Lo psicoanalista e studioso è morto ieri, aveva settantasei anni
Ha saputo studiare le complessità della scienza dell’anima senza dogmatismi
Addio a Jervis
L’antimaestro
Negò il mito della devianza
Le sue critiche all’antipsichiatria e alle ideologie sessantottine sulla malattia mentale
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 03.08.2009)
Se penso a Giovanni Jervis immagino uno di quei volatili agili e maestosi che un tempo si vedevano nei documentari sulla natura. Era magro, alto, ossuto. La voce tagliente e controllata. Dotato di un’intelligenza che si staccava dalle cose per meglio cogliere i nessi, e decifrare i segni del nostro apparire.
Cos’è stato Giovanni Jervis ora che è morto, ora che il suo pensiero sembra restituirci tutta l’inquietudine, la fantasia, l’impegno verso un oggetto, una disciplina, un sapere che in lui prese molte forme rigorose e nessuna inclinazione dogmatica?
Se la scienza dell’anima ha molti padri, a cominciare da Freud, Jervis seppe coglierne la grandezza e i limiti, senza mai subire il fascino acritico dell’autorità. Era vigile ma non ossessivo, distaccato senza apparire disinteressato. Tutto quello che analizzava doveva e poteva essere passato al vaglio della ragione.
Questo vago sentore di fede illuminista non inganni: Jervis fu attratto dalla diversità, ma non fino al punto da esaltarne la condizione estrema del disagio. Dopo una laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria e neurologia, Jervis iniziò, nella prima metà degli anni Sessanta, una stretta collaborazione con l’etnologo Ernesto De Martino. Gli piaceva immergersi in quel mondo magico fatto di irrazionalità e di credenze. Ma non per sentirsene parte integrante e gratificata, piuttosto per descrivere quanto complesso e sedimentato appare ciò che abbiamo dentro e che a volte chiamiamo inconscio altre ancora coscienza oscura. Fu a suo modo un singolare antimaestro. Schivo e ironico.
Ricordo che qualche anno fa pubblicò un volumetto che si intitolava Contro il relativismo, ne discutemmo pubblicamente. Gli dissi che mi aveva colpito il lungo ricordo personale di De Martino. Ed era come se egli avesse voluto riconoscere la grandezza del maestro e insieme prenderne le distanze postume, vedendo nel grande etnologo un campione di quel relativismo che Jervis criticava. Mi rispose che i maestri vanno amati e seguiti, ma senza trasformarli in miti ingombranti che offuscano la nostra intelligenza critica.
Così si comportò con Freud e la psicoanalisi, i cui effetti a un secolo di distanza riteneva fossero diventati più culturali che scientifici. E con lo stesso metro reagì nei riguardi di Franco Basaglia, col quale collaborò a tempo pieno nella comunità terapeutica di Gorizia nella seconda metà degli anni Sessanta. Fu quella una stagione rivoltosa, di grandi utopie psichiatriche, di "istituzioni negate", come recitava un fortunato titolo di un libro che avrebbe dovuto cambiare il mondo del disagio psichico e invece portò a una esaltazione della diversità, e della malattia mentale.
Su questo versante Jervis criticò aspramente anche Michel Foaucault che aveva fatto della follia il più incredibile monumento alla devianza sociale. Lo definì "cattivo maestro", rilevando in quella definizione senza appello quanto di ideologico ci fosse nelle sue analisi.
All’antipsichiatria, era il 1975, Jervis reagì con un Manuale critico della psichiatria. Il libro non fu accolto favorevolmente da Basaglia, che si sentì chiamato in causa. Parole come "delirio" o "psicosi" andavano sfrondate dagli arbitri culturali e calate nella dura e tragica realtà degli individui che ne soffrivano.
