[...] Il rifiuto dello straniero, la designazione dell’Islam come capro espiatorio, la chiusura delle frontiere
mentali prima ancora che geografiche: i populismi odierni si riconoscono in tutto questo ma la
xenofobia non è tutto, non spiega la natura profonda della loro seduzione.
All’origine c’è una
volontà ripetitiva, sistematica, di non sapere, non vedere la Grande Trasformazione in cui stiamo
entrando comunque. C’è una strategia dell’ignoranza, come sostiene il professore di linguistica
Robin Lakoff, un desiderio di fermare il tempo [...]
Il populismo che si nutre di ignoranza
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 27 aprile 2011)
Quando Obama vinse le elezioni, nel 2008, furono molti a esser convinti che una grande trasformazione fosse possibile, che con lui avremmo cominciato a capire meglio, e ad affrontare, un malessere delle democrazie che non è solo economico. La convinzione era forte in America e in Europa, nelle sinistre e in numerosi liberali. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 sembrava aver aperto gli occhi, preparandoli a riconoscere la verità: il capitalismo non falliva.
Ma uno scandaloso squilibrio si era creato lungo i decenni fra Stato e mercato. Il primo si era ristretto, il secondo si era dilatato nel più caotico e iniquo dei modi. Lo Stato ne usciva spezzato, screditato: da ricostruire, come dopo una guerra mondiale.
Le parole di Obama sulla convivenza tra culture e sulla riforma sanitaria annunciavano proprio questo: il ritorno dello Stato, nella qualità di riordinatore di un mercato impazzito, di garante di un bene pubblico minacciato da interessi privati lungamente dediti alla cultura dell’illegalità. Non era un’opinione ma un fatto: senza l’intervento degli Stati, le economie occidentali sarebbero precipitate. Un’economia non governata non è in grado di preservare lo Stato sociale riadattandolo, di tenere in piedi l’idea di un bene pubblico che tassa i cittadini in cambio di scuole, ospedali, trasporti, acqua, aria pulita, pensioni per tutti.
Quel che sta accadendo oggi non smentisce i fatti. Li occulta, li nega, con il risultato che i cittadini si sentono abbandonati, increduli, assetati di autorità che semplifichino le cose con la potenza del vituperio. Intervenendo per sanare il mercato, Stati e governi hanno adottato misure forse corrette ma il momento della verità l’hanno mancato, con il consenso delle opposizioni. Hanno mancato di dire che al mondo di ieri non torneremo, e che gli sforzi fatti oggi daranno frutti lentamente, perché lenta e lunga è stata la malattia capitalista. Di qui il dilagare di populismi di destra, in Europa e America, e la forza ipnotica che essi esercitano sulle opinioni pubbliche.
Prima ancora che la crisi finanziaria divenisse visibile fu l’Italia a negare i fatti, con Berlusconi e Lega. L’Italia è stato il laboratorio di forze che ovunque, oggi, sono in ascesa: in Belgio il Vlaams Belang (Interesse fiammingo), in Olanda il partito anti-islamico di Geert Wilders, in Ungheria il Fidesz, in Francia il Fronte di Marine Le Pen, in Finlandia i Veri Finlandesi.
Il rifiuto dello straniero, la designazione dell’Islam come capro espiatorio, la chiusura delle frontiere mentali prima ancora che geografiche: i populismi odierni si riconoscono in tutto questo ma la xenofobia non è tutto, non spiega la natura profonda della loro seduzione.
All’origine c’è una volontà ripetitiva, sistematica, di non sapere, non vedere la Grande Trasformazione in cui stiamo entrando comunque. C’è una strategia dell’ignoranza, come sostiene il professore di linguistica Robin Lakoff, un desiderio di fermare il tempo: «L’attrattiva dei populisti scaturisce da un affastellarsi di ignoranze: ignoranza della Costituzione, ignoranza dei benefici che nascono dall’unirsi in sindacato, ignoranza della scienza nel mondo moderno, ignoranza della propria ignoranza» (Huffington Post, 30 marzo 2011).
Il vero nemico dei nuovi populismi è la democrazia parlamentare, con il suo Stato sociale e la sua stampa indipendente. Di qui le incongrue ma efficaci offensive antistataliste contro Obama, nel preciso momento in cui l’economia ha più bisogno dello Stato. Di qui il diffuso fastidio per la stampa indipendente, quando più ci sarebbe bisogno di cittadini responsabili, quindi bene informati. A tutti costoro i populisti regalano illusioni, cioè il veleno stesso che quattro anni fa generò la crisi.
