FILOSOFIA E TEOLOGIA. Dopo Platone, dopo la crisi della metafisica classica e il grande soffio di rinnovamento della teologia novecentesca...

L’uomo, il divino e la verità in Platone e noi. Un saggio di Franco Toscani - a c. di Federico La Sala

(...) noi oggi siamo chiamati non solo a proteggere e a salvaguardare la casa comune, la natura, ma pure a proteggere e a salvaguardare gli uomini da sé stessi, dalle loro più diaboliche tentazioni, dalle loro forze e pulsioni peggiori (...)
mercoledì 16 settembre 2015.
 

L’uomo, il divino e la verità in Platone e noi

di Franco Toscani *

1. Il divino e il problema della verità in Platone.

Oggetto di questo saggio è una riflessione sul rapporto fra umano e divino in Platone, tesa a porre in evidenza il fatto che nella problematica e complessa nozione platonica di divino è contenuto il riferimento a tutto ciò che vi è di più alto e nobile nell’uomo e nell’universo intero.

In questione è dunque il riferimento essenziale alla verità; l’amore per la verità, per la giustizia e la vita buona sorregge tutta la filosofia platonica e la sua tensione al divino. Leggiamo infatti nelle Leggi: "La verità (ἀλήθεια) è al vertice di tutti i beni per gli dei come per gli uomini, e possa esserne partecipe fin dal principio chi vuole diventare beato (μακάριος) e felice (ευδαίμον), affinché trascorra nella verità la maggior parte del tempo della sua vita" (Leggi, V, 730 c). [1]

Il passo è importante anche perché qui l’autore parla di partecipazione dell’uomo alla verità e non di possesso: è una precisazione essenziale, come vedremo anche in seguito.

Noi ora cercheremo di rileggere le riflessioni platoniche circa il rapporto umano-divino intendendo per divino tutto ciò che si riferisce all’immenso ambito della verità.

Da questo punto di vista, non si tratta per noi innanzitutto di essere platonici o antiplatonici, metafisici o antimetafisici, favorevoli o contrari alla "teologia" platonica, ma di raccogliere le indicazioni di questo straordinario pensatore per contribuire a nostra volta a sviluppare un discorso veritativo, a servire la verità, ossia ad assolvere il compito specifico della filosofia e pure quello della teologia, soprattutto di una nuova teologia ben lontana dalle secche del vecchio dogmatismo metafisico.

Noi proviamo un senso di vertigine e di reverenza al cospetto della verità, della sua maestà e del suo splendore che noi uomini così spesso ignoriamo, sottovalutiamo o calpestiamo. E’ una verità impadroneggiabile, ma il riferimento umano alla verità è fondamentale.

Noi non la possediamo e non la possiamo possedere, ma possiamo amarla e ricercarla, respirarne l’aria, la splendida atmosfera. Possiamo vivere della verità, senza però pretendere di esaurirla in noi e in tal modo possiamo vivere senza idolatria, senza trasformare la verità stessa in un idolo e senza dunque mutare la terra in un’isola che ci rende tanto feroci.

La verità è umana e, nel contempo, supera l’uomo, lo comprende in sé infinitamente. Al suo cospetto noi proviamo un costante senso di inadeguatezza, mancanza, privazione, ma avvertiamo pure - e tutto ciò è davvero molto "platonico", nel senso migliore del termine - l’esigenza del coraggio, del giusto e necessario ardimento, di ciò che Giordano Bruno chiamava l’ "eroico furore", un "furore" d’amore che non ha nulla a che fare con la violenza che da sempre percorre e tormenta la terra.

2. La "teologia" di Platone e l’ "assimilazione a Dio".

Com’è noto, in Platone non troviamo mai una trattazione "sistematica" della questione del divino, eppure i riferimenti al divino o, ancor meglio, al rapporto fra l’uomo e il divino sono numerosissimi in tutti i suoi scritti, tanto frequenti che è difficile rintracciarli e valutarli tutti nella loro ricchezza e complessità. E tuttavia non disperiamo, cominciamo la ricerca, sia pure senza pretese di esaustività e inoltriamoci con coraggio lungo la nostra pista interpretativa.

Non vi è in Platone una nozione "semplice", per così dire, del divino, nel senso che, di volta in volta, leggendo i suoi dialoghi constatiamo che divina è l’anima (ψυχή), divina è la parte razionale e migliore dell’anima, divine sono la scienza, l’intelligenza e la verità, divine sono le idee, divina è l’idea del buono (o del bene che dir si voglia), divini sono gli astri, divino è il cielo, etc. .

Commenta ciò Enrico Berti: "Abbiamo così una quantità notevole di dèi, ingenerati e generati, i quali ricordano molto quelli della religione olimpica".  [2]

Con certezza sappiamo che siamo ancora ben lontani dalla concezione del Dio personale propria del cristianesimo. Inoltre, divino in Platone non è mai l’uomo sic et simpliciter o una civiltà data, perché il filosofo sa benissimo che nell’essere umano c’è di tutto, il bene e il male, che l’uomo può essere molto deludente e malvagio, che le città del suo tempo sono molto difettose, etc. .

Non rintracciamo mai in Platone alcuna divinizzazione dell’umanità esistente e già data, troviamo anzi una costante tensione al trascendimento degli uomini e delle civiltà umane così come sono. Non è questo forse il senso essenziale di due tra le più famose opere platoniche come la Repubblica e le Leggi?

Come ha notato fra gli altri Marco Vannini, Platone ha coniato la parola teologia (θεολογία, cfr. Repubblica, II, 379 a) [3] , che in lui assume un senso peculiare, ben diverso da quello che assumerà in seguito:
-  "Nel suo aspetto menzognero, la religione è la forma estrema di appropriazione, religio come legame non all’origine, alla verità, ma a sé stessi, ovvero amor sui, che vuole impadronirsi di Dio per metterlo al proprio servizio, a sostegno dell’egoità - e lo fa con la costruzione di una teologia.
-  Si noti che la parola ’teologia’ è stata coniata da Platone, per contrapporre alla mitologia un discorso che ’parli della divinità quale essa è realmente’: ovvero che Dio è buono, non invidioso, e che è causa solo del bene, per cui sono da respingere i discorsi dei poeti, come Omero, sugli dèi. Ma la teologia finisce qui: non è possibile un ulteriore sapere su Dio, giacché Dio non si mescola agli umani.
-  Dunque, in Platone, che è colui che ha coniato il concetto di teologia, opposto a mitologia, non c’è affatto una teologia, nel nostro senso. C’è invece - al suo posto - una assimilazione a Dio (homoiosis to theo), un farsi simile a Dio, che si compie attraverso conversione (epistrophe) e distacco, cercando l’uomo interiore, contrapposto a quello esteriore (...).
-  Invece le teologie del mondo ebraico, e poi cristiano e musulmano, in quanto ricavate dalla Bibbia e dal Corano, non sono teologie, ma mitologie, simili a quelle dei poeti greci. Frutto della fantasia, o peggio, giacché dai ’libri sacri’ si può ricavare tutto e il contrario di tutto.
-  Le teologie scolastiche, filosofiche, poi, sono costruzioni talvolta elevate, ma dai fondamenti discutibili e incerti. (...)
-  In realtà il discorso teologico fornisce informazioni non su Dio, bensì sulla mentalità di chi lo proferisce e ha perciò perfettamente senso, ma in quanto descrizione dell’umano. Se invece pretende di parlare di Dio, allora è menzogna e peccato" [4].

