Quel magico viaggio siberiano che ha offerto la spiritualità al padre dell’astrattismo lirico
di Melisa Garzonio (Corriere della Sera, 29.3.14
C’è modo e modo di amare un pittore. Dei quadri incendiari di Kandinsky ci si innamora di solito perdutamente. E come chiamarlo, se non amour-passion, quel sentimento che trasforma i collezionisti del maestro russo in avidi dissipatori (Kandinsky vanta strepitosi record d’asta) e mette in fila schiere di fan galvanizzati ovunque ci sia una mostra dove campeggia il magico «K»?
I suoi quadri, nei soggetti più sensibili, possono causare uno stato alterato di coscienza pari a quello provocato dal ritmo danzante di uno sciamano. Sembra facile da capire, con quella pioggia di colori che sembrano brani musicali e hanno corrispondenze con le tue emozioni, le pennellate che ricordano le sinfonie di Schönberg, le composizioni facili facili con i colori primari, il rosso, il giallo e il blu. Le nuvole, i castelli e le fate, i cerchi e i quadrati. Invece no: Kandinsky è imprendibile, insondabile, un mistero.
«Come fu che all’alba del secondo decennio del Novecento il pittore russo giunse alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana? Per rispondere a questa domanda abbiamo voluto andare alla fonte»: raccontare la svolta che farà di Wassily Kandinsky (1866-1944) il padre dell’astrattismo lirico, focalizzandosi sulle atmosfere fiabesche e romantiche della sua infanzia, è la scelta di Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato di San Pietroburgo e curatrice (in collaborazione con Francesco Paolo Campione e Claudia Beltramo Ceppi Zevi) della mostra all’Arca di Vercelli: «Kandinsky. L’artista come sciamano».
Dopo il ciclo, durato cinque anni, realizzato in collaborazione con la Fondazione Guggenheim, che ha portato a Vercelli i grandi delle avanguardie europee e americane, lo spazio trecentesco dell’Arca si apre ai tesori russi del Novecento, di cui è scrigno il Museo Nazionale di San Pietroburgo.
Un posto magico per un artista che sulla magia ha costruito la sua impresa artistica, dai primi dipinti «primitivi» dove la figurazione è sognante come nelle fiabe raccontate dalla zia materna Elizaveta, che si occupò dell’artista bambino dopo il divorzio dei genitori, fino alle grandi tele dove i colori trasportano emozioni e prendono il sopravvento sulle forme per diventare purissima espressione.
Lo spiegava già, il pittore, nel 1911, dieci anni dopo aver abbandonato una brillante carriera di avvocato, nel suo saggio Lo spirituale nell’arte, che bastava una certa combinazione di colore, forma e ritmo della composizione, per comunicare le parole del cuore.
«Vercelli ha ospitato Kandinsky in altri due eventi espositivi, ma quest’anno ne fa il protagonista assoluto di una mostra non convenzionale, con capolavori mai esposti e finora sconosciuti al di fuori dei patri confini», spiega l’assessore alla Cultura Pier Giorgio Fossale.
Oltre a ventidue opere di Kandinsky e a un nucleo di maestri dell’avanguardia arrivati dai musei russi, la mostra espone una raccolta di rari oggetti rituali delle tradizioni polari e sciamaniche in uso nelle remote terre della Siberia, prestito della Fondazione Sergio Poggianella, proprietaria di una delle collezioni più ricche sull’argomento.
Interessante è scoprire come la parabola creativa del pittore sia profondamente radicata nel folklore e nella tradizione. Kandinsky partecipò a una spedizione nella Russia settentrionale, dove approfondì la conoscenza dei sirieni e studiò la mistica dello sciamano, dall’antico termine altaico «saman», colui che presiedeva alle cerimonie religiose e ai riti di guarigione, mediatore fra realtà sensibile e mondo ultraterreno.
Conta forse aver avuto un padre di origini siberiane, conta l’essere cresciuto, prima ancora che a Odessa, a Mosca, a Monaco, al Bauhaus di Weimar, Dessau, Berlino e a Parigi, nell’universo favoloso del mondo contadino, fatto sta che nella breve autobiografia del 1913, Sguardo al passato , riferendosi a questi anni, il pittore scrive: «Per fortuna la politica non mi assorbì completamente, mi aiutarono a sviluppare il pensiero astratto: il diritto romano (...), il diritto criminale, il diritto russo, il diritto contadino e infine la scienza affine dell’etnologia». I sirieni credevano alle divinità dei boschi e delle acque e a una sorta di spirito o anima divinizzata, orth, che si manifestava nella metamorfosi, nell’empatia con la natura e nella sinestesia. Per lo «sciamano» Kandinsky era facile ottenerlo con l’energia cinetica dei colori.
In cerca dell’«orth». Che poi trasformò in implosione
di Roberta Scorranese (Corriere della Sera, 29.03.2014)
In Testo d’autore (1918) Wassily Kandinsky confessa: «Da ragazzo volevo fare il pittore ma, per un russo, mi pareva un lusso illecito. Così studiai economia politica». Fu dunque da economista che, nel 1889, partecipò a una spedizione nel nord della Russia, nel governatorato di Vologda, per studiare le tradizioni di popolazioni come i sirieni, etnia ugro-finnica del gruppo dei Komi.
Era quello un momento particolare per l’artista: gli studi scientifici non lo avevano allontanato dalla sua ricerca estetica, anzi, avevano rinvigorito questo aspetto. Ma non bastava. Kandinsky cercava una chiave per uscire dalla gabbia naturalistica, voleva dare una fisionomia a quell’inquietudine che lo spingeva ad allargare le prospettive.
Per esempio, in quegli anni lesse il Kalevala, poema epico della Finlandia e annotò: «Mi inchino». Non era il solo. Anche Konstantin Korovin, celebre paesaggista coevo, si recò in Siberia, cercando chissà che cosa.
Non potevano saperlo, ma stavano vivendo un’età particolare per la Russia, che poi è stata definita (specie dagli emigré degli anni Trenta) «dell’argento», contrapposta a quella aurea di Puškin e Ciaikovsky: un’epoca in cui l’arte rompe i confini tra i generi e mescola le discipline; in cui la musica non si affianca alla pittura, ma la compenetra (Korovin scrive: «Il paesaggio deve entrarti dentro come un suono»); la poesia simbolista di Aleksandr Blok rompe gli schemi e alla parola accosta la potenza del colore; registi come Mejerchol’d unirono teatro e politica. Ecco perché le ricerche etnoantropologiche di Kandinsky non si limitano al valore documentale, ma penetrano nei quadri, si mescolano ai colori.
Innanzitutto, a colpirlo è un popolo che «ha cancellato la sua memoria»: la cristianizzazione ha infatti raso al suolo un patrimonio di riti pagani che l’artista cerca di recuperare osservando attentamente le izbe (case), le vecchie che parlano al vento («c’è la credenza che il vento sappia ascoltare»), i proverbi («Non rovinare» è uno dei detti più frequenti tra le donne siriene).
Leggendo lo studio (presente in mostra) è come se si ricomponesse un quadro nitido: il pittore cercava una dimensione interiore insondabile, uno spirito come l’orth (l’anima della casa secondo i sirieni) quella volontà non di dipingere una tela ma di «rivoltarmici dentro» come scriverà più tardi.
Kandinsky aveva capito che l’arte doveva implodere in un infinito scandaglio dello spirito, della memoria, di quello sciamanesimo perduto che, nei sirieni, sopravviveva solo in alcune abitudini popolane. Implosione. Non è un caso che molti artisti dell’età dell’argento decisero di implodere in se stessi con un colpo di pistola (vedi Majakovskij).
Kandinsky osserva un tamburo sciamanico e immediatamente nel suo sguardo compare la macchia nera che tornerà in alcune sue Composizioni; guarda la curva di un arco rituale e se lo vede già linea pura, astrazione, spirito assoluto, a-materico. L’orth. Il supporto materiale perde consistenza: le poesie di un altro grande esponente dell’età dell’argento, Osip Mandel’stam, sono sopravvissute fino a noi perché la moglie Nadežda le imparò a memoria, mettendole al riparo dalla furia sovietica; il poeta Velimir Chlebnikov si lasciò morire di inedia. Kandinsky fonderà «Il cavaliere azzurro»: la sua implosione.
L’origine divina dell’arte più forte di ogni laicismo Dal culto delle reliquie ai pellegrinaggi nei musei
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera. 29.03.2014)
Nel suo viaggio dentro il cuore primitivo della grande madre Russia, Kandinsky non s’innamorò solamente di forme e colori, ma scoprì soprattutto «lo spirituale nell’arte», quella forma di comunicazione emotiva che l’uomo intrattiene con il mistero proprio per mezzo delle immagini.
A cavallo fra Otto e Novecento erano diversi gli artisti che partecipavano a viaggi di studio etnografici pubblicando le loro ricerche come Alexandr Borisov (1866-1934) il quale, studiando la vita dei samoiedi, aveva visto che tenevano dentro gli armadi statuine di lupi e di orsi. Lo sciamano le aveva chiuse lì dopo aver pronunciato parole di rito affinché i due animali non andassero in giro nella tundra. Il sacerdote era anche l’artista che, attraverso segni e consacrazioni, rendeva possibile il contatto fra i due regni del visibile e dell’invisibile.
Era la scoperta di un mondo esoterico, agli antipodi di quello razionalista europeo e che rivelava inedite prospettive di analisi anche sull’arte occidentale. Nel 1934 Ernst Kris e Otto Kurz, due studiosi dall’erudizione enciclopedica, misero insieme le conoscenze della scuola di Vienna, massima fucina di storici dell’arte di cui Julius von Schlosser era l’ultimo patriarca, con le nuove ricerche di Sigmund Freud. Questo per indagare la frontiera mobile tra arte e magia in un saggio rimasto seminale: La leggenda dell’artista.
Dietro la laicizzazione della produzione artistica occidentale scoprirono le tracce indelebili di un’origine religiosa delle immagini, trasversale a tutti i Paesi e le culture a cominciare dalla Grecia, dove le statue del leggendario Dedalo venivano legate durante la notte per impedire loro di fuggire.
E proprio come il lupo e l’orso chiusi dallo sciamano russo, anche l’imperatore Costantino ordinò di mettere la scultura della Fortuna sotto chiave perché non abbandonasse la nuova città sul Bosforo. Del resto, che in una statua potesse albergare lo spirito divino era stato rivelato anche nella Bibbia dove si narra che l’uomo fu creato da Dio plasmandolo con la terra. La furia iconoclasta, dunque, va compresa come il rovescio di questo contesto magico: il pazzo che alla National Gallery di Londra sparò un colpo di fucile contro la Madonna con Bambino e sant’Anna di Leonardo pensava infatti che la Madonna lo guardasse di traverso procurandogli il malocchio.
Anche gli studi di André Grabar sull’arte paleocristiana hanno confermato come il culto delle reliquie sia all’origine della venerazione delle immagini cristiane che, a partire dal VI secolo, vengono consacrate e investite della divinità stessa da parte del sacerdote attraverso una formula rituale o l’aspersione con olio santo o incenso. Ma in Occidente questa equivalenza ontologica fra il corpo vivente e il suo simulacro, resa possibile dall’«artista/sacerdote», s’interrompe quando la produzione artistica subisce una laicizzazione che la rende indipendente dagli scopi religiosi.
In particolare, quando la storiografia comincia a nominare l’autore di un’opera, allora vuol dire che il pregio di tale opera non è più solo relativo alla sua funzione magica, ma a un autonomo valore creativo.
Tuttavia, come vediamo nelle biografie degli artisti raccolte da Plinio a Vasari, il magico continua a sopravvivere nei topoi che raccontano il ruolo del fato e l’origine divina del talento artistico. Di solito il futuro artista è un pastorello notato per caso mentre disegna per terra o attorno al quale si condensano segni premonitori: lo stesso mito biografico usato per Giotto o nei Vangeli apocrifi per il piccolo Gesù che impastava uccellini con la terra dandogli vita. Non solo.
Il magico sopravvive anche nelle pratiche che riguardano il culto di certe «immagini miracolose» conservate nei nuovi templi di oggi, i musei. I fedeli partono in pellegrinaggio per il Louvre o gli Uffizi, sfilano in processione davanti alla Gioconda o alla Venere di Botticelli per ricevere la grazia emanata dall’immagine sacralizzata dalla nuova religione. È la religione dell’arte che, come scrive Régis Debray, «Si presenta come la prima religione planetaria».
Così si curava l’uomo delle caverne: quelle piante preistoriche che ancora oggi servono a guarire
La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia raccontata nella mostra «Le piante e l’uomo» al Museo delle Civiltà di Roma
di Andrea Cionci (La Stampa, 28/01/2019)
Fin dalla Preistoria, l’uomo ha avuto la necessità di trovare rimedi per curare ferite e malattie. In questo è stato guidato dalla sua facoltà istintiva a scoprire le proprietà utili, curative e alimentari delle piante, un po’ come gli animali.
La storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia è oggi raccontata dalla mostra «Le piante e l’uomo» curata da Paolo Maria Guarrera e allestita presso il Museo delle Civiltà (arti e tradizioni popolari) di Roma (dal 21 dicembre 2018, al 21 aprile 2019).
Uno dei problemi più importanti per l’uomo preistorico era individuare quali piante potessero essere commestibili e quali velenose. Per questo si osservavano gli animali e talvolta si somministrava loro le piante di cui si voleva vedere l’effetto.
«In quest’opera di “ricerca” delle proprietà vegetali» spiega il direttore del Museo, Filippo Maria Gambari - «le donne ricoprivano un ruolo di primo piano. Mentre infatti l’uomo si occupava della caccia, esse erano dedite alla raccolta di frutti ed erbe spontanei. Furono anche le prime a coltivare i semi dando poi avvio all’agricoltura. Questa loro attività faceva sì che nelle comunità nascesse e si affermasse la figura della “donna di medicina” che, di solito anziana, sopravvissuta a molti parti, ricopriva il ruolo di sciamana”.
Il fatto che per due milioni e mezzo di anni il mondo sia andato avanti con questa divisione dei compiti, è anche all’origine delle differenti abilità e propensioni tra il cervello maschile e quello femminile. Ancor oggi le donne possiedono dei recettori nueronali che consentono loro di distinguere meglio i colori e di individuare con più attenzione dettagli che all’uomo solitamente sfuggono.
Tra l’altro, quasi sempre l’attività di raccolta dei vegetali doveva essere condotta insieme ad altre incombenze, riguardanti la cura dei bambini e dell’abitazione, ecco perché si parla della famosa capacità “multitasking” della donna. Viceversa, il maschio grazie alla caccia, ha sviluppato una particolare capacità di concentrazione che gli consente di focalizzare tutta la propria attenzione su un solo obiettivo, escludendo tutto il resto, come poteva essere richiesto all’epoca, dalla ricerca di un odore, di una traccia della fuga di un animale.
Grazie alle acute capacità di osservazione, le donne di medicina avevano quindi compreso come alcune erbe avessero il potere, ad esempio, di favorire la cicatrizzazione delle ferite. Tra queste, la Consolida Maggiore, come venne poi chiamata da Plinio il Vecchio. Questa pianta, ancora oggi, in certe zone viene usata dalla medicina popolare per le sue proprietà vulnerarie (guarisce le ferite); pare inoltre che stimoli la formazione del callo osseo in caso di fratture. Sembra che il sollievo e la guarigione siano dati da una sostanza chiamata allantoina, usata, in sintesi chimica, anche dall’industria farmaceutica per gli stessi scopi.
Si ricordi poi il Luppolo che ha delle proprietà antidolorifiche tanto che si dice che chi soffre di artrosi, tragga qualche giovamento dal bere birra.
Le proprietà vermifughe dell’aglio erano, poi, ben note. La parassitosi intestinale che oggi risulta appena un lieve e frequente inconveniente «scolastico», costituiva nei tempi arcaici una delle più diffuse cause di deperimento e morte dei bambini che, sempre a contatto con il terreno facilmente ingerivano uova di ossiuri e altri vermi.
Un altro rimedio usato nelle comunità preistoriche era il papavero, i cui semi venivano impiegati per facilitare il sonno. Dopotutto, da questa pianta si estrae l’oppio e se ne distilla la morfina.
Vi era poi tutta una serie di foglie e muschi applicati come bendaggi, spesso in associazione con delle muffe particolari dall’azione antibiotica. Per quanto solo alla fine dell’800 il medico molisano Vincenzo Tiberio avesse studiato e dimostrato il potere antibiotico delle muffe - anticipando di 35 anni le scoperte di Fleming sulla penicillina - nella medicina popolare è sopravvissuto quest’uso per centinaia di migliaia di anni. Non a caso, un proverbio piemontese recita: «La ragazza che mangia il pan muffì, la vien più bella dì per dì (la ragazza che mangia il pane ammuffito diventa più bella di giorno in giorno)». Si era notato che mangiare il pane di segale muffito potesse portare, ad esempio, dei benefici a livello dermatologico.
Anche nelle mummie egiziane sono state trovate tracce di questi antibiotici primordiali. Naturalmente, erano da preferirsi le muffe createsi su cereali o vegetali, non certo quelle che si formavano sulla carne, che, in quanto contenenti cadaverina, sono velenose.
Uno dei proto-farmaci più straordinari fu la corteccia del salice: essa è ricca di salicina, sostanza che svolge attività analgesiche, antinfiammatorie e antipiretiche tramite l’inibizione di un enzima responsabile dell’insorgenza di infiammazione, febbre e dolore. I nostri progenitori, specie quelli dell’Europa centro-settentrionale, erano soliti mettere a macerare nell’aceto di mele la grigia scorza di questo albero ottenendo una sorta di aspirina ante litteram, che è per l’appunto acido acetil-salicilico.
Per comprendere la messa a punto di questi rimedi, bisogna immaginare l’esperienza stratificata di decine di migliaia di generazioni che ha prodotto una forma «darwiniana» di sperimentazione che l’uomo moderno non può concepire.
Nella più completa ignoranza della chimica, l’uomo preistorico attribuiva tali proprietà alla magia, come è comprensibile.
Non a caso, le arpe dei Celti erano di legno di salice, che si riteneva fosse un materiale magico utile per collegarsi alle divinità apollinee del loro pantheon.
«A tal proposito, - spiega il direttore Gambari - sono significativi i tatuaggi che sono stati ritrovati sulla pelle dell’Uomo del Similaun, mummia risalente a 5000 anni fa, ritrovata sul ghiacciaio omonimo al confine tra Italia e Austria. L’analisi osteologica su Oetzy ha dimostrato che l’uomo soffriva di osteoartrosi. Proprio nei punti che dovevano essere dolenti per il soggetto, sono ancora visibili tatuaggi realizzati con magnetite, un materiale che per le sue proprietà poteva realmente dargli sollievo. Basti pensare a quanto oggi avviene con i cerotti magnetici studiati appositamente per lenire i sintomi di questa patologia. Tuttavia è probabile che l’Uomo del Similaun attribuisse la sua guarigione più ai simboli magici che non al materiale con cui era stata dipinta la sua pelle».
Di queste eredità magiche sopravvivono ancor oggi alcuni lacerti. Ad esempio, l’usanza di baciarsi sotto al vischio a Capodanno, deriva dalla credenza antichissima per cui questa pianta, crescendo sugli alberi morti, fosse capace di rigenerare e donare nuova vita.
Anche le fiabe in cui la principessa bacia il rospo e lo fa diventare principe derivano dai reali effetti allucinogeni che l’essudato della pelle del rospo produce. Da sempre ritenuto animale magico, non è infrequente trovarlo nelle tombe antiche e, immancabilmente, nei ricettari stregoneschi.
La palma della curiosità spetta però alla leggenda secondo cui Babbo natale viaggia su una slitta volante trainata da renne. Questo si spiega con il fatto che, ancora in area celtica, gli sciamani fossero soliti assumere, durante la festività di Yule, coincidente col solstizio d’inverno, delle sostanze psicotrope che facilitassero i loro contatti col divino. Tra queste, vi era l’urina di renna: il cervide, cibandosi del fungo Amanita muscaria - velenoso per l’uomo - ne filtrava e concentrava con l’urina il solo alcaloide allucinogeno (il muscimolo) eliminando la tossicità del fungo.
Fra le allucinazioni più frequenti durante questo rito vi era quella appunto in cui le renne cominciavano a volare tutt’ intorno, anche perché gli stessi quadrupedi, sotto l’effetto dell’Amanita, sono soliti darsi a galoppate e corse pazze senza scopo apparente.
Aspettando le avanguardie la creatività si tinge di occulto
A Palazzo Roverella una mostra ripercorre la fascinazione per l’esoterismo che ha coinvolto l’Europa a cavallo tra l’800 romantico e la modernità del ’900
di Marco Vallora (La Stampa, TuttoLibri, 13.10.2018)
Questa su Arte e Magia è la classica mostra, che se ti capitasse di vedere al Musée d’Orsay o in qualche rara istituzione belga, saccenza ti suggerirebbe di maledire: «Ma possibile che mostre così, noi, in Italia, ce le dobbiamo sognare?!». E invece no, basta prendersi il treno per Rovigo, ed ecco la buona sorpresa. Che poi non è così integrale, perché da tempo Palazzo Roverella ci ha abituato a mostre di tutto rilievo, grazie anche allo scrupoloso e dotto studioso Francesco Parisi e preziosi cataloghi Silvana. Che per fortuna, portandoci via dall’ormai uggioso e setacciato terreno dell’Impressionismo, grazie a sondaggi preziosi negli ambiti delle Secessioni nazionali e di quel fertile periodo simbolista, tra Ottocento post-romantico e Novecento pre-avanguardie, promette e mantiene, non poche e poco sospettate golosità espressive. Certo, l’ambito del cerchio magico ed artistico, intorno a quella singolarissima figura del nobile Péladan, che si ribattezza Sâr come un satrapo assiro, e fonda la scuola mistica (e cattolica) dei Rosacroce (coinvolge anche l’eccentrico Satie, che gli compone una marcetta personale) è già stata toccato da una recente mostra alla Fondazione Guggenheim. Ma qui il campo, che pure lo sfiora (visto che molti degli artisti presenti si rifanno al suo precetto: «Osare, volere, sapere, tacere») è molto amplificato. Infatti uno dei temi nevralgici della mostra è proprio quello dell’iniziazione, del silenzio programmatico, per non svelare arcani appresi in segreti consessi. E potremmo infatti partire proprio dalla sculturina in grès, La pleureuse, del poco frequentato Charles Gréber (in stile Minne) che rappresenta una sorta di panneggiata figura, senza volto, incappucciata, quasi una colonna piangente. Col velo che pare una cascata di dolore, e sforma ogni possibile fisionomia.
Il grès è un materiale invetriato, che moltiplica trasparenze e lascia sospettare una materia mobile, spiritica, sotto la madreperlacea superficie riflettente. «Sotto»: il gusto che andiamo a incontrare è proprio questo, ambiguo, anfibio. Diviso, schizofrenicamente, tra un bisogno intrinseco di silenzio arcano e confessionalmente enigmatico, omertà idealizzata, e simultaneamente l’esigenza di ostendere questi messaggi segreti ed iniziatici, inconfessabili (ma qui tutto si fa «in»: indicibile, invisibile, inspiegabile, e mettiamoci pure l’in-conscio). Omaggiato da gestualità che tornano, quasi ricorrenti (nei più diversi paesi toccati, e sono molti, Cecoslovacchia compresa). Ma modulati da una fantasia araldica e grafica, che è prodigiosa (splendida sezione curata da Emanuele Bardazzi). Il segno confessionale del dito avanti alla bocca, che richiama il celebre gesto del Dio Horus, che proibisce confidenze ai non-iniziati. E che passa dal belga Khnopff (con quelle figure sfibbrate in un pulviscolo di luce) al nostro toscano Kienerk, allievo macchiaiolo di Cecioni (che colpevole s’abbevera alla cultura esoterica). Da Carlos Schwabe, il grafico titolato del Sâr Péladan a Pierre-Félix Fix-Masson, uno dei classici aristocratici con nome multiplo, che tradisce il suo lignaggio, per meritarsi altri titoli virtuali: babilonesi od egizi. Perché in quegli anni, in cui l’archeologia in crescita scientifica, ha liberato la Sfinge di Giza, dalla polvere del deserto che la nascondeva agli sguardi, tutto riverbera quest’aura recondita. E la scienza positivista dei Raggi X, cerca di rincorrere simili fenomeni medianici (telecinesi, «piante mesmeriche», apporti), introdotte dalle «cattive scienze». Una nuova egittomania, nutrita soprattutto di mistica sapienziale orientale (Eliphas Lévy e la riscoperta di Ermete Trimegisto, ma c’è anche il mago Crowley).
L’idea (e l’ideale) di un’arte dell’invisibile, che cova sotto la pelle della realtà (in odio con il realismo alla Zola). La scoperta di mondi «altri», rispetto al gusto classico e al dogma della riproduzione fedele. Qui, in questo universo incarnato dalle teorie di Schuré (sui Grandi Iniziati: equiparando Gesù a Buddah, Abramo ai Veda, e ad altri profeti artistici, come Wagner, Moreau e Odilon Redon) è tutta una festa, liturgica e talvolta turgida, di cuori fiammanti e palpebre socchiuse, di estasi carnalissime e astri raggianti, di gigli, bafometti, circi con maiali succubi e vampiri-camaleonti, androgini, calici sanguinanti, mani che ghermiscono teschi e serpenti dal volto umano. Melanconico od estatico.
Perché uno dei temi, che transitano attraverso questa funerea e voluttuosa kermesse di teosofia ed occultismo, satanismo e spiritismo (ovviamente con la figura dubbia di Eusapia Palladino, che attrae persino Bergson e i Curie) stregoneria a parte, è proprio quella dell’automatismo medianico. Che ha impressionanti analogie con le pratiche surrealiste (e le streghe di Grasset, che filtrano frammentate, attraverso tronchi di foreste, sono già puro Magritte simbolista). Così, accanto a nomi celeberrimi, che non potevano mancare, da Rops a Ensor, da Kupka a Delville, da Moreau a Martini(collezione Magritte!) si scoprono curiosi connazionali segreti. Come il suicida ventiquattrenne Gabrielli, «amico degli scheletri», che ritrae Oriani, mentre Romani si fa rifiutare il ritratto di Dina Galli, perché si trova troppo ectoplasma. Geniale Corinto Corinti, che come un nostrano Achilles Rizzoli, prepara per Vittorio Emanuele II un monumento, che sta tra la torre e lo stupa.
