CARLO LEVI
pittore e medico, scrittore e politico
Le mille vite di un italiano
di Francesco Erbani *
La lettera risale ai primi mesi del 1936. Carlo Levi sta scontando ad Aliano, in Basilicata, gli ultimi scampoli del confino in cui lo ha costretto il fascismo. E’ Paola Olivetti che gli scrive. «Io odio quel paese, quelle argille, quegli esseri primitivi e rituali, quei suoni di cupocupo, tutta quella vita rassegnata e vera». Carlo e Paola si amano da tempo. Hanno lo stesso cognome, ma non sono parenti. Paola è la figlia di Giuseppe Levi, celebre anatomopatologo torinese, e sorella di Natalia, moglie di Leone Ginzburg. Il loro è un legame segreto: Paola è la moglie di Adriano Olivetti e dall’ industriale di Ivrea ha avuto due figli. Sul finire degli anni Trenta dal loro rapporto nascerà una bambina, Anna. E’ un legame segreto, sofferto, ma schietto. «Sarei già morta», scrive ancora a Carlo, «se fossi rimasta come te sepolta da tanti mesi in un gruppo di case lontane dal mondo, fra le donne velate, le capre e le streghe e gli angeli». Quel mondo la sgomenta. E teme che il suo uomo ne resti soggiogato: «Non affondare troppo i tuoi occhi in quelli neri e senza fondo di quella gente alianese».
Paola Olivetti coglie il mutamento d’ orizzonti che il confino lucano sta producendo nel medico e pittore torinese. «Parlami d’ amore, non parlarmi di Aliano», lamenta Paola. Levi, sotto gli occhi della sua donna, vive il confino esattamente come un luogo di discrimine fra l’ ambiente in cui si è formato (la Torino di Gobetti, del pensiero razionale e liberalsocialista) e questo mondo primitivo, dove convivono l’ istinto e la poesia, e da dove Carlo vorrebbe ripartisse, sconfitto il fascismo, il movimento rivoluzionario che deve cambiare l’ Italia di sempre, trasformando con il ricorso alle origini una civiltà corrotta, disumanizzata e che sta infilando la testa nella catastrofe della guerra.
Su quelle lettere, insieme a tanti altri materiali, editi e inediti, è costruita la pregevole biografia di Carlo Levi scritta da Gigliola De Donato e Sergio D’ Amaro (Un torinese del Sud: Carlo Levi, Baldini & Castoldi, pagg. 382, lire 32.000. Sarà il 6 marzo in libreria). Il libro ricompone i tanti pezzi della vicenda intellettuale e umana di Levi e leggendolo si percepiscono i tratti di una personalità fra le più multiformi del nostro Novecento.
In Levi si stratificano diversi linguaggi. Convivono quello positivisticoscientifico degli studi universitari e quello antropologicoculturale, che lo spinge a rincorrere i contadini di Aliano per meglio capire quale potere abbiano i "munachicchi", misteriosi soggetti delle tenebre, ma anche a proporre un piano di bonifica antimalarica nel territorio di Aliano diverso da quelli in voga.
Su molti strati si dispone anche Il Cristo, che è un libro di viaggio, il reportage da un luogo immobile e senza quella dimensione del tempo cui è abituata la civiltà (persino la civiltà del decennio fra la metà degli anni Trenta e la metà dei Quaranta). Ma è anche documento, inchiesta e saggio. Ed è letteratura, la cui forza espressiva risiede nella misura prevalentemente poetica con cui Levi osserva il borgo lucano, una misura nient’affatto sfibrata o evanescente e invece capace di offrire una conoscenza dei luoghi al pari dei grandi classici della letteratura meridionalista.
Pittore e medico, poeta e politico, italiano del Nord e italiano del Sud, Levi è accompagnato in questa biografia nei luoghi dell’ infanzia, nel villino di via Bezzecca a Torino, che sarà l’ arca dove si ritroverà sempre una famiglia della borghesia ebraica, dispersa dagli eventi tragici delle persecuzioni e della guerra. Seguono le stazioni più celebrate dell’ antifascismo torinese: il liceo Alfieri, ad esempio, dove Levi intensifica l’ amicizia con Natalino Sapegno, suo compagno fin dalle elementari, che lo guida nei rifugi alpini, oltre i tremila metri. Sono gli anni delle prime esperienze pittoriche (nel ’ 20 conoscerà Felice Casorati), del legame con i coetanei del liceo D’ Azeglio e del Gioberti, fra i quali spicca Piero Gobetti, più anziano di un anno.
La lettura del primo numero di Energie nove, rivista gobettiana, accende una luce abbagliante: «Mi pareva di trovarci, espresso in parole esplicite, rilevato, diventato comunicabile e chiaro, tutto il vago ineffabile che era in me, tutta l’ energia indeterminata e così nuova che non sapeva neanche di esistere, tutta la potenza diffusa e inconsapevole». Gobetti, agli occhi di Carlo, vuole «organizzare il mondo attorno alla libertà». Invoca la formazione di una nuova élite composta da "eretici", da "disperati lucidi", da "vinti che non avranno mai torto". Carlo ha qualche riserva, ma è affascinato. Accanto alla politica figura un ardore vitalistico dell’ esistenza. Carlo è giocondo, "gouailleur e narquois" (motteggiatore e spiritoso), come lo definisce Antonello Gerbi. La sera, dopo il teatro, Piero, Carlo e altri amici si rincorrono a Piazza Castello, vince chi resiste dopo quattro, cinque giri intorno a Palazzo Madama. E Piero è il più veloce di tutti.
Gli avvenimenti stringono più di quanto non incalzi l’ età. Le idee si precisano, sorgono i miti. Scrive Carlo a Sapegno nel settembre del ’ 20: «Abbiamo finalmente degli eroi. Gli operai che hanno preso le fabbriche e le fanno funzionare. Sono eroi e possono darci soli ciò che nessun altro ci può dare». Nel gennaio del ’ 22 nasce La Rivoluzione liberale (al gruppo originario si sono aggiunti, fra gli altri, Luigi Emery, Giacomo Debenedetti, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Alessandro Passerin d’ Entrèves, Mario Fubini e Aldo Garosci). Il primo saggio che Carlo scrive per il periodico gobettiano è su Antonio Salandra e sui liberali nel Mezzogiorno. Ed è quindi fin dai primi anni Venti che Levi scopre quali siano i puntelli che inchiodano il Sud ad una condizione di minorità, le sue classi dirigenti e la vocazione "agraria" dei suoi liberali.
Il fascismo sconvolge la vita di quel gruppo. Nel ’ 24 Gobetti subisce la prima di una serie di aggressioni (che provocheranno la sua morte nel febbraio del ’ 26), e inizia per Carlo un lungo periodo di lotta clandestina, condotta sia in Italia che in Francia, dove apre un atelier e dove infittisce i contatti con gli esuli italiani, in particolare con i fratelli Rosselli, senza disdegnare certa bohème. Per la sua attività antifascista viene arrestato (è Pitigrilli che lo consegna alla polizia) e spedito al confino in Lucania, dove resta una decina di mesi fra il ’35 e il ’ 36.
L’ antifascismo di Carlo è contemporaneamente politico ed esistenziale. Dall’ eredità gobettiana ha tratto anche un’ onda libertaria che percorre la sua personalità e che si condensa in stile di vita, in considerazione di sé e della propria qualità d’ artista e di intellettuale. Con il passare degli anni, durante e dopo la guerra, il suo peso sulla scena politica e culturale cresce vistosamente («egli era cosa diversa, più importante di un capo, era un animatore», scrive Giorgio Amendola). E molti suoi amici scorgono in lui del narcisismo: è evidente, ad esempio, nel gusto sgargiante dei suoi abiti. Ha fama di tombeur de femmes. Nel 1932 inizia la relazione con Paola Olivetti, che durerà fin dopo la guerra, nonostante si accavallino nel suo cuore altre donne, anche contemporaneamente: la russa Vitia Gourevitch, Imelde Della Valle, Annamaria Ichino, alla quale regala il manoscritto del Cristo, e quindi Linuccia Saba, la figlia del poeta.
Il cuore di tutta la sua attività di pittore, di scrittore e di politico resta il Mezzogiorno. E’ in quelle contrade che Levi sperimenta il concetto gobettiano di autonomia, adattandolo ad un mondo contadino, finora immobile oggetto di Storia. Il tema ritorna in tutta la politica del Partito d’ Azione nel Mezzogiorno (con Guido Dorso, Manlio Rossi Doria, Tommaso Fiore ed altri). E’ alimento per le battaglie di Rocco Scotellaro. Risuona durante l’ occupazione delle terre. E’ al centro del dibattito per almeno un decennio e non si riduce ad una passione etnologica o estetica. Carlo Levi costruisce sull’ esperienza ad Aliano non solo un’ imponente mitografia contadina, ma anche le battaglie contro il blocco agrario, per la riforma, e perché il Mezzogiorno abbia una nuova classe dirigente.«Se abbiamo narrato di quel mondo immobile», ripeteva, « era perche’ si muovesse».
Francesco Erbani
* Fonte: la Repubblica, 02 marzo 2001
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
Federico La Sala
ROCCO SCOTELLARO E CARLO LEVI IN VISITA ALLA CAPPELLA DEL CARMINE DI TRICARICO, AD AMMIRARE LE OPERE D’ARTE DEL TARDO RINASCIMENTO MERIDIONALE (AGLI INIZI DEL SEICENTO, COLLEGATE ALLA PRESENZA DEI CARMELITANI SCALZI DI TERESA D’AVILA): *
"Rocco Scotellaro e 45 artisti d’oggi": "[...] nel 1945, Carlo Levi ha pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e del maggio 1946, in occasione delle elezioni politiche per la Costituente, è il primo incontro con Scotellaro. Un incontro nel nome dell’arte, visto che Rocco, a Tricarico, “per il sentiero in fondo al vallone, sotto la Rabata”, insieme a Rocco Mazzarone, accompagna Levi alla Cappella del Carmine per vedere gli affreschi seicenteschi di Pietro Antonio Ferro che si avvale della collaborazione dei figli Carlo e Giovanbattista con rimandi evidenti agli Zuccari e a Raffaello, Carracci, Barocci e Salimbeni.[...]
La morte prematura del “giovane uomo dai capelli ricci di un biondo slavato cattivante che con le sue lentiggini intonava una festa di gloria” (così lo descrive Amelia Rosselli che con Rocco andrà a Tricarico per una settimana e poi a Napoli, a Portici, a Firenze per conoscere nonna Amelia Pincherle Rosselli), capace di risvegliare la curiosità di Bobi Bazlen, attento alle opinioni “adulte e sicure” del meridionalista convinto ma anche alla condizione ultima della fragilità e vulnerabilità dell’essere umano, interrompe un rapporto vivo in tutta la cultura del nostro Novecento che ha in Ungaretti la sua molla iniziale. Così intenso da sollecitare Levi a ordinare e dedicargli la sala alla XXVII Biennale di Venezia (1954), ricca di cinquanta opere con al centro quel ritratto di eterno fanciullo dagli occhi spalancati sul mondo-paese. [...]" (cfr. Giuseppe Appella, "Rocco Scotellaro e 45 artisti d’oggi", "insula europea", 7 Ottobre 2023).
*
Tricarico - Convento del Carmelo:
"[...] I Carmelitani si insediano a Tricarico nel 1605 su sollecitazione del nobile Giovanni Antonio Russo, il quale, morendo, destina all’Ordine monastico un considerevole lascito utile sia all’edificazione del convento sia della chiesa annessa. Entrambi sono di dimensioni modeste ma interessanti per le opere pittoriche che vi contengono.
Nel chiostro hanno lavorato Carlo e Giovanni Ferro, figli del prestigioso Pietro Antonio, originari di Tricarico, dipingendo nelle lunette Scene bibliche relative ad Elia ed Eliseo, Storie dell’ordine carmelitano, e nei tondi santi e vescovi dell’Ordine. [...]" (cfr. https://www.basileusonline.it/convento-del-carmelo).
SCHEDA E NOTA EDITORIALE *
ECHI OSCO-ITALICI. Valli del Sele e Lucania antica
di Italo Cernera
Il libro si compone di quattro parti. Nella prima parte l’autore individua nella lingua osca il sostrato linguistico di quasi tutta l’Italia del centro-sud offrendo un ricco repertorio di termini di cui indaga l’etimologia. Seguono tre capitoli dedicati alla dea Mefite, a Fauno e a Ercole. La ricerca ci mostra che queste tradizioni costituiscono il filo conduttore di miti, atteggiamenti, che, ancora oggi, legano abitanti di paesi geograficamente lontani, ma culturalmente e antropologicamente molto vicini...
