di Giorgio Maimone (Il Sole-24 Ore, 02.06.2006)
La cultura contadina è stata per millenni una cultura legata alle stagioni, a una scansione del tempo ciclica e non storica. Nella storia è entrata da poco tempo, forse un cinquantennio, poco più, poco meno... E quell’essere stati fuori dalla storia non va perduto, non va dimenticato poiché molto c’è in quella cultura che oggi va ripreso e rivalutato».
Ed è proprio quello che fanno i Gang in questo disco che segna il loro “ritorno” discografico dopo un periodo di silenzio durato sei anni. Riportare al cento dell’attenzione e della musica il mondo contadino.
Facendo un parallelo nemmeno troppo azzardato, è un ‘operazione simile a quanto fatto da Bruce Springsteen dall’altra parte dell’oceano con “We shall overcome”, dedicato alle canzone di Pete Seeger, ma più in generale alla canzone tradizionale americana.
I Fratelli Severini compiono un percorso analogo, ma compiendo un periplo all’interno del proprio repertorio e scegliendo 4 canzoni del passato che affrontano temi contadini, due estere (dal repertorio di Victor Jara e di Woody Guthrie), una dal patrimonio popolare italiano (“Saluteremo il signor padrone”, cantata un tempo da Giovanna Daffini, la nostra prima cantautrice) e scrivendo cinque inediti attorno allo stesso tema.
Per far questo scelgono come “compagno di strada” e nume tutelare addirittura Gandhi: "La civiltà, nel senso reale del termine, consiste non nella moltiplicazione ma nella intenzionale e volontaria riduzione dei bisogni. Solo questo porta alla vera felicità e appagamento" è la frase del Mahatma che apre il libretto del disco.
Ne discende un disco rigoroso e prestigioso, fatto delle luci e delle ombre delle colline marchigiane: “Morbide, come onde di un mare in quiete, a volte anche malinconiche. Casa mia. Colline che oggi non sono più quelle fatte da padre Dio o da madre Natura, perché a renderle così (come la mia anima) c’è stato e c’è ancora tanto lavoro. Quello degli uomini della terra, i contadini".
Un disco di sole e terra, ma anche di riflessioni più pacate che sembrano accompagnare gli uomini, quando, a sera, tornano dal lavoro dei campi e riscoprono il piacere delle chiacchiere attorno al fuoco, del bicchiere di vino con gli amici, delle storie antiche raccontate per non farle scomparire, per tenere viva la tradizione orale.
Così i Gang in questo disco tengono vive tradizioni e storie, rinnovandole e riscrivendole, con il cuore nella tradizione ed i piedi saldamente piantati in un mondo rock che pure a loro appartiene. Loro nati alla musica sulla scia dei Clash, del punk e poi del folk rock e ora approdati a un morbido country che sa di campagna.
Dodici canzoni, almeno quattro da ricordare per forza: “A Maria”, che narra la storia di “Maria Santiloni Cavatassi è nata nel novembre del ’28 a Comunanza in provincia di Ascoli Piceno. La sua era una famiglia di mezzadri.Tutta la vita di Maria è una testimonianza del cammino per la conquista della dignità da parte del mondo contadino. Dall’appoggio alla Resistenza all’organizzazione del Sindacato nelle campagne marchigiane e non solo. La storia di Maria è parte importante della storia del grande ’Umanesimo di razza contadina’ e della lunga marcia che si chiama emancipazione". Sfiora il capolavoro la intensissima “4 maggio 1944 - In memoria” che racconta la storia di una strage nazifascista nelle vicinanze di Pesaro”. Da brividi.
"This land is your land" è di Woody Guthrie ma è anche la la chiamata a raccolta di quanto di meglio di rock, il folk e il combat rock hanno proposto negli ultimi anni: cantano in questa canzone, assieme a Marino Severini, Stefano "Cisco" Bellotti, Graziano Romani, Paolo Archetti Maestri e altri. Vale a dire pezzi di Modena City Ramblers, di Yo Yo Mundi, di Del Sangre, dei Tupamaros, dei Marmaja, del Ned Ludd, dei Rocking Chairs, dei Miami The Groovers e dei Ratoblanco. Esaltante il mood che ne emerge: una sorta di "we are the world in salsa de noantri".
