenza religiosa, invece che per un certo modo di vivere, non possono più essere considerate nello stesso modo dopo aver letto Putnam. Il valore della letteratura e dell’arte come fonti di conoscenza di noi stessi, degli altri e del mondo è presente nell’opera di Putnam tanto quanto il valore della meccanica quantistica e della teoria degli insiemi. Chi è dunque questo Hilary Putnam che, nello spazio di qualche pagina, può passare da un discussione su Henry James a un confronto con Kurt Gödel? Molto semplicemente è qualcuno che sa che la filosofia, come tutte le discipline, richiede una conoscenza specialistica, ma che lotta contro l’idea che la filosofia stessa sia una forma di specializzazione. Tuttavia, questo è soltanto l’inizio dell’inclassificabilità di Hilary Putnam. È risaputo da tutti i filosofi, compreso Hilary Putnam stesso, che Putnam si caratterizza tipicamente come un filosofo che cambia sempre opinione. Non c’è stato un critico più penetrante delle idee di Putnam - idee che sono state ampiamente accettate nella filosofia contemporanea - di Putnam stesso. Tutti i famosi cambiamenti di opinione di Putnam hanno una caratteristica in comune. Sono motivati dall’aver trovato nuovi argomenti, nuove prospettive, nuovi problemi che altri filosofi non sono riusciti a vedere perché credono che Putnam abbia definitivamente risolto tali questioni filosofiche, e che, pertanto, non ci sia più niente da pensare al riguardo e che si possa passare ad affrontare una nuova questione. È così che questi filosofi sono diventati “putnamiani” convinti. Hilary Putnam decisamente non è un putnamiano. Ciò che altri prendono per soluzioni sicure e definitive, e che dunque diventa per loro un dogma della filosofia, per Hilary Putnam stesso è sempre un punto di partenza per un’ulteriore ricerca filosofica.
Personalmente, spero che Hilary Putnam continui a cambiare idea. Invece che manifestare instabilità filosofica, questi cambiamenti mostrano che cosa significhi continuare a pensare filosoficamente i problemi ̶ problemi della scienza, della matematica, dell’etica, della politica, della religione, della vita umana. Quando Hilary Putnam smetterà di cambiare idea staremo tutti peggio, filosoficamente più poveri, perché saremo privati di argomenti, intuizioni e prospettive inaudite, di nuove fonti di creatività filosofica. Infatti, le straordinarie abilità analitiche di Hilary Putnam sono così evidenti che è fin troppo facile trascurare la sua ugualmente potente immaginazione filosofica. Inoltre, il modo che Hilary Putnam ha di cambiare idea dà anche voce a un costante tratto etico del suo carattere - il suo anti-dogmatismo, la sua incessante ricerca di maggiore imparzialità e obiettività.
Hilary Putnam esemplifica un’attitudine splendidamente descritta dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot, un filosofo caro sia a Hilary sia a me. Discutendo di obiettività scientifica ed esercizi spirituali, Hadot scrive, e io cito, «Da Aristotele in poi, si è ammesso che la scienza deve essere disinteressata. Chi studia un testo o i microbi o le stelle deve liberarsi dalla sua soggettività. [Alcuni diranno che] è impossibile, ma io penso che si tratti comunque di un ideale che bisogna cercare di raggiungere con una certa pratica. Così gli studiosi che hanno il raro coraggio di riconoscere che si sono sbagliati in un caso particolare, o che cercano di non lasciarsi influenzare dai propri pregiudizi personali, compiono un esercizio spirituale di distacco da se stessi.». «Diciamo», afferma Hadot, «che l’obiettività è una virtù, per altro molto ardua da praticare. Bisogna sbarazzarsi della parzialità dell’io individuale e passionale per elevarsi all’universalità dell’io razionale. Ho sempre pensato che l’esercizio della politica democratica, come dovrebbe essere praticato, dovrebbe corrispondere anch’esso a questo atteggiamento. Il distacco da sé è un atteggiamento morale che si dovrebbe esigere dal politico come dallo studioso». I cambiamenti di idea di Hilary Putnam non sono che l’aspetto esterno del suo coraggio morale e intellettuale, della sua ricerca di obiettività.
Parlando di Pierre Hadot, mi sono ricordato della sua insistenza sul fatto che Socrate stesso fu spesso descritto come inclassificabile, atopos. Il disorientamento provocato da questa inclassificabilità, antica o moderna non importa, nasce dall’interminabile, mai sopita, rigorosa dialettica filosofica praticata da Hilary Putnam nei suoi scritti, proprio come esso derivò dalla vigilanza e attenzione filosofica, dalla mancanza di auto-compiacimento, praticate da Socrate nei suoi dialoghi. Socrate non si è mai ritirato, né Hilary Putnam.