3. Il libro X delle Leggi e la critica ai pensatori della φύσις.

Sappiamo che nel libro X delle Leggi (opera che rimane incompiuta a causa della morte dell’autore e viene curata dall’allievo Filippo di Opunte, ma che si può ritenere ampiamente attendibile, inconfondibilmente del grande filosofo, in cui molti sono i fili che la legano alle opere precedenti) Platone sviluppa il suo discorso teologico più ampiamente che altrove. In particolare, nel libro X l’Ateniese dedica molto spazio e molti sforzi a confutare tre tesi, secondo cui: 1) gli dei non esistono; 2) gli dei esistono, ma non si curano delle faccende umane; 3) gli dei possono essere sedotti e placati con preghiere e sacrifici (cfr. Leggi, X, 885 b; 888 c; 899 c-d; 901 d; XII, 948 c; Repubblica, II, 364 b sgg.).

Noi qui non seguiremo nei dettagli tutti i passaggi con cui Platone nel libro X delle Leggi cerca di smontare - per la verità, in termini non sempre convincenti - la validità di queste tre tesi, ma cercheremo in primo luogo di individuare il motivo conduttore che ispira il discorso teologico platonico e lo scopo essenziale della sua disamina. In secondo luogo, cercheremo di mostrare in che modo, entro quali limiti e misure tale discorso possa essere fruttuosamente reinterpretato da parte nostra e riattualizzato in funzione delle nostre esigenze.

Come dicevamo anche prima citando Vannini, Platone prende le distanze dal modo di parlare degli dei proprio dell’antica mitologia (sia nelle sue espressioni poetiche con la Teogonia di Esiodo e le Cosmogonie attribuite a Orfeo e a Museo, sia nelle sue espressioni in prosa con l’opera cosmogonica di Ferecide di Siro e le Genealogie e la Cosmogonia di Acusilao di Argo) e della nuova filosofia naturalistica e materialistica, di cui uno dei maggiori esponenti era Anassagora, bersaglio polemico anche nel Fedone (cfr. Fedone, 97 c, 98 a-c).

Nelle Leggi Platone mette sotto accusa "le opinioni dei nostri moderni e saggi, (...) causa di mali (κακῶν αἴτια). I discorsi di tali persone ottengono questo risultato: quando infatti io e te adduciamo prove del fatto che gli dèi esistono, proponendo proprio queste cose, cioè il sole, la luna, le stelle e la terra come dèi ed esseri divini, coloro che sono stati persuasi da questi saggi direbbero che queste cose sono solo terra e pietre e sono del tutto incapaci di avere cura degli affari umani, e queste idee sono rivestite da bei discorsi fino a essere persuasive" (Leggi, X, 886 d-e).

Contro queste opinioni, Platone scrive che "gli dèi esistono e sono buoni (ἀγαθοί), e onorano la giustizia (δίκη) in modo superiore agli uomini" (Leggi, X, 887 b). L’attacco platonico ai pensatori della φύσις è esplicito (per tale attacco, cfr. anche Timeo, 52 d-55 c). In breve, Platone difende la religione politeistica tradizionale contro le dottrine atee, materialistiche e naturalistiche, sostenendo la necessità di valersi di discorsi miti e pazienti per persuadere gli atei (cfr. Leggi, X, 887 c-888 e).

Poi, senza far riferimento a scuole e ad autori specifici, l’Ateniese (che esprime sostanzialmente il punto di vista di Platone) comincia ad esporre (cfr. Leggi, X, 888 e sgg.) le dottrine materialistiche secondo cui tutte le cose avvengono per natura (φύσις) o per arte (τέχνη) o per caso (τύχη), ma non per mezzo di qualche intelligenza (νοῦς), della ragione o di un qualche dio (cfr. Leggi, X, 889 c). Egli si oppone a ogni dottrina che nega la partecipazione della mente, dell’anima o del divino al processo di creazione e generazione delle cose.

Per i materialisti e per alcuni sofisti, anche la politica, la legislazione e gli dèi sono prodotti, invenzioni dell’arte umana; secondo Crizia, ad esempio, la divinità sarebbe stata inventata dai legislatori affinché gli uomini, temendone la punizione, si astenessero dalle ingiustizie (cfr. Leggi, X, 889 d-890 a).

Platone entra qui, com’è noto, nel dibattito - assai vivo allora tra i sofisti, aventi fra loro posizioni molto diverse - sul rapporto tra φύσις (natura) e νόμος (legge) e insiste sul fatto che il legislatore, non stancandosi mai di cercare di persuadere (πειθώ), deve sostenere l’ "antica legge" secondo cui gli dèi esistono, vigono valori assoluti, la legge e l’arte esistono "per natura" o non sono comunque inferiori alla natura, in quanto "prodotti della mente" (νοῦ γεννήματα) in base a un "corretto ragionamento" (κατὰ λόγον ὀρθόν) (cfr. Leggi, X, 890 d).

Per due volte Platone accenna con preoccupazione al rischio (κίνδυνος) che il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria siano ritenuti i primi elementi di tutte le cose e che la natura (φύσις) in questo modo intesa sia considerata come ciò da cui deriva l’anima (ψυχή. Cfr. Leggi, X, 891 c).

Il κίνδυνος era presente anche nel Fedone, ma con ben altra funzione e valenza, più positiva, come "bel rischio" legato alla speranza forte nell’immortalità dell’anima (cfr. Fedone, 85 c-d, 114 d). Ora, invece, si tratta del grave rischio di prendere sul serio la φύσις, di considerarla prioritaria rispetto alla ψυχή e al λόγος.