NOTA
di Franco Villani *
Italo Cernera, autore di Echi osco-italici, Valli del Sele e Lucania antica, è di Contursi, paese oggi appartenente alla regione Campania, ma un tempo compreso nel territorio della Lucania antica. Il paese si trova, infatti, poco distante dai luoghi menzionati nel Liber coloniarum, (Libro delle colonie, attribuito a Frontino) che, nell’antica Lucania, annoverava sette prefetture alcune delle quali non fanno più parte dell’attuale Basilicata: Volcei (Buccino), Atina (Atena Lucana), Consilium (Sala Consilina) e Tegianum (Teggiano) sulla via Popilia; Potentia (Potenza) e Grumentum (Grumento Nova) sulla Via Herculia e Paestum sulla costa tirrenica.
Pur uniti nel titolo del libro, l’etimologia dei termini Sele e Lucania hanno storie molto diverse. Il termine Sele, secondo l’autore, deriverebbe dall’osco Seile. Sil, da antichissima lingua mediterranea, significa, infatti, zona di sorgenti, “canale in cui scorre l’acqua”. Non altrettanto certa è, invece, l’etimologia del termine Lucania. Deriva da leukòs che significa chiaro, bianco o dal latino lux che indica la luce? I Lucani, asserragliati sui monti, prima di altri vedevano ad Oriente la comparsa del sole che presto penetrava nel buio freddo dei loro boschi. Ma potrebbe derivare anche da lukos (lupo) presente nei boschi lucani o dai Lyki, popolazione proveniente dal Medio Oriente. È ugualmente il caso di sottolineare che il nome dell’autore, Italo deriva certamente da Italia, ma pochi, probabilmente, sanno del leggendario Lucio che conquistò il Sud della nostra penisola dando ad essa il nome di Italia.
Oggi, come è noto, il nome Lucania è quasi scomparso a vantaggio di Basilicata. Tutti sanno che i Lucani sono gli abitanti della Basilicata! E si domandano perché. Per i Romani esistevano i Lucani, popolo bellicosissimo che, protetto dalle montagne e usando la tecnica della guerriglia, era riuscito a resistere a lungo, infliggendo non poche umiliazioni al forte esercito romano. Solo nel 298 a.C., furono sottomessi dal console Scipione Barbato.
Quando Augusto divise l’Impero romano in province creò la provincia di Lucania. Successivamente la Lucania fu indicata come terra del Basileus cioè amministrata dal Basilikòs, funzionario bizantino. Di qui il termine Basilicata che venne confermato al momento della proclamazione dell’Unità d’Italia (1861). Nel 1932, Mussolini sostituì il nome di Basilicata con Lucania che meglio si adattava alle italiche tradizioni romane e preromane a cui il fascismo, idealmente, si collegava. Nel 1948, però, al momento di promulgare la nuova Costituzione della Repubblica, in opposizione a quanto il fascismo aveva fatto e introdotto, fu ripristinato il nome Basilicata.
Il contenuto del libro, composto da quattro capitoli, può essere riassunto nell’incipit imperioso con cui l’autore apre il volume: “Gli Osci furono un antico popolo italico stanziato negli attuali territori della Campania, del Molise e della Lucania. Costumi, usi e lingua degli Osci costituiscono il fondo etnico originario della regione campana e lucana. Sono i “padri antichi” delle tracce e delle inflessioni linguistiche tuttora presenti”.
Nella prima parte, l’autore, a sostegno di tale tesi riporta un ricco repertorio di termini di cui indaga l’etimologia. La presenza, infatti, ancora oggi, di termini dialettali usati in posti anche molto lontani fra loro testimonia che la lingua parlata era l’osco che, con il greco e il latino, condivideva il comune ceppo linguistico indo-europeo. Fino a che non ci fu il dominio di Roma, a partire dal III secolo a.C., tutto il Meridione continentale si esprimeva in lingua osca. La parlavano i Campani, i Lucani, i Bruzi, gli Apuli e anche i Siculi. La scrittura dell’osco partiva da destra verso sinistra e non aveva maiuscole. Poteva essere scritto con l’alfabeto latino, greco o con un alfabeto di derivazione etrusca. L’osco si mantenne vivo nell’uso ufficiale per tutto il II secolo a.C.
Nel secondo capitolo viene affrontata la venerazione per la Dea-madre: “Al principio era la Grande Madre, poi Mefite, divinità dei corsi d’acqua e delle sorgenti, della terra e della vita”. Pur identificata con nomi diversi quali Sirena bicaudata, Mefite, Ninfa, il culto “ha riconosciuto nell’essere femminile il potere di creare la vita, di allontanare la malattia, di proteggere dalle avversità. Un potere legato al corpo, alla terra, ai ritmi della natura, al futuro”. Non sorprende, quindi, il parallelo tra la dea Mefite che richiama le sorgenti termali di Contursi Terme e la venerazione per questa dea praticata, per centinaia di anni, nel lontano Santuario di Rossano di Vaglio in Basilicata.
La Dea-madre era anche la protettrice di greggi e pastori. A lei si offrivano sacrifici e feste riservate poi al dio Fauno, (di cui si parla nel terzo capitolo) considerato suo figlio che, già presente nella storia romana, identificato e talora, sovrapposto, con il dio Silvano richiama i grandi boschi della Lucania.
Profonde riflessioni suscita anche l’ultimo capitolo dove si parla del mito di Ercole la cui origine sembra una sorta di evoluzione dal forte e rustico Fauno ad una presenza più urbana di Ercole, dal pastore dei villaggi al protettore dei centri abitati. Difensore del giusto e nemico della prepotenza, Ercole, era considerato anche Salvatore del mondo, come è vero che sarà assunto in cielo quale dio. E qui non si può non rimanere stupiti dalla ricostruzione del mito di Ercole la cui vita è costellata di episodi che richiamano molti aspetti della vita, nientemeno che di Gesù.
In conclusione, a nostro parere, si tratta di un libro da leggere tutto di un fiato. Ci pare, anche, di poter dire che il filo conduttore del volume, al di là delle articolate e documentate ricostruzioni storiche, sia da individuare nel “cuore” dell’autore che avverte, fortemente, la tradizione e l’orgoglio etnico di appartenere a una cultura che è il portato di molti secoli di storia.
* Fonte: Villani Editore
VIRGILIO SI E’ FERMATO A "EBOLI", DAL "VECCHIO DI CORICO"
LE TORRI DI “EBOLI”, IL “VECCHIO DI CORICO”, E VIRGILIO. SULLE ORME DEL GRAND TOUR ...
VISTO E CONSIDERATO CHE “Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”,
E CHE “L’incontro - dibattito” è stato effettivamente tenuto il giorno 13 gennaio, “nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi” E CHE dal dibattito sono emerse, evidentemente, perplessità e difficoltà (cfr.: “Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento”);
MI SEMBRA OPPORTUNO E PERTINENTE richiamare alla mente (e rileggere) quanto nell’art. “Taranto, piazza Ebalia: le origini di un toponimo” - proprio nell’intervallo di giorni dal 4 gennaio al 13 gennaio, il giorno 8 - il prof. Armando Polito ricorda, citando Virgilio, “un vecchio di Corico”:
EVIDENTEMENTE E A DIRLA VELOCEMENTE, DIETRO LA DECISIONE DELL’UNESCO sull’importanza culturale delle “costruzioni a secco”... c’era (oso immaginare!) anche il ricordo virgiliano del “vecchio di Corico”! A rileggere - e non fermandosi a “Eboli” - il testo della IV delle “Georgiche”, nei versi del grande poeta, svela da dove vengono le pietre e offre ancora tutta la meraviglia e l’apprezzamento del lavoro di chi - con grande passione e intelligenza - ha saputo mettersi al lavoro e ha trasformato un “terreno abbandonato”, pieno di pietre, non fertile e non adatto al pascolo né di buoi né di pecore né tantomeno per piantarvi una vigna, in un mirabilissimo orto, in uno splendente GIARDINO (vv. 186-203) *:
[...] d’aver già visto io mi ricordo
Sotto l’ebalie torri, ove l’ombroso
Galeso irriga le pianure amene,
Un vecchierel di Corico nativo;
Piccolo campo ei possedeva, e questo
Sterile e ignudo, nè a l’aratro adatto,
Nè a piantar viti, o a pascolar la greggia.
Eppur con l’arte la natura avara
Ei giunse ad emendar; sterpò le spine
Che ingombravano il suol, più nobili erbe,
E bianchi gigli a seminar vi prese,
E verbene, e papaveri; e tal frutto
Da l’orto in breve, e dal giardin raccolse,
Che le ricchezze nel suo cor contento
Uguagliava d’un re: stanco da l’opre
Del dì tornava ne la tarda sera
Al fido albergo, e la sua parca mensa
Di semplici copria non compri cibi.
[...]
*
Publio VIRGILIO Marone, “Georgiche”, Libro quarto, vv. 186-203. Traduzione dal latino di Clemente Bondi (1801).
Ad onore di Virgilio e del lavoro del “vecchio di Corico”, e di tutti i nostri antenati, e, non ultimo, del lavoro della stessa Fondazione “Terra d’Otranto”, mi piace qui richiamare il brillante contributo (disponibile in rete):
SULLE ORME DEL GRAND TOUR, PER COGLIERE IL RESPIRO PROFONDO DELL’EUROPA.
LA CATENA DEI “GIARDINI ETNOBOTANICI DEL VECCHIO DI CÒRICO” NEL DISTRETTO TURISTICO DELL’ARCO JONICO DI PUGLIA, BASILICATA E CALABRIA PER COGLIERE L’ANIMA PROFONDA DELL‟EUROPA E DELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE
Federico La Sala ( 01.02.2019.
Capitale europea Cultura
Effetto Matera, l’eterno ritorno della città magica
di Marino Niola (la Repubblica, 16.01.2019)
La storia / Da Pascoli a Carlo Levi. Da Visconti al "Cristo" secondo Pasolini Così la terra dei Sassi, che sabato diventa ufficialmente capitale europea della cultura 2019, ha nutrito il nostro immaginario e le nostre utopie sociali.
Un imbuto di case e grotte simile all’inferno di Dante. Così appare Matera allo sguardo spaesato e spaesante di Carlo Levi. Che di fatto consegna la città dei Sassi all’emblematica politica italiana. Topografia di una società abitata da poveri diavoli. Ma al tempo stesso riepilogo simbolico del mondo contadino, visto in tutta la sua lontananza dalle idee di sviluppo che dopo la guerra vanno per la maggiore nel Paese. È in questo clima che la nuova capitale europea della cultura 2019 - inaugurazione ufficiale sabato prossimo con l’arrivo di Mattarella e Conte diventa, nel male ma anche nel bene, un luogo topico dell’immaginario nazionale. La perfetta sintesi metaforica di un Mezzogiorno geografico e antropologico, economico e poetico, antico e primitivo, visionario e selvaggio. Così per esempio lo definisce Pier Paolo Pasolini, che fa dello scenario lunare dei Sassi la location ideale del suo Calvario all’italiana. Non a caso disdegna la Palestina reale, a suo avviso devastata dalla nuova edilizia, e ambienta Il Vangelo secondo Matteo in quella Terrasanta ancora immune dalla modernizzazione.
Del resto, una sorta di atavismo arcaico, più geologico che storico, impregna da sempre le convenzioni rappresentative della cavea materana. Non a caso Giovanni Pascoli, che dal 1882 al 1884 insegna latino e greco nel liceo locale, definisce balze, calanchi, spelonche e abituri "sinistramente belli" e descrive gli abitanti «nel loro selvatico e antiquato costume "girelloni per la piazza"». E oltre un secolo prima di lui il filosofo inglese George Berkeley parla di un’ellissi di case che precipitano l’una sull’altra, con la vertiginosa verticalità dei palchi di un teatro, con «i morti al di sopra dei vivi». Insomma, per effetto di un secolare incrocio di sguardi e controsguardi, visioni e suggestioni, la città lucana diventa il simbolo di un Sud dell’anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione.
Memoria remota di un binario morto del progresso. Lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale. Residuo inerte di un passato arcaico nel suo abitare e nelle sue abitudini.