Ai drogati si restituisce la droga. Cos’è d’altronde l’illusione, se non un gioco (un ludus) che dissolve la realtà nelle barzellette sconce quotidianamente distillate dal capo? Cos’è il fastidio per la stampa indipendente, se non strategia che azzera la conoscenza dei fatti? Meglio una barzelletta del potente che una notizia vera sul potente.
L’Italia è all’avanguardia anche in questo campo: la concentrazione dell’informazione televisiva nelle mani di uno solo è strumento principe dell’ignoranza militante, e distraente.
In Ungheria l’odioper la stampa impregna il partito del premier Viktor Orbán: le nuove leggi varate dal governo prevedono un’autorità di controllo sui mezzi di comunicazione, composta di cinque esponenti nominati dal partito di maggioranza. All’autorità spetta di verificare se la stampa è «equilibrata e oggettiva», di decidere multe o chiusure di giornali o programmi tv, di imporre ai giornalisti la rivelazione delle fonti se sono in gioco «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico».
Anche lo straniero come capro espiatorio è gioco d’illusione, feroce, con la realtà multietnica in cui già da tempo viviamo. Il fenomeno non è nuovo. Negli anni ’20-’30, la Germania pre-nazista esaltò il Blut und Boden, il sangue e la terra, come fonte di legittimazione politica ben più forte della democrazia.
Oggi lo slogan è imbellito - si parla di radicamento territoriale, davanti a una sinistra intimidita e plaudente - ma la sostanza non cambia. La brama di radici, ancora una volta, impedisce il camminare dell’uomo e lo sguardo oltre la propria persona, il proprio recinto. Consanguineità e territorio divengono fonti di legittimazione più forti della Resistenza.
Helsinki ladrona, Roma ladrona, Washington ladrona: si capisce da questo slogan (lo stesso in Finlandia, Italia, America) come l’anti-statalismo sia centrale. Come la xenofobia sia il sintomo più che la causa del male. Vedendo che la crisi perdura, le popolazioni hanno cominciato a nutrire un’avversione radicale verso l’idea stessa di uno spazio pubblico dove la collettività, tassandosi, difende i più deboli, i più esposti. I populisti non temono di contraddirsi, anzi. D’un sol fiato si dicono antistatalisti e promettono uno Stato controllore, tutore dell’etnia pura, normalizzatore delle coscienze e delle conoscenze.
I sondaggi sul successo del Tea Party, il movimento neoliberista Usa, lo confermano. La molla decisiva non è il razzismo: è il rigetto della riforma sanitaria di Obama, del principio dell’etica pubblica. L’etica pubblica mette tutti davanti alla stessa legge, perché nessun interesse privato abbia la meglio.
Lo Stato etico dei populisti impone il volere del più forte: Chiesa, lobby, etnia. Lo chiamano valore supremo, non negoziabile. In realtà è puro volere: suprema volontà di potenza. Come mai le cose sono andate così? Come mai Obama può perdere le elezioni? In parte perché i governi hanno sottovalutato l’enorme forza del risentimento.
In parte perché non hanno spiegato quel che significa, nel mondo globalizzato, salvare il bene pubblico. Ma è soprattutto la verità che hanno mancato: sono quattro anni che descrivono la crisi come superabile presto, il tempo d’arrivare alle prossime elezioni. Obama stesso ha omesso di spiegarla nella sua lunga durata: come qualcosa che trasformerà le senescenti società occidentali, che le obbligherà a crescere meno e integrare giovani immigrati, se non vorranno scaricare i propri anziani come il vecchio capofamiglia sulla sedia a rotelle che i nazisti gettano dalla finestra nel Pianista di Polanski. Per paura elettorale i governanti celano la verità, e ora pagano il prezzo.
Anche l’Europa ha la sua parte di colpe. Gli strumenti li avrebbe: può usare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, contro le infrazioni antidemocratiche in Italia o Ungheria. Può costruire una politica dell’immigrazione, avendone ormai la competenza. Se non lo fa, è perché non guarda ad altro che ai parametri economici. Perché è indifferente all’ethos pubblico. Perché quando esercita un potere, subito se ne pente. Perché dimentica che anch’essa è nata nella Resistenza.
Nel momento in cui la sua fonte di legittimazione politica è usurpata (al posto della Resistenza: il radicamento territoriale) l’Europa ammutolisce. Ha vergogna perfino delle cose non sbagliate che ha fatto: del comportamento che ebbe nel 2000, ad esempio, quando i neofascisti di Haider divennero determinanti nelle elezioni austriache del ’99.