Per Platone, invece, prima viene comunque l’anima, la vera ἀρχή, che ha sempre e comunque un ruolo fondativo. Platone capovolge ciò che vale per i filosofi materialisti e naturalisti: non è la ψυχή che è generata o che deriva dalla φύσις, ma vale l’esatto contrario, è la φύσις a dipendere e ad avere un ruolo decisamente secondario rispetto alla ψυχή. Il ruolo fondativo-veritativo è sempre e solo della ψυχή e del λόγος, mai della φύσις.

4. Il primato dell’anima e il divino.

Nel X libro delle Leggi sembra comunque di notare, nel dialogo tra Clinia e l’Ateniese, un certo imbarazzo circa il carattere insolito e la difficoltà intrinseca di questi discorsi (cfr. Leggi, X, 891 d). Essi sono infatti quasi inaccessibili a forze mentali normali e possono suscitare stordimento e vertigine, senso di inadeguatezza anche negli spiriti migliori, ma bisogna in ogni caso cercare di superare questi ostacoli (cfr. Leggi, X, 892 d-893 a). In qualche modo, affidandoci soprattutto a una guida esperta, si tratta di riuscire ad attraversare una sorta di fiume dalla corrente fortissima (cfr. Leggi, X, 892 d) e occorre dunque attrezzarsi il più possibile alla non facile bisogna.

All’indiscusso primato dell’anima Platone sempre si affida (ancora una volta, come nel Fedone). L’anima è la causa prima della creazione (γένεσις) e della distruzione (φθορά) di tutte le cose, ma nei discorsi degli empi - che secondo il filosofo realizzano (come nota Silvia Poli) "uno ὔστερον πρότερον da un punto di vista logico e un ribaltamento di valori a livello metafisico" - essa viene concepita sempre come posteriore rispetto agli elementi materiali ed è così privata del "suo ineludibile carattere di superiorità e di anteriorità rispetto ai corpi, premessa indispensabile per la fede nell’esistenza degli dèi"  [5].

Tale primato dell’anima e caratteristica di superiorità e di anteriorità sono dovuti secondo Platone al fatto che l’anima è autonoma, capace di automovimento (cfr. Leggi, X, 896 a). Il rischio (cfr. Leggi, X, 892 a2) degli atei e materialisti consiste secondo il filosofo nell’ignorare che l’anima - per la sua δύναμις (cfr. Leggi, X, 892 a3) e come principio di vita, di movimento ( ἀρχὴ κινήσεως, cfr. Leggi, X, 896 b) e di trasformazione dei corpi - non può non avere un primato pieno e totale sui corpi, su ogni realtà naturale, è più vecchia e originaria dei corpi, è la più vecchia di tutte le cose (cfr. Leggi, X, 892 a-b, 896 a-b; Timeo, 34 b sgg.).

Insieme a ciò l’Ateniese afferma pure l’anteriorità dell’opinione, dell’attenzione, del pensiero, dell’arte e della legge, ossia di ciò che è propriamente umano su tutto ciò che è puramente materiale, duro, morbido, pesante e leggero; pure "le opere e le azioni grandi e prime" (τὰ μεγάλα καὶ ἔργα καὶ πράξεις) saranno quelle dell’arte (τέχνη) e della mente (νοῦς), da cui prendono la loro origine, come posteriori, le azioni e le opere "per natura e la natura stessa" (φύσει καὶ φύσις. Cfr. Leggi, X, 892 b).

Sono evidenti in Platone, come ha ben mostrato Etienne Gilson, il nesso molto stretto, la parentela, l’intima vicinanza fra la nozione di anima e quella di divino: "Platone ha bisogno di sentirsi circondato da potenze personificate che si prendano cura della sua vita e del suo destino. Tipicamente, il principale attributo di un dio di Platone è quello di costituire per l’uomo la Provvidenza. (...) Ogni volta che vediamo un corpo vivente, dotato di movimento, vivificato dall’interno da un potere operativo autonomo, possiamo essere sicuri che quel corpo ha un’anima; e poiché ogni anima è un dio, ogni cosa vivente è inabitata da un dio. Questo è il caso, per esempio, del sole e delle altre stelle, le cui perpetue rivoluzioni testimoniano la presenza in esse di qualche divinità. In altre parole, l’anima è, per Platone, il vero modello sul quale gli uomini hanno formato la loro nozione di dio. Se non fosse per l’anima umana, come si potrebbe spiegare il movimento autonomo del corpo umano?" [6].

Nel decimo libro delle Leggi l’Ateniese concentra e sintetizza i suoi lunghi ragionamenti nell’affermazione: "l’anima è per noi nata prima del corpo, e il corpo per secondo e in seguito, essendo per natura governato, sotto il governo dell’anima" (Leggi, X, 896 c).

Rimangono ancora estranee a Platone quelle che sono alcune grandi acquisizioni sia dell’antico pensiero orientale (del buddhismo e del taoismo in particolare) sia del pensiero ecologico contemporaneo: la non sostanzialità e la non autosufficienza di ogni cosa o ente, l’impermanenza, l’interdipendenza e l’interconnessione di tutte le cose. Tale consapevolezza non consente di pensare in termini di primato, di superiorità e di anteriorità di questo o di quest’altro, ma permette di concepire ogni cosa e ogni ente nel suo contesto, al di fuori del suo isolamento e della sua separatezza, nel suo nesso essenziale con tutte le altre cose.

Non pensando in termini di interdipendenza e interconnessione, Platone si ritrova a pensare in termini nettamente dualistici, contrapponendo corpo e anima, mondo sensibile e mondo delle idee, ψυχή e φύσις, λόγος e φύσις, νοῦς e φύσις, giungendo addirittura a concepire la φύσις come secondaria e derivata dal νοῦς e il corpo (σῶμα) come secondario e derivato dall’anima.

Tutto ciò che è spirituale è per Platone, nelle parole dell’Ateniese, superiore a tutto ciò che è semplicemente naturale e materiale: "Costumi, caratteri, intenzioni, ragionamenti, opinioni vere, sollecitudini e ricordi saranno nati prima della lunghezza, della larghezza, della profondità e della forza dei corpi, se anche l’anima è nata prima del corpo" (Leggi, X, 896 c-d).

L’anima è guida e causa (ἀιτία) di tutte le cose: qui comincia l’avventura del dominio del pensiero e della volontà di potenza dell’Occidente. Un’avventura che prosegue ancor oggi, con caratteristiche e tratti inediti e inauditi che sono andati ben oltre questi inizi platonici.

5. "Tutto è pieno di dèi".

Governando e dimorando in tutte le cose, l’anima governa necessariamente anche il cielo (cfr. Leggi, X, 896 d-e). Nel libro X delle Leggi, in un passo piuttosto oscuro, l’Ateniese formula la teoria (di cui non vi è altrove traccia nelle opere platoniche) di un’anima benefattrice, buona e di un’anima cattiva. L’anima (ψυχή) guida tutte le cose del cielo, della terra e del mare con le sue caratteristiche e con i suoi movimenti, talvolta - quando eleva la sua mente (νοῦς) essa stessa divina all’altezza degli dèi - in modo riuscito e corretto, talatra invece - quando s’unisce all’ignoranza (ἀνοία) - produce tutto il contrario (cfr. Leggi, X, 896 e-897 a-b).

Quale ψυχῆς γένος ("genere di anima", cfr. Leggi, X, 897 b) governa tutto? Eraclito, come pensatore della φύσις, aveva già risposto a questa domanda da par suo e a suo modo (fr. 64): τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός ("il fulmine governa ogni cosa").

Avendo già inaugurato la sua "strategia dell’anima" [7] e in ossequio al provvidenzialismo teologico che egli fa suo e che anticipa, precorre in qualche modo il cristianesimo, Platone risponde naturalmente che non può che essere l’ "anima migliore" (ἀρίστη ψυχή), cioè quella dotata di virtù (ἀρετή) e di saggezza (φρόνησις) a signoreggiare il cielo, la terra, il ciclo di rivoluzione dell’universo, il moto uniforme del cielo e dei corpi celesti, a prendersi cura (ἐπιμελεῖσθαι) di tutto l’universo (κόσμος) ; sarà invece l’anima malvagia (κακή ψυχή) a guidarlo in modo bizzarro e disordinato (cfr. Leggi, X, 897 b-d, 898 c; Timeo, 34 b sgg., 40 a, 47 b-c, 90 c-d; Epinomide, 982 a-b). La natura del movimento della mente (νοῦς) non è per Platone diversa da quella del mondo, anche se non è possibile rispondere alla domanda circa il loro rapporto come guardando diritto verso il sole (cfr. Leggi, X, 897 d; Repubblica, VII, 516 e; Fedone, 99 d).

L’Ateniese non nasconde quindi la difficoltà della risposta, ma è ben determinato a mostrarsi convincente e risoluto. Il movimento della mente assomiglia al primo dei dieci tipi di movimento individuati da Platone, ossia al movimento concentrico (cfr. Leggi, X, 897 e-898 a; Timeo, 34 a sgg., 37 a).

Come l’anima guida i corpi celesti? Certo, con ordine e regolarità, ma in un modo che è impercettibile ai sensi corporei ed è percettibile solo con l’intelletto (cfr. Leggi, X, 898 d-e). Ad esempio, guidando il sole, l’anima può farlo in tre possibili modi (o stando dentro al sole e trasportandolo dappertutto, proprio come fa l’anima umana portandoci dovunque in giro; o spingendo con forza corpo con corpo; o guidando il corpo con eccellenti e meravigliosi poteri), ma in un modo o nell’altro - ribadisce l’Ateniese non fornendo in realtà alcuna dimostrazione razionale - l’anima guida l’universo ed è superiore agli astri celesti, è una divinità (cfr. Leggi, X, 898 e-899 a).

Per arginare le difficoltà, i punti oscuri e le impasses di queste riflessioni, in cui speranza e fede giocano un ruolo sempre più rilevante, Clinia è costretto a dire che, se le cose non stanno così come sono state prospettate, giungiamo al culmine della follia (ἄνοια. Cfr. Leggi, X, 898 b).

Essendo l’anima o le anime cause (αἴτιαι) di tutti gli astri, esse non possono che essere divinità e non si può che dar ragione al motto di Talete (riportato poi da Aristotele), secondo cui "tutto è pieno di dèi" (θεῶν εἶναι πλήρη πάντα. Cfr. Leggi, X, 899 b). In virtù dell’eccellenza dell’anima come "prima creazione di tutte le cose" (cfr. Leggi, X, 899 c), Platone crede di poter dimostrare l’esistenza della divinità, ma è evidente che il suo discorso non può risultare sino in fondo convincente e probante, proprio perché non dimostra e non fonda davvero la validità di quello che è il punto di partenza, la premessa fondamentale del suo ragionamento.

Ciò nonostante, col coraggio e l’ardimento del filosofo autentico, Platone va avanti imperterrito, prosegue tenacemente nel compito intrapreso e cerca pure di esortare e convincere coloro che credono nell’esistenza degli dèi, ma ritengono che essi non si occupino delle faccende umane (cfr. Leggi, X, 899 d). L’Ateniese s’assume il compito con convinzione e promette a Clinia e Megillo che farà loro attraversare il fiume delle difficoltà logiche (cfr. Leggi, X, 900 c). Più volte nelle Leggi l’autore evoca il potere "incantatore" e seduttivo, persuasivo e ammaliatore della parola, la necessità di un buon "incantatore" (ἐπωδός) logico in grado di trascinare coi discorsi chiunque oltre gli ostacoli (cfr. Leggi, II, 664 b, 665 c, 666 c, 671 a; VI, 773 d; VII, 812 c; VIII, 837 e; X, 903 b; Fedone,117 e).

Anche qui però il tentativo di "dimostrazione" dell’Ateniese presuppone e dà per scontato proprio ciò che in realtà si tratterebbe di dimostrare, ossia il fatto che gli dèi - essendo "buoni" (ἀγαθοί) in tutte le virtù - non possono che aver cura (ἐπιμέλεια) di tutto, una cura che appartiene profondamente alla loro natura (cfr. Leggi, X, 900 c-d); la trascuratezza (ἀμέλεια) delle cose umane non può riguardare gli dèi, perché essi possiedono ogni virtù (cfr. Leggi, X, 900 d-e). L’esistenza degli dèi viene qui incontro al profondo bisogno umano di sicurezza e di protezione, di assicurazione illimitata sulla propria vita.