Hilary Putnam ha ricevuto, certo, molti onori nella sua eminente, e ancora straordinariamente attiva, carriera filosofica. Nel preparare questa laudatio, sono rimasto davvero stupito di scoprire che nell’elenco dei molti paesi che gli hanno conferito una Laurea honoris causa non troviamo l’Italia. Questo è tanto più sorprendente perché l’opera di Putnam è stata profondamente presente e influente fra i filosofi italiani, e per lungo tempo. Di fatto, non è raro scoprire che la prima traduzione in lingua straniera di un nuovo libro di Hilary Putnam sia quella italiana. Forse non ha ancora ricevuto una Laurea honoris causa in Italia perché si è ritenuto che ne abbia già ricevute così tante. Quale che sia la spiegazione di questa omissione, ha creato una situazione di ingiustizia filosofica, culturale e storica. Grazie alla visione del Rettore, Carlo Carraro, che sta trasformando Ca’ Foscari in una università veramente internazionale, e grazie alla saggezza dei miei colleghi del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali e al nostro Direttore, Luigi Perissinotto, sono di fronte a voi, oggi, con grande gioia per partecipare alla rettifica di questa ingiustizia. Lasciatemi concludere la mia laudatio con questo pensiero: come membri di una comunità accademica abbiamo spesso l’abitudine di dire che siamo legati a una vita di ragione. Concretamente, tuttavia, non sappiamo sempre che cosa queste parole significhino. Vi propongo che se volete comprendere concretamente e in profondità che cosa significhi essere impegnati in una vita di ragione, non c’è miglior luogo da cui iniziare che leggere Hilary Putnam.
© Arnold Davidson, tutti i diritti riservati
Arnold I. Davidson è Robert O. Anderson Distinguished Service Professor all’Università di Chicago. In Italia ha insegnato all’Università di Pisa e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È l’autore di “L’emergenza della sessualità” e co-autore del libro di conversazioni con Pierre Hadot “La filosofia come modo di vivere”. Ha curato testi di Michel Foucault e di Pierre Hadot in francese e inglese, ed è il co-direttore della collana “Philosophie du présent”, Vrin. Il suo libro più recente è “Religión, razón y espiritualidad”. Attualmente sta lavorando sulla filosofia ebraica contemporanea.
* MICROMEGA - IL RASOIO DI OCCAM, 16.05.2016 (ripresa parziale).
Hilary Putnam (1926-2016)
Il realismo non ammette miracoli
È morto il più grande filosofo della scienza del nostro tempo. Matematico, logico, un analitico che amava la storia della filosofia
di Mario De Caro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.3.16
Ho incontrato Hilary Putnam per l’ultima volta lo scorso febbraio. A differenza di quando l’avevo visto alla fine dello scorso anno, camminava con grande difficoltà e il suo stato fisico era molto deteriorato; ma la mente era ancora lucidissima e lo spirito niente affatto rassegnato. In quell’occasione Putnam mi ha ribadito quanto fosse in disaccordo con i filosofi che si disinteressano di scienza, o peggio la denigrano, ma anche con quelli che pensano che la scienza possa risolvere da sola i problemi filosofici.
Soprattutto, però, abbiamo discusso della scoperta delle onde gravitazionali, le curvature dello spazio-tempo previste un secolo fa dalla teoria della relatività generale di Einstein. Putnam era entusiasta di questa scoperta e, con lo sguardo felice di un bambino, mi ha raccontato di quando a Princeton fece visita a Einstein e discusse con lui a lungo di quel tema. Ma la scoperta delle onde gravitazionali lo rallegrava anche perché offre una spettacolare conferma del suo famoso No-miracles argument. Con questo argomento Putman aveva difeso l’interpretazione realistica delle teorie che fanno riferimento a entità inosservabili (come gli elettroni o i buchi neri) contro i suoi molti detrattori, secondo i quali queste teorie sono meri strumenti di calcolo e nulla ci dicono sulla realtà del mondo inosservabile.
Secondo l’argomento di Putnam, le migliori teorie scientifiche sono in grado di offrire predizioni sorprendentemente precise (per esempio, appunto, rispetto all’esistenza delle onde gravitazionali) perché si basano su una descrizione vera, o almeno approssimativamente vera, del mondo degli inosservabili. Per chi invece pensa che la scienza sia un mero strumento di calcolo, e che non descriva correttamente il mondo degli inosservabili, l’accuratezza delle predizioni di queste teorie diventa un inesplicabile miracolo; e questa, notava Putnam, è una conclusione razionalmente insostenibile.
Il No-miracles argument è però soltanto uno degli innumerevoli contributi che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, Putnam ha offerto alla maggior parte dei campi filosofici. In filosofia della mente è stato uno dei fondatori del “funzionalismo”, la fortunatissima concezione basata sull’analogia tra mente-cervello, da una parte, e software-hardware, dall’altra (una concezione di cui, in seguito, Putnam è divenuto parzialmente critico).
In filosofia del linguaggio ha utilizzato il famoso esperimento mentale della “Terra gemella” per difendere, insieme a Saul Kripke, il cosiddetto “esternismo semantico”: la concezione secondo cui il significato delle nostre espressioni linguistiche e il contenuto dei nostri pensieri non è “solo nelle nostre teste”, ma è determinato anche dai nostri rapporti causali con il mondo.
Putnam ha inoltre elaborato proposte ormai classiche in filosofia della matematica e della fisica; ha scritto lavori fondamentali sul pragmatismo, di cui è stato forse il massimo esperto contemporaneo; ha offerto acute e influenti ricostruzioni del pensiero di Aristotele, dei neopositivisti e di Wittgenstein; ha brillantemente difeso l’idea che tra fatti e valori non esista una rigida dicotomia, come invece sostenuto da gran parte della tradizione filosofica.
Infine ha superato barriere che per decenni si sono pensate invalicabili: filosofo analitico di prima grandezza, conosceva però bene anche la storia della filosofia e amava riflettere sulle proposte di filosofi continentali come Habermas, di cui era amico personale, Buber e Lévinas. Dell’ampiezza e della profondità delle conoscenze filosofiche di Putnam è testimonianza il suo ultimo libro, appena uscito, Naturalism, Realism, and Normativity, da me curato per Harvard University Press.