Non mancarono certo gli errori: troppo presto si usò l’arma ultima delle sanzioni, presto abbandonate. Ma anche se disordinatamente, l’Unione almeno reagì, s’inalberò. L’Austria fu costretta a riaprire ferite tenute nascoste, a discutere colpe sempre negate, e il suo volto cambiò. Se l’Unione è così invisa ai populismi vuol dire che potrebbe far molto, se solo lo volesse.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«Contro i ladri del tempo fermiamoci!»
Colloquio con Salvatore Natoli
a cura di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 29 aprile 2011)
La nostra ormai è una società inarrestabile. Dissipativa e cumulativa al contempo. Con immense perdite. La “soggettività” innanzitutto... ». Prime battute di una conversazione con Salvatore Natoli, 68 anni, nato a Patti in Sicilia, filosofo teoretico alla Bicocca di Milano. Tema: il tempo. E a cominciare da quello quotidiano e non metafisico. Il tempo del lavoro, e quello negato del nonlavoro. Come nel caso del lavoro obbligatorio che rischia di travolgere anche la festa del primo maggio.
Che intende Natoli? Questo: «Da un lato c’è il lavoro coatto a ritmi rigidi, come alla nuova Fiat: l’iperlavoro. Dall’altro il tempo vuoto del precariato, intervallato da costrizione al lavoro intermittente e fluido». Morale: «Altro che primo maggio! Non c’è più tempo per la festa in quanto tale come momento di condivisione e di reintegro della soggettività, che è poi sempre un legame con l’altro».
Dunque «soggettività espropriata », compressa dal tempo altrui. E fine del «godimento e di ogni dimensione simbolica e festosa». Eccolo allora, nelle parole di un filosofo «pagano» come Natoli, il nesso tra tempo, lavoro e individualità: il tempo vero, assaporabile, è quello del «lavoro creativo» e del creare insieme. E come dice Aristotele, «più ci si autorealizza e più si è disponibilii per l’altro...». Ideale - quello dell’autonomia «eteronoma» - che ormai non è più consentito, assieme a quella di un tempo proprio, che diventa anche «felicità e potenza» per l’altro, con il quale si è in relazione creativa e scambievole. In altre parole, un conto è la prestazione - nella quale si è dentro una relazione meccanica e parziale - altro il lavoro come elaborazione o creazione: poiesis o praxis che dir si voglia.
Ma, si può obiettare: non è un po’ troppo utopica, marcusiana e magari romantica e schilleriana, questa visione, professore? «Sì, schilleriana nel senso del gioco e dell’amore per l’artefatto. E però allontanarsi troppo da questa dimensione genera costi sociali enormi, infelicità, e cancellazione della soggettività. A beneficio di nevrosi e fantasmi ossessivi, e anche a detrimento della produttività... ». La produttività? Ma non è questo esattamente il mantra di quanti ci ripetono che non c’è tempo per le romanticherie e per i diritti nel mondo globale? «Guardi, molte piccole medie imprese in Lombardia mi convocano spesso per corsi di formazione manageriale. Hanno capito che per fare cose buone ci vogliono relazioni buone, fidelizzazione verso il proprio lavoro, e creatività come frutto di tutto questo...».
Proviamo a ricapitolare. Viviamo in una società del tempo espropriato. Pieno e vuoto, riempito di fantasmi del desiderio alienato: desiderio altrui di profitto ed efficienza. E desiderio proprio immaginario e indotto. Uno spazio dove cresce il rumore e scompare l’intervallo: l’intervallo perduto di cui parla Gillo Dorfles. Società dei flussi, satura di stress e popolata di «miti acquisitivi»: onnipotenti, maniacali, narcisistici, voyeristici. Come quelli dei reality. Finti miti desideranti in tempo irreale, che sono il contrario del vero desiderio. Dove, paradosso enunciato da Natoli, «prevale la perversione senza ribellione. Perché quando tutto è permesso è inutile rivoltarsi. E lo dimostra anche la vicenda di questo premier, tiranno senza ideali che convoca tutti ad un carnevale continuo...».
Scenario un po’ apocalittico, caro Natoli... « No, perché malgrado tutto ci sono energie importanti a far da argine in questa società. Pensi ai giovani che si impegnano sull’economia civile, sui beni comuni, sul volontariato. È tutta gente che ha capito che occorre darsi tempo, regalarsi del tempo a vicenda, per accogliersi e riconoscersi scambievolmente, che è poi il nocciolo dell’unica felicità possibile per i mortali...».