A questo proposito l’Ateniese cita a sostegno delle proprie tesi un passo dalle Opere e giorni (303-306) di Esiodo in cui quest’ultimo afferma che dèi e uomini avversano coloro che vivono inoperosi, simili ai fuchi senza pungiglione che consumano la fatica delle api. Ora, secondo l’Ateniese, come risulta dal passo esiodeo, avendo in odio gli oziosi, palesemente gli dèi avversano ogni inoperosità e non possono essi stessi essere oziosi e indifferenti alle faccende umane (come poi saranno anche gli dèi beati di Epicuro e degli epicurei). Nessuna indulgenza merita chi sostiene simili posizioni (cfr. Leggi, X, 901 a) e infatti le Leggi prevedono pene severe - come il carcere, le frustate e persino la morte - contro gli empi e gli atei.

6. Le parti e la totalità. Il gioco umano nel gioco più ampio.

L’Ateniese continua il suo discorso sottolineando che gli dèi conoscono, vedono e odono tutto, a loro non sfuggono né le sensazioni (αἰσθήσεις) né le scienze (ἐπιστῆμαι); essendo buoni e ottimi, non possono partecipare dell’inerzia, dell’indolenza e della viltà degli uomini (cfr. Leggi, X, 901 d-e). Gli dèi non sono certo da meno degli artigiani mortali e - come i muratori costruiscono sapendo che le pietre grandi non possono essere posizionate bene senza il concorso delle piccole - così essi si prendono cura delle cose piccole e grandi, che tutte hanno la loro necessità (cfr. Leggi, X, 902 e-903 a).

Presentandosi ancora una volta come grande incantatore (ἐπωδός) logico capace di sedurre,persuaderee ammaliare coi suoi discorsi (λόγοι), l’Ateniese afferma che "colui che si cura del tutto ha tutto disposto per la salvezza (σωτερία) e la virtù (ἀρετή) della totalità, di cui anche ciascuna parte subisce e fa per quanto possibile ciò che le conviene" (Leggi, X, 903 b). A tutte le parti sono preposti dei capi (ἄρχοντες) piuttosto misteriosi - forse divinità o demoni (cfr. Fedro, 247 a; Politico, 271 d; Leggi, IV, 717 b; V, 747 e; X, 903 b, 906 a; Epinomide 984 e-985 a) - che le conducono alla realizzazione.

A questo punto, a proposito delle parti del grande Tutto, c’imbattiamo in un passo straordinario che conviene citare per intero:"una parte è anche la tua, o misero (ὦ σχέτλιε), e tende e guarda sempre al tutto, per quanto sia piccolissima; e ti sfugge, proprio in relazione a ciò, che ogni creazione avviene per quel fine, cioè affinché vi sia come fondamento nella vita dell’universo un’essenzadi felicità (εύδαίμον οὐσια),enonavvieneperte,ma tu per quello" (Leggi, X, 903 c) [8].

L’arroganza e la volontà di potenza dell’uomo pretendono che la terra sia fatta per noi, per venir incontro ai nostri scopi, bisogni e desideri; molte sono le nostre illusioni e a noi sfugge molto spesso una visione lucida delle cose; in realtà, non per noi si svolge la vita cosmica, ma noi siamo generati per essa, per il cosmo inteso come natura animata (ἔμψυχος φύσις).

La divinità è un πεττευτής, un giocatore di dama che dispone del destino (μοῖρα) migliore o peggiore di ciascuno, a partire dal carattere proprio di ciascuno (cfr. Leggi, X, 903 d-e). Essa sposta "il carattere divenuto migliore in un posto migliore, quello divenuto peggiore invece in un posto peggiore, ciascuno di essi secondo ciò che conviene, affinché ottenga il destino che gli spetta" (Leggi, X, 903 d-e).

Riferendosi quasi sicuramente a ciò che era stato esposto nel Timeo (42 b-c) circa i tre stadi della reincarnazione dell’anima, Platone sostiene che, in base alla qualità migliore o peggiore di ciascuna anima - qualità da essa liberamente assunta -, la divinità dispone quali sedi e luoghi essa debba cambiare e abitare (cfr. Leggi, X, 904 a-c).

L’uomo dunque non è un burattino passivo, ma nella sua libertà è comunque una sorta di giocattolo (παίγνιον) fabbricato dagli dèi, non si sa se per gioco o per uno scopo serio (cfr. Leggi, I, 644 d-e; VII, 803 c, 804 b) e si tratta dunque per noi di giocare bene, nel miglior modo possibile i nostri giochi all’interno del più ampio gioco cosmico che ci concerne.

Noi siamo per lo più e in gran parte marionette (θαύματα) di un dio, strane e meravigliose creature che non possiedono la verità, ma sono aperte ad essa, la ricercano, la amano e "partecipano a una piccola parte di verità" (σμικρὰ δὲ ἀληθείας ἄττα μετέχοντες. Cfr. Leggi, VII, 804 b).

7. Libertà e verità.

Subendo il fascino della divinità, noi teniamo lo sguardo rivolto verso di essa, ossia non verso un oggetto, una cosa, un idolo, ma verso l’orizzonte infinito della verità, una verità inoggettivabile che amiamo e ricerchiamo senza mai poterla interamente possedere.

L’uomo privo di anelito verso la verità, ossia senza lo spirito di servizio alla verità, manda in rovina sé stesso e la città intera. Ecco perché, alludendo al detto del sofista Protagora secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose, l’Ateniese afferma che è la divinità - non l’uomo - la misura (μέτρον) di tutte le cose: "Qual è il modo di agire (πρᾶξις) che è caro e conforme alla divinità? Uno solo, quello che contiene un unico antico precetto, e cioè che il simile è caro al simile se ha la giusta misura, mentre le cose che sono senza misura non si amano fra loro né sono amate da ciò che ha misura. La divinità è per noi misura di tutte le cose, assai più di quanto lo sia, come si suol dire, l’uomo: pertanto chi intende diventare caro a un simile essere è necessario che cerchi quanto più può di farsi simile ad esso, e secondo questo ragionamento colui che fra noi è moderato è caro alla divinità perché le è simile, chi invece non è moderato e giusto le è dissimile e ne diverge, e lo stesso vale per ogni altra cosa" (Leggi, IV, 716 c-d; cfr. anche Cratilo, 385 e-386 a; Teeteto, 152 a).

La divinità richiede un modo umano di agire conforme ad essa; per noi si tratta di farci simili ad essa e l’unico modo possibile di farlo è vivere secondo la giusta misura; senza misura, infatti, regnano la discordia, l’arroganza, la sopraffazione, la violenza, l’ingiustizia, la stoltezza, ossia la più assoluta non-verità; senza giusta misura gli uomini non riescono ad amrsi reciprocamente né a farsi amare da ciò che ha misura; vivere secondo moderazione, giustizia, saggezza, temperanza e coraggio è l’unico vero modo di essere cari alla divinità, di servire la verità, di essere autenticamente uomini.

Cerchiamo di interpretare, con Platone e oltre Platone. Sostenere che gli uomini - al pari del cosmo - sono marionette, giocattoli, "proprietà (κτήματα) degli dèi" (cfr. Leggi, X, 902 b, 906 a; Fedone, 62 b; Crizia, 109 b) significa da un lato per Platone ricordare ai mortali la loro condizione di finitezza, il senso del vincolo, del limite, della misura, del destino, il fatto che essi sono ineluttabilmente sottoposti alla legge di ἀνάγκη (necessità); neppure la divinità, del resto, può combattere, forzare e vincere contro la necessità, come aveva ricordato Socrate nel Protagora citando un verso di Simonide divenuto proverbiale (cfr. Leggi, V, 741 a; VII, 818 d-e; Protagora, 345 d).

D’altro lato significa pure valorizzare pienamente la libertà umana, rammentare il fatto essenziale che gli uomini operano liberamente le loro scelte di vita e sono responsabili delle loro azioni. Siamo liberamente in gioco nel gioco più ampio che ci concerne, sapendo che tutte le cose umane dipendono dalla divinità, dalla sorte (τύχη), dall’occasione (καιρός) e dall’arte (τέχνη), per cui molti sono i fattori di incertezza nelle vicende umane, la storia non è prevedibile con certezza e i mortali non riescono mai del tutto a comprendere il proprio destino e a controllare la loro storia [9] .

Nel gioco più ampio che non possiamo modificare, a noi è consentito svolgere i nostri giochi, sperando che siano bei giochi, ma sapendo pure lucidamente che vi è tanto male nel mondo, che esso è in qualche misura ineliminabile e che dunque con esso avremo sempre a che fare. Certamente, ci è possibile ridurre e combattere il male e le ingiustizie del mondo: è questo il compito essenziale dell’uomo. Vi è dunque uno spazio e un ruolo importante della libertà umana, che è però sempre - per dirla con Jean-Paul Sartre - una "liberté en situation".

La divinità è come un re (βασιλεύς) intento a contemplare il fatto che nel mondo umano le azioni sono un prodotto dell’anima e che in esse vi è molta virtù e molto vizio, "ma ha lasciato alla volontà di ciascuno di noi le cause del generarsi di una certa qualità. Infatti ciascuno di noi per lo più, nel modo in cui desideri e quale essendo nell’anima, per così dire in questo modo e tale diventa ogni volta" (cfr. Leggi, X, 904 a-c).

Infatti tutto ciò che è animato possiede in sé stesso la causa del proprio cambiamento "e mutando si muove secondo l’ordine e la legge del destino (εἰμαρμένη)" (cfr. Leggi, X, 904 c).

Nel mito di Er della Repubblica la "figlia della Necessità", la Moira Lachesi (Moira in greco significa letteralmente "porzione" e indica la durata di vita assegnata a ciascuno, il suo destino. Cfr. anche Leggi, XII, 960 c-d) afferma: " Non sarà un demone a scegliere voi, ma voi sceglierete il demone. (...) La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà una parte maggiore, se le tributerà onore, o minore nel caso contrario. La responsabilità è di chi sceglie: un dio non è responsabile (θεὸς ἀναίτιος)" (Repubblica, X, 617 e).

8. La giustizia divina.

La divinità - come τὸ ἀγαθόν (ciò che è buono) - è responsabile delle poche cose positive, non certo di quelle negative, che ci affliggono in maggior numero e di cui siamo noi colpevoli (cfr. Repubblica, II, 379 e-380 c).

Già dalla Repubblica sappiamo che Platone prende posizione contro le narrazioni mitiche sugli dèi e sugli eroi, in particolare ritiene che gli odii e le lotte narrate circa gli dèi e gli eroi siano diseducativi per i giovani. Le storie di questo genere raccontate dai poeti e pure dal grande Omero non possono essere ascoltate nelle città: "le storie di Era incatenata dal figlio, di Efesto gettato giù dal padre mentre si accingeva a difendere la madre percossa, e tutte quante le battaglie degli dèi composte da Omero, non devono venir ammesse nella città, che abbiano o meno un senso nascosto. Un giovane infatti non è in grado di giudicare quel che è il senso nascosto e quello che non lo è, ma ciò che ha accolto a questa età fra le sue opinioni suole diventare incancellabile e inalterabile. Proprio in vista di questo bisogna far sì in ogni modo che i primi racconti da loro ascoltati siano i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù" (Repubblica, II, 378 d-e).

Essendo concentrato in dio tutto ciò che vi è di migliore e più alto, essendo dio perfetto, non è soggetto a mutamento, non è in alcun modo alterabile; allo stesso modo, le anime più coraggiose e assennate dovranno essere altrettanto inalterabili, esse stesse divine, per quanto agli uomini è concesso (cfr. Repubblica, II, 380 d-381 a, 383 c). Il dio (ὀ θεός) non può neppure volere trasformarsi né ricevere forme molteplici, ognuno degli dèi permane nella semplicità della sua forma, in quanto dotato della massima bellezza e perfezione possibile (cfr. Repubblica, II, 381 c); si tratta di un dio di stampo antropomorfico, ma che "agisce" e "parla", a differenza dei semplici mortali, in modo perfetto, al punto che Platone scrive: "Il dio è (...) del tutto semplice e veritiero sia nelle opere sia nelle parole (ὀ θεὸς ἀπλοῦν καὶ ἀληθὲς ἔν τε ἔργω καὶ λόγω), e non muta sé stesso né inganna gli altri, con immagini fantasmatiche o con discorsi o con l’invio di segni, nella veglia o nel sogno" (Repubblica, II, 382 e).

Platone ribadisce più volte, con convinzione, il fatto che gli dèi sono provvidenti e non ci trascurano, tant’è vero che, se diventiamo peggiori, noi finiamo a causa loro in un posto peggiore, se invece diventiamo migliori ci spostiamo grazie a loro in un luogo eminente e migliore.

Insomma, la familiarità (ὀμιλία) dell’anima con la virtù determina il suo passaggio in un luogo eminente e la sua assimilazione alla divinità. Questa è l’aurea sentenza (δίκη) degli dèi a cui nessuno può sfuggire, osserva Platone citando Omero (cfr. Omero, Odissea, XIX 43 e Leggi, X, 904 d-905 b; IV, 716 c-d).