In generale, Putnam aveva capacità intellettuali straordinarie. Dopo essersi laureato in filosofia, linguistica e letteratura tedesca, prese a studiare matematica da autodidatta, raggiungendo un livello tale che il suo nome figura ora nelle storie di questa disciplina (contribuì, tra l’altro, a risolvere il decimo dei famosi “23 problemi di Hilbert”, quello relativo alle equazioni diofantee).
A proposito della rilevanza dei risultati matematici di Putnam ho un’esperienza personale da raccontare. Qualche anno fa, tra gli studenti di un corso che insegnavo alla Tufts University, c’era un dottorando in computer science del MIT: seguiva il corso perché era incuriosito dalla filosofia, ma la considerava un semplice divertissement, come gli scacchi o i manga giapponesi (parole sue).
A suo giudizio, infatti, nessun filosofo era in grado di produrre nulla di veramente rilevante dal punto di vista intellettuale. Un giorno, però, durante una lezione dedicata allo scetticismo, menzionai un famoso esperimento mentale di Putnam: quello in cui argomentava l’impossibilità di uno scenario scettico neocartesiano secondo cui noi potremmo essere cervelli in una vasca, collegati a un computer che ci induce a credere di avere un corpo e di vivere in un mondo molto diverso da quello vero (un po’ come accade nel film Matrix che, d’altra parte, all’esperimento mentale di Putnam direttamente si ispira).
Il dottorando del MIT era divertito dal tema, ma manteneva il suo programmatico atteggiamento di sufficienza, finché en passant non menzionai il fatto che Putnam aveva sviluppato, insieme a Martin Davis, l’algoritmo detto appunto “Davis-Putnam”. A quella notizia il dottorando ebbe un moto di incredulità che quasi lo fece cadere dalla sedia e tutto concitato gridò: «Hilary Putnam è QUEL Putnam?! Santo cielo, al mio laboratorio utilizziamo il suo algoritmo tutti i giorni: è uno dei miei eroi!». Nel resto del corso, il dottorando del MIT si gettò a capofitto nello studio della questione dei cervelli nella vasca, di cui in breve tempo divenne il massimo esperto galattico. E quando, poche settimane dopo, ebbe modo di incontrare Putnam, era così eccitato che temetti svenisse dall’emozione.
Le conoscenze di Putnam non si limitavano però alla filosofia e alle scienze naturali. Aveva una conoscenza profonda della letteratura (suo padre era stato un famoso traduttore), della storia, dell’arte, delle scienze sociali e della politica (nelle ultime settimane era molto preoccupato dall’ascesa di Trump). Inoltre leggeva e studiava l’ebraico, si interessava di sport (era molto tifoso dei Red Sox, la squadra bostoniana di baseball) e cucinava in modo spettacoloso.
Hilary Putnam avrebbe potuto riferire a sé le celebri parole del Cremete di Terenzio: Homo sum. Humani nihil a me alienum puto. Quanti altri oggi potrebbero fare altrettanto?
L’oggettività di fatti e valori
Contro la presunta neutralità dei giudizi morali, basata su una visione unitaria e assoluta, sostenne l’idea di basare l’etica su processi pubblici e condivisi
di Carla Bagnoli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.03.2016)
Della straordinaria attività filosofica di Hilary Putnam non colpisce solo la varietà, ma anche la grande forza innovativa. Alla metà degli anni Novanta ho partecipato a due seminari tenuti da Putnam a Harvard University. Uno riguardava il realismo e l’altro il pensiero ebraico: iniziava con Maimonide, toccava Wittgenstein, e si concludeva proprio con lui, Putnam. Non si trattava di lezioni fatte per essere “seguite”; piuttosto, si aveva l’impressione di partecipare a una conversazione senza tempo. A ripensarci, quelle lezioni mi sembrano motivate da una stessa preoccupazione, direi di tipo etico.
Secondo Putnam, l’ebraismo ha dato un contribuito fondamentale alla cultura occidentale, offrendo una prima formulazione del principio di eguaglianza. Attraverso un percorso dai forti accenti kantiani, Putnam conclude che l’eguaglianza si fonda sulla capacità di pensare autonomamente a come si debba vivere. L’eguaglianza è un valore fondamentale per Putnam, fin dagli anni giovanili della militanza politica nella sinistra radicale.
Sensibile ai temi di giustizia sociale, Putnam è sempre stato molto interessato all’etica, che non considerava una scienza minore, né un ambito speciale in cui si applicano argomenti elaborati dai filosofi del linguaggio. In etica si avverte più che altrove «il peso soffocante delle dicotomie», come quella tra oggettivo e soggettivo. L’intenzione di liberare il pensiero da queste strettoie, senza per questo rinunciare al rigore dell’argomentazione e al dialogo con la scienza, è un filo rosso che attraversa tutta la produzione filosofica di Putnam.
Forse, la giusta misura della rilevanza che Putnam riconosceva alle questioni etiche si ricava dalle sue riflessioni sulla presunta dicotomia fatti/valori. La tesi empirista della separazione tra questioni di fatto e questioni di valore domina incontrastata fino agli anni Cinquanta, condizionando pesantemente il dibattito sui criteri di oggettività della seconda metà del secolo. L’oggettività è generalmente associata alla neutralità rispetto al valore e all’indipendenza rispetto agli interessi e atteggiamenti del soggetto.