Obiezione, inevitabile: per rendere plausibile tutto questo si dovrebbe mutare tutta la scala dell’economia e delle sue priorità. E non pare proprio aria! «Rispondo che l’economia sta già dimostrando di non poter più funzionare così come adesso. Giacché certi ritmi sono insostenibili ele performances non reggono. E poi c’è lo spettro delle crisi finanziarie, e le immense regioni del pianeta depredate, che rovesciano sul mondo occidentale milioni di disperati impossibilitati a crescere laddove sono nati... ».
Dunque? «Dunque, fermiamoci, diamoci tempo, ciascuno nel suo ambito. E decidiamoci prendere le distanze da questo meccanismo infernale. Per coglierne il limite e riformarlo insieme, su scala più ampia possibile ».
Già, una volta si chiamava socialismo: crescere insieme da eguali... «Parola ancora splendida per me. Per nulla diversa dalla potenza del desiderio condiviso, di cui parlava Spinoza: homo homini deus e non lupus, come in Hobbes. O dalla volontà di potenza di Nietzsche, che non era prepotenza, ma gioia e potenza per ciascuno, elargite dall’uno all’altro. E infine per nulla diversa da un’altra parola chiave. Greca questa volta: la parresia, studiata per primo da Foucault. Significa dire tutta la verità all’altro, e accettare di mettere a rischio la propria vita in questo esercizio di autenticità condivisa. Come Socrate, come i cinici, o come gli stoici».
Bene e allora per finire due consigli di lettura, per ritornare su tutte queste cose. Due libri recenti di Natoli, ovviamente: Il buon uso del mondo (Mondadori) e L’edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore (Laterza). Oltre a quanto detto, ci troverete un concetto di fondo, foucaultiano, che è poi il tema del corso di Natoli alla Bicocca: «La cura di sé». Ovvero, come lavorare ad un Io proprio forte, in accordo con gli altri. Naturalmente ci vuole un po’ di tempo...
Piazza, fascismo e par condicio
di Gianni Vattimo *
I custodi della democrazia parlamentare (non parlo ovviamente di Giuliano Ferrara) che si sono scandalizzati dell’articolo di Asor Rosa sul Manifesto del 13 aprile hanno forse letto meno attentamente un articolo di Juergen Habermas uscito su La Repubblica dello stesso giorno. Le considerazioni di Habermas, meno esplicitamente riferite alla situazione italiana, erano però le stesse di Asor Rosa: prendevano atto (citando persino il New York Times) della crisi irreversibile del sistema democratico parlamentare in cui viviamo noi del “mondo libero”, e tematizzava la dissoluzione sempre più marcata di ogni politica degna di questo nome. Secondo Habermas, solo (forse) l’ideale dell’unità europea, praticato seriamente, potrebbe ancora fornire contenuti significativi per i quali impegnarsi come cittadini. In considerazione di questo, l’articolo concludeva con la tesi che “forse per i partiti politici sarebbe ora di rimboccarsi le maniche” (ahi, ha letto Bersani?) e “scendere in piazza per l’unificazione europea”.
Ciò che colpisce, in un pensatore “moderno” e istituzionalista come Habermas, è proprio l’allusione alla piazza. Proprio un razionalista illuminista come lui, da sempre persuaso che si possa fondare una politica democratica sul dialogo e, in definitiva, le istituzioni (parlamenti, Onu, ecc.), chiamare i partiti a scendere in piazza è un segno che la speranza (o la pazienza) sta venendo meno. Non c’è da aspettarsi che la politica ritrovi un contenuto e un volto decente, capace di non defraudare i cittadini dei loro diritti, se si guarda solo ai parlamenti e alle istituzioni. Asor Rosa, nel suo articolo, è più habermasiano di lui: non invoca la piazza (forse per la semplice ragione che, come l’esperienza italiana insegna, la piazza non ce la fa; Berlusconi resiste perché ha “servi di acciaio” che occupano il parlamento), ma chiede l’intervento costituzionale delle forze dell’ordine: Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza.