Dopo una lunga insistenza sul fatto che gli dèi esistono e si curano delle vicende umane, nel X libro delle Leggi Platone conclude il suo discorso teologico cercando di confutare la tesi della placabilità e corruttibilità degli dèi tramite preghiere e doni (cfr. Leggi, X, 904 d sgg.). Per l’Ateniese tale tesi è insostenibile perché - mentre i mortali sono un "possesso" degli dèi e dei demoni - gli dèi, coi demoni, sono capi (ἄρχοντες) seri e responsabili, dediti alla massima sorveglianza circa la battaglia immortale tra i molti beni e i molti mali che ci riguardano, fra le tendenze opposte che non cessano e non cesseranno mai di caratterizzare la nostra vita (cfr. Leggi, X, 905 e-906 a).

9. Il nesso platonico fra il discorso teologico e quello etico-politico, "psicologico" e giuridico.

Qui tocchiamo un punto assai importante e interessante, risulta chiaro il nesso essenziale vigente fra il discorso teologico di Platone e le implicazioni "psicologiche" ed etico-politiche. C’è un fondo insieme psicologico, etico-politico e giuridico, normativo-istituzionale del discorso teologico platonico.

Siamo qui in piena sintonia con l’interpretazione di Paul Ricoeur che rintraccia anche nei grandi miti escatologici presenti nel Gorgia (522 e-527 e), nel Fedone (107 d-115 a), nella Repubblica (X, 614 a-621 d) e nel Fedro (246 a-257 b) "una funzione di verità all’interno di una conoscenza etica dell’anima attraverso l’anima. I miti escatologici sono allora ricollocati da Platone nella prospettiva pratica di una ricerca della giustizia tra i viventi"  [10].

A sostegno della sua interpretazione, Ricoeur cita opportunamente un passo significativo del Fedone che suona: "Ma a questo punto, dal momento che è apparso chiaramente che l’anima è immortale, per essa non ci può essere nessun altro mezzo di fuga dai mali e di salvezza che quello di diventare buona e saggia" (Fedone, 107 c-d) [11].

Anche noi mettiamo l’accento su questo aspetto etico-pratico e pure, diremmo oggi, "psicologico". Platone è profondamente convinto del fatto che la vita psichica umana sia un campo di battaglia sempre aperto, in cui vi è da sostenere una dura lotta interiore circa le tendenze e disposizioni migliori e peggiori che, tutte, sono sempre presenti in noi e mai ci abbandonano. In un certo senso e a suo modo, possiamo dire che Platone precorre e anticipa qui la tematica freudiana della complessità della vita psichica e della sua tripartizione in Io, Es e Super-Io.

In noi avviene sempre una faticosa lotta interiore, in cui "ognuno è nemico di sé stesso" e occorre sempre di nuovo "vincere sé stessi": "vincere sé stessi è la prima e la più bella delle vittorie, soccombere a sé stessi è la più infamante e la più squallida delle sconfitte. Questo equivale a dire che dentro ognuno di noi è in atto una guerra intestina. (...) Dal momento che ciascuno di noi o vince sé stesso o da sé stesso è vinto, dobbiamo o non dobbiamo immaginare che analoga situazione si verifichi nell’ambito di una famiglia, di una borgata, di una città?" (Leggi, I, 626 d-e).

C’è sempre una strenua lotta da sostenere in noi stessi e tale lotta avviene sia all’interno di ogni individuo sia in un contesto politico-sociale più ampio. Già nella Repubblica, dopo aver sottolineato il nesso importante fra giustizia (δικαιοσύνη) e moderazione (σωφροσύνη), Platone osserva che la moderazione è una forma di ordine (κόσμος) e di autocontrollo (ἐγκράτεια) consistente nella capacità di "essere più forti di noi stessi", ossia di far prevalere gli elementi migliori sugli elementi peggiori che sono in noi; quando invece prevalgono gli elementi peggiori, l’uomo diventa "più debole di sé stesso" e intemperante. Pochi però sono coloro che riescono in tal modo a padroneggiare sé stessi (cfr. Repubblica, IV, 430 d-431 c).

Ciò che in ambito politico si chiama ingiustizia (ἀδικία) e che è un cancro delle nostre città (ieri come oggi), sorge a partire dalla πλεονεξία, "l’aspirazione ad avere di più", ad accumulare senza limiti ricchezze, potere, privilegi, onori, fama (cfr. Leggi, X, 906 c).

In più luoghi Platone sottolinea l’inconciliabilità del possesso di ricchezze eccessive con la giustizia e la felicità; è impossibile essere nel contempo molto ricchi e molto retti, onesti; gli uomini molto ricchi e dediti esclusivamente all’accumulazione delle ricchezze non possono essere veramente felici, perché finiscono col trascurare i beni essenziali della vita umana; vi è una peculiare cecità della ricchezza (non a caso Pluto, il dio della ricchezza, era cieco), se non è accompagnata dalla φρόνησις (saggezza), che è al primo posto fra i beni divini, insieme a σωφροσύνη (temperanza, moderazione), δικαιοσύνη (giustizia) e ἀνδρεία (coraggio) (cfr. Leggi, I, 631 c-d; V, 742 a-743 c).

L’uomo caro a Platone non è φιλοχρήματος, non è mai amante delle ricchezze in modo spropositato (cfr. Repubblica, VI, 485 e). La sintesi platonica su questo punto è la seguente, con le sue stesse parole: "Ci rovinano l’ingiustizia (ἀδικία) e la tracotanza (ὔβρις) congiunte alla stoltezza (ἀφροσύνη), mentre ci salvano la giustizia e la moderazione congiunte all’intelligenza, che dimorano nelle potenze mentali degli dèi, ma di esse si potrebbe vedere chiaramente che qualche piccola traccia dimora anche qui da noi" (Leggi, X, 906 a-b).

Per Platone l’uomo è lontano dal divino e dall’assimilazione ad esso quando non vive secondo ragione, saggezza, moderazione, temperanza, senso della giustizia, coraggio, quando la sua vita individuale e collettiva lascia prevalere l’ingiustizia, la tracotanza, la stoltezza, la sfrontatezza, l’iniquità, la brutalità.

E’ evidente come nel suo pensiero il discorso teologico sia strettamente legato e rinvii necessariamente alla resa dei conti d’ogni anima con sé stessa, al discorso etico, politico e giuridico, normativo-istituzionale.

