Il sociologo e filosofo francese Jean Baudrillard è morto ieri a Parigi, dopo una lunga malattia. Autore di fama internazionale, ha scritto una cinquantina di libri ed è stato uno dei più influenti pensatori post-moderni, in particolare per la sua critica ai meccanismi della società dei consumi. Nato nel 1929 a Reims, aveva iniziato la sua formazione come germanista. Dal 1966 docente all’università di Paris X-Nanterre, negli anni successivi era entrato a far parte dell’Institut de recherche sur l’innovation sociale, laboratorio del Centre national de la recherche scientifique.
Sebbene lo si identifichi generalmente con il nome e l’opera di un altro grande maestro del pensiero francese, e cioè con Jean-François Lyotard, il postmodernismo deve forse di più alla riflessione di Jean Baudrillard, già professore a Nanterre nel periodo epico della rivolta studentesca del 1968. A quella rivolta e allo spirito di quell’epoca, Baudrillard rimase in fondo sempre fedele, e i suoi rapporti con il movimento comunista e il marxismo ne furono sempre segnati, nei termini di una costante polemica contro il burocratismo stalinista del Pcf dell’epoca e poi nello sforzo costante di integrare il marxismo in una visione più radicale della storia e della società.
Nato nel 1929 a Reims, Baudrillard studiò a Parigi e nel 1966 era assistente di Lefèbvre, maestro di una sociologia critica della vita quotidiana che sarebbe stata sempre una delle tematiche favorite di Baudrillard. Degli Anni Sessanta e dei primi Settanta sono le opere più significative, che lo resero presto molto popolare presso l’intellighenzia europea e americana (secondo alcuni, anzi, più nel mondo latino-americano e anglosassone che nella stessa Francia). La ricchezza e originalità del lavoro di Baudrillard consistette, allora come più tardi, nel mettere a frutto da un punto di vista di critica sociale molte delle idee dello strutturalismo francese, che presso altri autori apparivano piuttosto come un semplice metodo di descrizione della nuova realtà sociale del mondo tardo-capitalistico.
Da Il sistema degli oggetti (1968) a La società dei consumi (1970) Baudrillard sviluppa un discorso che, ispirato a un marxismo niente affatto ortodosso, vede nel crescente spossessamento del soggetto, ridotto a consumatore ossessivo delle merci che il sistema produttivo getta sul mercato, il vero senso della società attuale e dell’alienazione da essa indotta. Quello che per lo strutturalismo era la centralità e la quasi indipendenza del mondo dei segni - giacché anche il significato delle parole, per Saussure, è solo risultato di un sistema di differenze interne alla lingua, e non di un diretto riferimento alle cose - diventa per Baudrillard la realtà stessa nella quale non conta più tanto il valore d’uso degli oggetti e nemmeno il loro valore di scambio.
Queste due categorie sono proprie di un marxismo ancora prigioniero della logica della produzione, intimamente compromessa con il capitalismo. Andando oltre queste categorie del valore, Baudrillard si ricollegava anche agli studi del sociologo americano Thorstein Veblen, che aveva messo l’accento sul valore delle cose come status-symbol, come simboli di differenziazione sociale molto più che come strumenti o come moneta di scambio; e riprendeva soprattutto la teoria dell’economia generale come l’aveva proposta Georges Bataille, che, contrariamente a tutta la tradizione classica che la fondava sulla penuria, poneva al centro l’idea di spreco, di consumo eccessivo come manifestazione di vitalità e di sovranità del soggetto.
Si andava costruendo così in Baudrillard un’idea di società che lo collocava di fatto tra i pensatori più significativi della post-modernità. Come si sa, il postmoderno era cominciato con Lyotard quando si erano dissolti i «metaracconti», cioè le grandi visioni ideologiche della realtà ridotta a principi supremi che permettevano di spiegare tutto: marxismo, idealismo hegeliano, positivismo, metafisiche di carattere religioso. Questi metaracconti erano caduti di fatto con la fine dell’eurocentrismo e degli imperi coloniali, le altre culture avevano preso la parola, ognuna con il suo modo di ordinare e spiegare la storia. Non c’è più, lo dice Baudrillard ma in fondo lo pensava anche Lyotard, un mondo «reale» in base a cui criticare i «racconti» o stabilire la verità vera. Il mondo dei segni è il solo dentro cui ci muoviamo, e naturalmente è un mondo molteplice.
Ma quale criticità è ancora possibile, allora? Baudrillard rimane fedele alla sua ispirazione «rivoluzionaria» d’origine; anche se non condivide più la filosofia della storia marxista, pensa tuttavia che una forma di resistenza al dominio - che ora si esercita anche e soprattutto nel mondo dei segni, nel determinare l’immaginario collettivo, i desideri e i bisogni - sia possibile, nella forma di una resistenza all’imporsi universale della logica della produzione e del consumo.
Le opere del Baudrillard maturo, soprattutto Lo scambio simbolico e la morte (1976), e poi Strategie fatali (1983), L’illusione vitale (2000), Il Delitto perfetto (1994) tendono però ad accentuare gli aspetti pessimistici della sua filosofia. Il mondo dei segni diventa sempre più quello in cui tutte le forme di lotta e di contrasto storico si dissolvono in una sorta di iperrealtà che somiglia al mondo virtuale dei calcolatori, come se la storia fosse davvero finita - e del resto Baudrillard la considera in certo senso terminata con la fine dell’Unione Sovietica e la caduta del Muro di Berlino. Ciò che resta tuttavia sempre irrisolto nel suo pensiero - e ne costituisce la ricchezza e la proseguibilità anche nella situazione attuale della filosofia e delle scienze sociali - è il problema se la «perdita» della realtà a favore dell’iperrealtà del mondo dei segni, o di quelli che egli ci ha insegnato a chiamare i «simulacri», sia davvero solo un fatto di alienazione o anche un possibile modo di liberazione. Come forse il Baudrillard marxista eterodosso dovrebbe essere incline a pensare.
Gianni Vattimo
Su La Stampa di oggi, 7 marzo 2007
Un libro postumo del filosofo Jean Baudrillard
Quando l’immagine cancella la realtà
Trasmissioni come il Grande Fratello corrispondono al desiderio imperscrittibile di essere assolutamente "Nulla" e di essere guardati in quanto tali
di Jean Baudrillard (la Repubblica, 18.02.2009)
La violenza dell’immagine (e, in generale, dell’informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L’immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d’altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell’immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell’immagine-reportage, dell’immagine-messaggio, dell’immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all’immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po’ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un’immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show ecc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c’è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell’altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell’essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello.
Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l’operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell’informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l’espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault.
Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell’immagine. È una violenza che va in profondità, all’essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch’esso la propria originalità; non è nient’altro che un operatore di visibilità, nient’altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.
Anche l’immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell’immagine, la fonte della violenza contro l’immagine. Tutto quello che si vede nell’operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un’immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell’every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti. Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell’insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un’immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l’evento più mortifero, come l’attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall’indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall’indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza.
Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l’ultima metamorfosi degli sport estremi. In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all’immagine), o si cade nell’esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l’obbligo di essere se stessi. Da qui l’esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c’è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell’uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell’informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo "interattivo" è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l’obiettivo più chiaro dell’operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale.