ARTE E ANTROPOLOGIA. «K» E LO SPIRITUALE NELL’ARTE ...

KANDINSKY, A SCUOLA DALLO SCIAMANO. UNA MOSTRA ALL’ARCA DI VERCELLI. Materiali - a c. di Federico La Sala

Oltre a ventidue opere di Kandinsky e a un nucleo di maestri dell’avanguardia arrivati dai musei russi, la mostra espone una raccolta di rari oggetti rituali delle tradizioni polari e sciamaniche in uso nelle remote terre della Siberia
sabato 29 marzo 2014.
 

Kandinsky. Tamburi d’Oriente

Quel magico viaggio siberiano che ha offerto la spiritualità al padre dell’astrattismo lirico

di Melisa Garzonio (Corriere della Sera, 29.3.14

C’è modo e modo di amare un pittore. Dei quadri incendiari di Kandinsky ci si innamora di solito perdutamente. E come chiamarlo, se non amour-passion, quel sentimento che trasforma i collezionisti del maestro russo in avidi dissipatori (Kandinsky vanta strepitosi record d’asta) e mette in fila schiere di fan galvanizzati ovunque ci sia una mostra dove campeggia il magico «K»?

I suoi quadri, nei soggetti più sensibili, possono causare uno stato alterato di coscienza pari a quello provocato dal ritmo danzante di uno sciamano. Sembra facile da capire, con quella pioggia di colori che sembrano brani musicali e hanno corrispondenze con le tue emozioni, le pennellate che ricordano le sinfonie di Schönberg, le composizioni facili facili con i colori primari, il rosso, il giallo e il blu. Le nuvole, i castelli e le fate, i cerchi e i quadrati. Invece no: Kandinsky è imprendibile, insondabile, un mistero.

«Come fu che all’alba del secondo decennio del Novecento il pittore russo giunse alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana? Per rispondere a questa domanda abbiamo voluto andare alla fonte»: raccontare la svolta che farà di Wassily Kandinsky (1866-1944) il padre dell’astrattismo lirico, focalizzandosi sulle atmosfere fiabesche e romantiche della sua infanzia, è la scelta di Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato di San Pietroburgo e curatrice (in collaborazione con Francesco Paolo Campione e Claudia Beltramo Ceppi Zevi) della mostra all’Arca di Vercelli: «Kandinsky. L’artista come sciamano».

Dopo il ciclo, durato cinque anni, realizzato in collaborazione con la Fondazione Guggenheim, che ha portato a Vercelli i grandi delle avanguardie europee e americane, lo spazio trecentesco dell’Arca si apre ai tesori russi del Novecento, di cui è scrigno il Museo Nazionale di San Pietroburgo.

Un posto magico per un artista che sulla magia ha costruito la sua impresa artistica, dai primi dipinti «primitivi» dove la figurazione è sognante come nelle fiabe raccontate dalla zia materna Elizaveta, che si occupò dell’artista bambino dopo il divorzio dei genitori, fino alle grandi tele dove i colori trasportano emozioni e prendono il sopravvento sulle forme per diventare purissima espressione.

Lo spiegava già, il pittore, nel 1911, dieci anni dopo aver abbandonato una brillante carriera di avvocato, nel suo saggio Lo spirituale nell’arte, che bastava una certa combinazione di colore, forma e ritmo della composizione, per comunicare le parole del cuore.

«Vercelli ha ospitato Kandinsky in altri due eventi espositivi, ma quest’anno ne fa il protagonista assoluto di una mostra non convenzionale, con capolavori mai esposti e finora sconosciuti al di fuori dei patri confini», spiega l’assessore alla Cultura Pier Giorgio Fossale.

Oltre a ventidue opere di Kandinsky e a un nucleo di maestri dell’avanguardia arrivati dai musei russi, la mostra espone una raccolta di rari oggetti rituali delle tradizioni polari e sciamaniche in uso nelle remote terre della Siberia, prestito della Fondazione Sergio Poggianella, proprietaria di una delle collezioni più ricche sull’argomento.

Interessante è scoprire come la parabola creativa del pittore sia profondamente radicata nel folklore e nella tradizione. Kandinsky partecipò a una spedizione nella Russia settentrionale, dove approfondì la conoscenza dei sirieni e studiò la mistica dello sciamano, dall’antico termine altaico «saman», colui che presiedeva alle cerimonie religiose e ai riti di guarigione, mediatore fra realtà sensibile e mondo ultraterreno.