10. Il divino come immenso ambito della verità umana.

Al tempo stesso non troviamo mai nel pensiero platonico una totale identificazione fra l’umano e il divino, ma fra essi vi è sempre uno scarto. Gli uomini possono essere sì in qualche misura essi stessi divini, sempre però nei limiti della condizione umana, per quanto possibile e fino ad un certo punto (cfr. Repubblica, II, 383 c). Da parte dell’uomo si presenta si presenta costitutivamente un’aspirazione, una tensione irrisolta, un costante anelito, un tentativo di assomigliare al divino, ma mai una piena identificazione con esso, mai una piena soddisfazione e "realizzazione".

A proposito dell’ulteriorità dell’idea del buono, del suo carattere in qualche modo "divino" come "principio del tutto" (cfr. Repubblica, VI, 511 b), ha rilevato opportunamente Mario Vegetti: "L’ulteriorità dell’idea del buono rispetto al piano dell’esistente tanto noetico-ideale quanto storico-empirico determina (...) un punto di vista critico-negativo che segnala l’infondatezza assiologica dell’esistente stesso, l’impossibilità che un qualsiasi suo stato pretenda il possesso o la realizzazione esaustiva del ’buono’ " [12].

Questa stessa tensione nel contempo irrisolta e fertile coincide poi per Platone con l’amore per la verità, con l’eros filosofico del Simposio, col compito specifico della filosofia, posto che il divino non è oggettivabile e s’identifica con quanto vi è di più alto, nobile e grande nell’uomo e nell’universo intero.

Su tale eros filosofico platonico ha scritto mirabilmente Enzo Paci nel suo saggio Il significato della dialettica platonica (1958): -"L’alterità (...) è caratterizzata dalla situazione erotico-dialettica: l’eros è sempre eros con l’altro da sé ed è eros con l’altro da sé pèerché non possiede l’idea e perché non riduce l’altro a puro non essere, a puro nulla. Infatti, nel Simposio, è nell’incontro delle alterità che l’eros è creatore di vita ed è tale se questo incontro avviene nella visione dell’idea e non nel possesso ontologico dell’idea. Proprio in quanto non posseduta l’idea è il valore teologico del mondo e dell’alterità creatrice del divenire: gli esseri umani sono fecondi nella bellezza (Simposio 206 b-c) perché scoprono la propria povertà (Eros è figlio di Penia e di Poros) di fronte all’alterità e all’idea" [13].

Qualsiasi meschinità (σμικρολογία) resta lontana da "un’anima sempre tesa verso l’intero e il tutto del divino come dell’umano" (cfr. Repubblica, VI, 486 a). Ed è proprio questo il compito del pensatore: osare pensare, alzare lo sguardo verso il tutto del divino -comunque lo si intenda - e dell’umano.

Dopo Platone, dopo la crisi della metafisica classica e il grande soffio di rinnovamento della teologia novecentesca (si pensi soltanto a teologi come Bonhoeffer, Rahner, Küng o alle molteplici forme assunte nella seconda metà del Novecento dalla cosiddetta "teologia della liberazione"), oggi il divino per noi non è più soltanto il mero ambito della trascendenza metafisica classica, non coincide con la semplice concezione di un Dio super-Ente, summum Ens o Ens perfectissimum, ma rinvia piuttosto all’immenso ambito della verità incommensurabile e impadroneggiabile, una verità che possiamo comunque ricercare, amare e di cui possiamo vivere qualcosa, respirare l’aria.

In nome e al servizio della verità, noi oggi siamo chiamati non solo a proteggere e a salvaguardare la casa comune, la natura, ma pure a proteggere e a salvaguardare gli uomini da sé stessi, dalle loro più diaboliche tentazioni, dalle loro forze e pulsioni peggiori, dal male e dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla tracotanza che sono in noi da tempi immemorabili ed esigono una lucida, strenua, forse disperata vigilanza.

Monte Armano-Piacenza, agosto-settembre 2015

[1] 1 Platone, Leggi, V, 730 c, "Introduzione" di F. Ferrari, "Premessa al testo" di S. Poli, trad. it. di F. Ferrari e S. Poli, "Note" di S. Poli, BUR Rizzoli, Milano 2007, pp. 398-399 (trad. it. leggermente modificata). A questa edizione dell’opera noi per lo più qui faremo riferimento.

[2] 2 E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 96.

[3] 3 Per quanto riguarda quest’opera, faremo qui riferimento alla seguente edizione: Platone, La repubblica, a cura di M. Vegetti, BUR Rizzoli, Milano 2010.

[4] 4 M. Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano 2010, pp. 45-46.

[5] 5 S. Poli, "Note", in Platone, Leggi, cit., pp. 864-865.

[6] 6 E. Gilson, God and philosophy (1941), trad. it. di M. Levi rivista da A. Livi, Dio e la filosofia, "Introduzione" di A. Livi, Editrice Massimo, Milano 1984, pp. 44-45.

[7] 7 L’espressione, riferita innanzitutto a Platone e alla sofistica, è di Carlo Sini nel suo libro Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, il Saggiatore, Milano 1981, pp. 293-295.

[8] 8 Questo passo delle Leggi, X, 903 c, in una traduzione più libera e suggestiva, è stato acutamente commentato da Umberto Galimberti nel suo scritto E se cambiassimo punto di vista?, "D la Repubblica", 20 giugno 2009, p. 170.

[9] 9 Cfr. Leggi, IV, 709 a-c e R. Muller, La doctrine platonicienne de la liberté, Paris 1997, p. 273.

[10] 10 Cfr. P. Ricoeur, Être, essence et substance chez Platon et Aristote. Cours professé à Strasbourg en 1953-1954, trad. it. e a cura di L. M. Possati, Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele. Corso professato a Strasburgo nel 1953-1954, Mimesis, Milano 2014, pp. 158-160.

[11] 11 Platone, Fedone o Sull’anima, trad. it. e a cura di A. Tagliapietra, Saggio critico di E. Tetamo, Feltrinelli, Milano 1994, p. 211.

[12] 12 M. Vegetti, "Introduzione" a Platone, La repubblica, a cura di M. Vegetti, BUR Rizzoli, Milano 2010, p. 172.

[13] 13 E. Paci, Il significato della dialettica platonica (1958), in Relazioni e significati III. Critica e dialettica, Lampugnani Nigri, Milano 1966, p. 218.


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