Trent’anni dopo sarebbe tornato su quegli argomenti con un libro scritto insieme a Gilberto Corbellini e dal titolo eloquente: La razionalità negata. Trent’anni dopo il giudizio su quel passato che non passava, su quel mondo ancora intriso di aria sentimentale e giustificativa, fu ancora più duro. Seppellendo l’antipsichiatria, Jervis seppellì anche il Sessantotto.
Eppure, egli non nacque "rivoluzionario" per finire conservatore. Negli anni che ha vissuto e che lo hanno visto spesso protagonista, Jervis si portò dietro il peso della ragione e le responsabilità che essa innesca, sotto forma di controllo e verifica dei fatti. Egli fu il risultato tardivo di un illuminismo alleggerito dalla fede per il progresso e dall’esaltazione dell’uomo.
Nel frattempo, molte cose ai suoi occhi erano precocemente invecchiate, molti miti tramontati. Per questo Johnny - così lo chiamavano gli amici - guardò con disincanto la fine del secolo e la nascita del nuovo. Non perse mai il gusto della discussione e dell’autocontrollo che ogni analista - esercitò anche questa professione - deve saper conservare. Il dolore non gli fu estraneo. Seppe mascherarlo. C’era stata la morte di un figlio e, come appresi anni dopo, quella tragica del padre partigiano, torturato e ucciso nel 1944 dai nazifascisti. Johnny aveva undici anni. Non imparò a odiare. Ma quella scena di violenza estrema e tutto ciò che agli occhi di un ragazzo poteva rappresentare, la raccontò in un piccolo e straordinario libro scritto "sottovoce".
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 03.08.2009)
Si è purtroppo concluso il percorso umano e professionale di Giovanni Jervis, psichiatra e psicoanalista che ha rappresentato una figura critica nel panorama culturale e scientifico italiano. Jervis ha iniziato il suo lavoro di saggista nei primi anni ’60, quando si avvicinò alla psichiatria sociale americana che introdusse in Italia.
Nel mondo asfittico della psichiatria italiana l’approccio della psichiatria sociale americana aprì una nuova prospettiva: il malato mentale non doveva essere recluso nei manicomi ma la sua condizione umana e psicopatologica doveva essere collocata all’interno del contesto sociale, che influiva sull’evoluzione del suo disturbo e ancora di più sulla cura.
Naturalmente il bagaglio culturale di Jervis era ben più ampio della psichiatria e della sociologia americana, per intenderci quella legata all’effetto dell’etichettamento medico e sociale sulla condizione del malato mentale: aveva in precedenza collaborato con l’etnologo Ernesto De Martino, che aveva affrontato la malattia mentale in termini antropologici.
Partendo da questo retroterra era inevitabile che Giovanni Jervis si incontrasse con lo psichiatra Franco Basaglia che in quegli anni aveva iniziato il lavoro anti istituzionale all’Ospedale di Gorizia. Due personalità molto diverse, Basaglia e Jervis, che proprio recentemente, con Corbellini, aveva riletto in termini estremamente critici questa fase della psichiatria italiana.
Era più comprensibile che Jervis incontrasse successivamente la psicoanalisi, verso cui era stato inizialmente piuttosto negativo. Qui inizia un altro capitolo della sua vita, lasciato il mondo delle istituzioni psichiatriche inizia a insegnare all’Università, vaccinando i suoi studenti contro le affrettate conclusioni spesso dettate dall’entusiasmo.
Sono anni in cui si avverte la crisi della psicoanalisi e Jervis si confronta da una parte col lavoro clinico che lo avvicina alla sofferenza dei pazienti e dall’altra con i vari modelli e con la sua affermazione come disciplina con una forte risonanza sociale. I suoi libri sulla psicoanalisi, non sempre condivisibili, sono sempre estremamente stimolanti soprattutto perché Jervis non cerca il consenso, anzi tende sempre a smascherare le facili illusioni anche teoriche a cui si ricorre per autorassicurarsi.
Con spirito illuministico, nonostante il suo riconoscimento dell’importanza dell’inconscio, Jervis ha continuato a scrivere contribuendo a distinguere fra "pensare dritto" e "pensare storto", dal titolo di un suo libro recente.