Putnam fa sua la posizione di minoranza di una filosofa pressoché ignorata, Iris Murdoch, ma sulla base di argomenti ben più solidi. Il realista che propone una realtà neutra e non contaminata dalla soggettività, è il “perfido seduttore” che conferma le aspettative di un interlocutore ingenuo, il portavoce del senso comune. Sebbene attraente, il realismo è ingannevole perché si basa su un falso presupposto, quello della neutralità del ragionamento e del metodo scientifico. Il ragionamento, sia pratico che teoretico, è guidato da valori ma è anche orientato all’oggettività. Il vero motivo per credere che il metodo scientifico non poggi su presupposizioni etiche è che si suppone che sia un metodo formale. Crollando l’ideale di neutralità, crolla anche la tesi secondo la quale l’oggettività è garantita dal metodo formale.
Si tratta di considerazioni che hanno avuto un impatto decisivo non solo in etica ma anche nella filosofia dell’economia, nell’argomentazione giuridica e, in generale, nell’epistemologia e metodologia delle scienze sociali. Ci costringono a sondare i limiti del ragionamento, a farci domande nuove sulla sua natura e sulla possibilità di trattare in modo formale i problemi che sorgono a proposito della decisione razionale. Per fare un esempio, secondo Putnam, la trasformazione dell’economia classica è una conseguenza diretta del collasso della distinzione tra fatti e valori.
Sotto questo aspetto, la proposta di Putnam è in sintonia con quelle di altri filosofi di Harvard, da Nelson Goodman a John Rawls. La convinzione di questi filosofi è che il marchio di garanzia della conoscenza e dell’oggettività etica consista nella giustificazione razionale. Si tratta di giustificare sulla base di ragioni condivisibili dagli altri in quanto nostri pari. È la pratica della giustificazione che ci restituisce una visione oggettiva del mondo, piuttosto che la fiducia in valori ultimi e assoluti. L’oggettività è dunque il risultato di un processo pubblico e condiviso, ma che non conduce alla convergenza su una visione morale unitaria e assoluta. Anzi, arriva sempre il momento in cui si deve dire «qui è dove la mia vanga si piega».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CIELO PURO E LIBERO MARE....
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
La Terra gemella di Hilary Putnam
Addio al filosofo e matematico statunitense che smantellò il dubbio cartesiano e scrisse «The Meaning of ‘Meaning’»
di Giovanni Iorio Giannoli (il manifesto 16.03.2016)
Quando l’hacker-eroe del film Matrix si risveglia nel mondo reale (dominato da macchine, che traggono energia dal metabolismo degli esseri umani), arriva ad accorgersi che tutto quello che aveva fino allora pensato, agito, goduto e patito nella sua vita era soltanto una realtà simulata, trasmessa al cervello da un cordone di cavi.
Il film dei fratelli Wachowski uscì in sala nel 1999; riproponeva, dopo oltre tre secoli e mezzo, l’esperimento mentale suggerito da Descartes, nella sua Prima meditazione: «Io supporrò, dunque, che vi sia (...) un certo cattivo genio (...) che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose».
Nel 1981, quasi vent’anni prima di Matrix, il filosofo Hilary Putnam aveva discusso estesamente una eventualità del genere, con intenti affatto diversi da quelli suggeriti da Descartes (che erano, in sintesi: l’ineluttabilità del dubbio; l’intuizione dell’esistenza del pensiero e, dunque, della materia pensante; la bontà di Dio, come garanzia della verità). Accogliendo (per demolirla) l’ipotesi che noi tutti potremmo essere «cervelli in una vasca», Putnam si proponeva tre obiettivi: mostrare l’incoerenza del dubbio cartesiano; ribadire che i contenuti mentali dipendono dall’esperienza; polemizzare contro il realismo metafisico. Infatti, per Putnam, noi non possiamo pensarci come «cervelli in una vasca», perché un pensiero del genere è logicamente incoerente, e si distrugge da solo.
Del resto: ogni parola/concetto (compresa la parola «cervello») si riferisce per Putnam a qualcosa che ha determinato l’introduzione di quella parola; e, dunque, noi non possiamo avere alcuna esperienza del nostro cervello come di un «cervello nella vasca», sì da poterlo pensare/designare in quel modo. Infine: se lo scenario dei «cervelli nella vasca» è logicamente impossibile (perché i cervelli non possono guardarsi da «fuori», scoprendosi in una vasca), non c’è alcun modo di guardare al mondo con gli «occhi di Dio»: la nostra visione della realtà è limitata dai nostri schemi concettuali, anche se questi dipendono dalla nostra esperienza. Qualsiasi realtà metafisica, che prescinda dai nostri schemi concettuali e dalla nostra esperienza, è una vacuità filosofica.
Non era la prima volta, del resto, che Putnam utilizzava suggestioni mutuate dalla fantascienza, per argomentare filosoficamente. Lo aveva già fatto nel 1975, in quello che molti considerano il suo capolavoro, nell’ambito della semantica: Il significato di ‘significato’ («The Meaning of ‘Meaning’»). In questo saggio, Putnam si proponeva di reagire a una tradizione millenaria sulla natura dei concetti, in particolare all’idea che questi siano completamente contenuti nella mente, richiamabili dunque da una sorta di teatro interno, privato, isolato dagli altri esseri umani e dal «mondo esterno».
Putnam immaginò una «Terra gemella», nella quale l’acqua non fosse composta da due molecole di idrogeno e da una di ossigeno, ma da una combinazione degli elementi X, Y e Z, non meglio specificati, ferme restando tutte le altre caratteristiche dell’acqua nostrana. In un contesto del genere, il significato della parola «acqua» - nelle due Terre gemelle - sarebbe diverso, perché diverso sarebbe il loro riferimento fisico. Ipotizziamo dunque che due individui gemelli - identici in tutto - pronuncino nelle due Terre la parola «acqua».
Essendo identici tra loro, lo saranno anche i loro stati mentali interni, quando pronunciano quella parola; ma se i significati sono diversi, mentre gli stati mentali sono identici, questo implica il fatto che il significato dei termini non può essere ridotto ai soli stati interni. Naturalmente, possono essere avanzate diverse obiezioni, rispetto a questo argomento; ed infatti, la letteratura in materia è davvero impressionante. Ma pochi mettono in dubbio che l’anti-soggettivismo di Putnam, implicito nella sua semantica, costituisca una pietra miliare del pensiero contemporaneo, una rottura di carattere rivoluzionario, rispetto all’idea che le basi della conoscenza siano tutte racchiuse nell’intimità della mente.
Ancor prima di questi risultati, Putnam aveva avuto modo di farsi conoscere per un’altra idea stravagante: la tesi secondo la quale uno stesso stato psicologico (per esempio, il fatto di avvertire un certo dolore, ben localizzato e caratteristico) potesse essere legato a diversi stati fisici. Questa tesi - nota come quella della «realizzabilità multipla» - è in qualche modo alla base del funzionalismo contemporaneo, cioè all’idea che sia per esempio possibile costruire macchine intelligenti o forme di vita non organiche (non basate, cioè sulla chimica del carbonio) le quali risultino funzionalmente isomorfe alla mente e al corpo degli esseri umani, comportandosi alla stessa maniera e, anzi, sperimentando gli stessi stati interni.
Una tesi del genere, in verità, doveva essere confutata dallo stesso Putnam qualche anno dopo, proprio sulla base della sua stessa semantica esternalista: gli stati e le configurazioni interne di una macchina non sono sufficienti, per garantire circa il significato delle rappresentazioni che quella macchina è in grado di farsi; così come non si dà una corrispondenza biunivoca tra tipi di stati fisici e tipi di stati mentali, non si dà nemmeno una corrispondenza tra tipi di stati mentali e tipi di stati funzionali.
Già questo tipo di svolta, circa la consistenza teorica del funzionalismo e il suo valore esplicativo, dà qualche indizio su inclinazione ricorrente di Putnam: quella di ritornare sui suoi stessi risultati, per rimetterli in gioco. Qualcuno, tra i suoi colleghi più brillanti, ha addirittura proposto di numerare le fasi teoriche di Putnam, come le ere geologiche: «due Putnam fa, Putnam pensava che...».
Ma nel suo necrologio, Martha Nussbaum ha voluto così ricordarlo: «La gloria maggiore del modo di filosofare di Putnam stava nella sua totale vulnerabilità. Continuando ad inseguire ogni argomento fino alle estreme conseguenze, ovunque lo avesse portato, cambiava spesso le sue opinioni; e il fatto di aver cambiato idea non era per lui un disappunto, ma piuttosto un piacere; la prova che era abbastanza umile da essere degno della sua razionalità».
Era stato un acceso militante: attivista contro la guerra nel Vietnam, per qualche tempo fu membro di un partito maoista statunitense alla fine degli anni ’60. Questo non gli impedì restare ad Harvard, dove il corpo accademico volle difendere la libertà delle sue scelte; a quei tempi, era noto per i suoi lavori nel campo della logica e della filosofia della matematica, ma - proprio ad Harvard - tenne anche corsi di marxismo.
La sua forza teorica ed intellettuale lo portò a diventare poco dopo presidente della American Philosophical Association. E, dopo i fondamentali contributi in logica, matematica, filosofia della scienza e filosofia della mente, i suoi interessi si allargarono all’etica, alla filosofia politica, all’economia, alla letteratura. Un gigante, insomma.
E’ morto Hilary Putnam, "patriarca" della filosofia
Americano, 89 anni, era tra i più grandi pensatori a cavallo del millennio. I suoi studi hanno spaziato in diversi campi della filosofia, della logica, delle scienze informatiche. Con un tocco di "fantascienza" e un blog di "commenti sarcastici" sull’attualità
di MAURIZIO FERRARIS (la Repubblica, 14 marzo 2016)
Meno di un mese dopo il suo amico Umberto Eco se ne è andato l’altroieri Hilary Putnam. Aveva fatto in tempo a vedere le bozze del suo ultimo libro Naturalism, Realism, and Normativity, in uscita da Harvard University Press, a cura e con una illuminante introduzione del suo allievo e amico Mario De Caro. Nato a Chicago il 31 luglio 1926, avrebbe compiuto tra pochi mesi novant’anni, una età da patriarca della filosofia, che stabilisce un parallelo con un patriarca della letteratura anche lui di Chicago, Saul Bellow, morto dieci anni fa. Professore emerito all’Università di Harvard, dopo aver studiato all’Università della Pennsylvania, essersi addottorato a Los Angeles, e aver insegnato alla Northwestern University, a Princeton e all’MIT, il 2 novembre 2011 a Stoccolma gli era stato conferito il Rolf Schock Prize, l’equivalente del Nobel per la filosofia e la logica.