Una perturbante archeologia sociale che sopravvive negli usi e costumi di quella corte dei miracoli rimasta prigioniera dei Sassi fino alla metà del Novecento. Come in una tana, dove una storia andata in polvere ha lasciato il posto ad un’anteriorità degradata, fatta di sopravvivenze umane e di relitti culturali. Eppure, proprio in quei relitti culturali e persino in quell’habitat suggestivamente malsano, molti intellettuali del dopoguerra vedono un simbolo di rinascita.
E perfino una sorta di paradigma comunitario e anti-individualista partorito dalle viscere esauste, ma feconde, della condizione contadina. Un’autentica "filosofia della miseria", come la chiama il sociologo americano Frederick Friedman. Che collabora con Adriano Olivetti nei lavori della Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta e la città diventa per personaggi come Manlio Rossi Doria, Tommaso Fiore, Ludovico Quaroni, Michele Valori e tanti altri, una sollecitazione a ripensare lo sviluppo guardando al Sud, non solo come territorio da modernizzare, ma come depositario di un capitale culturale da impiegare nell’interesse dell’Italia intera.
Un universo di valori soffocati dalla miseria, come dice Carlo Levi, ma pieno di una ricchezza che bisogna riconoscere e conservare. Non per nulla Olivetti sceglie di aprire il primo numero della sua celebre rivista Comunità con un editoriale di Ignazio Silone intitolato Il mondo che nasce. Qualche anno dopo, quando il dibattito sui Sassi è ancora una ferita aperta - vergogna nazionale o modello di omeostasi contadina - Luchino Visconti entra nella questione con Rocco e i suoi fratelli. Il film che racconta il difficile riscatto di una famiglia lucana, combinando il tema biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli, rivisto alla luce di Thomas Mann, con il nome di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta simbolo delle lotte contadine nel materano.
Così, nel suo piccolo, Matera diventa una città-mondo in miniatura, un laboratorio sociale in perenne attività. Che esercita un’attrazione irresistibile su intellettuali come Pasolini, che ne fa la scena di un cortocircuito teologico tra Cristo e i poveri cristi. Ed Ernesto de Martino, padre dell’antropologia italiana, che trasforma queste terre nell’erma bifronte di un Meridione ancora immerso nel mondo magico, ma attraversato da fermenti di emancipazione laica. Una duplicità quasi postmoderna, che de Martino individua nella figura di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro, e soprattutto paladina nei suoi racconti del superamento di antiche pratiche superstiziose come il lamento funebre.
Eppure, giunta a Portici - dove Rocco si era trasferito chiamato a lavorare alla facoltà di Agraria da Manlio Rossi Doria, che poi curerà il suo postumo Contadini del Sud - davanti al figlio sul letto di morte Francesca fa precipitare il suo dolore nel metro luttuoso della nenia tradizionale e strilla: «Figlio mio, che sonno lungo che ti fai, perché non mi rispondi?». In fondo, il riscatto di Matera è l’effetto di un secolare passaggio di testimone tra uomini e donne di grande ingegno e di buona volontà. E forse, con la sfida da capitale europea, per la prima volta è davvero a portata di mano.
Storia
Manlio e Nuto, lettere in difesa degli ultimi
Trent’anni fa moriva Rossi-Doria, l’intellettuale che aveva dedicato i suoi studi alle condizioni del Mezzogiorno, condividendo con l’amico Revelli l’interesse per i “vinti”. Pubblichiamo un carteggio inedito tra i due del 1977
di Nuto Revelli e Manlio Rossi-Doria (la Repubblica. 04 Giugno 2018)
CUNEO, 14/1/ 77
Caro Manlio, mi hai sempre accompagnato in questi anni di lavoro.
Mille volte mi sarò detto: «Se ci fosse qui Manlio, chissà che cosa ne penserebbe di questo e di quest’altro problema?». Devo molto al tuo incoraggiamento. Adesso ho finito, l’ho consegnata il 15 dicembre la mia fatica di sette anni. L’introduzione è di 150 pagine, e inquadra la situazione di ieri e di oggi, il mondo dei testimoni. Poi le 450 pagine delle testimonianze.
Ti confesso che sento non poca nostalgia del lavoro di ricerca, il lavoro entusiasmante era proprio la ricerca, era quell’entrare in centinaia di case a dialogare, ascoltare, imparare. Pesante invece la traduzione dal dialetto o dal patois, ho dovuto risentire ogni registrazione almeno tre volte prima di realizzare i testi definitivi. Ogni testimonianza parlata ha una durata media di quattro ore. Sono 270 le testimonianze che ho raccolto, un materiale enorme, e a mio giudizio quasi tutto valido. Ma i 2/3 di questo materiale ho dovuto sacrificarlo. Ho salvato 85 racconti di vita contadina.
I temi. C’è la 2° emigrazione verso le Americhe (la più interessante è quella degli Stati Uniti), c’è molto dell’emigrazione verso la Francia, e la 2° Guerra Mondiale, il prefascismo (poco), il “Ventennio”, la 2° Guerra Mondiale, la pagina partigiana, e infine la realtà di ieri e di oggi.
La guerra è proprio “dentro” al mondo contadino, come la tempesta. Mi ero illuso di aver smaltito per sempre il tema “guerra”. Invece l’ho ritrovata come tema dominante: la guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che sanguina non appena la tocchi.
Sette anni di dialogo con la campagna povera del mio Cuneese. E finalmente ho capito quanto sono duri i contraccolpi di un’industrializzazione selvaggia e caotica. Ormai, nella nostra campagna povera, è saltato il tessuto sociale: ormai le forze giovani sono finite tutte in fabbrica. Manlio, quanta gente vorrei che finisse davanti ad un plotone di esecuzione, quanto sarebbe necessario un 25 aprile!
Malgrado tutto continuo a credere. Ho già in testa un altro lavoro di ricerca, non riesco a stare fermo. Adesso vorrei studiare i matrimoni contadini della campagna povera. Dimmi se sono matto o no. I soli matrimoni contadini che si sono realizzati nell’arco di questi ultimi quindici anni sono i matrimoni tra i nostri contadini anziani e le donne del meridione, le cosiddette “calabrotte”.
Nelle Langhe questi matrimoni si contano a centinaia, e il fenomeno si va estendendo alla montagna e alla pianura.
È la realtà sociale delle nostre campagne che sta cambiando, tra l’indifferenza di tutti. Far parlare questa gente, scoprire queste due Italie povere che si incontrano, questo il mio interesse di oggi.
Ho ancora l’azienda, voglio sempre chiuderla, poi rimando, ma giorno dopo giorno la ridimensiono.
Penso proprio che il 1977 sarà l’anno buono.
Nel 1978 scenderò finalmente nel meridione! Manlio, perdonami la lunga chiacchierata.
Un saluto affettuoso a Annie, ai tuoi figli.
A te un abbraccio Nuto
ROMA, 6 MARZO 1977
Caro Nuto, son quasi due mesi che ho la tua lettera, letta e riletta e molto importante e cara. Non vedo l’ora di avere tra le mani il nuovo libro, ma dalla tua lettera ne ho già compresa tutta l’importanza e la bellezza. Purtroppo questo maledetto e benedetto disturbo coronarico - che mi ha fermato da un anno e mezzo o (per meglio dire) mi ha obbligato a mettermi definitivamente su di un piano diverso di vita - è venuto a cadere nel momento nel quale speravo di avviare laggiù in alta Irpinia un lavoro di ricostruzione dal basso con gli emigrati, al quale mi ero preparato. Spero e dispero di poterlo riprendere d’estate, quando i pericoli delle mie coronarie sono minori; spero e dispero di persuadere a portarlo avanti alcuni dei miei giovani collaboratori e amici di Portici. Ma non è facile e forse non siamo ancora pronti e certo le condizioni generali non sono in favore.
Eppure sono sempre più convinto che, per uscire dal fosso dentro il quale da anni camminiamo, uno dei processi essenziali sarà quello di una rivitalizzazione delle nostre campagne attraverso processi di ricostruzione dell’agricoltura contadina nel quadro di un’economia mista decentrata agricolo-industriale. Questa sola può essere capace di far rivivere - in forme e con accenti naturalmente diversi da quelli di un tempo - molti dei valori umani e civili, ai quali non soltanto noi teniamo, ma tengono istintivamente molti altri. Le premesse tecniche ed economiche per rendere possibile questo ritorno prima mancavano. Tale mancanza ha reso inevitabile e precipitosa la fuga e ha fatto «saltare - come dici tu - il tessuto sociale». Oggi - anche se di difficile sviluppo e bisognose di essere sorrette da un vigoroso slancio civile - tali premesse ci sono. Non bisogna, quindi, disperare. C’è nell’aria e nelle cose, e c’è particolarmente in molti giovani, qualcosa che spinge in questa direzione. Fino all’ultimo fiato persone come te e me sono tenute a dare sostanza a questo che a molti appare irrealistico disegno. Il tuo lavoro - sia quello precedente sulla guerra (la grande esperienza dei contadini italiani) sia quello recente sul grande
esodo - è e sarà essenziale per dar forza ad altri per lavorare in questa direzione. Bellissimo il nuovo lavoro al quale ti accingi. Mi piacerà molto ragionarne con te ed è questa una delle ragioni per le quali mi auguro che la tua da tempo promessa visita giù sia prossima e non lontana. Se troverai il nome dei poveri di origine delle tue “calabrotte”, si potrebbe insieme e con l’aiuto di alcuni miei amici meridionali visitarli e riscoprire i legami antichi e forse cercarne di nuovi.
È mia convinzione - e oggetto di fantasiose costruzioni mentali - che tra gli esiliati all’estero o nelle grandi città dalla «industrializzazione selvaggia e caotica», la nostalgia oscura di quel che hanno perduto possa - non dico in tutti, ma in molti - trasformarsi in interessamento e fors’anche in partecipazione a razionali processi di riordino, di rimessa e di sviluppo della contrada, nelle quali hanno ancora il cuore e le radici.
Mi chiedo, quindi, per il tuo Piemonte - come per la mia Irpinia e Lucania o Calabria - se non si possa andare tra coloro che sono partiti, per rilegarli tra loro in associazioni aperte ai problemi delle valli e degli altopiani dove sono nati. Sarebbe questo lo sbocco operativo del tuo lungo lavoro; forse quello sbocco al quale - anche se non hai voluto confessarlo a te stesso - hai sempre pensato. Questi ed altri sono i pensieri che la tua lettera ha ravvivato in me, con il desiderio di parlare ancora con te, nel ricordo delle bellissime giornate passate da me e dai miei come tuoi ospiti nel Cuneese.
Aspetto il libro e aspetto la tua visita. Voglimi bene come te ne voglio. Ricordaci a tua moglie, ai figlioli.
Ti abbraccio Manlio
L’eredità scomoda dell’Azionismo nella crisi italiana
di Davide Conti (il manifesto, 08.04.2018)
Il profilo politico-culturale dell’eredità storica del Partito d’Azione, incarnato da figure come Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Duccio Galimberti, Giorgio Agosti, ha sempre rappresentato in Italia un elemento di rara quanto manifesta incompatibilità con gli esiti conclusivi della transizione avviatasi con la fine della guerra, la sconfitta del nazifascismo e la nascita della Repubblica democratica.
Per lungo tempo la riflessione pubblica sul lascito dell’esperienza del Partito d’Azione, ovvero della seconda forza politico-militare della Resistenza, è stata circoscritta al perimetro dell’immediato dopoguerra, coincidente invero con la parabola del PdA, e sintetizzata con l’immagine della «occasione mancata» di rinnovare nel profondo la struttura dello Stato e la società nonché per avviare un processo pedagogico di nazionalizzazione antifascista delle masse. Tuttavia proprio il nesso conflittuale tra rottura e continuità, che segna la composizione di ogni «crisi organica», è rimasto al centro della vita pubblica del Paese anche nei decenni successivi riemergendo in modo visibile durante il cosiddetto «boom economico» degli anni ’50-’60 e poi nel corso della crisi 1989-1994 che ha ridefinito assetti nazionali ed internazionali.
Alla ricostruzione d’insieme di questi decisivi passaggi della storia d’Italia ed all’interpretazione-comparazione dei suoi termini fondamentali con l’eredità dell’azionismo è dedicata la 14° edizione «Cantieri dell’Azionismo», che prenderà avvio sotto la direzione di Giovanni De Luna il 10 aprile presso la Sala Atti parlamentari della Biblioteca del Senato, promossa dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino, dalla Fondazione Dalmazzo e dall’Archivio Storico del Senato.