Il capo delle forze armate è il Presidente della Repubblica, che è anche il custode della Costituzione. Come ha il potere, uditi i presidenti delle Camere e del Consiglio (ma non ci sarebbe un ennesimo conflitto di interessi, nel caso del cavaliere? Lo “oda” pure, ma non gli dia retta!), di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, così (se leggiamo bene la Costituzione) può decretare lo stato di emergenza e ordinare alle forze dell’ordine di difendere, per l’appunto, l’ordine democratico. Gli esempi che Asor Rosa adduce sono dei più convincenti: sarebbe stato golpe se Vittorio Emanuele III avesse schierato l’esercito contro le milizie fasciste in marcia su Roma, e avesse rifiutato di affidare il governo a Mussolini? Possiamo allora chiedergli di aspettare che il pericolo fascista - anche solo della corruzione dilagante, del trionfo del potere mafioso su cui si regge Berlusconi - diventi più evidente e cioè, ormai, incontrastabile?
Asor Rosa, nell’intervista a La Repubblica (del 14 aprile, ndr), sembra volersi limitare alla messa in luce di una questione di metodo: se la maggioranza parlamentare - di cui sappiamo come è stata reclutata, e persino a che prezzi - calpesta la Costituzione e si rifiuta di essere giudicata dalle autorità competenti, che cosa bisogna fare? Difendere l’ordine democratico con le forze dell’ordine è appunto quel che si deve fare. Se no, di grazia, che cosa? Se Hitler, sia con l’uso dei media di cui illegalmente dispone, sia comprando i voti, o semplicemente perché una maggioranza di cittadini lo preferiscono, vince le elezioni, lo stato democratico non ha mezzi per difendersi? Può una tornata elettorale ordinaria valere come base di legittimità per il cambio della Costituzione? La banda di gangster che oggi occupa il governo dispone, oltre tutto, di una maggioranza estremamente esigua, e con le leggi che approva sta di fatto stravolgendo la Costituzione. Non è ora per il Capo dello Stato di intervenire? Fermi con la forza legale di cui dispone questa inedita marcia (anche nel senso di marciume!) su Roma. Prima che sia troppo tardi. O la sua inerzia significa che, appunto, troppo tardi è già?
Post-scriptum (post-post?)
Forse il mio, ma anche quello di Asor Rosa e Habermas, è solo un problema di salute: s’invecchia, e si diventa insofferenti. Sta di fatto, però, che poco fa ho rifiutato l’ennesimo invito di una televisione privata in cui ho anche degli amici, che mi chiedeva di partecipare a una trasmissione in cui avrei dovuto misurarmi anche con la Santanché. E, cosa ancora più grave, ieri sera sono scappato, subito dopo l’inizio, da Annozero per vedere un film. La parte della Santanché lì era esercitata da Cota. Non faccio queste confessioni per mettere in piazza i miei stati d’animo o di stomaco, ma per chiedere ai non pochi con cui condivido orientamento politico e esili speranze di futuro se non sia il caso di mettersi in sciopero del “dialogo”, in una sorta di Aventino civico che consista nel rifiutare di scendere troppo in basso, per rispetto della dignità e della, sia pur limitata, intelligenza di cui ancora ci sembra di disporre. Se per sentire dire da Santoro alcune verità sullo stato del Paese dobbiamo ascoltare anche - democraticamente - le autentiche turpitudini di figure e figuri come la Santanché, Cota, o persino di quel brav’uomo di Paniz, allora meglio il silenzio, svegliateci quando sarà passata la nuttata, oppure quando verranno ad arrestarci per vilipendio della par condicio.
Par condicio con i banditi, i bugiardi, i credenti nella relazione di parentela di Ruby con Mubarak, i venduti a un tanto al chilo (posti di sottosegretario, o anche solo mutui da pagare...)? Preferiamo riconoscere francamente che il fascismo c’è già; non possiamo sparare, per ora (come dicono Castelli e Speroni), ma almeno siamo coscienti che lì, prima o poi, ci porteranno questi affaristi e delinquenti che occupano il governo del paese in violazione di ogni elementare diritto umano. E l’Europa, che pure ha decretato sanzioni contro l’Austria quando in Carinzia aveva vinto le elezioni il “fascista” Haider, buonanima, tace sullo scempio della democrazia in Italia? Altro che aiuto sull’immigrazione, qui ci sarebbero gli estremi per un intervento armato della Nato... Paradossi, paradossi - come quelli che, secondo la timorata direttrice del Manifesto, sarebbero il vero senso dell’intervento di Asor Rosa, che così risulta solo un’ennesima chiacchiera da “dibattito” in regime di par condicio... Quando ci accorgeremo che l’Italia è (ri)diventata un paese fascista sarà troppo tardi. Magari ci verranno conservati i dibattiti televisivi con la Santanché, finché i nostri stomaci resisteranno...
* Il Fatto Quotidiano: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/16/piazza-fascismo-e-par-condicio/104921/