Conta forse aver avuto un padre di origini siberiane, conta l’essere cresciuto, prima ancora che a Odessa, a Mosca, a Monaco, al Bauhaus di Weimar, Dessau, Berlino e a Parigi, nell’universo favoloso del mondo contadino, fatto sta che nella breve autobiografia del 1913, Sguardo al passato , riferendosi a questi anni, il pittore scrive: «Per fortuna la politica non mi assorbì completamente, mi aiutarono a sviluppare il pensiero astratto: il diritto romano (...), il diritto criminale, il diritto russo, il diritto contadino e infine la scienza affine dell’etnologia». I sirieni credevano alle divinità dei boschi e delle acque e a una sorta di spirito o anima divinizzata, orth, che si manifestava nella metamorfosi, nell’empatia con la natura e nella sinestesia. Per lo «sciamano» Kandinsky era facile ottenerlo con l’energia cinetica dei colori.


In cerca dell’«orth». Che poi trasformò in implosione

di Roberta Scorranese (Corriere della Sera, 29.03.2014)

In Testo d’autore (1918) Wassily Kandinsky confessa: «Da ragazzo volevo fare il pittore ma, per un russo, mi pareva un lusso illecito. Così studiai economia politica». Fu dunque da economista che, nel 1889, partecipò a una spedizione nel nord della Russia, nel governatorato di Vologda, per studiare le tradizioni di popolazioni come i sirieni, etnia ugro-finnica del gruppo dei Komi.

Era quello un momento particolare per l’artista: gli studi scientifici non lo avevano allontanato dalla sua ricerca estetica, anzi, avevano rinvigorito questo aspetto. Ma non bastava. Kandinsky cercava una chiave per uscire dalla gabbia naturalistica, voleva dare una fisionomia a quell’inquietudine che lo spingeva ad allargare le prospettive.

Per esempio, in quegli anni lesse il Kalevala, poema epico della Finlandia e annotò: «Mi inchino». Non era il solo. Anche Konstantin Korovin, celebre paesaggista coevo, si recò in Siberia, cercando chissà che cosa.

Non potevano saperlo, ma stavano vivendo un’età particolare per la Russia, che poi è stata definita (specie dagli emigré degli anni Trenta) «dell’argento», contrapposta a quella aurea di Puškin e Ciaikovsky: un’epoca in cui l’arte rompe i confini tra i generi e mescola le discipline; in cui la musica non si affianca alla pittura, ma la compenetra (Korovin scrive: «Il paesaggio deve entrarti dentro come un suono»); la poesia simbolista di Aleksandr Blok rompe gli schemi e alla parola accosta la potenza del colore; registi come Mejerchol’d unirono teatro e politica. Ecco perché le ricerche etnoantropologiche di Kandinsky non si limitano al valore documentale, ma penetrano nei quadri, si mescolano ai colori.

Innanzitutto, a colpirlo è un popolo che «ha cancellato la sua memoria»: la cristianizzazione ha infatti raso al suolo un patrimonio di riti pagani che l’artista cerca di recuperare osservando attentamente le izbe (case), le vecchie che parlano al vento («c’è la credenza che il vento sappia ascoltare»), i proverbi («Non rovinare» è uno dei detti più frequenti tra le donne siriene).

Leggendo lo studio (presente in mostra) è come se si ricomponesse un quadro nitido: il pittore cercava una dimensione interiore insondabile, uno spirito come l’orth (l’anima della casa secondo i sirieni) quella volontà non di dipingere una tela ma di «rivoltarmici dentro» come scriverà più tardi.

Kandinsky aveva capito che l’arte doveva implodere in un infinito scandaglio dello spirito, della memoria, di quello sciamanesimo perduto che, nei sirieni, sopravviveva solo in alcune abitudini popolane. Implosione. Non è un caso che molti artisti dell’età dell’argento decisero di implodere in se stessi con un colpo di pistola (vedi Majakovskij).

Kandinsky osserva un tamburo sciamanico e immediatamente nel suo sguardo compare la macchia nera che tornerà in alcune sue Composizioni; guarda la curva di un arco rituale e se lo vede già linea pura, astrazione, spirito assoluto, a-materico. L’orth. Il supporto materiale perde consistenza: le poesie di un altro grande esponente dell’età dell’argento, Osip Mandel’stam, sono sopravvissute fino a noi perché la moglie Nadežda le imparò a memoria, mettendole al riparo dalla furia sovietica; il poeta Velimir Chlebnikov si lasciò morire di inedia. Kandinsky fonderà «Il cavaliere azzurro»: la sua implosione.