Nel sito, si cfr. anche:
Nello Speciale su Basaglia - ----Negli allegati, nel "forum": Intervista a Giovanni Jervis. I miei conti con Basaglia (di Luciana Sica).
A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare”. (pre leggere tutto l’art., cliccca ->)
Un convegno a Roma lo ricorda
Giovanni Jervis uno spirito libero
la Repubblica, 26.04.2010
ROMA - Si poteva dissentire da lui, anche ferocemente, ma non ignorare il suo metodo critico, la difesa dell’esercizio della ragione, la visione anti-idolatrica della cultura, l’allergia per le forme più sciatte della divulgazione. «Contro il "sentito dire"», è il titolo del convegno su Giovanni Jervis, scomparso l’estate scorsa a settantasei anni, in programma tra oggi e domani a Roma, presso la facoltà di Psicologia in via dei Marsi.
Psichiatra e terapeuta di formazione analitica, prima allievo di De Martino, poi in duetto-duello con Basaglia, una cattedra di Psicologia dinamica - quella di Jervis è stata una lunga e controversa carriera intellettuale. Dei suoi studi sulla psichiatria sociale e i fondamenti delle teorie psicoanalitiche (Manuale critico di psichiatria, 1975; La psicoanalisi come esercizio critico, 1989), sulle intersezioni tra psicologia, sociologia, antropologia e politica (Contro il relativismo, 2005; Pensare dritto, pensare storto, 2007), parleranno una ventina di relatori - come Mecacci e Onnis, Marramao e Dazzi, Migone e la Gallini.
Tra i protagonisti del convegno, c’è Gilberto Corbellini, lo storico della medicina con cui Jervis ha scritto l’ultimo libro (Bollati Boringhieri, settembre 2008). Si chiama La razionalità negata, un titolo che fa il verso a L’istituzione negata, il volume a cura di Franco Basaglia uscito nel ’68 da Einaudi.
Lu. Si.
Scomparso lo psichiatra Giovanni jervis
Una rara capacità auto-critica *
Giovanni Jervis, un protestante. in val Pellice Qualcuno fra quanti hanno ricordato lo psichiatra e studioso scomparso a inizio agosto ha «sfiorato» la definizione. Mario Baudino, su La Stampa, ne ha ricordato l’origine valdese; Stefano Mistura (Il Manifesto), autore negli anni 70 di un libro Claudiana su Paul Tillich, ha sottolineato il «rifiuto della falsa coscienza e della demagogia» che ha caratterizzato Jervis, la tendenza cioè alla critica rigorosa (a partire da se stesso e dalla proprie opere), che altri hanno scambiato per tardivo pentimento e per una sorta di revisionismo, a proposito soprattutto della collaborazione con Franco Basaglia (di «ritorno all’ordine» ha addirittura parlato Gianni Vattimo). Jervis non è stato invece di quelli (molti, sì) che voltano disinvoltamente gabbana. La tendenza all’esame continuo delle proprie idee, oltre che fondato sulla razionalità a cui ha sempre dichiarato di volersi attenere, è anche espressione di una visione anti-idolatrica della cultura. Non solo: in questi anni di neo-integralismo e di confusione tra sfera religiosa e civile, il suo pensiero si è concretato in chiarimenti che meritano riconoscenza; come quando si scagliava contro la commistione tra l’idea di «bene» e quella di «giusto» (solo quest’ultima essendo finalità della politica); o come quando contestava l’idea che il «male» nella patologia, ma si può dire anche nella cultura, stia sempre in qualche struttura «al di fuori» di noi. Importante anche la denuncia del carattere subdolo delle tendenze paternaliste di certo relativismo per il quale «attraverso l’accettazione aprioristica di tutte le credenze altrui passi il progetto di rendere inattaccabili le proprie [corsivi nel testo, red.]».
* Riforma, n. 31, 21 agosto 2009.