Rileggere i nodi essenziali delle più importanti trasformazioni manifestatesi nel corso della vicenda dell’Italia repubblicana richiama la necessità di ragionare attorno alle «cesure», intese come linee di faglia dietro le quali è impossibile ritornare; alle «presenze», in termini di stratificazione delle eredità del passato come base del contemporaneo, ed ai «ritorni» intesi come riemersione di fenomeni figli della fase storica attuale.
Posto all’interno di una lettura di lunga durata, in dichiarata controtendenza rispetto alle odierne logiche «istantanee», il recupero dell’eredità scomoda del PdA può senz’altro divenire un utile strumento d’interpretazione degli anni 1958-1968 che cambiarono l’Italia e soprattutto del quinquennio successivo alla caduta del muro di Berlino che nel nostro Paese determinò l’avvio di una nuova fase storico-politica che proprio ai giorni nostri volge al termine avviando una nuova transizione dai contorni quanto mai indefiniti e che tuttavia richiama in modo brusco e diretto alla necessità di ridefinire i termini della relazione politica tra memoria pubblica, democrazia e impianto valoriale della Repubblica di matrice resistenziale.
Il punto nodale alla base della riflessione proposta dai «Cantieri dell’Azionismo» risiede nel tentativo di non esaurire l’antifascismo e la Lotta di Liberazione entro il perimetro alto e nobile della Resistenza e di non vincolarlo in modo esclusivo all’individuazione, sia chiaro indispensabile, della Costituzione come traduzione di sistema della lotta 1943-1945.
I termini dell’esercizio plurale della democrazia, il rapporto tra le classi, i diritti di cittadinanza ed i suoi istituti di garanzia segnano una linea d’indirizzo concreta ed interamente antiretorica in grado di «parlare» di nuovo, come nei primi decenni della Repubblica, a quella massa di persone e di nuovi cittadini provenienti dal mondo, che cercano quelle fondamentali forme di protezione ed emancipazione sociale, d’identità solidale e indipendenza culturale che l’assetto elitario della modernità ha loro violentemente sottratto.
Questa appare ad oggi la natura profonda dell’esercizio della politica, individuare i tratti profondi della caratterizzazione democratica con l’obiettivo di rompere, proprio in tempi assai confusi, con l’eterno ritorno di quella che Piero Gobetti chiamava l’autobiografia della Nazione.
ALIANO, 29 E 30 MAGGIO
Sintesi dei lavori
FORUM AREE INTERNE 2017 Aliano, 29 e 30 maggio
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Il 29 e 30 maggio circa 200 persone si sono riunite ad Aliano: il Comune lucano, che fa parte dell’area interna della Montagna Materana, ha ospitato il ”Forum Aree Interne" 2017, giunto alla sua quarta edizione.
Tra i partecipanti, amministratori, ricercatori, il Comitato Tecnico Aree Interne e molti professionisti impegnati nella costruzione di progetti di sviluppo per le aree "remote" del Paese, quelle che, anche a causa della fragilità dei servizi offerti alla popolazione, soffrono il problema dello spopolamento.
L’appuntamento del Forum, il cui obiettivo è fare il punto sullo stato d’avanzamento della Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), è stato fondamentale per definire, secondo un orizzonte di medio-lungo periodo, i prossimi passi dell’azione del Governo, che riguarda il 60% del territorio nazionale, ben 180mila chilometri quadrati (non solo nelle zone montane delle Alpi o degli Appennini), dove vivono oltre 13 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione del Paese.
Ad oggi, la SNAI interessa 71 aree, in tutte le Regioni e nella Provincia autonoma di Trento, selezionate utilizzando indicatori relativi all’accesso a servizi per la salute, la mobilità collettiva e l’istruzione. I Comuni coinvolti sono 1.066, e misurano il 16,7% della superficie del Paese: vi abitano circa 2,1 milioni di italiani, pari al 3,5% della popolazione del Paese.
La dotazione della Strategia Nazionale Aree Interne è pari a 190 milioni di euro, mentre le risorse complessivamente mobilitate dalla misura - che comprendono anche l’allocazione di risorse FEASR, FSE e FESR - sono stimabili per un valore tre volte superiore (cfr presentazione Coordinatore del Comitato). La due giorni di Aliano ha visto numerose tavole rotonde e otto sessioni di lavoro tematiche, da cui sono emersi gli spunti di lavoro che potete leggere nelle pagine che seguono. Le sessioni hanno toccato tutti gli ambiti di lavoro della SNAI: dall’accesso alla terra alla gestione e valorizzazione del patrimonio culturale diffuso, dall’inclusione, anche nei confronti di migranti e nuovi residenti, alla tutela e gestione attiva del territorio, in una logica di produzione di energie rinnovabili.
Nel suo intervento introduttivo, il ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, ha ricordato l’importanza di una manifestazione svolta in un luogo così emblematico “per ciò che rappresenta Aliano”, borgo del confino dello scrittore, intellettuale e parlamentare Carlo Levi, e “perché siamo in Basilicata, che è un esempio importante delle potenzialità del nostro Mezzogiorno”. De Vincenti ha evidenziato nel suo intervento l’obiettivo dei due "perni" della strategia nazionale, ovvero un miglioramento nell’accesso ai servizi per i cittadini e un coordinamento ampio, ad ogni livello, dei Comuni: secondo De Vincenti - riporta una nota dell’agenzia ANSA - in Italia vi sono aree interne "che hanno subito un divario che si è andato allargando in termini economici, di popolazione, rispetto alle aree più sviluppate, ma che hanno reagito e fatto da attrazione, come è avvenuto qui ad Aliano". Il ministro ha ricordato come fossero (a fine maggio) “undici le strategie d’area già approvate, tre quelle in corso di approvazione".
Accanto a De Vincenti sul palco di Aliano sedeva l’onorevole Enrico Borghi, consigliere della Presidenza del Consiglio per l’attuazione della SNAI. “Con la Strategia Nazionale Aree Interne - ha spiegato - non stiamo svolgendo un’azione di sviluppo tradizionale, che punta a dare una risposta particolare a specifici problemi di carattere localistico: stiamo costruendo una risposta partendo dal basso che sia funzionale ad obiettivi di ricostruzione dell’identità nazionale e al rilancio produttivo del Paese. Siamo consapevoli che oggi l’innovazione passa per quelle aree che, in un vecchio ’schema di gioco’, venivano viste come marginali e periferiche. Siamo dentro una metamorfosi culturale. Ci aspettiamo molto dalla Strategia Nazionale Aree Interne e dalla ’Comunità delle Aree Interne’, che è la più votata a costruire e declinare le opportunità che sono date dalla SNAI, ma che possiamo ritrovare anche in altre norme di recente adozione, come quelle sulla green community, la previsione del pagamento per i servizi ecosistemi e la valorizzazione dei borghi nell’ottica di un’offerta turistica nazionale”.
INDICE
SESSIONE COME FAVORIRE LA DOMANDA INNOVATIVA DI ACCESSO ALLA TERRA NELLE AREE INTERNE
.............................................................................................................................................4
SESSIONE SERVIZI ECOSISTEMICI E GREEN COMMUNITIES ......................................................6
BOX L’ASSOCIAZIONISMO COMUNALE: UNO DEI PILASTRI DELLA SNAI..........................8
SESSIONE FORMAZIONE, INNOVAZIONE E ZOOTECNIA SOSTENIBILE NELLE AREE INTERNE....9
SESSIONE PREVENZIONE SISMICA, TUTELA E GESTIONE ATTIVA DEL TERRITORIO..................11
SESSIONE COME SCOPRIRE QUALI RISULTATI OTTENIAMO? VALUTAZIONE “PER” E “DELLE” POLITICHE -PER
LE AREE INTERNE .................................................................................................................13
SESSIONE GESTIONE E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO DIFFUSO: LA DOMANDA CULTURALE E
TURISTICA DA OPPORTUNITÀ A REALTÀ ..............................................................................16
SESSIONE SVILUPPARE COMPETENZE PER L’INNOVAZIONE. CREATIVITÀ E INNOVAZIONE PER UNA
CRESCITA INTELLIGENTE DEI GIOVANI DELLE AREE INTERNE ..................................................18
BOX LA STRATEGIA NAZIONALE AREE INTERNE: UNA RISPOSTA ALLE DISUGUAGLIANZE E ALLA
“FAGLIA” CENTRO-PERIFERIA............................................................................................19
SESSIONE MIGRANTI E MIGRAZIONI IN AREE INTERNE. MICRO ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE PER
NUOVI RESIDENTI E CITTADINI ..............................................................................................20
continua -> qui
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO. Storiografia in crisi d’identità ...
In base a un regio decreto emanato il 28 agosto 1931 i docenti delle università italiane avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo allo statuto albertino e alla monarchia, ma anche al regime fascista. L’idea dell’inserimento della clausola di fedeltà al fascismo viene attribuita al filosofo Balbino Giuliano, che ricopriva in quegli anni la carica di Ministro per l’Educazione Nazionale nel governo Mussolini[1].
In tutta Italia furono solo una quindicina di personalità, su oltre milleduecento docenti, a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo perdendo così la cattedra universitaria. Il numero effettivo delle persone che non si sottoposero al giuramento oscilla di qualche unità a seconda delle fonti. L’indeterminazione è dovuta anche ad alcune situazioni particolari, di docenti che vi si sottrassero per vie diverse: Vittorio Emanuele Orlando, ad esempio, andò anticipatamente in pensione, mentre altri, come Giuseppe Antonio Borgese, si allontanarono dall’Italia fascista andando esuli all’estero[1]. Allo stesso modo non si sottopose al giuramento il docente ed economista Piero Sraffa, già da alcuni anni esule a Cambridge[1] .
I nomi dei docenti furono:
Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo)[2]
Giuseppe Antonio Borgese (estetica)[3]
Aldo Capitini (filosofia)
Mario Carrara (antropologia criminale)
Antonio De Viti De Marco (scienza delle finanze)
Gaetano De Sanctis (storia antica)
Floriano Del Secolo (lettere e filosofia)[4]
Giorgio Errera (chimica)
Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche)
Piero Martinetti (filosofia)
Fabio Luzzatto (diritto civile)
Bartolo Nigrisoli (chirurgia)
Errico Presutti (diritto amministrativo)[3]
Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico)
Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto)
Lionello Venturi (storia dell’arte)
Vito Volterra (fisica matematica)
Molti degli accademici vicini al comunismo aderirono invece al giuramento seguendo il consiglio di Togliatti[1], con la giustificazione che il prestare giuramento permettesse loro di svolgere, come dichiarò Concetto Marchesi, «un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo»[5]. Analogamente, la maggior parte dei cattolici, su suggerimento del Papa Pio XI, ispirato probabilmente da Agostino Gemelli[1], prestò giuramento «con riserva interiore»[1][5].
Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»[5] a impedire che le loro cattedre - secondo l’espressione di Einaudi - cadessero «in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti»[6].
* FONTE. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. (ripresa parziale - senza note).
Federico La Sala
La rivincita della socialità del Sud
di Amador Fernández-Savater *
di Amador Fernández-Savater *
Negli anni ’70, il regista italiano Pier Paolo Pasolini propose di considerare il conflitto politico come uno scontro fondamentalmente antropologico: tra diversi modi di essere, diverse sensibilità e idee di felicità. Una forza politica non è niente (non ha alcuna forza) se non è radicata in un “mondo” che compete con quello dominante, in termini di forme di vita desiderabili.
Mentre gli “uomini politici” della sua epoca (dirigenti di partito, militanti di avanguardia, teorici critici) guardavano al potere statale come al luogo privilegiato per avviare una trasformazione sociale (si prende al potere e si cambia la società dall’alto) Pasolini avvertiva - con sensibilità poetica, sismografica - che il capitalismo stava avanzando attraverso un processo di “omologazione culturale” che stava logorando i “mondi altri” (contadini, proletari, sottoproletari), contagiando i valori e i modelli di consumo “orizzontalmente”: attraverso la moda, la pubblicità, l’informazione, la televisione, la cultura di massa ecc.
Il nuovo potere non emana, irradia o discende da un punto centrale, si propaga invece “indirettamente, nel vissuto, nell’esistenzale, nel concreto” diceva Pasolini. Nei vestiti e nelle posture, nella serietà e nei sorrisi, nei gesti e nei comportamenti, il poeta decifrava i segni di una “mutazione antropologica” in corso: la rivoluzione del consumo. Frenarla dal potere politico sarebbe stato come tentare di contenere un’inondazione con un piccolo tubo. Non è possibile imporre altri contenuti o finalità all’interno di un contesto inalterato di accumulazione e crescita. Piuttosto è il contrario: sarà il modo di produzione-consumo a determinare i margini di manovra del potere politico. Una civiltà si ferma solo con l’arrivo di un’altra. -Sono necessari altri vestiti e altre andature, un’altra serietà e altri sorrisi, altri gesti e altri comportamenti.