Infine “Il lavoro per il pane”, lenta, recitata, sofferta e finale: è la canzone che più rimanda il messaggio di Gandhi già accennato sopra. Ma tutto il disco è da ascoltare, per capire quali sono i suoni della terra e degli uomini che ci vivono e lavorano attorno.
«Un new deal per la Terra»
di Susan George (l’Unità, 23 giugno 2012)
Al vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro Susan George non c’è. Troppo prevedibili gli esiti, troppo smaccati - sostiene la chair of board del Transnational Institute di Amsterdam - i tentativi messi in atto dalle grandi corporation transnazionali: trasformare anche la natura in merce, privatizzarne l’accesso, escluderne i più poveri.
Una deriva mercantile che l’autrice di Le loro crisi, le nostre soluzioni (Mondi media 2012), fiera oppositrice del modello neoliberista, contesta da decenni, e a cui sin dal 2007 oppone un «New Green Deal»: un nuovo grande piano di investimenti, che punti al rinnovamento ecologico del sistema produttivo ed energetico, coniugando sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Nulla a che vedere con il concetto di green economy, tiene a precisare Susan George;Dopo giorni di incontri, dibattiti, accese discussioni e contestazioni, si è concluso il vertice di Rio.
Qual è il suo giudizio?
«A Rio tutto questa volta è andata perfino peggio del solito, se possibile. Il World Business Council per lo sviluppo sostenibile, la Camera di commercio internazionale e altre lobbies delle corporation hanno perseguito la stessa agenda per 20 anni, e pare che siano riuscite ad aggiudicarsi una vittoria importante: le Nazioni Unite hanno completamento abdicato e si sono ritrovate a sostenere l’agenda di questi attori, a discapito di tutti gli altri, rimasti esclusi. Da quel che ho avuto modo di leggere o ascoltare, non mi sembra che i governi abbiano avuto niente di veramente “progressista” da dire. L’unica cosa degna di nota, che andava seguita, erano gli eventi laterali, quelli che hanno fatto capo a People Rio+20, la contro-conferenza del vertice».
Lei non ha mai nascosto il suo scetticismo nei confronti del concetto di «green economy», di cui molto si è discusso a Rio. Ci spiega meglio il suo punto di vista?
«Sulla green economy continuo a mantenere posizioni critiche, come quasi tutti gli altri sostenitori della giustizia climatica e della sostenibilità intesa nel senso più genuino del termine, perché sono le corporation che ne stanno definendo i contenuti, secondo i propri interessi.
Non è un caso che stiano per essere introdotti dei prezzi veri e propri per i “servizi” che la natura fornisce all’uomo; che i principi mercantili stiano per essere installati in ogni settore, incluso quello della conservazione della natura, mentre i “prodotti” della natura vengono progressivamente privatizzati.
Oggi bio-diversità non significa altro che un’ulteriore fonte di materiali grezzi, da cui trarre profitto. A ben guardare, le compagnie che si occupano di biologia sintetica sono così avanti rispetto a noi che non abbiamo ancora la minima idea delle conseguenze delle loro attività, penso per esempio agli organismi ibridi o alle “chimere”, che renderanno gli Ogm, che abbiamo a lungo contestato, delle innocue verdure da orto domestico. Su questo, dovremmo provare a chiedere qualcosa a Pat Mooney, dell’Etc Group, l’associazione che monitora il potere connesso alle tecnologie»
Per lei dunque dietro il concetto di green economy si nascondono molte insidie; eppure per molti bisogna comunque puntare sulla green economy, nonostante i rischi che implica, perché possiede quella carica «evocativa» necessaria affinché tutti riconoscano che è ora di trasformare le nostre società...
«Se mi sta chiedendo se dobbiamo tentare di prevenire il cambiamento climatico e mitigare a tutti i costi l’innalzamento delle temperature, allora rispondo di sì, che sono d’accordo: se il mondo del business è l’unico in grado di farlo, allora che lo faccia, visti i rischi enormi che abbiamo di fronte. Ma rifiuto di adottare un atteggiamento così rinunciatario, perché sono convinta che ci sia ancora l’opportunità di investire in un “Green New Deal”, riappropriandoci del nostro sistema finanziario, impazzito e disfunzionale, socializzando le banche, tassando le transazioni finanziarie a livello internazionale e investendo nel bene comune, in altri termini in quello che definisco, appunto, “Green New Deal”.
Ciò significa che dovremmo tenere a mente, come priorità, le preoccupazioni sociali, i bisogni umani, la preservazione e la condivisione delle risorse scarse, e allo stesso tempo rispettare le comunità indigene. La green economy è tutt’altra cosa. Non dimentichiamo poi che ogni volta che abbiamo ceduto alle richieste o alle lusinghe del mondo del business abbiamo sempre dovuto pagare un prezzo eccessivo. Si guardi alla crisi attuale, ormai al suo quinto anno. Se dovessimo cedere anche questa volta, perderemmo tutto, inclusi i beni comuni, materiali e immateriali, probabilmente per sempre»
Il futuro che comincia dalla terra
di Carlo Petrini (la Repubblica, 7 giugno 2012)
Senza grandi divinazioni il futuro si può già vedere oggi. È sufficiente cambiare occhiali. Togliersi quelli della politica, che non ha mai fatto così tanta difficoltà a capire cosa succede. Ma via anche gli occhiali di quegli intellettuali immersi nel paradigma socio-economico che ci ha portato a una crisi generalizzata.
Cominciamo a scoprire che la necessità di cambiamento sta diventando un sentimento avvertito un po’ da tutti. Si registrano perfino improvvise "conversioni". Vediamo che c’è chi inizia a sostenere che un po’ di utopia forse fa bene alla salute e alla società. Siamo circondati da movimenti della società civile che riescono a imporsi: gli indignados, i tanti occupy, le piazze Nord-Africane, ma anche soltanto quelli che negli Usa hanno bloccato in un anno 166 nuove centrali a carbone. Oppure il Forum dei Movimenti per l’Acqua in Italia con i suoi referendum vittoriosi; i tanti comitati locali che, su altre tematiche, con passione ed energia fanno politica con il porta a porta, con la rete, e arrivano lontano.
Siamo sempre più d’accordo che il cambiamento serve e si comincia a intravedere, ma non ce ne siamo accorti fino a ieri, e tanti continuano a non capire. Per esempio se qualcuno dice che è necessario un "ritorno alla terra", una rivalutazione delle economie agricole, dei mestieri manuali e dell’artigianato, di sistemi produttivi e di consumo locali e sostenibili, viene immediatamente visto come un personaggio naif e fuori dal mondo. Ben che vada come una specie di guru che dice cose interessanti, ma pur sempre irrealizzabili. Invece è necessario cambiare occhiali, e allora si comincia a vedere.
Si capisce che nel mondo tutto questo sta già avvenendo, da anni. Perché le buone pratiche che si possono mettere in atto riguardo al cibo, all’agricoltura, all’ambiente, agli antichi saperi che rimodernizzano i mestieri, sono tutte in essere in molte parti del Pianeta. Compresa la nostra Italia, che da questo punto di vista ha un serbatoio di memoria ed esempi virtuosi cui attingere senza pari.
Molti giovani stanno distinguendosi, ma non soltanto loro. Più viaggio nel nostro Paese e più ne incontro: sensibilità per l’ambiente, nuovi progetti di vita partendo da tradizioni sopite o ritenute passate e marginali. Il segreto è semplice: se è vero che queste sono buone "pratiche", la gente allora può metterle in pratica. E i cittadini i cambiamenti li realizzano così: iniziando a fare. Chi, come quasi tutta la nostra politica, potrebbe semplicemente guardarsi attorno per capire cosa sta succedendo (e quindi come sarà il futuro), si rifiuta di farlo o è distratto da altro: indossa gli occhiali sbagliati. In questo momento la politica non intercetta chi sta cambiando il mondo a casa propria, non bisogna dunque escludere che è proprio da questi che nascerà la classe politica del futuro.
Il ritorno alla terra, foss’anche un diverso modo di fare la spesa, per coloro che vestono vecchi occhiali è utopico o "di nicchia". Ma sono sicuro che tante piccole realtà li travolgeranno, relegandoli, loro sì, in una nicchia dimenticata. Nessuno pensa - anche molti profeti del cambiamento - che queste persone stiano facendo vera economia. Ma oggi un pastore giovane riesce a fare più economia reale di tanti che vi sarebbero preposti, ve lo garantisco. «Finalmente la primavera sta arrivando», mi ha detto un entusiasta Ermanno Olmi una sera a margine di un convegno dedicato ai nuovi mestieri del cibo e dell’ambiente dove sono intervenuti tanti giovani già impegnati. Sottoscrivo in pieno, e gli altri si mettano il cuore in pace. La primavera sta arrivando: si può sentire, si può vedere.
Un contadino all’Onu in difesa delle tribù
di Carlo Petrini (la Repubblica, 14.05.2012)
Sono nato in una terra di contadini. Ed è anche per questo che è un onore, per me che da sempre difendo la biodiversità, prendere la parola oggi al Forum dell’Onu sulle questioni indigene. Credo infatti che fra chi ama la Terra e le popolazioni indigene si debba stringere un’alleanza. Sono convinto che questi popoli sono stati, sono e soprattutto saranno da stimolo per costruire un futuro migliore che non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, e dalla salvaguardia della biodiversità. Perché per troppi anni abbiamo calpestato il diritto al cibo e alla sussistenza di molte comunità indigene e di allevatori rincorrendo un progresso miope. L’analisi della realtà ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra. Per questo voglio anticipare ai lettori di Repubblica le parole che leggerò. Eccole.
Lavorare per la salvaguardia della biodiversità in campo agricolo e alimentare come strumento per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità intera è importante.
La perdita progressiva della diversità di specie vegetali e razze animali può rappresentare, insieme al cambiamento climatico, il più grave flagello per gli anni a venire. Occorre tuttavia precisare che difendere la biodiversità senza tutelare la diversità delle culture dei popoli e il loro diritto di governare sui propri territori è un’impresa insensata. Tale diversità è la più grande forza creatrice della Terra, è l’unica condizione per mantenere e trasmettere un patrimonio straordinario di conoscenze alle generazioni future. Su questi principi Slow Food ha basato la propria esistenza e per mantenere questi principi ha realizzato nel 2004 Terra Madre, una rete di comunità del cibo che si è propagata in oltre 170 Paesi. Terra Madre non è un partito e nemmeno un sindacato, è semplicemente una rete, un movimento di persone che, nel rispetto delle proprie diversità, cercano il dialogo, lo scambio culturale, la solidarietà.
Il diritto al cibo sta al centro di tutto. Il cibo, per essere condiviso, deve essere buono per il piacere di tutti; pulito perché non distrugge l’ambiente e le risorse della Terra; giusto perché rispetta i lavoratori, procurando il nostro sostentamento, garantiscono la vita della comunità terrestre. Tutti i popoli devono avere accesso al cibo buono, pulito e giusto. Tutti i popoli devono avere cibo adeguato che provenga dalle proprie risorse naturali o dai mercati da loro scelti. Tutti i popoli, nel produrre il proprio cibo, hanno il diritto di mantenere le loro pratiche tradizionali e la propria cultura.
Su questi principi e su queste basi molte comunità indigene di tutti i continenti hanno animato la rete di Terra Madre e hanno partecipato attivamente alle conferenze globali che dal 2004 si svolgono ogni due anni a Torino. Nell’ultima la cerimonia di apertura fu consacrata alle riflessioni delle comunità indigene espresse nelle loro lingue ancestrali. Da allora molte iniziative si sono attivate. Nel 2011 si è tenuta "Terra Madre Indigenous People" a Jokmokk, nel nord della Svezia, terra delle popolazioni Sami.
Il congresso ha visto la partecipazione di indigeni provenienti da 61 Nazioni. Questi incontri generano autostima tra i partecipanti. Si avverte forte il senso di appartenere a una grande comunità di destino, di non essere soli nei propri territori, di avere un ruolo importante e costruttivo. Questa consapevolezza è stata rafforzata ed esaltata nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, con la Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene, ha affermato con chiarezza il contributo straordinario alla diversità e alla ricchezza della civiltà.
Slow Food non solo condivide questi principi ma ritiene che, in questo particolare momento storico caratterizzato da una crisi economica, ecologica e finanziaria, mettere a valore la diversità culturale del pianeta possa contribuire a innescare pratiche virtuose e sostenibili. Il benessere umano passa attraverso il diritto universale a un cibo di qualità per tutti.
Obesità e fame, che dilagano nel mondo, sono i due volti di una stessa medaglia, sono il simbolo del fallimento di un sistema alimentare globale basato principalmente su una produzione industriale che dipende in massima parte dalle risorse energetiche fossili. Mai come in questo momento si avverte l’esigenza di cambiare alla radice questo sistema. Saper guardare indietro alle nostre tradizioni e a sistemi alimentari più sostenibili non è stupida nostalgia. La reintroduzione di produzioni alimentari locali è la risposta per nutrire il pianeta, è l’attivazione della vera democrazia, la partecipazione di tutti per il bene comune.
Per troppo tempo la produzione del cibo ha voluto estromettere o limitare i saperi delle donne, degli anziani e degli indigeni, relegandoli al fondo della scala sociale. L’umanità ha coltivato un’idea di sviluppo e di progresso basata sulla convinzione che le risorse del pianeta fossero infinite.
Oggi la "gloriosa marcia" del progresso è arrivata sull’orlo del baratro e la crisi è figlia dell’avidità e dell’ignoranza. Ma il monito della Natura è ben più grave della crisi finanziaria, esso ci chiama a riflettere su un destino tragico per l’esistenza stessa dell’umanità, se non si cambiano marcia e percorso. Sarà giocoforza ritornare sui nostri passi, ecco allora che gli "ultimi" saranno quelli che indicheranno la strada giusta. Avremo bisogno della sensibilità delle donne e del loro pragmatismo, della saggezza degli anziani e della loro memoria, ci accorgeremo che i popoli indigeni hanno la chiave per un approccio più sostenibile al Diritto al cibo, perché da sempre praticano l’economia della natura.
Ma attenzione: dovrà essere evidente a tutti quanto male è stato procurato a questi soggetti nel nome del progresso e della supremazia del mercato. Quanti saperi, conoscenze e prodotti della Terra sono stati piratescamente derubati alle comunità indigene da multinazionali farmaceutiche e alimentari.
Prima di rimetterci in marcia occorre restituire il maltolto, occorre impedire qualsiasi logica di agricoltura industriale insostenibile nelle aree indigene. Tutti abbiamo bisogno di rispettare e valorizzare l’economia della Natura e della sussistenza, per troppo tempo considerata inferiore all’economia della finanza globale.
Cresce nel mondo la consapevolezza che rafforzare l’economia locale, l’agricoltura locale e il rispetto delle piccole comunità sia una giusta pratica per riconciliarci con la Terra e la Natura. Mancanza d’acqua, perdita di fertilità dei suoli, erosione genetica di piante e animali, spreco di alimenti mai visto nella storia dell’umanità, sono problemi che, se si continua a produrre, a distribuire e a consumare il cibo con questo sistema alimentare, resteranno senza soluzione.
In campo agricolo la nuova disciplina dell’agroecologia altro non è che la capacità di riproporre in chiave moderna il dialogo tra i saperi tradizionali e la comunità scientifica. Non sarebbe onesto non riconoscere che i popoli indigeni hanno un approccio alla produzione del cibo che è storicamente sostenibile. Sanno mantenere la fertilità dei suoli utilizzando risorse e metodi naturali, rafforzando la resilienza delle colture e degli allevamenti. La politica di molti governi e agenzie di sviluppo di contrapporsi e minacciare le pratiche agricole dei popoli indigeni, come la rotazione delle coltivazioni e la pastorizia, è una politica miope e sbagliata.
Slow Food condivide la sfida di questo Forum Permanente delle Nazioni Unite nel difendere le pratiche indigene che in molte parti del mondo operano per il mantenimento della coltura itinerante. Non è giusto appropriarsi dei beni comuni della Terra, ma come dicevano i Nativi Americani: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre».
Anche se in questo momento, in molte parti del mondo, gli arroganti prevalgono sugli umili; anche se le alte gerarchie del sapere e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani e gli indigeni; malgrado ciò siamo sempre più coscienti che riconciliarci con la Terra è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco, della condivisione e del dono, del ritorno alla Terra si realizzano con lentezza, senza frenesia e ansia. Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo nella pratica quotidiana mantenere questi principi, insegnando ai figli che tutte le cose sono collegate tra loro e che prenderci cura di tutte le creature è il dono più grande che ci è stato fatto.
La sanzione morale della Fao contro l’iniqua incetta di terre
di Giulio Sapelli (Corriere della Sera, 16.05.2012)
Nel primo trimestre del 2012, ben 2,5 milioni di ettari sono stati ceduti dalle comunità locali a grandi imprese multinazionali cinesi, brasiliane, francesi, inglesi, danesi, svedesi, nord americane, quatarine e thailandesi. Se si considera il periodo che va dal 2007 al 2011, nelle aree dell’Africa sub-sahariana, del Sud America, dell’Australia e dell’Oceania, le vendite o le espropriazioni sono avvenute per ragioni che le statistiche classificano come «alimentari» (il 52%), la coltivazione di colture per la produzione di bio-carburanti (20%) e, infine, l’allevamento (l’8%).
L’area sub-sahariana è quella più interessata da questo irrompere del mercato capitalistico: gli acquisti di terre sono stati il 54% di tutte le transazioni mondiali, connotando in modo esplicito il ruolo svolto in questo fenomeno dalla Cina, che mira chiaramente al dominio del continente africano. Segue a lunga distanza l’Oceania, con il 9,5% e l’America del Sud, con il 9,4%. Insomma, un fenomeno enorme, che per la prima volta nella storia la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’agricoltura e l’alimentazione) ha affrontato per le rilevanti implicazioni che esso ha sui regimi alimentari dei popoli più poveri del pianeta.
I 124 Paesi che fanno parte del Comitato per la sicurezza mondiale alimentare hanno adottato all’unanimità una risoluzione che mira a raggiungere una sorta di «regolazione globale della globalizzazione» in merito alle transazioni fondiarie. L’accordo è stato firmato venerdì 11 maggio a Roma. Sono stati due anni di negoziazione e di discussione e di ricerca accanita. Il documento redatto dovrebbe regolare le transazioni non solo dei terreni coltivabili, ma altresì delle foreste e delle aree di pesca nel mondo.
Tutto ha avuto inizio dalle accese proteste delle popolazioni più povere del pianeta e di quelle più legate alla risorse naturali per il loro sostentamento. Esse da circa un decennio hanno visto via via aumentare a dismisura la pressione diretta a far sì ch’esse abbandonassero le loro terre per un misero compenso, oppure addirittura attraverso atti di vera e propria espropriazione, non potendo opporre resistenza legale agli espropriatori, non possedendo una documentazione scritta del possesso medesimo.
Le regole di un diritto ancestrale, agnatico e secolare comunitario si scontravano e si scontrano con lo scambio mercantile tipico dell’economia monetaria capitalistica, che distrugge i diritti non scritti e consuetudinari con una violenza spesso inaudita. D’ora innanzi sia gli Stati sia le imprese che non rispetteranno tali diritti arcaici e non scritti, così come le consuetudini colturali delle popolazioni che sono confinanti con le terre espropriate, verranno sanzionati. Solo moralmente, tuttavia, perché le regole adottate sono volontarie e non compulsive.