Arte e Magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa ....
L’invisibile rivelato
Streghe, formule e segreti l’arte sedotta dalla magia
Una mostra a Rovigo illustra la (sottile) influenza che le pratiche arcane hanno avuto su molti pittori e scultori tra Otto e Novecento. Aprendo la strada all’astratto
di Melisa Garzonio (Corriere della Sera, 29.09.2018)
Silenzio. Voce all’occulto. La ragazza bruna fasciata di blu di Giorgio Kienerk (pannello centrale di L’enigma umano , 1900) le mani strette sulla bocca, mette sull’avviso, non dite parola, lasciate che siano i demoni, i vampiri e i fantasmi a parlare per voi, guidandovi nel percorso della mostra ad alta suggestione misterica, che apre a Rovigo, a Palazzo Roverella: «Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa».
«Osare, volere, sapere, tacere. Per accedere al segreto iniziatico», non scherza il curatore Francesco Parisi, che per mesi ha dovuto affrontare un’impressionante folla di creature notturne partorite dal lato oscuro di artisti, qualcuno insospettabile, presi dal desiderio di indagare l’occulto, il sogno, l’inconscio. «Tra il 1880 e il 1925 in Europa l’interesse per l’occulto e le dottrine esoteriche s’impenna con prepotenza. Nasce la psicoanalisi, e nuove correnti artistiche che elaborano in linguaggio figurativo il concetto di inconscio, come il Simbolismo» spiega Parisi. La mostra parte da qui, dall’invito al silenzio imposto con grazia da Odilon Redon e Carlos Schwabe, pittori di donne angelicate e contornate di fiori, fino alla sfinge severa in marmo di Leonardo Bistolfi, al busto di donna in gres di Jean Dampt che intimorisce il visitatore col ditino alzato.
L’apparato iconografico è inquietante. Demoni e streghe in un percorso di fuoco e sguardi saettanti. La strega nuda e il gatto di Paul-Elie Ranson guata chi le passa a tiro sdraiata tra fuochi e rospi; se vi spostate a rimirare impietositi la Donna dannata di Georges De Feure, spalmata su gouache, rischiate di trovarvi nel cul de sac del Vicolo delle streghe di Paul Bürck, vis-à-vis con il drammatico Streghe nella burrasca di James Ensor.
Il viaggio negli orrori - ma attenti, alcune streghe sono bellissime, come la rossa roteante verso il cielo sulla scopa magica di Luis Ricardo Faléro - propone vampiri e animali mostruosi. C’è anche Satana, ma è poco credibile, pur se dotato di maschera nera e cornini, come nella versione pettoruta e con la pelle color brace che ne dà George Frederick Watts. Vuoi mettere l’ansia che trasmettono Gli occhi degli angeli dipinti in azzurro e oro da Raoul Dal Molin Ferenzona, uno degli artisti più coinvolti dalla simbologia dei significati arcani degli anni Venti?
Dopo i «mostri» il percorso conduce nei luoghi deputati al mistero, i templi sacri dei segreti iniziatici. Benvenuto Benvenuti ci accoglie nella sua Casa delle armonie celesti o Palazzo per musica, Hermann Obrist è rappresentato da due sculture in gesso: Movimento e Progetto per un monumento. Ma non è facile staccare gli occhi dal dipinto del pittore nabis Paul Sérusier L’incantesimo o il Bosco sacro dove si rappresenta un rito iniziatico all’aperto, perché «la natura è un tempio» come diceva Baudelaire, guru dei simbolisti.
Le sezioni sono dodici, gli artisti più di 30, tutti sedotti dalle correnti esoteriche in voga tra il 1880 e gli anni successivi alla prima guerra mondiale, e non ci si ferma all’area simbolista. A partire dalla Francia e dal Belgio la cultura riservata ai discepoli, o agli iniziati, fece proseliti coinvolgendo arti figurative, letteratura e architettura del Vecchio Continente, convertendo alla moda dello spiritismo - nato in Usa con le sorelle Fox e confermato in Francia con i Salon de la Rose+Croix - un po’ tutti, dai protagonisti del simbolismo internazionale alle prime avanguardie del Novecento e poi Futurismo e Astrattismo.
Piet Mondrian, per esempio, che prima della svolta astratta ci regala una sfilata di undici pioppi in rosso, giallo, verde e blu; Vassily Kandinsky che invita all’astrazione spirituale con uno sgargiante Rosso in forma appuntita, e il delicatissimo Primaveriris firmato FuturBalla, alias Giacomo Balla. E poi Klee, Itten e tanti altri appassionati dell’invisibile.
Il dito sulle labbra e altri segni
Piccolo vocabolario esoterico.
Numerosi i simboli dell’occulto nell’arte.
Dal Medio Evo a Duchamp
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 29.09.2018)
Nelle loro botteghe, a contatto con pietre esotiche da macinare per trarne polvere colorata come il prezioso blu di lapislazzuli, oppure chini sui vapori velenosi delle «acque forti» per trasformare i graffi su una lastra di rame in immagini, gli artisti hanno sempre frequentato la mitologia dell’oscuro dove le fantasie prendevano forme simboliche ed esoteriche. Chi le creava, le sapeva interpretare o le collezionava, possedeva i più importanti strumenti di conoscenza all’interno del sistema del sapere. Gli artisti erano dunque fra gli iniziati e ai migliori di loro, filosofi, teologi e scienziati affidavano formule e schemi da riportare in mappe, disegni, grandi cicli di affreschi come nel Palazzo della Ragione, a Padova, o nel Salone dei Mesi del ferrarese Palazzo Schifanoia.
Anche dopo il Medio Evo, con l’Umanesimo, la creazione artistica continuò a produrre una grande quantità di immagini di matrice ermetica, alchemica e cabalistica. Basti pensare a Botticelli, Piero di Cosimo, Leonardo, Dürer, Michelangelo, Parmigianino e Beccafumi, in un elenco che arriva al Manierismo, stile per eccellenza degli enigmi. Nei secoli successivi il fascino dell’iconografia esoterica riemerge continuamente nelle vanitas fiamminghe; nei sabba di Callot, Magnasco o Goya; nelle opere visionarie di pittori come Füssli e Blake; in correnti artistiche come il Surrealismo, il Simbolismo o l’Astrattismo. Si può dunque affermare che il sapere esoterico si sia tramandato proprio grazie all’arte e pochi artisti hanno saputo sfuggire all’orgogliosa consapevolezza di far parte di una casta custode di un antico repertorio iconografico.
Nemmeno il dissacratore dadaista Marcel Duchamp, autore, nel 1915, di una delle opere più misteriose del Novecento, il «Grande vetro (La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche)» di cui in mostra è esposta la versione ad acquaforte. La sua interpretazione è un rebus che porta a pensare si tratti di un’illustrazione delle «Nozze chimiche», motivo allegorico che esprime l’unione armonica dei principi all’origine dell’equilibrio del cosmo, ossia la riconciliazione tra la parte maschile e femminile della nostra psiche.
Un’altra delle immagini più antiche è quella del dito sulle labbra, il «signum arpocraticum», dal nome di Horus, o Arpocrate, il piccolo figlio di Iside: è contemporaneamente gesto del silenzio e dell’ascolto che allude all’Altro per ottenere, come lo spiegò Dumézil, «la concentrazione di un’efficacia magica che la parola pronunciata non possiede». Ma ogni risveglio esoterico ha trovato le sue iconografie più congeniali: fra quelle amate dal Simbolismo c’è senz’altro l’erotismo illustrato da una galleria di donne fatali, da Giuditta, Salomé, a Meduse, Sfingi, Sirene, Chimere: tutti esseri che trasmettono il mal d’amore, o morte magica, paragonabile all’estasi mistica e al raptus che discende dal contatto con la divinità, pericoloso fino alla morte.
Il paesaggio, invece, è un tema limitato soprattutto alla foresta misteriosa;al contrario, fra gli animali si trova una grande ricchezza che spazia dal caprone che presiede ai rituali sabbatici come simbolo del diavolo associato alla lussuria, alla civetta, simbolo della Sapienza, personificazione della Notte e attributo del Regno del Sonno, fratello di Tanato, la Morte. Altra immagine molto frequentata è la scala per indicare la conquista dell’elevazione filosofica, mistica ed esoterica, anello di congiunzione fra la vita quotidiana e la Grande Opera.