La contesa politica (che non è un semplice gioco di troni) esprime un “disaccordo etico” tra diverse idee di vita o, ancor meglio, di buona vita. Non sono idee fluttuanti, enunciate in maniera retorica, ma idee pratiche incarnate, materializzate, contenute nei gesti e nei dispositivi più quotidiani (Facebook, Uber o Airbnb sono figure del desiderio, da qui deriva la loro forza). Che cosa potrebbe svelarci sulla politica uno sguardo antropologico? Quali sono i mondi in collisione oggi? A quali disaccordi etici sulla buona vita potrebbero giungere delle azioni politiche trasformatrici?
Il vecchio spirito del capitalismo
Facciamo prima un passo indietro. Dove è nata l’idea di organizzare la vita intera attorno al lavoro, l’efficienza e la produttività? Secondo Max Weber, la cultura borghese trova le sue origini, il suo motore e il suo combustibile nell’etica protestante (soprattutto il protestantesimo ascetico). Attraverso la ri-concettualizzazione del lavoro come “professione” e la teoria della predestinazione (solo nel successo terreno è possibile riconoscere i segni della nostra salvezza), si produce una soggettività che mette al centro della vita il denaro e l’arricchimento, che aspira alla “razionalizzazione” dell’intera esistenza (la relazione con il tempo, il corpo, l’onore, l’educazione dei figli), che condanna la povertà ad essere il peggiore di tutti i mali (“scegliere la povertà è come scegliere la malattia”), ecc.
Questa soggettività non è un “riflesso automatico” dell’oggettività economica, ma un elemento decisivo della “cultura capitalista” senza la quale semplicemente non c’è il capitalismo. Solo un nuovo tipo di immaginario e di soggettività (una nuova organizzazione del desiderio) poteva avere la forza necessaria per frantumare la “mentalità tradizionalista” (allora imperante) secondo la quale non si vive per lavorare (che sarebbe assurdo), ma si lavora per vivere e, se si dispone di ricchezza (per lavoro proprio, altrui o per puro caso), ci si dedica allora alla contemplazione o alla guerra, al gioco o alla caccia, a dormire tranquilli o al godimento sensuale della vita, ma non ci passerebbe mai per la testa di reinvestirla per continuare ad accumulare.
La cultura borghese nasce pertanto dalla potenza di un immaginario religioso, che viene successivamente abbandonato, laicizzando i suoi valori: il senso di responsabilità individuale, il self made man, la meritocrazia, il credito, il progresso, la sensibilità puritana e severa, ecc. La modernità è stata in misura predominante una “cultura del Nord” : anglosassone, maschile, bianca e protestante. Il dominio di questo immaginario (vivere per lavorare, investire i guadagni per ottenerne degli altri, sottomettere tutti gli aspetti della vita a un controllo regolamentato e sistematico, ecc.) non è però mai stato del tutto completo.
La socialità del Sud
Secondo il sociologo (della vita quotidiana) Michel Maffesoli, una “socialità del Sud” è sempre esistita, da sempre persiste e resiste. È una socialità diffusa, sommersa e occulta, difficile da vedere, ma presente, capace di ribellarsi e attivarsi quando si sente minacciata. Una dinamica informale (forme di legame, di appartenenza soggettiva, di fare nella pratica) determinante nella vita di tutti i giorni, come un substrato o uno “strato freatico“ dell’esistenza collettiva.
In cosa consiste questa socialità del Sud? È prima di tutto un impulso vitale, a-razionale. È una volontà di vivere, un voler vivere. Non di vivere come capita, ma affermando invece un tipo di legame, un tipo di esistenza, una certa idea di felicità: uno stare-insieme antropologico. È anche un insieme di saperi e di strategie per riprodurre quegli stessi legami e forme di vita.
Questo “Sud” originariamente e storicamente si riferisce ai paesi mediterranei e latinoamericani, ma nell’opera dell’autore diventa un concetto più versatile, che allude più a “valori” e “climi affettivi“, che a una localizzazione geografica. In questo senso, ci sarebbe un “Sud nel Nord”, così come un “Nord nel Sud”. Colonia (vivace, allegra, loquace, proletaria) sarebbe il “Sud” in Germania mentre la Francoforte della finanza sarebbe il “Nord”.
Possiamo dedurre cinque “valori” (ciò che conta) per questa socialità del Sud:
• In primo luogo, il presente: la vita non si proietta “verso avanti” (un futuro di salvezza, di perfezione), ma si afferma “ora”. Questa leggerezza verso il domani non esclude (paradossalmente?) un’ostinazione a riprodursi e a durare. La temporalità della socialità del Sud è intensa e non estesa, ma non si impegna a “perseverare nel suo essere”.
• In secondo luogo, il legame: la vita c’è in continuità con gli altri, intersecata con gli altri, intrecciata con gli altri. Non solo per necessità, ma anche per il piacere di condividere. Il legame più apprezzato è quello vicino, prossimo, a portata di mano (il tatto è un valore). Questo “qui” non ci separa da ciò che sta “lì” (cioè che è lontano), al contrario: a partire da ciò che viviamo “qui”, ci può suonare familiare qualcosa “lì”.
• In terzo luogo, l’aspetto tragico: la consapevolezza dell’anarchia di ciò che c’è, di ciò che è. Non si tratta di “risolvere” o “ superare” ciò che è dato (incerto, buio, molteplice), ma piuttosto di sapersi “destreggiare” in esso. Un’altra relazione quindi con il male, il rischio o la morte, che non sono qualcosa da sradicare (secondo le logiche imperanti di controllo, sicurezza e totale prevedibilità), ma sono invece un aspetto della vita (e possono anche essere forza, leva, se siamo capaci di ingegnarci).
• In quarto luogo, l’aspetto dionisiaco: non è la vita chiusi in sé stessi (lavoro, successo, progresso), ma una vita “estatica” che cerca di uscire da sé attraverso il pieno godimento del corpo, il gusto per la maschera e il travestimento (le apparenze), la fusione con l’altro nelle celebrazioni collettive (musicali, sportive, religiose), ecc. Eccesso, spreco, vertigini, abnegazione, distruzione: l’aspetto dionisiaco è un tentativo di approccio con l’alterità.
• Infine, il doppio gioco: non la passione per ciò che è dritto, frontale ed esplicito, ma per la deviazione, l’astuzia, l’improvvisazione, l’ingegno, la fatica, la duplicità, la dissimulazione, il gioco con la legge e la norma, le strategie non convenzionali di conservazione e sopravvivenza (mia e dei miei). Non la passione di correggere e indirizzare, ma di tirare a sorte, contrattare, dribblare e burlarsi.
La crisi come occasione
Gli economisti neoliberali offrono la loro lettura “antropologica” del mondo e concludono che la crisi economica del 2008 ha a che vedere con “l’insufficiente mobilità geografica”, il “limitato spirito imprenditoriale”, “la famiglia come ancora di sicurezza”, il “lavoro informale” o “l’indifferenza (o persino il rifiuto) verso l’arricchimento”, aspetti che caratterizzano ancora troppo i paesi del Sud (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, nessuno dei quali, per altro, è un paese protestante). Alla luce di queste analisi, vediamo come opera la socialità del Sud.
È possibile leggere la gestione neoliberale della crisi come un tentativo di sopprimere in ultima istanza tutte queste “inadeguatezze culturali” e accelerare in questo modo “il divenire mondo del capitale” (Laval e Dardot)? La crisi del debito sarebbe in questo senso l’occasione perfetta per scatenare la “distruzione creativa” di tutto ciò che, dentro e fuori di noi, ci fa diffidare dei pensieri e delle azioni che ci vogliono semplici atomi sociali, particelle egocentriche svincolate, macchine del calcolo egoista. Abitudini e vincoli, affetti e solidarietà.
Eliminando le protezioni sociali, indebolendo i diritti associati al lavoro, favorendo l’indebitamento generale di studenti e famiglie, allargando la precarietà, riducendo i salari e la spesa sociale, non si fa altro che fomentare il “si salvi chi può” e distruggere tutto quello che garantiva alle persone un certo margine di libertà rispetto al mercato. Tutto ciò che c’è “tra” i viventi e che li rende qualcosa di più che semplici “particelle elementari” in competizione: legami di ogni sorta, diritti conquistati, luoghi vivi, risorse pubbliche e comuni, reti di solidarietà e mutuo soccorso, circuiti non commerciali di beni e servizi, ecc. La base materiale di qualsiasi autonomia. Governare oggi consiste esattamente nel corrodere questo “tra”, questa trama densa di legami, affetti, mutuo aiuto...
Ma proprio quando si vorrebbe “estirpare”, ecco che la socialità del Sud si tende e si attiva. Nella Spagna della crisi sono proliferati, per esempio, dei micro-gruppi informali di solidarietà e mutuo soccorso (familiari, di vicinato, tra amici) che hanno mitigato gli effetti devastanti della gestione neoliberale della crisi: paura, solitudine e abbandono. Una proliferazione che racchiude in sé il paradigma liberal-individualista: “ognuno ha la propria vita”.
Proprio quando ci hanno detto che “avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e che si doveva espiare e pagare, i valori del Sud si prendono una rivincita, affermando e diffondendo altre idee di ricchezza e felicità: basate più nel presente che nel futuro, più nei legami che nella solitudine, più nel tempo disponibile che nella vita per il lavoro, più nell’empatia che nella concorrenza, più nel godersi la grazia che nell’espiare la colpa per il debito.
Il nuovo spirito del capitalismo
Ancora più difficile. Secondo alcuni autori, oggi staremmo attraversando il passaggio verso il superamento (intensificazione, radicalizzazione?) del vecchio “spirito” del capitalismo, di cui Weber studiò le origini.
Per esempio, secondo Franco Berardi (Bifo), la borghesia “viveva ancora nei legami” (con una comunità, dei luoghi, dei beni fisici, una classe lavoratrice che non poteva sopprimere, la relazione tra valore e tempo del lavoro). Tuttavia, il capitalismo finanziario è molto più astratto: non si identifica con un luogo, con una popolazione concreta, con una classe lavoratrice, con una regola, anche se le sue decisioni hanno conseguenze (devastanti) su luoghi, popoli, lavoratori, ecc.
D’altra parte, secondo Christian Laval e Pierre Dardot, questa logica di accumulazione infinita del capitale è diventata oggi una “modalità soggettiva”. Cosa vuol dire questo? Significa che l’“homo œconomicus” (definito per la sua prudenza, la sua ponderazione, l’equilibrio negli scambi, la felicità senza eccessi, il bilanciamento tra sforzi e piaceri) è stato sostituito “dall’imprenditore di sé stesso” (definito per la competizione e l’auto-superamento continuo: vivere nel rischio, andare oltre i propri limiti, avere uno squilibrio costante, non riposare o fermarsi mai, riversare tutto il piacere nell’auto-superamento). Esiste un’espressione, secondo gli autori francesi, che riassumerebbe il tratto soggettivo del capitalismo attuale: “sempre di più”. Il piacere di non avere limiti.
In questa trasformazione bisognerebbe rivalutare la resistenza della “socialità del Sud”, oggi che, per esempio, la cultura capitalista non esige più la repressione dell’aspetto affettivo/passionale, ma piuttosto una sua completa strumentalizzazione al servizio della logica del guadagno: la strumentalizzazione dell’intimo. Senza dubbio, l’espressione “una vita che basta a sé stessa” continua ad essere assolutamente sovversiva (oggi più che mai?). Una vita che non vuole estrarre e accumulare “sempre di più”, ma che vive nel piacere di prendersi cura e di condividere, il più vicino possibile, ciò che ci è stato dato, qui e ora. L’insurrezione della socialità del Sud consisterebbe nell’affermare politicamente quest’altra idea di felicità, questa potenza sotterranea, questo mare di fondo.
Riferimenti bibliografici:
Cartas luteranas (Trotta) y Escritos corsarios (Ediciones del Oriente y el Meditarráneo), de Pier Paolo Pasolini.
A nuestros amigos y Ahora (ambos en Pepitas de Calabaza), del Comité Invisible.
La ética protestante y el “espíritu” del capitalismo (Alianza), de Max Weber.