Putnam era un filosofo analitico, ma non aveva niente dell’angustia culturale che talvolta caratterizza questa disciplina soprattutto in Europa, dove essere filosofi analitici significa spesso parlare in inglese, ostentare indifferenza per la storia della filosofia e per la letteratura, e occuparsi di minuzie di scarso interesse. Tanto per incominciare, per Putnam, come ricorda lui stesso, c’era stato un momento in cui, bambino a Parigi, si chiamava "Hilaire Poot-nomm". A Parigi era arrivato con la famiglia e vivendoci sino all’età di otto anni, perché suo padre, Samuel, studioso di letteratura, traduttore e attivista politico (era collaboratore del Daily Worker, un organo del Partito Comunista Americano), ci si era trasferito con un gesto che ricorda Hemingway e Fitzgerald. È probabilmente a questa formazione mai dimenticata che si devono aperture inconsuete per un filosofo analitico, e per un filosofo americano, per esempio la condivisione della critica di Derrida all’amministrazione Bush e alle sue guerre. Di questa apertura sull’attualità resta il blog aperto due anni fa, "Commenti sarcastici", in memoria di quanto gli aveva detto quarant’anni fa il grande filosofo analitico inglese Peter Strawson: "Di certo metà del piacere della vita sono i commenti sarcastici sull’operetta che si svolge sotto i nostri occhi".
Inoltre, di origini ebraiche ma educato in forma laica e secolare, negli ultimi anni si era avvicinato alla filosofia di Rosenzweig, Buber, Levinas, quanto dire alla quintessenza della filosofia continentale. Non con un cambio di appartenenza, come avvenne nel caso del suo amico e rivale Richard Rorty, ma con una operazione molto più interessante, che consistette nel guardare dall’alto, per così dire con uno sguardo d’aquila, le tradizioni filosofiche, lavorando per un’unica filosofia, al di là di distinzioni che non hanno ragione di esistere, o meglio esistono solo per i minori e i minimi. Nella prospettiva di Putnam la filosofia analitica serve per evitare l’irrazionalità (dunque vale, direbbe Kant, come "catartico", come purificatore), e una buona filosofia non può mai essere in contrasto con la scienza, ma filosofi come Kierkegaard, Thoreau, Emerson, Marx e Sartre, riflettono su come viviamo e suggeriscono come dovremmo vivere, con una vocazione filosofica in cui Putnam intreccia il pragmatismo americano con l’illuminismo europeo.
Poi, mentre spesso i filosofi analitici amano pensarsi come dei tecnici, degli specialisti di un piccolo campo tanto più accademicamente pregiato quanto meno culturalmente influente e interessante, Putnam non ha accettato limiti, e ha esercitato la sua creatività filosofica in ambiti come la logica, la filosofia della matematica, la filosofia ebraica, la filosofia della mente, la filosofia della scienza, la metafisica, la filosofia del linguaggio, la filosofia morale e da ultimo anche la filosofia della percezione: una versatilità degna di Hegel. Più di venti libri, che vanno dalla teoria al commento alla discussione tecnica e alla prospettiva metafilosofica.
Infine, non aveva esitato a cambiare idea moltissime volte, al punto che il filosofo della mente Daniel Dennett aveva definito "Putnam" "l’unità minima del cambiamento delle idee". Dopo un primo periodo di realismo metafisico, era approdato, tra la metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, a un "realismo interno" (cioè a un antirealismo di stampo kantiano), per poi tornare a un ben temperato "realismo del senso comune", sottolineando la differenza tra ontologia (quello che c’è) ed epistemologia (quello che sappiamo o crediamo di sapere): "Confondere la costruzione della nozione di bosone, che è qualcosa che la comunità scientifica ha messo a punto nel corso del tempo, con la costruzione dei sistemi quantistici reali significa, mi pare, scivolare nell’idealismo". Il che non è bene, ma non è nemmeno necessario. L’ontologia è indipendente dalla epistemologia, ma questo non significa che sia inconoscibile: esistono, al contrario, molte descrizioni corrette della realtà, proprio come una sedia può essere descritta in modo altrettanto corretto nel linguaggio della fisica, in quello della falegnameria o in quello del design. È in veste di realista del senso comune che Putnam aveva sostenuto che nessuna teoria della conoscenza può dirsi completa se non è in grado di rendere conto della percezione, e aveva partecipato, in dialogo con Umberto Eco, al convegno di New York sul Nuovo Realismo (il suo contributo si può leggere in Bentornata Realtà, uscito da Einaudi l’anno dopo).
Un ultimo punto. In tutte le fasi della sua filosofia, Putnam si è caratterizzato per una vivida immaginazione, che conferma la validità del detto di Borges secondo cui la metafisica è la branca più illustre della letteratura fantastica. Invece che con formule pseudo-scientifiche o con prolisse refutazioni di tesi altrui, Putnam si è spesso spiegato con esperimenti mentali degni della migliore fantascienza. Come quello delle "Terre Gemelle" (due terre parallele in cui esistono due liquidi fenomenicamente identici, solo che uno ha la formula chimica H2O, il secondo no: si può parlare di acqua? Per Putnam, no). O come quello del "Cervello in una vasca" (uno scienziato pazzo mette un cervello in un bagno organico e lo stimola elettricamente facendogli credere di avere esperienze nel mondo: sono vere esperienze? Anche in questo caso, no). A proposito, quest’ultimo esperimento non vi ricorda un celeberrimo film, tra i più famosi degli ultimi decenni? Ovvio che sì, ma - in un mondo in cui molti filosofi si servono dei film per illustrare le loro teorie - qui il filosofo ha preceduto il regista.
Scomparso Hilary Putnam il filosofo americano sostenitore del realismo *
Il percorso del filosofo americano Hilary Putnam, scomparso a 89 anni, era stato complesso e variegato, difficile da inquadrare, anche perché lui stesso aveva spesso preso le distanze dalle sue posizioni precedenti.