Allo stesso modo la comparsa di monti, rocce e città turrite, luoghi iniziatici cui solo il sapiente ha accesso, allude all’ascesi spirituale verso i mondi superiori del cosmo e al viaggio iniziatico per conquistare la sapienza e purificare la materia dell’essere umano con lo scopo di far emergere la sua parte divina. Anche le lampade, richiamo al fuoco alchemico insieme generatore e distruttore, sono l’agente che accelera il processo verso la perfezione.
I simboli sono dunque numerosi e diversi, ma il filo rosso che unisce la mano di tutti gli artisti-alchimisti è l’idea che lo spirito prevale sulla materia, l’invisibile sul visibile. Un percorso dello «spirituale nell’arte» attraverso cui Kandinsky giunse a inventare un’ulteriore nuova forma artistica: quella dell’astrazione.
Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa
Scritto da Redazione (ArteMagazine, 25.09.2018)
ROVIGO - Odilon Redon, Paul Ranson, Eugene Grasset, Jean Delville, Felicien Rops, Austin Osman Spare, Paul Serusier, Alberto Martini, Carlos Schwabe, Wassily Kandinsky, Auguste Rodin, Edvard Munch, Frantisek Kupka, Giorgio Kienerk, Leonardo Bistolfi, Ferdinand Hodler, Albert Trachsel, Mikalojus Constantitnas Ciurlionis, Hugo Höppener (Fidus), Peter Behrens, Bruno Taut, Ernesto Basile, Paul Klee, Johannes Itten, Luigi Russolo, Willelm Morgner, Kazimir Malevic, Gaetano Previati, George Frederic Watts, Giacomo Balla, Piet Mondrian, Frantisek Kupka, Romolo Romani, sono questi i nomi degli artisti protagonisti della mostra dedicata da Palazzo Roverella di Rovigo all’arte, alla magia e all’esoterismo.
A partire dalla Francia e dal Belgio l’influenza della cultura esoterica sulle arti figurative si diffuse ben presto nell’Europa di fine Ottocento, intrecciandosi con la letteratura e coinvolgendo, grazie a Josephin Peladan e al suo Salon de la Rose+Croix, i maggiori protagonisti del simbolismo internazionale, da Arnold Böcklin a Gaetano Previati.
Suggestionati da testi letterari come I grandi iniziati di Edouard Schuré o dal celebre romanzo decadente La-Bas di Joris Karl Huysmans, pittori e scultori, ma anche viaggiatori, scrittori e giornalisti, trovarono nelle religioni orientali o nei testi ermetici una sorta di moda alternativa alle riflessioni sul cristianesimo. Nel corso del ‘900 poi si vennero a creare vere e proprie comunità, come quella di Monte Verità (località vicino ad Ascona), sviluppate attorno ad un sistema utopico magico/irrazionale in cui gli adepti praticavano culti solari, nudismo e vegetarianesimo ed in cui si ritrovavano, fra gli altri, Carl Gustav Jung, Hermann Hesse e Paul Klee. La mostra rodigina, suddivisa in accurate sezioni iconografiche, vede tra le figure protagoniste quella del Diavolo in tutte le sue mutazioni: dai demoni intenti a seminare zizzania tra gli uomini, fino al moderno Faust che accompagna l’artista nell’atto creativo. La strega, già icona del Liberty decadente, conduce ora l’artista negli abissi della voluttà e della sottomissione come nel celebre dipinto di Gustav Adolf Mossa Elle. Gli animali notturni, civette, lupi, corvi, pipistrelli, misteriosi e affascinanti. Infine una galleria di ritratti di artisti, filosofi e pensatori, esponenti di teorie esoteriche occidentali ed orientali.
Un’ampia sezione è dedicata inoltre ai libri illustrati e alle incisioni, ad accompagnare l’intero percorso, dal Malleus Maleficarum, incunabolo rinascimentale, fino alle edizioni realizzate tre 800 e 900.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Silvana con testi critici di Jean-David Jumeau Lafond (Salone Rosa+Croce), Hana Larvovà (Praga e la Boemia magica), Emanuele Bardazzi (L’illustrazione e l’esoterismo tra 800 e 900), Fabio Mangone (L’architettura esoterica), Paolo Bolpagni (Musica e esoterismo), Mario Finazzi (Giacomo Balla e la teosofia), Mara Folini (Monte Verità e gli artisti mitteleuropei), Matteo Fochessati (Teosofi e antroposofi in Liguria), Jolanda Nigro Covre (Esoterismo ed astrattismo).
Informazioni e prenotazioni: www.palazzoroverella.com
La notte del sabba va al museo
Mostre. «Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa», una rassegna a Palazzo Roverella di Rovigo a cura di Francesco Parisi
Paul Sérusier, «L’Incantation», 1891-92 Quimper, Musée des Beaux-Arts
di Arianna Di Genova (il manifesto, 02.10.2018)
ROVIGO Si entra in silenzio, seguendo l’invito del gesto iniziatico di accattivanti fanciulle rappresentate in grandi quadri: un dito sulla bocca a significare che i mondi occulti si attraversano con la coscienza allargata ma con il segreto nel cuore, permettendo a pochi individui di percorrere i sentieri dell’illuminazione, magari scalando gli scalini di un tempio.
Ma la mostra presso Palazzo Roverella di Rovigo Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa, a cura di Francesco Parisi (la rassegna è visitabile fino al 27 gennaio 2019 ed è corredata da un catalogo ricco di contributi edito da Silvana) procede in una vertigine spiraliforme. Come se fossimo in gironi, non infernali ma sotterranei, ci si immerge al centro fino a che si è rapiti dall’opera-cardine: quell’acquerello potentissimo che va sotto il nome di L’enlèvement (siamo nel 1882) di Félicien Rops, assaggio di un satanismo improntato a eros dissoluto e stregoneria, che sfonda il cielo rassicurante per popolarlo di demoni predatori. Lo fa in un’accelerazione avvitante, un po’ come ci aveva abituati Luca Signorelli nella sua Cappella di san Brizio, dentro al duomo di Orvieto.
L’ARTISTA BELGA, d’altronde, era considerato un maestro, un apripista di quell’universo inquieto, esoterico e anche spiritista che si era andato raggruppando intorno alla libreria /galleria nonché casa editrice parigina di Edmond Bailly, presto trasformatasi in un luogo magnetico per quel revival dell’occultismo fin de siècle. Fu proprio Rops a inventarne il logo: una sirena alata con denti aguzzi, da fiera selvatica. Indomabile come l’inconscio. Intorno agli scritti di Eliphas Lévi e alla figura carismatica di Joséphin Péladan, nato a Lione città magica per eccellenza (insieme a Praga), scrittore e guru identificato con i re assiri, come documenta l’acconciatura della sua barba nel disegno di Alexander Seon esposto in mostra. Fu Péladan a istituire i Salon dei Rosacroce (a quel momento storico-mistico è stata dedicata, l’anno scorso, l’esposizione veneziana al Peggy Guggenheim), rifondando l’ordine secondo il suo pensiero e spingendolo a diventare territorio sconfinato per il pascolo dell’immaginario dei pittori simbolisti.
A Rovigo si è scelta una finestra temporale nel tentativo di maneggiare un tema vastissimo e molto insidioso - dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento - e la rassegna, con le sue oltre duecento opere e alcune prime edizioni di testi storici, è debitrice alla passione del curatore che attraverso le vie misteriose del Simbolismo ha incontrato il pullulare magico di quell’epoca indefinibile, stretta tra l’insorgere dell’industrializzazione con il conseguente abbandono della natura in favore di alienanti città e i venti di guerra che, nel giro di una manciata di anni, avrebbero travolto l’Europa.
NATURALMENTE non tutti gli artisti sono indimenticabili; molti sono presenti in veste di «testimoni» di quel percorso spirituale e poco terreno cui si erano affidati, sondando macabre visioni, notti di sabba e cascate di luce dall’aldilà.
FRA I TOPOS dell’esoterismo c’è sempre un luogo impenetrabile come la foresta, abitata da esseri inconoscibili, fedeli accompagnatori di streghe quali lupi, rospi o pipistrelli. Paul Elie Ranson, tra i fondatori dei Nabis, sfoggiava nella sua biblioteca personale un testo come Le traité élementaire de science occulte di Papus e Palazzo Roverella ospita la sua Strega nuda e il gatto. Fra i suoi compagni di iniziazione c’era anche Paul Sérusier, qui ricordato con Le bois sacré, opera che sottintende un sentimento panico della natura e un incontro con forze misteriche, primitive, antidoto al logos e alla scienza positivista.
CI SONO ANCHE GLI ALBERI tra i soggetti «animati»: il tronco rosso fiamma, minaccioso e rivelatore di Odilon Redon e il filare più accondiscendente di pioppi di Piet Mondrian, i cui tronchi però si spogliano via via delle maglie figurative per addentrarsi nei territori sospesi della teosofia attraverso le suggestioni di Édouard Schuré ma soprattutto di Rudolf Steiner che nel 1909 approdò a Amsterdam con una conferenza che destò scalpore. L’influenza per Mondrian non sarà effimera: anni dopo, nel 1920, il pittore gli chiederà in una lettera di esprimere un giudizio sul suo testo del Neoplasticismo. Per Mondrian, la teosofia era «un agente potente per presagire la liberazione dei cuori oppressi». Duchamp invece avvicinerà l’esoterismo grazie alla lezione del grande artista ceco Kupka, sodale di tutta la famiglia e attento lettore di Edgar Allan Poe, i cui paesaggi invasi da spiriti trasponeva nelle sue incisioni (L’idolo nero).
Lo stesso norvegese Munch non rimase immune dalla semina «occulta» che attraversò la sua epoca. Nella sua permanenza parigina, e in quella berlinese per tramite del teorico dell’«anima nuda» Przybyszewski, venne catturato - per sua sensibilità e angoscia personale - da quella temperie. Vampiri e donne fatalmente maligne, fantasmi che si presentano in notti da incubo saranno le sue versioni horror di una interiorità dissestata, in cerca di luce spirituale.
A RACCONTARE qualche altro filamento e fuoriuscita del tema principale di Arte e magia, Francesco Parisi ha inserito anche un gruppo di artisti italiani. Ci sono così le fotografie dell’invisibile (non spiritiche però!) di Anton Giulio Bragaglia, le diavolesse dal turbolento eros di Alberto Martini, il gufo decadente del livornese Gabriele Gabrielli (che molto lavorò intorno ai Fiori del male di Baudelaire). Ma il più aderente alla cultura esoterica, per una reale attitudine misterica e per lo spiritismo che ha intriso il suo studio romano sulle Mura (nella famiglia si contavano diversi medium), è senz’altro il ceramista Francesco Randone. Con il Ricordo del rogo recupera la forma delle urne cinerarie romane, convinto che la cottura rigeneri la materia a nuova vita. Adotterà il nome di Maestro delle Mura, firmando le sue opere con «Pater» mentre le figlie verranno ribattezzate «vestali». Nel suo atelier insegnava gratuitamente ai giovani allievi (ancora oggi esiste. dentro quelle Mura Aureliane che lui abitò, una scuola tenuta in vita dai nipoti) e lì riceveva gli amici, tra gli altri Giacomo Balla e Duilio Cambellotti.
Éveline Lot- Falck
La donna che rubò i segreti agli sciamani
La grande etnologa e storica delle religioni analizzò per tutta la vita i riti primitivi di caccia dei popoli siberiani, in un luogo e in un’era in cui cielo e terra, animali e dei erano più vicini. Ora il suo studio esce in Italia
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 27.09.2018)
Ci fu un tempo in cui la vita sociale - nel suo aspetto religioso e protettivo - era regolata da una sorta di patto sciamanico. La figura che ne garantiva l’esercizio, cioè lo sciamano, conteneva in sé qualcosa di bizzarro. Poteva comportarsi in modo strano: urlare, danzare o rivolgersi al cielo e alla terra con una lingua incomprensibile o magari segreta e prossima a quella degli animali. A volte percuoteva uno strumento - in molti casi un tamburo - il cui suono non aveva nulla di frivolo, ma favoriva l’estasi, consentendogli perfino di volare.
Nel suo costume pittoresco, lo sciamano era considerato il solo autentico contatto tra il visibile e l’invisibile; tra il rito e il sacrificio; tra la vita e la morte; tra l’animale e l’uomo. Non c’è civiltà ai suoi albori che non abbia goduto dei suoi poteri. Lo sciamano era un eletto. La sua iniziazione poteva essere un dono del cielo o trasmessa da un altro sciamano. Perfino certe patologie - il grande viaggiatore Karl Rasmussen parlò, a proposito della labilità nervosa degli eschimesi, di «isteria artica» - contribuivano ad accrescerne la forza. Ma nel concreto quale era la sua funzione? Un libro di sorprendente bellezza, precisione e sapere, ora ne narra l’avventura.
Éveline Lot-Falck ha dedicato larga parte della sua vita di etnologa e studiosa di religioni euroasiatiche al mondo degli sciamani. La storia di questa donna straordinaria è tratteggiata da Claudio Rugafiori nella postfazione a I riti di caccia dei popoli siberiani (ed. Adelphi). Figlia di padre francese e di madre russa, vissuta a Parigi, dove a lungo ha insegnato alla École pratique des hautes études, scomparsa nel 1974, Lot-Falck ha ricostruito e svelato la fittissima trama sciamanica che, come una seconda pelle, ha rivestito il mondo siberiano. Un paio d’anni fa Roberto Calasso ne Il Cacciatore celeste esplorò con grande suggestione quel pantheon antropologico dove uomini e déi potevano combattersi ma altresì fondersi.
Nel raccontare il Paese del freddo, la Terra dell’oscurità, dove la Tundra e la Taiga offrivano allo sguardo del cacciatore la medesima monotonia di paesaggio, Lot-Falck aprì la sua mente a quei mondi estremi e inospitali nei quali era arduo ma altresì fondamentale poter decifrare il rapporto dell’uomo con gli animali. Quel nesso si rafforzava sotto il segno dell’imitazione e della metamorfosi. Sicché qualunque cosa, perfino una pietra, era animata. Questo pensava Lot-Falk convinta che orsi, trichechi, pesci, cervi, balene prima ancora di essere animali erano spiriti in grado di proteggere o tormentare, a seconda del modo in cui il cacciatore si disponeva davanti alla "preda". Per ucciderlo l’animale doveva dare il suo assenso, rendersi complice della sua uccisione. Sicché l’orso andava dal cacciatore quando era giunta la sua ora. Un detto siberiano recita che se la renna non ama il cacciatore, costui non sarà in grado di ucciderla.
Una tale partecipazione alla propria morte è inconcepibile solo per chi, come noi, è del tutto estraneo alla struttura segreta del cosmo, alla sua ineffabile e fluida armonia in cui gli spiriti-signori (quelli animali) sono per così dire i guardiani. Qual era dunque il ruolo che vi svolgeva lo sciamano? All’inizio delle stagioni di caccia o in caso di carestia toccava a lui visitare i signori, i guardiani, gli spiriti sotterranei per ottenere la promessa di una selvaggina abbondante.
La sua intermediazione tra il mondo terrestre e quello degli spiriti garantiva la difesa del benessere del suo popolo. Non sempre, tuttavia, lo sciamano contrastava le forze ostili. Nel suo potere si nascondeva il limite di una arroganza capricciosa, di una competizione violenta che lo spingeva a duellare con altri sciamani. Il violento antagonismo trasformava i signori della foresta, dell’acqua e del focolare in avversari che non avrebbero mai deposto le armi. Un mondo tutt’altro che pacificato sembrò dunque camminare con quelle popolazioni di cacciatori pescatori e pastori nomadi che dai ghiacci artici, dalle foreste siberiane, dalle steppe euroasiatiche si spostarono lentamente verso Occidente.
Si è molto discusso dell’influenza che la mitologia caucasica ed euroasiatica ha avuto sulla Grecia antica; è un fatto che alcune divinità e certe fisionomie sciamaniche si rincorrano nel tempo e nello spazio. Ci ricorda Carlo Ginzburg nel suo bellissimo Storia notturna che nel santuario di Brauron Artemide, signora degli animali, era venerata da fanciulle vestite da orse. Il culto estatico di tipo sciamanico che ritroviamo in molti luoghi della Grecia antica deriva dalle divinità euroasiatiche protettrici della caccia e della foresta. Ma la caccia nella mente divina di Artemide non ebbe più nessuna vitale utilità. Si ridusse soltanto a un gioco. Fu così che per la prima volta venne scoperta la gratuità della violenza.
"Sciamanico" è oggi diventato un aggettivo di pronto impiego. Qualunque reazione quella parola susciti sembra prevalere la destituzione del senso, ha perso la sua pregnanza sociale e religiosa. Somiglia al rombo di una metropolitana che si allontana. C’è il mondo sotterraneo, c’è il rumore inquietante e c’è il buio della galleria. Ma è un viaggio senza iniziazione, senza enigmi da sciogliere o demoni da affrontare. Solo stazioni da cui scendere o salire.
SCHEDA EDITORIALE
Éveline Lot-Falck
I riti di caccia dei popoli siberiani
Traduzione di Svevo D’Onofrio
Con un saggio di Claudio Rugafiori
Adelphi
2018, pp. 230 , 16 tavv. f.t.