L’origine divina dell’arte più forte di ogni laicismo Dal culto delle reliquie ai pellegrinaggi nei musei

di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera. 29.03.2014)

Nel suo viaggio dentro il cuore primitivo della grande madre Russia, Kandinsky non s’innamorò solamente di forme e colori, ma scoprì soprattutto «lo spirituale nell’arte», quella forma di comunicazione emotiva che l’uomo intrattiene con il mistero proprio per mezzo delle immagini.

A cavallo fra Otto e Novecento erano diversi gli artisti che partecipavano a viaggi di studio etnografici pubblicando le loro ricerche come Alexandr Borisov (1866-1934) il quale, studiando la vita dei samoiedi, aveva visto che tenevano dentro gli armadi statuine di lupi e di orsi. Lo sciamano le aveva chiuse lì dopo aver pronunciato parole di rito affinché i due animali non andassero in giro nella tundra. Il sacerdote era anche l’artista che, attraverso segni e consacrazioni, rendeva possibile il contatto fra i due regni del visibile e dell’invisibile.

Era la scoperta di un mondo esoterico, agli antipodi di quello razionalista europeo e che rivelava inedite prospettive di analisi anche sull’arte occidentale. Nel 1934 Ernst Kris e Otto Kurz, due studiosi dall’erudizione enciclopedica, misero insieme le conoscenze della scuola di Vienna, massima fucina di storici dell’arte di cui Julius von Schlosser era l’ultimo patriarca, con le nuove ricerche di Sigmund Freud. Questo per indagare la frontiera mobile tra arte e magia in un saggio rimasto seminale: La leggenda dell’artista.

Dietro la laicizzazione della produzione artistica occidentale scoprirono le tracce indelebili di un’origine religiosa delle immagini, trasversale a tutti i Paesi e le culture a cominciare dalla Grecia, dove le statue del leggendario Dedalo venivano legate durante la notte per impedire loro di fuggire.

E proprio come il lupo e l’orso chiusi dallo sciamano russo, anche l’imperatore Costantino ordinò di mettere la scultura della Fortuna sotto chiave perché non abbandonasse la nuova città sul Bosforo. Del resto, che in una statua potesse albergare lo spirito divino era stato rivelato anche nella Bibbia dove si narra che l’uomo fu creato da Dio plasmandolo con la terra. La furia iconoclasta, dunque, va compresa come il rovescio di questo contesto magico: il pazzo che alla National Gallery di Londra sparò un colpo di fucile contro la Madonna con Bambino e sant’Anna di Leonardo pensava infatti che la Madonna lo guardasse di traverso procurandogli il malocchio.

Anche gli studi di André Grabar sull’arte paleocristiana hanno confermato come il culto delle reliquie sia all’origine della venerazione delle immagini cristiane che, a partire dal VI secolo, vengono consacrate e investite della divinità stessa da parte del sacerdote attraverso una formula rituale o l’aspersione con olio santo o incenso. Ma in Occidente questa equivalenza ontologica fra il corpo vivente e il suo simulacro, resa possibile dall’«artista/sacerdote», s’interrompe quando la produzione artistica subisce una laicizzazione che la rende indipendente dagli scopi religiosi.

In particolare, quando la storiografia comincia a nominare l’autore di un’opera, allora vuol dire che il pregio di tale opera non è più solo relativo alla sua funzione magica, ma a un autonomo valore creativo.

Tuttavia, come vediamo nelle biografie degli artisti raccolte da Plinio a Vasari, il magico continua a sopravvivere nei topoi che raccontano il ruolo del fato e l’origine divina del talento artistico. Di solito il futuro artista è un pastorello notato per caso mentre disegna per terra o attorno al quale si condensano segni premonitori: lo stesso mito biografico usato per Giotto o nei Vangeli apocrifi per il piccolo Gesù che impastava uccellini con la terra dandogli vita. Non solo.

Il magico sopravvive anche nelle pratiche che riguardano il culto di certe «immagini miracolose» conservate nei nuovi templi di oggi, i musei. I fedeli partono in pellegrinaggio per il Louvre o gli Uffizi, sfilano in processione davanti alla Gioconda o alla Venere di Botticelli per ricevere la grazia emanata dall’immagine sacralizzata dalla nuova religione. È la religione dell’arte che, come scrive Régis Debray, «Si presenta come la prima religione planetaria».


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