Non sono previste, infatti, sanzioni se non morali; ma questo è di già, nonostante tutte le limitazioni, un grande risultato perché per la prima volta 124 Stati hanno firmato un documento che auspica un corretto comportamento reputazionale degli attori economici grazie al rispetto del diritto consuetudinario, invitando a consultare e a informare e a negoziare con le popolazioni locali, con l’assistenza dei tecnici della Fao e dei suoi comitati.
Si obietterà che molte nazioni hanno firmato l’accordo perché nessuna sanzione è prevista. Ma ciò è vero solo in parte: in giudizio l’accordo potrà essere fatto valere come un elemento di forte difesa dei diritti delle popolazioni offese. Certo esse dovranno organizzarsi e darsi una rappresentanza politico-giuridica. Si potranno in tal modo costruire dei catasti della proprietà fondiaria in ogni angolo della terra e creare in tal modo una società civile in grado di far valere le regole del commercio regolato dalla legge e non dalla violenza.
Termina l’epoca della brutalità senza freni che ha dominato le transazioni fondiarie sì in lontane parti del mondo, ma anche in aree a noi più vicine. Un lungo cammino vero il diritto scritto sta per concludersi. Per questo l’accordo di Roma è storico ed è simbolicamente rilevante ch’esso sia stato firmato nella patria di tutti i diritti di proprietà: quello romano.
APPELLO CONTRO IL LAND-GRABBING
STOP AGLI ARRAFFA TERRE
di Alex Zanotelli *
Muti spettatori, stiamo assistendo ad un’altra operazione di ladrocinio internazionale che, in inglese, è chiamata land-grabbing e in italiano potremmo tradurre con arraffaterre . E’ una forma aggiornata di neo-colonialismo.
Alcune multinazionali dell’agro-alimentare e alcuni gruppi finanziari (banche private, fondi- pensione, fondi di investimento) attratti dai prezzi dei generi alimentari in aumento e dalla domanda crescente di biocarburanti e di prodotti agricoli si sono buttati nel grande affare di acquisire, nel sud del mondo, terre coltivabili e fonti d’acqua associate.
In questi ultimi anni milioni di ettari di terre arabili sono state comperate , a bassissimi prezzi, per produrvi derrate alimentari, mangimi, o biocarburanti che vanno a beneficio degli speculatori, ma a danno degli agricoltori locali e dei pastori ai quali è tolto l’accesso alla terra e all’acqua. Spesso le popolazioni espulse dalla terra sono vittime di sgomberi violenti , lasciate senza risarcimenti adeguati o fonti di reddito. A loro resta spesso solo andare a ingrossare il popolo delle baraccopoli. Si calcola che ,nella sola Africa, 67 milioni di ettari di terra siano stati accaparrati (equivalenti alla superficie della Germania e dell’Italia).
L’Eldorado del land-grabbing è oggi l’Africa (anche se il fenomeno è molto presente sia in Asia come in America Latina). Questo scempio è venuto alla ribalta quando nel 2008 il governo del Madagascar concluse il gigantesco accordo con la multinazionale coreana Daewoo che prevedeva la cessione gratis per 99 anni della metà della terrra arabile del paese. L’affare scatenò proteste di piazza che spazzarono via il governo di M. Ravamanana.
Ma in Africa non c’è solo la Corea, ci sono anche le due grandi potenze asiatiche: Cina e India. Quest’ultima ha già investito 2,4 miliardi di dollari per l’acquisto di terre nell’Africa Orientale : Etiopia, Kenya, Madagascar e Mozambico. Particolarmente imponenti gli investimenti indiani per l’acquisto di terre in Etiopia che sta diventando il ‘Brasile dell’Africa’ .L’Etiopia vuole infatti diventare il più grande produttore di biocarburanti del continente. Altrettanto imponenti gli investimenti dell’Arabia Saudita in Etiopia, per avere derrate alimentari per la propria popolazione. Il miliardario saudita Mohamed Hussein Al Amoudi sta mettendo le mani su 300.000 ettari oltre quelli che già ha ottenuto a Gambela al confine con il Sudan.
La Cina sta arraffando terre un po’ ovunque nel continente africano , in particolare in Sud Sudan che sta attirando l’appetito di molte nazioni(Questo avviene in un’Africa che deve importare ogni anno decine di milioni di tonnellate di derrate alimentari!).
L’Europa non è seconda a nessuno in questo business e l’Italia brilla in questa nuova forma di neocolonialismo. “L’ Italia, è tra i paesi europei ,uno dei più attivi negli investimenti europei su terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra-afferma il documento Gli arraffa terre, redatto da Re: Common- con Germania, Francia, Paesi Scandinavi, Olanda e Belgio a seguire.”Venti imprese italiane si giocheranno un pezzo di pianeta che potrebbe raggiungere nei prossimi anni oltre 2 milioni di ettari, tra queste le più note sono Benetton, Cir(di Carlo De Benedetti), Eni, Moncada, principalmente impegnate in Mozambico.Tra le banche più coinvolte sono le tre big del credito(Unicredit,Intesa e Monte dei Paschi di Siena). Se in Patagonia si è mossa alla grande Benetton, in Africa stanno arraffando terre parecchie imprese a medie dimensioni, soprattutto in Senegal e Etiopia.
Dietro a tutto questo ‘arraffa terre’,ci stanno le grandi istituzioni internazionali. “La Banca Mondiale-afferma la nota organizzazione popolare Via Campesina- è una delle forze trainanti dietro al land-grabbing che permette al grande business mondiale di inghiottire terre e risorse ai danni delle comunità locali.” La Banca Mondiale, in violazione con il suo stesso mandato, sta favorendo gli investitori attraverso prestiti ad hoc e assicurazioni contro le perdite e sta poi persuadendo i governi del Sud del mondo a modificare le proprie leggi sulla proprietà della terra per renderle funzionali agli investimenti esteri.
Non possiamo accettare né come cittadini né come credenti questa nuova forma di colonialismo di un’odiosità e pericolosità senza pari. E’ la negazione di diritti umani fondamentali : diritto al cibo e all’acqua! Questo nuovo fenomeno porterà alla fame e alla disperazione milioni di contadini del Sud del mondo.
Nella tradizione biblica ci viene sempre ricordato che la “ la terra è di Dio” e quindi deve essere equamente divisa tra tutti perché tutti possano vivere. In nome di questa tradizione ebraico-cristiana, i vescovi africani riuniti a Roma, per il Sinodo Africano(2009) sono stati categorici su questo argomento:” Questo Sinodo invita urgentemente tutti i governi africani ad assicurarsi che i loro cittadini siano protetti contro l’ingiusta esclusione dalla propria terra e dall’accesso all’acqua che sono beni essenziali della persona umana.”
Nello stesso spirito , i vescovi del Kenya, lo scorso agosto, hanno pesantemente attaccato il loro governo, reo di volere offrire 500mila ettari di terre a multinazionali per produrre cibo da esportare o per biocarburanti, mentre tanti in Kenya soffrono la fame.
E’ proprio per questo che il gruppo di Giustizia , Pace e Salvaguardia del creato dei missionari/e comboniani/e ,riunito a Rio de Janeiro, il giugno scorso , ha deciso di preparare e sostenere una campagna di sensibilizzazione contro questo nuovo crimine contro l’umanità. E la famiglia comboniana intende farlo insieme a tutti coloro che si stanno impegnando su questo tema come la Rete europea degli istituti missionari( AEFJN) che ha sede a Bruxelles.(email:aefjnnews@aefjn.org)
Facciamo nostro il grido dei missionari riuniti durante il Forum Sociale Mondiale (2011) a Mbour (Dakar): ”Vogliamo continuare ad impegnarci per assicurare che l’Africa non subisca un altro genocidio in conseguenza del land-grabbing.”
Alex Zanotelli
Napoli,1 novembre 2012
* IL DIALOGO, Lunedì 05 Novembre,2012