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Risvolto
La caccia, in Siberia, è una questione di vita o di morte, uno scontro inesorabile tra l’uomo e le potenze invisibili che dominano le immense distese ghiacciate, le foreste, i monti, i laghi, e a cui appartengono gli animali. In un mondo dove tutto è pieno di dèi, popolato da spiriti di ogni sorta con le loro gerarchie e antipatie reciproche, il cacciatore che si addentra nella foresta o s’avventura per mare «deve trovarsi in uno stato di grazia, come il sacerdote che si accosta al sacrificio». Si muove dunque con circospezione, protetto solo dalla magia, mediante la quale stipula un patto con l’«altro lato», perché «il diritto di uccidere si paga, come un permesso di caccia rilasciato da potenze superiori», e in cambio dei sacrifici le divinità concederanno selvaggina in abbondanza. L’esito dell’impresa, pertanto, non dipende solo dall’abilità dei cacciatori, ma dallo scrupolo con cui si atterranno alle innumerevoli prescrizioni e interdizioni rituali che accompagnano dal principio alla fine la battuta di caccia. Dovranno, soprattutto, conciliarsi la preda - far sì che acconsenta alla propria uccisione - e placarne l’anima dopo la morte, affinché non torni a perseguitarli. Con questo saggio magistrale - dove lo stile elegante e sobrio cela rigore metodologico e immensa erudizione - Éveline Lot-Falck, uno dei più grandi studiosi dello sciamanismo siberiano, riesce a restituirci «nella sua atmosfera, nella sua profusione, nelle sue variazioni, un fenomeno a un tempo poetico, magico e religioso» (Claudio Rugafiori).
Improvvisazioni d’uno sciamano che amava l’antica arte russa
All’Arca di Vercelli la rassegna del maestro espressionista
di Francesco Poli (La Stampa, 31.03.2014)
In un suo scritto del 1918, Testo d’autore, Wassily Kandinsky racconta quanto sia stata fondamentale per gli sviluppi futuri della sua pittura la visita delle povere case dei contadini del nord della Russia, durante un suo viaggio di studio nel 1889, quando aveva 23 anni. «Nell’habitat dei komi, per la prima volta nella vita, trovai qualcosa di veramente meraviglioso, e questo prodigio diventò l’elemento di tutti i miei lavori successivi».
L’artista ricorda di essersi fermato sulla soglia di un’izba e di aver visto uno spettacolo inatteso: il tavolo, le panche, la grande stufa, gli armadi, tutto era decorato da ornamenti variegati. Ai muri c’erano delle stampe con immagini di eroici protagonisti di storie epiche popolari, e «l’angolo bello» era tutto ricoperto di icone sacre dipinte o a stampa. Questa esperienza gli fa comprendere che un quadro non deve essere solo contemplato ma deve coinvolgere completamente l’osservatore nella sua dimensione interiore.
Dopo quel viaggio Kandinsky pubblica anche un saggio sulla cultura e i riti animistici delle popolazioni dei Sirieni, di origine ugro-finnica, e in particolare sul ruolo dello sciamano come mediatore fra la realtà sensibile e il mondo ultraterreno.
Il fascino per l’energia della spiritualità primitiva, e per la forza espressiva della dimensione decorativa e iconica dell’arte popolare sono alla radice dell’elaborazione del suo personale «immaginario etnografico» nella fase di formazione e maturazione del suo linguaggio pittorico che si svilupperà progressivamente in direzione astratta.
L’entusiasmo per l’arte e il folklore nazionale, per la musica etnica e per le narrazioni fiabesche, epiche e storiche leggendarie, era un aspetto tipico della cultura russa (musicale, letteraria e artistica) tra Ottocento e Novecento, caratterizzata da tensioni simboliste e dal culto per la rinascita dell’antico spirito russo. Anche per altri pittori d’avanguardia come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova, Kasimir Malevich, Pavel Filonov, David Burljuk, Aleksandra Ekster, l’arte popolare era una fonte fondamentale di ispirazione.
Queste fonti folkloriche (in relazione al più generale interesse degli artisti d’avanguardia per le fonti primitive e arcaiche) sono un aspetto peculiare dei temi che entrano in gioco nell’Almanacco del Blaue Reiter, e Kandinsky e gli altri esponenti del gruppo di Monaco, espongono anche al Salon di Vladimir Izdebskij a Mosca del 1911, insieme agli artisti russi innovatori.
Kandinsky in quel periodo lavorava a Murnau, in Germania, ma aveva continui rapporti con la Russia, dove ritorna nel dopoguerra dopo la rivoluzione sovietica, con l’incarico di commissario per le arti, attività che lo impegna fino al 1922, quando accusato di spiritualismo si trasferisce in Germania come insegnate al Bauhaus di Walter Gropius.
Questa mostra all’Arca di Vercelli, è di grande interesse perché la curatrice Eugenia Petrova mette a fuoco, con un notevole gruppo di opere dei musei di stato (mai presentate fuori dai confini) «l’anima» più specificamente russa dell’opera di Kandinsky.
E in effetti all’interno dell’esposizione ci si trova davanti a uno spiazzante e suggestivo accostamento fra ventidue suoi dipinti di vari periodi (insieme una selezione di quadri di altri artisti tra cui Goncharova, Larionov, Lentulov, Filonov, Burljuk, Ekster) e molti oggetti, icone, stampe, arredi, e indumenti della cultura popolare, religiosa ortodossa, e dello sciamanesimo siberiano.
La connessione con gli oggetti più primitivi, quelli sciamanici (vestiti di pelli, e tamburi variamente decorati) non è per la verità molto evidente, ma l’influenza delle stampe popolari e delle icone appare chiara. Per esempio in quattro piccoli dipinti illustrativi su vetro, con figure femminili e fluttuanti paesaggi con chiese ortodosse (del 1918), e soprattutto in un magnifico San Giorgio (1911) già sostanzialmente astratto, messo a confronto con una antica icona del mitico santo uccisore del drago.
Dal punto di vista della qualità, dell’espressività cromatica, della freschezza segnica e della libertà d’invenzione, i quadri più notevoli e sorprendenti sono una serie di eccezionali Improvvisazioni dipinte tra il 1910 e il 1917, che si trovano nel museo di San Pietroburgo ma anche in lontani musei provinciali a Kazan, Krasnojarsk e persino a Vladivostok.
Tutti i quadri (alcuni dei quali sono dipinti su cartone) hanno ancora le loro cornici originali, molte fatte con semplici listelli di legno. Queste opere (come quelle di altri artisti d’avanguardia russi) erano state dislocate così lontano durante la fase eroica della rivoluzione per educare all’arte nuova anche le popolazioni più decentrate. Ed è una bella cosa che oggi noi le possiamo vedere, in trasferta nel mezzo delle risaie vercellesi, nello spazio dell’Arca che ha visto fino all’anno scorso le mostre in collaborazione con il Guggenheim di Venezia.
Kandinsky
La luce che viene dall’alba del mondo
Una rassegna a Vercelli documenta il lavoro del pittore dagli esordi al 1922 e le suggestioni che gli ispirarono le usanze di antiche etnie
di Lea Mattarella (la Repubblica, 30.03.2014)
Nel 1889 Wassily Kandinsky è un giovane studioso di Economia politica che partecipa a una spedizione in Volodga, nel Nord della Russia per studiare il diritto e le usanze dei popoli sirieni, una piccola etnia delle nazioni komi. «È stato qui - dirà tempo dopo - che imparai per la prima volta a guardare un quadro non solamente dall’esterno, ma ad entrarvi, a muovermi in giro con esso e a mescolarmi con la sua vita. Mi accadde di entrare in una stanza; e ancora ricordo come me ne stetti affascinato sulla soglia a guardare dentro. -Davanti a me stava un tavolo, delle panche e una grande, magnifica stufa. Le credenze e le dispense erano ravvivate con molti colori disposti disordinatamente. Ovunque sulle pareti erano appese stampe rustiche che raccontavano vividamente di battaglie, di un leggendario cavaliere, di una canzone, tutte rese attraverso i colori. In un angolo c’erano molte icone che mandavano scuri bagliori e davanti a esse al tempo stesso fiera e misteriosa, emanando un caldo scintillio di stelle, pendeva una lampada per immagini. Quando finalmente attraversai la soglia fu come se entrassi in un dipinto e ne diventassi parte».
Tutta la sua pittura successiva, da quando nel 1896, trentenne, si trasferisce a Monaco deciso ad abbandonare la precedente carriera per dipingere, sarà un modo per rivivere e far vivere allo spettatore quella stessa emozione. Trascinando chi guarda all’interno del quadro, risucchiandone lo spirito, avvolgendolo di forme e colori che, pur partendo dalla realtà, se ne allontanano acquistando un’affascinante libertà, irrazionale e misteriosa.
La mostra «Kandinsky, l’artista come sciamano», curata da Eugenia Petrovna, aperta all’Arca di Vercelli dal 29 marzo al 6 luglio, accompagnata da un catalogo GAmm Giunti con scritti della curatrice, di Francesco Paolo Campione e dello stesso Kandinsky, ha come punto di partenza proprio quel viaggio alla scoperta delle usanze, ma anche della spiritualità primitiva dei popoli komi. È lo stesso artista ad affermare di aver creduto che il tempo che precedeva la sua decisione di diventare pittore fosse stato perso e di essersi invece successivamente reso conto che in realtà in lui si «erano accumulate molte cose».