Nato a Chicago il 31 luglio 1926, Putnam aveva esordito come studioso di matematica e di filosofia della scienza, per poi estendere i suoi interessi al linguaggio, alla filosofia della mente, all’estetica e all’etica, muovendosi tra le correnti analitiche neopositiviste e la tradizione del pragmatismo americano.
Aveva insegnato alla Northwestern University, a Princeton, al Mit di Boston e ad Harvard, dove aveva concluso la carriera accademica nel 2001.
Negli anni Sessanta si era schierato su posizioni politiche radicali, che poi aveva abbandonato.
Considerato uno dei più importanti filosofi viventi, nel dibattito sul relativismo Putnam si era espresso a favore della razionalità scientifica e di un realismo «interno» di derivazione kantiana.
Tra le sue opere tradotte in italiano: Mente, linguaggio e realtà (Adelphi, 1987), Ragione, verità e storia (Il saggiatore, 1985), Matematica, materia e metodo (Adelphi, 1993), Realismo dal volto umano (Il Mulino, 1995), Etica senza ontologia (Bruno Mondadori, 2005).
* Corriere della Sera, 14.03.2016
Nei giorni scorsi La Stampa ha ospitato su questo tema il confronto tra Vattimo e De Caro
Ecco cosa ne pensa il grande filosofo americano
È importante spiegare come la percezione ci dia l’accesso alla realtà
Per Russell si percepisce un oggetto rimanendo sempre all’interno della propria mente
di Hilary Putnam (La Stampa, 04.12.12)
Quel che c’è di nuovo nel realismo che difendo oggi rispetto al realismo cui aderii negli Anni Settanta è che esso riguarda un numero molto più ampio di aree filosofiche, mentre l’altro riguardava solo la scienza. Nel mio caso, tuttavia, l’aggettivo «nuovo» nel termine «nuovo realismo» non significa affatto che io non accetti più il realismo scientifico che difendevo negli Anni Settanta (per esempio nel mio libro Verità e etica, del 1978), ma che in quella versione di realismo c’erano insite varie difficoltà che, attorno al 1980 e per una decina d’anni, mi indussero ad abbandonare del tutto il realismo.
In seguito sono tornato su posizioni realiste, ma rendendomi conto che mi sarei dovuto occupare di molte altre aree della filosofia oltre a quelle di cui mi ero occupato in Verità e etica: in particolare, avrei dovuto affrontare questioni che concernono la teoria della percezione e la filosofia della mente. Per fare un esempio: se non spieghiamo come la percezione ci dia l’accesso alla realtà, qualunque forma di realismo è necessariamente incompleta. E poi ci sono problemi anche sul versante della filosofia della scienza: non sempre, infatti, la scienza autorizza una forma molto semplice di realismo, secondo cui ogni fenomeno ha una e una sola descrizione, e tutte le altre descrizioni sono ad essa equivalenti. Le cose non sono così semplici.
Ma consideriamo più da vicino la filosofia della percezione e un grande cambiamento che l’ha riguardata. Per molti anni Bertrand Russell, probabilmente il più grande filosofo analitico del secolo scorso, contestò duramente il «realismo diretto», o «realismo ingenuo», ovvero la concezione comune secondo cui noi generalmente percepiamo le cose come esse effettivamente sono (e dunque i tavoli e le sedie che percepiamo sono veramente là fuori). L’opinione di Russell era che questa concezione fosse grossolanamente erronea. A suo giudizio, infatti, quando percepiamo gli oggetti, noi rimaniamo sempre all’interno del nostro «spazio privato», nella nostra mente: e dunque l’esistenza dei veri oggetti può essere da noi soltanto inferita.
Negli ultimi tempi però c’è stata un’ampia reazione contro questa posizione di Russell e molti filosofi della percezione oggi vogliono tornare a una qualche versione del realismo diretto. Ma se questa concezione possa essere veramente ripresa, ed eventualmente come debba essere articolata, è una questione assai complessa e io stesso me ne sto sempre più attivamente (ora sto anche lavorando a un libro di filosofia della percezione).
Un altro punto che mi sembra importante notare rispetto a questi temi riguarda una tesi sostenuta dai positivisti logici, ma anche da molti altri filosofi che non si consideravano affatto positivisti logici. Si tratta della distinzione tra due tipi di giudizi: i giudizi di fatto e i giudizi di valore. I giudizi di fatto sarebbero quelli di cui fanno uso le discipline scientifiche, mentre i giudizi di valore sarebbero quelli che riguardano discipline come l’etica e l’estetica.
A mio giudizio, però, questa distinzione è completamente insostenibile, perché la stessa scienza presuppone costantemente giudizi di valore. Con ciò non intendo sostenere che la scienza presupponga costantemente valori etici o politici, ma che essa presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità.
Per esempio, quando la comunità scientifica fa propria una determinata teoria fisica, ciò non accade soltanto perché quella teoria offre predizioni migliori delle teorie concorrenti, ma anche perché essa perviene a quelle predizioni nel modo più semplice e coerente.
Non molte persone sono consapevoli di quanto numerose siano le teorie, potenzialmente alternative a quelle che accettiamo, che sin dall’inizio vengono respinte non perché non abbiano buone provesperimentali a proprio sostegno, ma per considerazioni di puro ordine metodologico: ovvero per considerazioni basate su giudizi di valore epistemico.