La sublevación (ediciones castellanas en Hekht y Artefakt), de Franco Berardi,Bifo.
La pesadilla que nunca acaba (Gedisa), de Christian Laval y Pierre Dardot.
El tiempo de las tribus (Icaria), La tajada del diablo (Siglo XXI) y La transfiguración de lo político (Herder), de Michel Maffesoli.
Articolo pubblicato su El diario. es con il titolo: Una vida que se basta a sí misma: la revancha de los “valores del sur”
Traduzione per Comune-info: Sofia Begotto
* Comune-info, 18 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini)).
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Sassi che sanno vivere
Io dico grazie a Matera
Una città rimasta se stessa per secoli è la dimostrazione che l’uomo resiste a tutto pur di non soccombere
di Michael Cunningham (Corriere della Sera, 04.07.2016)
In Giappone, i seguaci dello shintoismo distruggono i propri templi ogni vent’anni e li ricostruiscono nel medesimo luogo, per ricordare a se stessi che tutto è transitorio ma anche che tutto ciclicamente ritorna.
A Barcellona prosegue da oltre un secolo la costruzione della basilica della Sagrada Família, lasciata incompiuta nel 1926 alla morte improvvisa di Gaudí. L’opera è tuttavia ostacolata sia dalla perdita dei progetti originali nell’incendio che distrusse il laboratorio dell’architetto catalano, sia dalle stridenti sculture «astratte» aggiunte alla facciata ovest negli scorsi anni Sessanta e Settanta, sia ancora da una perdurante carenza di risorse economiche (le due fontane di mercurio che nelle intenzioni di Gaudí avrebbero dovuto affiancare la facciata principale probabilmente non saranno realizzate, quanto meno non in tempi brevi). La Sagrada Família perennemente incompiuta ci ricorda che le chiese che immaginiamo possono sempre essere più sontuose di qualsiasi edificio finito. Aspetto essenziale per la loro sacralità: noi non onoriamo infatti soltanto la chiesa in sé ma l’idea stessa di una chiesa più favolosa, che quella esistente si limita a simboleggiare.
Matera ospita ogni anno i festeggiamenti in onore della Madonna della Bruna, protettrice della città: fra le varie processioni e sfilate si svolge quella del carro trionfale di cartapesta che, dopo aver attraversato le strade della città lucana e raggiunto una delle piazze del centro, viene preso d’assalto dalla folla dei fedeli e letteralmente fatto a pezzi, finché non ne resta più niente.
Questo rito collettivo ricorda ai materani che qualsiasi creazione umana, dalle chiese ai carri trionfali, potrebbe essere migliore di quella che è. Ogni anno viene costruito un carro più bello, e ogni anno esso viene distrutto, perché la perfezione sfugge sempre agli sforzi dell’uomo, a prescindere dalle capacità e dall’ispirazione.
Matera conosce la perseveranza. Conosce l’impulso a completare ciò che non potrà mai essere completato.
Matera è una delle più antiche - forse addirittura la più antica - fra le città del mondo abitate senza soluzione di continuità fin dalla fondazione. Sebbene sia impossibile determinarne con esattezza l’età, risale di certo al Paleolitico, il periodo in cui gli esseri umani cominciarono a realizzare utensili di pietra. Con l’avvento dell’Età del Bronzo, Matera era già una città consolidata e fiorente, scavata nel corso del tempo in uno sperone di roccia calcarea che si erge sulla campagna circostante come un gigantesco pugno fuoriuscito dalle viscere della terra.
Molte delle abitazioni di Matera sono grotte e molti dei suoi edifici - o meglio, quelli che sembrano edifici - sono semplici facciate, dietro le quali si scoprono ancora delle grotte. Matera è come un enorme alveare, apparentemente solido dall’esterno, ma in realtà costituito per lo più da gallerie, cunicoli e grotte, talvolta poste una sull’altra a formare un’unica abitazione. Se la gran parte delle grandi città aspira oggi a costruire edifici sempre più alti, a testimonianza dei nostri tentativi di avvicinarci al cielo, Matera evoca un bisogno più primordiale, quello di scavare nella terra, di trovarvi abbraccio e protezione.
Matera - le sue rocce, le sue strade, le sue strutture - è sostanzialmente di un solo colore, un biancastro simile a quello di un osso spolpato e abbandonato al sole e alla pioggia del deserto.
Non ci sono alberi. Non c’è erba. Come se ogni cosa fragile, cedevole, fosse stata spazzata via dal vento millenni fa. Matera è composta soltanto da quanto è in grado di resistere a una forza sconquassante. Matera è ciò che resta dopo gli uragani. Visitandola di persona, ho capito che è proprio questo l’unico modo per comprenderla davvero. Le foto sono suggestive, indubbiamente, ma non riescono a trasmetterti la sensazione - palpabile nel momento in cui metti piede in città - di essere fragile a tua volta, di pattinare sulla superficie rocciosa della mortalità.
Tu sei caduco. Matera no.
È nelle viuzze dei Sassi che più è tangibile una presenza spettrale, ma di spiriti dipartiti talmente tanto tempo fa da aver perso qualsiasi tratto umano. A Matera la presenza spettrale è quella dell’umanità stessa: umanità dilavata dal tempo, umanità nella forma più pura ed essenziale, spogliata delle proprie inclinazioni e battaglie, delle proprie paure e desideri. I suoi fantasmi sono ciò che resterebbe di noi se ci venisse tolto tutto ciò che ai nostri occhi ci rende quello che siamo.
Camminando per Matera è possibile scorgerne i fantasmi originari, magari anche solo per un istante. Quell’essenza umana antica, quel fremito di inquietudine che attraversa una piazza altrimenti immobile... no, peccato, l’hai perso. Aspetta, eccolo di nuovo, scivolare davanti al portale di una chiesa... niente, è sparito ancora. Forse l’hai soltanto immaginato.
Matera è un luogo che suscita visioni e insieme dubbi sulle proprie visioni.
Niente di tutto questo si vede dalle fotografie.
Così come non si vedono, al di là del burrone che separa la città vivente da quella estinta, dalle grotte non più abitate, i trogloditi del Paleolitico che vi trovavano rifugio e che sembrano guardarti a loro volta dall’estremità opposta del continuum spaziotemporale, incuriositi quanto te da questo sogno reciproco che state facendo.
Altrettanto impossibile da fotografare è la strana, sepolcrale pulizia della città, una sobria e spietata pulizia buddhista della quale non si stupirebbero gli shintoisti che distruggono e ricostruiscono i loro templi ogni venti anni...
E, ancora, il momento in cui, all’imbrunire, il cielo si riempie di uccelli che in lontananza sembrano rondoni o usignoli e che invece, guardando più da vicino, si rivelano essere piccoli falchi, con la loro testa da predatore e i freddi occhi assassini. I falchi rappresentano l’aspra indistruttibilità di Matera, una città che in un certo senso è predatrice del tempo. Tempo che infatti divora quasi tutto, e tuttavia sembra non riuscire a divorare questa città.
Non che Matera divori il tempo: semplicemente non se ne preoccupa, proprio come un falco non si preoccupa del cielo.
Voglio tornare ancora sulla storia di Matera perché Matera è Storia, in costante collisione con il presente. Potremmo dire che
Matera è l’illustrazione vivente di come la nostra storia crei il nostro presente e il presente il futuro, di come questo processo vada avanti, nanosecondo dopo nanosecondo, sin dalla formazione della Terra.
Come la maggior parte delle città, anche quelle di mille anni più giovani, Matera ha avuto i suoi alti e bassi. Per oltre duecento anni capoluogo della Basilicata, ha ricevuto in visita imperatori e arcivescovi. Ma ci sono stati anche periodi storici più difficili.
All’inizio degli scorsi anni Cinquanta, a fronte delle cattive condizioni di vita, con la maggioranza degli abitanti che vivevano ancora nelle grotte, senza corrente elettrica e fognature, una legge nazionale stabilì lo sfollamento dei Sassi e la costruzione, su colline ricche di verde, di nuovi e più confortevoli quartieri residenziali.
I materani, tuttavia, non erano ben disposti a trasferirsi. Preferivano i (dis)agi delle loro vecchie case, come generalmente è sempre stato nella storia dell’uomo: a quanto pare preferiamo il consueto all’inconsueto, anche se quest’ultimo costituisce tecnicamente un passo avanti.
Date le difficoltà di vita, non stupisce che Matera tenda alla devozione religiosa. La città ospita oltre centocinquanta chiese, molte delle quali rupestri: sì, ricavate anch’esse all’interno di grotte. Molte sono decorate da affreschi realizzati da anonimi pittori cinquecento e passa anni prima della nascita di Giotto.
La religiosità di Matera ha conosciuto una svolta per così dire più moderna nel 1963, quando Pasolini vi ha girato il suo Vangelo secondo Matteo. Da allora sono stati girati nel capoluogo lucano almeno una dozzina di film sulla vita di Gesù, visto che la Matera di oggi somiglia alla Gerusalemme di Cristo più di Gerusalemme stessa. Tra i più recenti, La passione di Cristo di Mel Gibson, nel 2004.
Sono molti i materani che hanno aneddoti da raccontare dopo aver lavorato come comparse nella pellicola: uno, in particolare, mi ha informato con orgoglio che in una delle scene si vede il suo dito (ma soltanto il dito) puntato in segno di sfida. Un altro mi ha mostrato qualcosa di prezioso che conservava dal set, un frammento della croce al quale era stato appeso l’attore che interpretava Gesù. Gli ho fatto i dovuti complimenti, evitando per cortesia di fargli notare che non era un frammento della Vera Croce, ma un pezzo di arredo scenico made in Hollywood . Non credo però che la differenza importasse granché al possessore di quel pezzo di legno vecchio di dodici anni. Tutto sommato comprensibile, in una città che esisteva già migliaia di anni prima della nascita di Cristo. Non voglio essere blasfemo - né di certo c’è questa intenzione nei materani - quando dico che Matera ha una tale abitudine a ricevere imperatori ed ecclesiastici che Pasolini e Gibson sembrano quasi gli esempi più recenti di una catena ininterrotta di personaggi illustri venuti qui in visita, magari non i più eminenti, ma nemmeno trascurabili.
Negli ultimi anni le fortune di Matera sono in costante ascesa, non solo dopo le riprese del film di Gibson, ma anche da quando la città, nel 1993, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dell’Unesco e, qualche tempo fa, designata capitale europea della cultura per il 2019.
In previsione dei flussi turistici che fra tre anni conosceranno senza dubbio un ragguardevole picco, già oggi a Matera sono stati aperti hotel a cinque stelle e ristoranti di livello mondiale, molti proprio all’interno di grotte impeccabilmente tinteggiate di bianco e dotate di ogni comfort. Resta, tuttavia, la forte sensazione che, a prescindere dal destino di queste strutture di lusso, la città non subirà cambiamenti, almeno non in senso profondo e duraturo. Camminando lungo le sue stradine, si percepisce chiaramente la certezza che Matera sopravviverà a tutto ciò di effimero - vuoi l’indigenza, vuoi gli alberghi a cinque stelle - che il vento spazza via.
Per chiudere, vorrei tornare brevemente sul carro trionfale che tutti gli anni, a luglio, viene distrutto in occasione della festa della Madonna della Bruna. La tradizione risale agli inizi del Cinquecento, quando Matera era governata da un conte particolarmente dissoluto che, per far fronte ai debiti personali, era arrivato a raddoppiare e addirittura triplicare le tasse.
La sua ultima, intollerabile decisione fu di ordinare per la festa della Bruna un carro trionfale sgangherato, dalla fattura scadente, beffardo taglio delle spese da parte di un uomo che per sé aveva costruito regge sfarzose e che in una sola notte era capace di sperperare al gioco più di quanto qualsiasi materano guadagnasse in un intero anno di lavoro. Quando comparve lungo le strade di Matera, il patetico carro fu fatto a pezzi da cittadini che, molto semplicemente, ne avevano avuto abbastanza. Il tiranno subì un agguato mortale all’uscita dal duomo: i suoi uccisori non vennero mai individuati, nonostante uno di loro avesse, poco prima dell’assalto, inciso sulla colonnina di una chiesa una confessione anonima che si conserva ancora oggi.
