[...] Lula è un francescano, nel senso proprio, un devoto di San Francesco d’Assisi, gran lettore di biografie (ha divorato quella di Winston Churchill) e fan di Clint Eastwood (di cui colleziona religiosamente copie di film) ha reagito agli scandali tagliando teste. Questo, in parte, lo ha salvato. Evitando che fosse travolto nel disonore.
Il primo obiettivo del nuovo governo sarà lo sviluppo. Il Brasile cresce come una tartaruga rispetto agli altri paesi dell’America Latina anche perché negli ultimi quattro anni ha preferito una politica macroeconomica piuttosto cauta, contenendo inflazione, debito e spesa pubblica. Da domani si cambia è stata la promessa [...]
Al secondo turno, arriva la riconferma con il 60,8 per cento dei voti. Battuto Alckmin che lo aveva costretto al ballottaggio
Brasile, Lula rieletto presidente "Governerò dalla parte dei poveri"
In un mese, il candidato del Pt ha rovesciato la tendenza virando il programma verso sinistra e confermando il no alle privatizzazioni
dal nostro inviato OMERO CIAI *
SAN PAOLO - L’incertezza s’è sciolta in un attimo nella festa quando il Tribunale elettorale, appena un quarto d’ora dopo la chiusura delle urne, ha reso pubblico il dato dell’80 per cento delle urne scrutinate. Un conteggio rapidissimo, quello che ha proclamato Luiz Inacio Lula Da Silva per la seconda volta presidente del Brasile, reso possibile dalla velocità delle urne elettroniche e dai fusi orari del paese: quando alle sette locali i seggi si sono chiusi ufficialmente più della metà del Brasile, tutta la costa oceanica, aveva già finito di votare da un paio d’ore. Mezz’ora dopo il Tribunale ha ufficializzato la vittoria. Il risultato finale è: Lula 60.83%, Alckmin 39.17%.
E’ la conferma che nel corso della campagna per il ballottaggio il presidente in carica è riuscito a riconquistare una parte di quelle classi medie (un terzo del paese) che nel primo turno gli avevano voltato le spalle per gli scandali di corruzione. Un margine ampio e del tutto imprevisto un mese fa quando Lula era sceso sotto il 50% e il candidato dell’opposizione aveva superato il 40%. Ora, dopo averlo punito nel primo turno impedendone una rapida rielezione, il Brasile ha perdonato Lula concedendogli l’opportunità di un secondo mandato di quattro anni. "Oggi sono felice - aveva detto il presidente in carica dopo aver votato nella mattinata di ieri a San Bernardo, un distretto operaio delle periferia di San Paolo - perché i brasiliani stanno per concedermi questa nuova possibilità di lavorare per cambiare il paese." E nella notte, già eletto, ha aggiunto: "La battaglia elettorale è finita, da domani governerò per i poveri ma lo farò con tutti per il benessere del paese". E, sulla corruzione: "Gli elettori hanno saputo capire cosa era vero e cosa no".
Ma che cosa è successo nel lungo ottobre del Brasile? E’ successo che il presidente ha modificato completamente la sua strategia elettorale. Se, nel corso del primo turno, aveva disertato dibattiti in tv e interviste con la stampa privilegiando il ruolo di presidente a quello di candidato, nel secondo turno è sceso in campo a combattere voto per voto. E la svolta ha pagato confermando il suo grande carisma personale e la sua capacità di sedurre l’elettorato. Poi i nuovi spin-doctor del presidente hanno fatto due mosse decisive. Prima hanno girato a sinistra il discorso elettorale promettendo più sviluppo e meno ossessioni per la macroeconomia e il controllo dell’inflazione. Poi hanno trasformato l’avversario di Lula in un demonio neoliberista.
Così mentre Lula mostrandosi guadagnava appoggi, Alckmin diventava quello che avrebbe cancellato i programmi sociali, fiore all’occhiello del primo governo Lula, ma soprattutto quello che, in nome della modernizzazione del paese, avrebbe lanciato una nuova ondata di privatizzazioni. Quest’ultima, dopo due decenni di politiche economiche imposte dal Fondo Monetario internazionale, è una parola ormai non più pronunciabile in molti paesi dell’America Latina. La gente vede la privatizzazione dei servizi come un disastro, un cataclisma che lascia dietro di sé soltanto disfunzioni, malversazioni e corruzione. Dipingendo Alckmin come un altro campione del neoliberismo che avrebbe riportato in Brasile gli economisti del Fondo (Lula ha rotto con l’Fmi pagando tutto il debito) gli spin-doctor di Brasilia hanno convinto le classi medie che la posta in gioco era troppo alta per prendersi la libertà di punire Lula per gli scandali.
Scandali per i quali Lula aveva già pagato un prezzo. Un partito, il Pt, terremotato che potrebbe non sopravvivergli alla fine del secondo mandato e qualche decina di dirigenti di primo piano messi a riposo. Tra cui l’ex primo ministro Jose Dirceu, l’ex segretario del partito José Genoino, l’ex ministro delle Finanze Antonio Palocci e l’ex tesoriere Delubio Soares.
Lula è un francescano, nel senso proprio, un devoto di San Francesco d’Assisi, gran lettore di biografie (ha divorato quella di Winston Churchill) e fan di Clint Eastwood (di cui colleziona religiosamente copie di film) ha reagito agli scandali tagliando teste. Questo, in parte, lo ha salvato. Evitando che fosse travolto nel disonore.
Il primo obiettivo del nuovo governo sarà lo sviluppo. Il Brasile cresce come una tartaruga rispetto agli altri paesi dell’America Latina anche perché negli ultimi quattro anni ha preferito una politica macroeconomica piuttosto cauta, contenendo inflazione, debito e spesa pubblica. Da domani si cambia è stata la promessa in campagna elettorale e la nuova strategia è stata confermata ieri da Tarso Genro, uno dei pochi intimi di Lula sopravvissuti, che ha fissato un tasso di crescita sopra il 5 percento per il 2007 (oggi è il 2,5). "E’ finita l’era di Palocci - ha detto Genro -. Posso affermare che egli ha offerto un buon servizio al governo ma è terminata definitivamente l’epoca dei bassi tassi di crescita, della preoccupazione nevrotica per l’inflazione, senza pensare alla redistribuzione del reddito e alla crescita".
Ma Luiz Inacio Lula da Silva ha almeno altri due questioni da affrontare se vuole lasciare un segno nella storia del Brasile. La prima è una riforma politica costituzionale che consenta la governabilità. Il sistema politico brasiliano è oggi così frammentato che il presidente viene eletto a maggioranza assoluta ma non ha i numeri per governare al Congresso ed è costretto a fare compromessi, più o meno leciti, con tutti. Un presidente azzoppato. L’altra è la riforma agraria, l’eliminazione dei latifondi. Misura urgente senza la quale migliaia di contadini non avranno alcuna possibilità di slacciarsi dal peso della miseria liberando lo Stato dall’elemosima che versa per assisterli. (30 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 30.10.2006
Errori e i compromessi del primo mandato Lula non cancellano le conquiste: dal rilancio dell’istruzione e della cultura, alla poltica estera, al blocco dell’Alca
Brasile, il diritto alla lotta e il diritto alla festa
di Émile Sader (www.liberazione.it, 01.11.2006)
Esattamente quattro anni or sono - alcuni di noi qui in Avenida Paulista, tanti altri in tutto il Brasile e fuori - festeggiavamo finalmente la vittoria di Lula, la vittoria del Pt, la vittoria della sinistra. Ci incontravamo con tanta gente che esprimeva piangendo, gridando, tante cose represse, che venivano da lontano: il ricordo di compagni che non avevano potuto festeggiare, le frustrazioni accumulate nel vedere il paese fatto a pezzi dal governo che - finalmente - si concludeva, sconfitto, in quel giorno. Festeggiavamo, ma con un groppo amaro in gola. Sapevamo che era il nostro governo, ma qualcosa ci sfuggiva. Avevamo vinto, chiudevamo con il governo di Fernando Henrique Cardoso (Fhc), che risultava sconfitto - la cosa più importante in quel momento - ma sulla vittoria si addensavano alcune ombre, che stavano a significare che poteva sfuggirci di mano. Dalla “Lettera ai brasiliani” al Lulinha [vezzeggiativo di Lula], da Duda Mendoça a Paolacci e, confermando purtroppo le ombre, a Henrique Meirelles, più di ogni altra cosa, ci indicavano che la nostra vittoria non era necessariamente la nostra, quella della sinistra, quella antiliberista, la vittoria dell’ “altro mondo possibile” per la quale ci battevamo da tanto.
Ci eravamo battuti contro le privatizzazioni, avevamo lotta contro le (contro) riforme neoliberiste, la minore presenza statale, i tagli alle politiche sociali, meno regolamentazioni, meno diritti per i lavoratori, meno lavoro regolare, minore sovranità, riduzione della sfera pubblica, della pubblica istruzione, meno cultura pubblica.
Ci eravamo battuti contro la cancellazione dei diritti dei lavoratori, dei pensionati, dei braccianti senza terra, delle università pubbliche, della sanità pubblica. Avevamo resistito e, in quel giorno, sentivamo che, malgrado tutto quello che era stato dilapidato nel paese, avevamo sconfitto il progetto neoliberista di Fhc, avevamo vinto.
Il giorno dell’insediamento e il discorso di Lula a Brasilia sembravano il punto di approdo di oltre un decennio di resistenza, in cui il Brasile si era trasformato in depositario delle speranze di tutto il mondo: il Brasile di Lula, del Pt, del Mst, della Cut, di Porto Alegre, del bilancio partecipativo, del Forum Sociale Mondiale.
Le nostre perplessità si sono confermate più in fretta di quel che non c’immaginassimo. Henrique Meirelles, mantenimento del saggio di interesse, avanzo primario, erano i segnali emergenti di un iceberg più profondo: la conservazione del modello economico ereditato da Fhc. Prima cosa, il richiamo alla “maledetta eredità”; che non fu aperta come un pacco per mostrare il Brasile fatto e disfatto come Borsa Valori nelle mani dei neoliberisti, il Brasile della piratesca privatizzazione dell’istruzione e della cultura, del principale scandalo della storia del paese con la privatizzazione delle imprese statali, risanate con denaro pubblico per poi essere svendute, ancora una volta con impiego di risorse pubbliche. In nome del superamento di quella “eredità” ci è stata propinata la (contro) riforma delle previdenza, che ha suscitato un fatale scollamento fra i movimenti sociali e il governo, poiché segnalava un percorso di “riconquista della fiducia del mercato” a detrimento dei diritti sociali dei lavoratori.