Un mio amico scienziato mi ha raccontato di una conversazione che ebbe una volta con Karl Popper. «Caro Karl - il mio amico disse a Popper tu non penseresti mai che la scienza testi veramente ogni teoria falsificabile, se ogni settimana ti ritrovassi sulla scrivania tutte le bizzarrissime teorie che arrivano sulla mia!».
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11.12.2012)
Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip. Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.
Come si diventa un ateo credente
Putman: "Io studioso di scienza vi spiego l’importanza della vita spirituale"
"Non scherzo quando dico che pregare Dio, cosa che faccio ogni giorno, non è rivolgersi a un essere fittizio"
"Molte persone hanno bisogno di confidare nell’eternità e in una ricompensa dopo la morte. Io no"
È il più celebre filosofo analitico e in un saggio racconta il suo rapporto con la religione: "Non penso esista il soprannaturale ma certi ideali sono validi"
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 31.05.2011)
Dopo aver letto il libro - bello e intenso come un appassionato esame di coscienza - verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam - che per sessant’anni ha scritto di "fatti e valori" e di filosofia della scienza, con l’autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale - abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un’adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico.
Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si occupato di filosofia del linguaggio e della mente.
Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».
Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».
Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?
«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d’accordo nell’affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».
Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D’altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio - cosa che faccio ogni giorno - , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un credente. Ma ciò in cui credo quando dico: "credo in Dio" non è affatto quello che l’ateo nega quando dice: "Dio non esiste". Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».
Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi - morali, epistemologici ecc. - presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull’idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».
Nella sua visione filosofica lei viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?
«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l’autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l’evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale - il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti - non dipende dalla religione che professiamo».
Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definzione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».
La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: "potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo". Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell’individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».
Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L’autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l’individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».
Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?
«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull’attesa di una qualche ricompensa. E d’altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all’intolleranza».
LACAN CON FREUD E "KANT CON SADE": "Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti". Così inizia il testo di J. Lacan, Kant con Sade, (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla "kantizzazione" di Sade e sulla "sadizzazione" di Kant da parte di Lacan, cfr.: E, Fachinelli, "Lacan e la Cosa", La Mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale "hitlerizzazione" di Kant, si cfr.: F. La Sala, Sigmund Freud, i diritti umani, e il problema dell’"Uno")
LACAN E "L’ORIGINE DEL MONDO" (G. Courbet, 1866): "(...) Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur" (Sergio Luzzatto).
E’ morto il filosofo Saul Kripke, il logico della teoria causale del riferimento
Una delle figure più importanti del XX secolo nel campo della filosofia del linguaggio e della logica *
Il filosofo statunitense Saul Kripke, una delle figure più importanti del XX secolo nel campo della filosofia del linguaggio e della logica, autore della teoria causale del riferimento, è morto all’età di 81 anni a New York. L’annuncio della scomparsa, avvenuta giovedì 15 settembre, è stato dato sui social dal Saul Kripke Center, il centro studi a lui intitolato dal Graduate Center della City University of New York, dove ha insegnato negli ultimi vent’anni.
Nato a Bay Shore, nello stato di New York, il 13 novembre 1940, dopo una doppia laurea in filosofia e matematica all’Università di Harvard, Kripke iniziò la carriera accademica come docente della Rockefeller University di New York, dove ha insegnato dal 1968 al 1976, per passare poi nel 1977 alla Princeton University, di cui era professore emerito. Tra i suoi scritti apparsi in italiano figurano "Esistenza e necessità. Saggi scelti" (Ponte alle Grazie, 1992), "Nome e necessità" (Bollati Boringhieri, 1999) e "Wittgenstein su regole e linguaggio privato" (Bollati Boringhieri, 2000).
Accompagnata fin dal precoce esordio accademico da un’aura di genialità, la figura di Saul Kripke è una delle più aneddotiche, affascinanti e discusse della filosofia contemporanea di orientamento analitico. A partire dai primi anni sessanta, le sue idee hanno segnato una svolta, portando alla ribalta nuovi temi e problemi. Allo stesso tempo, l’opera di Kripke risulta spesso ostica per i non addetti ai lavori perché si avvale di argomenti mirati sottili e profondi, contenuti in un numero esiguo di testi, e si snoda lungo alcuni passaggi tecnici. Il filosofo ha elaborato una semantica formale per la logica intuizionistica e per quella modale, estendendo successivamente i risultati di quest’ultima all’analisi filosofica del riferimento dei termini del linguaggio naturale.
Di qui è nata la teoria causale del riferimento, secondo cui il riferimento di un termine ’t’ è determinato da un nesso causale che collega ogni possibile uso di ’t’ all’oggetto che gli è stato associato al momento della sua introduzione nel linguaggio. Un nome proprio è inoltre concepito come un "designatore rigido", ossia un termine che designa lo stesso individuo in ogni "mondo possibile" in cui ha un referente, e le asserzioni d’identità in cui compare sono considerate "metafisicamente necessarie", ossia vere in ogni mondo possibile.
Kripke ha anche proposto un’originale teoria della verità che riesce a eliminare alcuni inconvenienti della teoria del matematico e logico Alfred Tarski relativi a paradossi. Il filosofo era socio dell’American Academy of Arts and Sciences, della British Academy, dell’Academia Scientiarum et Artium Europaea, della Norwegian Academy of Sciences e dell’American Philosophical Society. Tra i numerosi riconoscimenti, le lauree honoris causa della Johns Hopkins University, dell’Università di Haifa, dell’University of Pennsylvania e dell’University of Nebraska.
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