Da allora, Matera distrugge il carro nel giorno di festa, a prescindere da quanto sia grandioso, da quanto sia bello. Assistendo alla festa puoi notare che i più irruenti nel dare l’assalto al carro e cercare di conquistarsene un pezzo - l’ala di un angioletto, la base di una colonna - sono quasi sempre i giovani. E se ci parli, mentre se ne tornano a casa con i loro trofei di cartapesta, scopri che pochi di loro sono consapevoli di mettere in scena l’antica rivolta contro un avido tiranno morto poco più di cinquecento anni fa. Eppure, il rito si svolge fedelmente ogni anno e non sembra fare molta differenza se le persone che vi partecipano conoscono il significato del proprio gesto o sono soltanto felici per l’annuale occasione di poter impunemente fare a pezzi qualcosa (un impulso che chiunque può capire, no?).
In fondo siamo a Matera, città che racchiude innumerevoli storie e che ha accolto innumerevoli generazioni di abitanti, alcune ricordate, altre dimenticate, altre ancora documentate negli archivi, ma per lo più sconosciute a chi ci vive oggi.
Matera, dove il frammento di una croce prodotta a Hollywood per crocifiggerci un attore può essere venerato semplicemente perché appartiene a una Storia ininterrotta, nella quale c’è posto sia per la vita dei santi sia per la realizzazione di un film.
Non è che le storie con la «s» minuscola, e le generazioni, non contino, ma Matera è, anzitutto, una ininterrotta dimostrazione di sopravvivenza, della capacità umana di continuare a esistere, persino a prezzo di grandi sacrifici, e dell’impulso a vivere dove vivevano i nostri antenati. Anche se è un posto aspro e inospitale, anche se la terra è dura e scarse le risorse d’acqua... be’, questo posto appartiene a noi e noi a esso.
L’uomo è, quanto meno, una specie ben determinata. Siamo sopravvissuti a tanti ostacoli. Stando così le cose, gli shintoisti continueranno a distruggere e a ricostruire i loro templi ogni venti anni. Un giorno, forse, a Barcellona la Sagrada Família sarà completata: ma che questo succeda o no, più importante della basilica in sé sarà sempre la visione che Antoni Gaudí ha concepito di essa.
Matera, ancora vivissima, brulla e scarna, di una bellezza anomala, resiste da millenni e potrebbe resistere per millenni a venire. Quegli stessi millenni che, con il loro silenzio, dicono a noi uomini che possiamo continuare a esistere, che molto probabilmente esisteremo ancora, persino in un mondo che talvolta appare fin troppo pronto a liberarsi di noi. Non saremo granché, come specie - se guardiamo alla nostra storia, alle guerre, all’abitudine di ricompensare i ricchi e spogliare i poveri - eppure possediamo una tenacia, una spinta profonda e inesauribile ad andare semplicemente avanti... che sfiora la genialità.
(traduzione di Carlo Prosperi )
Cristo dimenticato a Eboli.
La rimozione di Carlo Levi. Nell’oblio i 40 anni dalla morte e i 70 del celebre romanzo
di Massimo Novelli (il Fatto Quotidiano, sabato 7 novembre 2015)
Da tempo i giornali, così come le televisioni, propinano con un’abbondanza esagerata i ricordi, per questo o quell’anniversario, di personaggi della cultura, della storia (ma un po’ meno: forse la storia fa riflettere troppo sul presente), della politica, dello spettacolo e dello sport.
Si dà conto del quindicennale della morte o del secolo dalla nascita, dei 500 anni o dei mille; e si organizzano “eventi” non sempre seri e rispettosi, sovente mercificati. In questo mare magnum non tutto fa brodo, per parafrasare un vecchio spot della vecchia tv.
È il caso di Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975), uno dei protagonisti di rilievo della cultura del Novecento. Del pittore, romanziere, saggista e militante dell’antifascismo, ricorrevano nel 2015 tre anniversari significativi: i quarant’anni dalla scomparsa; i settanta dall’uscita da Einaudi nel 1945 di Cristo si è fermato a Eboli; gli ottanta dal confino di polizia che il regime fascista gli impose tra i calanchi di Aliano, in Basilicata, e che fu all’origine della sua scoperta del Mezzogiorno e della scrittura del Cristo. La sua riproposizione, tra l’altro, sarebbe stata più che giustificata dal dibattito apertosi, sia pure per poco, sui disastri del nostro Sud, che Levi comprese, amò e per cui si batté.
Invece né la sua Torino, né Roma, e tantomeno la Lucania e Matera futura capitale della cultura, se ne sono rammentati, perlomeno seriamente. Ci sono state delle eccezioni, alcune positive e meritorie, altre contestate. Tra le prime vanno menzionate quelle del comune di Aliano, dove Levi è sepolto e ricordato con varie iniziative, e una serata a Matera promossa dal Circolo Carlo Levi e dal giornalista Rocco Brancati.
Polemiche e richieste di chiarimenti dal Movimento 5 Stelle hanno accompagnato la scelta del Consiglio regionale del Piemonte di acquistare, per oltre 32 mila euro, le copie di un volume fatto stampare dalla Fondazione Giorgio Amendola di Torino (che ha pure promosso due convegni di scarsa risonanza). Intitolato Il Telero: da Torino un viaggio nella questione meridionale, è stato voluto, dicono, per celebrare il quarantennale della scomparsa di Levi. Forse sarebbe stato più utile, e non troppo costoso, regalare alle scuole i libri di Levi.
A mettere in risalto l’oblio di uno scrittore che, con il Cristo e L’Orologio, ha dato alla letteratura italiana due capolavori, e che ha fatto guardare al Meridione con occhi nuovi, è stato per primo Nicola Filazzola, un artista lucano di valore, che incontrò Levi durante il suo ultimo viaggio ad Aliano.
Sulla rivista Il Colle di Matera ha pubblicato un articolo amaro e critico, poi parzialmente ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno, in cui sottolinea che in un “clima di così sfacciata irriconoscenza, per l’uomo che scelse di intrecciare la propria esistenza con quella dei contadini di Basilicata, non mi sorprende che, in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte, istituzioni come il Polo Museale della Basilicata e la stessa Rai lucana non abbiano preparato un evento, fornito un servizio degni dell’importanza che Levi occupò nella storia della nostra regione”. Filazzola ha proposto di organizzare, per celebrare Levi, “un incontro di tutti i Presidenti delle regioni meridionali, per una riflessione sullo stato del Mezzogiorno a settant’anni dalla pubblicazione del Cristo”. Sta aspettando che qualcuno, nei “Palazzi” del Sud, si faccia vivo.
Se la Lucania delle istituzioni tace, altrettanto fa Torino, la città in cui Levi, oltre a cospirare contro il fascismo e a disegnare la copertina di America primo amore di Mario Soldati, animò il gruppo dei “Sei di Torino”, che, alla fine degli anni Venti, mise assieme pittrici e pittori come Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci. La casa editrice Einaudi, è vero, ha ristampato lodevolmente L’Orologio e Quaderno a cancelli, ma in un sostanziale silenzio dei più, lo stesso che ha contraddistinto i libri editi da Donzelli. E Marco Rossi-Doria su La Stampa del 2 agosto ha invitato “a raccontare le cose del Mezzogiorno di adesso nello spirito con il quale Carlo Levi lo fece allora con acume analitico, parole scelte e ferme e civile passione”. Nessuno, naturalmente, ha raccolto l’invito.
Carlo Levi è stato rimosso dalla memoria della nazione. Lo rammentava Federica Montevecchi già nel 2012, su L’Unità, scrivendo che “non ha meritato un Meridiano (neppure un Antimeridiano)”, “proprio ora che c’è bisogno di lui”, come titolava il giornale. Una rimozione che sembra inconcepibile, assurda, se si pensa all’importanza di Levi nella letteratura, nell’arte figurativa, nel pensiero meridionalista e nell’antifascismo giellista e azionista.
Tuttavia l’oblio si può spiegare benissimo: oltre che con quell’eterno presente che predomina le istituzioni culturali italiane, con il fatto che l’opera dell’autore di Paura della libertà è innervata da valori di giustizia e di libertà, dalla passione civile, dall’impegno per i senza storia, per gli umiliati e offesi, per il riscatto del Mezzogiorno, che sono stati cancellati dalle agende politiche e culturali.
Le parole, per Levi, “sono pietre”; oggi sono di polvere. Per citare il suo Orologio, “mi pareva di essere tornato in un villaggio della Lucania, e di ascoltare i Signori conversare dei loro odî eterni e della eterna noia, seduti sul muretto della piazza, sopra il burrone, davanti alla distesa delle argille coperte”.
Se Matera si veste da Betlemme
di Geraldine Schwarz (la Repubblica, 18.12.2014)
La Città dei sassi non a caso è stata pià volte set di film dedicati alla Natività. E quest’anno, il suo allestimento natalizio è il primo evento da Eurocapitale della Cultura
Tra le curiosità si racconta che Pasolini era stato in Palestina ma non era rimasto soddisfatto delle location. Allora Carlo Levi lo portò a Matera che poi divenne location del celebre film e di tanti altri eventi. (...).
L’avversarono crociani e comunisti
di Nello Ajello [2001]*
Un omaggio rivolto a un amico di anni lontani. E’ questo, in primo luogo, la Lettera a Carlo Levi che Giovanni Russo ha appena pubblicato presso gli Editori Riuniti (pagg. 102, lire 18.000). L’ autore di Cristo si è fermato a Eboli diventa, per Russo, una sorta di testimone autobiografico, quasi una metafora della gioventù. S’ affacciano nel libro tanti luoghi deputati del dopoguerra italiano (e soprattutto romano) che evocano la presenza di Carlo Levi, tante persone che il mittente della Lettera ha conosciuto per suo tramite: da Giulio Einaudi a Italo Calvino, da Natalia Ginzburg a Linuccia Saba (e a suo padre, Umberto), da Cesare Pavese ad Anna Magnani. L’ abitazione romana di Levi in palazzo Altieri e i «rifugi» di villa StrohlFern e poi di via del Vantaggio, dove egli collocò nel tempo il suo studio di pittore, erano sempre aperti ai visitatori. Russo li rivede, su quello sfondo di lieve elegia che assumono i ricordi.
Ma la Lettera a Carlo Levi non è soltanto questo. Vi si rivendica un’ intera eredità di pensiero. Si mira a sottrarre il «levismo» - cioè una interpretazione eterodossa della questione meridionale - all’ incomprensione di cui in origine soffrì, e che ancora oggi potrebbe appannarne il valore.
L’ autore difende Levi dalle accuse sia dei comunisti, sia di quei «crociani» che vedevano nell’ apoteosi della civiltà contadina del Sud il pretesto per diffondere una favola estetizzante e un po’ narcisistica. Per Russo, nella personalità di Levi il poeta e il riformatore convergono. Intuizione artistica e impegno politico coincidono. Quel letterato-pittore appartiene in pieno alla tradizione liberale. Ha letto Salvemini, Fortunato, Gramsci, Nitti, Gobetti.
E’ «molto concreto», scrive l’ amico biografo, «e, se così si può dire, molto torinese». Opponendo il mondo contadino alla mentalità «piccolo-borghese dei proprietari e dei galantuomini» egli ha creato, più che una mitologia, una scuola: il nome di Rocco Scotellaro - il giovane sindaco socialista di Tricarico, poeta, antropologo e narratore del Sud che fu molto caro a uno studioso di economia agraria del rango di Manlio Rossi Doria - s’ intreccia, in queste pagine, a quello di Carlo Levi. L’ ideale di un’ autonomia della civiltà contadina, che si esprime nel «borgo», presentava dei punti di contatto non illusori con la dottrina comunitaria di un Adriano Olivetti.
Lo scetticismo che lo scrittore torinese opponeva a ogni soluzione tecnico-economica dei problemi del Sud parve a suo tempo rientrare in un’ utopia letteraria, sia pure nobile e suggestiva. In parte almeno, quell’ impressione rimane. Ma oggi che il meridionalismo è in coma (e i passati interventi di industrializzazione del Sud assumono, quale più, quale meno, il sapore d’ una scommessa perduta), la passione con la quale Giovanni Russo racconta il "suo" Carlo Levi non corre certo il rischio di sembrare eccessiva.
Nello Ajello
* Fonte: la Repubblica, 02 marzo 2001
Carlo Levi e Giovanni Russo, storia di un’amicizia
di Maria Serena Palieri
("Reset", 11 giugno 2012) *
E’ un bellissimo libro questo che Giovanni Russo ha dedicato all’amico Carlo Levi, ed è tale per un incrocio di ragioni. Primo, perché gli anni che vi fanno la parte del leone sono quelli dell’amicizia tra i due e quindi si tratta di un libro non solo saggistico, ma caldo.
In una delle fotografie che arricchiscono il testo, tra un Levi bambino in gonnellina come usava allora anche per i maschi, uno tra i “suoi” contadini ad Aliano (la Gagliano di Cristo si è fermato a Eboli), un Levi azionista nel 1947 con Salvemini e Antonicelli e uno giornalista in India nel 1956 accanto a Nerhu, c’è un Levi in impermeabile chiaro, l’atteggiamento olimpico, quarantatreenne in piazza XVIII agosto a Potenza accanto - appunto - a un appena ventenne Giovanni Russo in doppiopetto, con l’aria a forza adulta che i giovanissimi avevano allora. La scoperta dei giovani come coorte anagrafica e commerciale era ancora di là da venire.
E’ il 1945. Il legame tra i due - con le visite quotidiane di Russo a Villa Strohl-Fern, a Roma, dove Levi viveva nel suo disordinato e alacre studio - durerà fino alla morte del pittore-scrittore, che avverrà a gennaio 1975. E di nuovo, ecco una fotografia che arriva da un mondo scomparso: qui è l’ultima e vi appare un Carlo Levi in poltrona, con la compagna Linuccia Saba - figlia di Umberto - accanto sul bracciolo, un plaid sulle ginocchia e gli occhiali neri che segnalano la sopravvenuta cecità, a seguito di un intervento alla retina.
Sono i mesi in cui, nel suo buio, Levi grazie a un elaborato sistema ha scritto lettera per lettera dentro i riquadri di una rete il testo che poi apparirà come Quaderno a cancelli, e sono i mesi in cui, sempre in quel buio, ha disegnato a memoria il paesaggio di sassi e di terra del Cristo, dove era approdato al confino nel 1934. E qui il sapore di un mondo perso deriva da quel che di ragionevolmente stoico c’è, nell’immagine di un uomo già eccezionale per solare vitalità, che nella terza età, seduto in poltrona, accetta di mostrare la propria cecità. L’età è l’età e porta i suoi guai: non c’era ancora il mito dell’eterna giovinezza.
Il libro, che raccoglie una serie di scritti evidentemente apparsi su giornali e riviste, o d’occasione, tratta con vicinanza la complessa vicenda artistica, giornalistica e politica di Levi nel trentennio in cui durò il sodalizio con Russo. Ma il “prima” preme: perché quel biennio in Lucania, tra il 1934 e il 1936, aveva segnato, per il più anziano, una sorta di seconda nascita. Torinese, di famiglia ebrea impegnata (suo zio Claudio Treves era tra i leader del Psi) laureato in medicina, allievo in pittura di Casorati e Modigliani, a Parigi vicino ai fauves, già nel 1924 con due sue opere alla Biennale, compagno di strada di Gobetti, fondatore di Giustizia e Libertà, era lì al confino. E quella seconda nascita era avvenuta complice un altro buio, ”in questa terra oscura e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose”, scriveva, la terra dove “Cristo non è disceso” perché “Cristo si è fermato a Eboli”.
Un’agnizione che avrebbe contagiato altri. Russo legge il libro appena appare nel 1945: “Aprii gli occhi su un mondo in cui ero vissuto senza vedere, che mi aveva circondato dall’infanzia senza che mi accorgessi dei suoi valori; era il mondo in cui affondavano le radici migliori della società lucana, era il mondo contadino” racconta. “C’era una distinzione molto netta allora tra i borghesi, anche intellettuali, e i contadini. Il Cristo, pur vivendo io in Lucania, fu una rivelazione. Fu la scoperta della realtà, non un messaggio mitologico o politico, come poi è diventato. Molte delle mie vicende personali, dei miei interessi, della mia esperienza di vita, sono dovuti a questo incontro con il Cristo”.
E qui siamo nell’altro motivo meno eccentrico del fascino di questo libro: la ricostruzione cioè del dibattito intellettuale e politico sul Meridione, alla vigilia della fine del fascismo, nel dopoguerra delle grandi speranze e alla nascita dell’egemonia democristiana. Attraverso la figura di un Levi azionista che accetta infine, nel 1963, l’avventura di essere eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. Col suo classico esito: due legislature, poi la nomenklatura lo espelle... Eppure, scrive Russo, Levi era stato il solo “a stabilire un rapporto tra noi e questo mondo antico”: con quel buio cioè in cui si era inoltrato in quel biennio, quel mondo antistatalista e quell’universo atemporale, quel Sud che ancora, settant’anni dopo, osserva Russo chiede di essere interrogato.
Carlo Levi segreto è un libro che pratica una religione civile. Tutt’altro che inattuale: semmai - lì dove evoca lo spettro della Lega - ci fa capire quale bisogno di una fede così avremmo oggi. E’ un libro bello per un ultimo motivo: fa venire in mente certe pagine che Raffaele La Capria ha scritto sull’amico Goffredo Parise. Perché anche questa è la storia di un’amicizia maschile raccontata con affettività e dolcezza, così come, sembra, in Italia solo delle penne meridionali riescono a fare.
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Autore: Giovanni Russo
Editore: Dalai
Pagine: 151
Prezzo: 16,50 €
Anno di pubblicazione: 2011
I partigiani della felicità
di Franco Arminio (Comune-info, 20 settembre 2015)
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di Franco Arminio*
La religione della festa
La luce è in ogni luogo e sopra ogni luogo c’è il cielo. Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro. Questo abbiamo fatto ad Aliano, passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo.
La luna e i calanchi è una festa religiosa. La questione teologica è più importante della questione meridionale, il cuore della vicenda è il tentativo di resistere alla miseria spirituale dilagante.
Le lacrime delle cuoche non me le aspettavo. E i genitori dei ragazzi dello staff, preoccupati di non poter offrire ai loro figli la gioia che ha offerto la festa. Le lacrime delle cuoche appartengono alla religione più che alla cultura. Le lacrime per un legame che si spezza. Noi che ce ne andiamo e loro che restano. Due fragilità che si dividono, si piegano sotto il peso del vuoto bagaglio della vita.
Che nome posso dare a questa religione che arriva fuori tempo massimo? Gli uomini e le donne sono animali superati. Forse il filo che ci legava agli altri esseri e alle cose si è spezzato per sempre. Siamo animali postumi e la mia è una religione per i postumi. Gigio Borriello, uno degli ospiti più intensi, in una sua canzone dice che è morto e dunque non può più morire.
Una visione improvvisa nella mia testa: La luna e i calanchi è un gioioso funerale, proviamo a fare il funerale a una salma che possiamo chiamare modernità. La gioia di un funerale liberatorio.
Ad Aliano c’erano moltissimi ragazzi, di certo attratti dalla musica, ma non solo. Ci sono vari focolai di ragazzi che si sono messi a fare qualcosa per restare nei luoghi dove sono nati o per tornarci dopo aver studiato fuori. Mi pare una notizia che non è contenuta nei rapporti sul Sud basati sulle cifre.
Adesso penso all’arcaico. La Lucania emoziona perché in qualche modo l’arcaico non è stato sterminato. Ma non è l’arcaico che ci interessa, non è il suo fulgore, piuttosto un arcaico ferito, in forma di relitto, di reliquia. L’arcaico fuori forma. Adesso il compito è di concepire qualcosa che già mentre la concepiamo si dissolve. La festa di Aliano è finita e quella che forse faremo l’anno prossimo accadrà in una nuova epoca: in un anno ormai si avvicendano molte epoche.
Oggi è difficile che qualcuno mi possa parlare veramente di questa festa. È come fare una carezza a una bestia ferita con mani che non esistono. Oppure è una profanazione questo fuoco d’artificio di letizia in una terra che non ama esultare, in una terra consacrata al soffrire.
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Quest’anno abbiamo fatto anche due uscite nei paesi vicini. In Lucania ogni paese è un’emozione sicura, non esistono luoghi vacui, sfiatati. A Gorgoglione mi hanno colpito i vecchi che stavano seduti davanti alle porte del paese. Mi ricordo il cerchio di sangue di uno intorno a un occhio piccolo e rotondo. Lì ho pensato al petrolio come a un’ingiuria, lì ho sentito che non potrò mai stare dalla parte degli uomini del profitto. La mia gloria è la perdita.
Dovrei pensare a quello che ha detto Aldo Bonomi. Lui ha inquadrato la paesologia tra le speranze del nuovo secolo, non so spiegare bene cosa ha detto, anzi saprei anche spiegarlo, ma non ne ho voglia, il mio corpo oggi vuole indugiare sulle pieghe, sui dettagli. E poi non ha molto senso fare proclami intorno alla paesologia. Mi basta dire che è un piccolo tentativo che a che fare con la religione, nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non è una disciplina rurale e neppure paesana. Qui si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. I paesi dell’Appennino vanno benissimo come approdo per i profughi, ma non altrettanto per lo sviluppismo dell’ultima ora. In estrema sintesi: sì ai profughi, stop al consumo di suolo.
In fondo la nostra è una guerra partigiana. Si tratta di resistere al nemico comune che possiamo chiamare denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie. La parola cultura per le mie azioni mi pare fuori luogo. La cultura è nicchia inerte o populismo vacuo. Quello che a me interessa è portare i corpi in un luogo. In effetti gli ospiti più interessanti sono quelli più sbilanciati dalla parte del corpo. Chi balla, chi suona, chi fa l’amore, chi ara il suo corpo per farne luce.
Bisogna avere il coraggio di mostrarsi per quello che siamo, infimi e immensi. Questo è il tempo dell’immenso, la medietà non esiste, è una patina con cui molti si rivestono per nascondersi. Tendo a pensare che ogni individuo è un abisso, una voragine in cui il bene e il male si prendono a calci. C’è una furia in ogni vita e bisogna portarla in superficie. Il mio sogno è fare il festival degli anonimi, invitare solo persone che non conosce nessuno. Magari prima o poi ci riesco, dovrei trovare qualche finanziatore che sfugge al ricatto della fama.
La paesologia mette l’accento sui luoghi sgraziati, sui luoghi che fanno luce da soli. Aliano sarebbe un luogo luminoso anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. La forza di questo luogo viene dal suo avere poca vita intorno.
La festa della paesologia dice addio anche a un certo modo di stare a sinistra, tutto centrato sull’opinionismo a costo zero. Mi piacciono i percettivi, gli attenti, quelli che prima di dire il male provano a dire il bene. E per fare questo bisogna lavorare di più perché il bene è raro e sfuggente. Ad Aliano si capisce benissimo che il canto e la poesia stanno un passo avanti rispetto ai ragionamenti rinsecchiti. Il secolo che abbiamo davanti non sappiamo che strada può prendere, per ora è il caso di aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo. La sinistra si rifonda qui, si rifonda nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con cura, si dà foraggio buono alle mucche. Ecco le tracce di una politica che parte dalla natura, ogni cosa che abbiamo tra le mani viene dalla terra prima che da una fabbrica.
La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. Questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato, perché se siamo qualcosa è dentro l’aria che abbiamo respirato.
L’alfabeto è continuamente da rivedere. Personalmente non credo più neppure alla letteratura. Credo a qualche pagina, credo a qualche frase, ma la letteratura si è arenata, non toglie e non aggiunge, è un treno d’ombre su un binario morto. La festa della paesologia è il mio libro, un libro scritto con i corpi dei visitatori e degli artisti invitati, con il corpo degli abitanti del paese. Chiamo questi intrecci comunità provvisorie.
La festa ha messo insieme persone assai lontane tra di loro, ma le persone quando danno il meglio di sé un po’ si avvicinano. Il senso della festa sta tutto in questo clima in cui ognuno dà il meglio. Ad Aliano è tutto un fiorire di abbracci, gli abbracci che mi hanno tenuto sveglio a oltranza per sei giorni.
C’è soprattutto una visione, ho capito prima di altri che in certi luoghi del Sud oggi si può concepire qualcosa di nuovo. Ho capito che la mia scrittura doveva essere agganciata a delle azioni di militanza collettiva, una militanza festosa, lontana dal grigiore di chi vive sotto la dittatura del problema. In realtà il mondo è già bene accordato ovunque, il problema di solito lo aggiungiamo noi. Con questo punto di vista si possono fare tante cose belle, non solo la festa della paesologia. Dunque, mettiamoci al lavoro fuori dal piombo dei discorsi. Sa di polvere il mondo di chi parla e non crede. Ora c’è da credere in chi crede e guarda.
* Franco Arminio, paesologo, scrittore e poeta, altri suoi articoli sono qui.