L’arco temporale in cui questa rassegna ci conduce è quello che vede Kandinsky dagli esordi al 1922, anno in cui lascia per sempre la sua terra, dove era tornato allo scoppio della Prima guerra mondiale, perché ben presto capisce che lì non c’è posto per i suoi gialli capaci di generare energia ma adatti solo per la superficie, per l’azzurro che «più è profondo e più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia e la purezza del soprannaturale», per la forza assertiva del rosso e la «tristezza struggente del nero».
Mentre il regime sovietico esalta il realismo socialista, Kandinsky torna in Germania dove insegna al Bauhaus. Ma, inseguito da una nuova dittatura che chiude la scuola di Gropius e bolla la sua pittura come degenerata, l’artista si trasferisce in Francia dove morirà nel 1944. E tutta la vita continuerà a sentire l’eco delle cupole dorate, delle trojke, dell’arte popolare, del folklore, della letteratura e della musica della sua Russia, sempre rievocata nei suoi dipinti.
Per far comprendere visivamente lo stretto rapporto che lega l’anima del pittore a quella, precedente, dello studioso di usi ed economie di popoli diversi, l’esposizione di Vercelli raccoglie accanto a un nucleo di opere di Kandinsky che provengono dai più importanti musei russi, alcuni oggetti collegati alla tradizione dello sciamanesimo e del folklore russo: bastoni, tamburi, abiti da cerimonia, elementi rituali, contenitori, stampe. Una di queste, attribuita alla bottega di Vasil’ev intitolata Canzone “Non mi sgridare mia cara” e datata 1884, sembra proprio una di quelle ricordate da Kandinsky nella sua evocazione di storie di leggendari cavalieri e di canzoni cromaticamente accese.
Il cavaliere si colora di azzurro a Monaco, mentre Kandinsky indica la via dello Spirituale nell’arte, come chiama il suo libro uscito nel 1911. E per sottrarre la pittura all’imitazione della realtà investendola di una nuova forza profetica, l’unica strada possibile è quella dell’astrazione, di un mondo di forme e colori che esistono parallelamente a ciò che siamo abituati a vedere. Così ci si libera dalla dittatura della ragione di stampo positivista per «educare l’anima oltre lo sguardo». «L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto fa vibrare l’anima », diceva.
Nella secolare contrapposizione tra spirito e materia Kandinsky sta decisamente dalla parte del primo. E Der Blaue Reiter, il cavaliere azzurro, movimento che fonda in quel leggendario ’11 con Franz Marc, chiarisce subito che per lui l’elemento irrazionale, quel soffio salvifico che irrora di nuova energia l’arte moderna, arriva anche dalle culture primitive, da mondi sconosciuti.
Nell’almanacco pubblicato nel 1912 accanto alle opere di Picasso, Matisse, El Greco, Cézanne compaiono le sculture lignee della Nuova Caledonia, le pitture giapponesi, l’arte popolare russa, i tessuti dell’Alaska, i disegni dei bambini e dei folli.
Lo sciamanesimo in questi anni monacensi è accompagnato dalla scoperta della teosofia di Helena Blavatsky e di Rudolf Steiner che gli suggeriscono che in natura si attraversa una via che va dalla materia allo spirito, un continuo processo dall’oscurità all’illuminazione.
Kandinsky traduce tutto questo nel suo meraviglioso linguaggio pittorico. San Giorgio, il cavaliere che uccide il drago, è evocato con stesure di colore vibrante rosso e blu, la sua lancia è un fulmine di luce. La macchia nera (qui efficacemente messa in relazione con i tamburi sciamanici) troverà la sua armonia cosmica con l’alone di giallo, di rosa, di blu che la circondano.
I capolavori di Kandinsky di questi anni sono viaggi tra forme e colori dove spesso si affacciano, stilizzati, cupole, barche con rematori, trombe, arcangeli, cagnolini, amanti abbracciati, carrozze, falci, serpenti, e cavalieri.
Nel 1918 realizza alcune opere in cui torna la figura sognante e semplificata delle fiabe che lo avevano tanto influenzato all’inizio. Ma questa volta in paesaggi reinventati: stesure cromatiche scaturite da un’emotività che affiora senza sosta. «La creazione di un’opera è la creazione di un mondo», diceva Kandinsky. E ognuno di questi quadri ha la potenza infinita di un piccolo cosmo irripetibile.
Tornano i «Diari» di Klee
«Posso morire, io, un cristallo?».
I «Diari» di Klee riproposti dal Saggiatore nella sua vecchia edizione 1960.
1898-1918: profonda passione teorica, musica-colore, crolli esistenziali come la morte in guerra dell’amico Franz Marc
di Massimo Romeri (il manifesto, Alias, 27.03.2016)
In una conferenza tenuta alla Kunstverein di Jena nel 1924 Paul Klee paragona l’artista al tronco di un albero, tormentato, scosso dalla possanza dei fluidi che penetrano attraverso le radici, «e come la chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera». L’immagine dell’albero sta a significare due cose: il legame saldo con il mondo, con il presente, e il ruolo dell’artista come mediatore della realtà. La sua attività si spiega bene con questa metafora: è tanto legata alla propria vita, quanto tende a recepire regole universali. Klee, il suo corpo, le sue vicende personali, sono uno strumento conoscitivo.
Lo si percepisce nei suoi Diari 1898-1918, pubblicati postumi a cura del figlio Felix nel 1957, e di cui il Saggiatore ripropone ora la prima edizione italiana, datata 1960 (pp. 418, euro 29,00), con la bella prefazione di Giulio Carlo Argan e una nuova introduzione di Hans Ulrich Obrist - ma è di soli quattro anni fa l’edizione ritradotta, e integrata, per Abscondita (traduzione di Angelica Tizzo, postfazione di Elena Pontiggia e appendice iconografica).
I ricordi dell’artista, numerati progressivamente, si leggono d’un fiato. Si sente crescere, dall’1 al 1134, la profonda passione teorica, che coincide con una graduale mutazione stilistica: le frasi si spezzano, la consapevolezza del proprio ruolo aumenta, le letture si succedono una all’altra e vengono meticolosamente annotate. Quelle che ci si aspetta: Gor’kij, Nietzsche, Zola, Poe, Gogol’, Voltaire...; e i classici: Aristofane, Plauto, Tacito, Platone e il Simposio di Senofonte, «tra le cose più belle dell’arte antica», per la grazia degli scherzi e delle azioni, e il parlare tanto semplice quanto profondo dell’amore, del sesso, della vita.
C’è anche, dalla prima all’ultima pagina, un’ironia che tende ora al cinico - ma senza la rabbiosa frustrazione di Céline - ora alla canzonatura più leggera: «alla domanda se amo la natura, rispondo, per ora: “la mia certamente”». Talvolta emerge l’afflato messianico dello Zarathustra: «Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me che non posso morire», o ancora: «posso morire, io, un cristallo?».
Ma sempre alle parole soggiacciono delle forme: «Sogno me stesso che divengo il mio modello. Il mio io proiettato. Destandomi, riconosco la realtà. Giaccio in posizione complicata ma supino, tutto aderente al lenzuolo. Io sono il mio stile». I viaggi rappresentano un momento di formazione importante. Il suo italienische Reise dura sei mesi, tra 1901 e 1902: segue la strada del sud paragonandosi a Dürer. Come quest’ultimo aspira alla chiara pienezza delle forme classiche o, in senso ancora romantico, a trovare una «natura amica che non tenta, ma salva». Infine «in Italia ho compreso l’architettura dell’arte figurativa», laddove il figurativo, per Klee, non è la rappresentazione dell’oggetto, ma la costruzione interna dell’immagine; si avvicina così, per la prima volta, a una concezione astratta del visibile.
Al ritorno dall’Italia tenta di imporsi sulla scena artistica monacense, ma si susseguono i rifiuti: è un momento difficile dal punto di vista finanziario. Le ristrettezze economiche rendono scettici i genitori della futura sposa, ma i due giovani sono ben decisi nelle loro scelte e Klee, evidentemente con orgoglio, incolla dopo il ricordo 777 la pagina del Bollettino dello Stato Civile con la pubblicazione del proprio fidanzamento. A stretto giro il matrimonio e la nascita del figlio Felix. Saldamente connessi a queste vicende personali, nel diario si seguono anche i progressi nella pittura, tra scatti in avanti e ricadute, dubbi, problemi e soluzioni. Dai primi disegni simbolisti alle incisioni, alle sintesi lineari: «Mi si rivela così una via per l’uso delle linee e posso finalmente uscire dal vicolo cieco dell’ornamento»; e in un’ora felice, a Tunisi, in una serata «dai colori altrettanto delicati che decisi», scopre che «io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Poi combina questi elementi, la linea e il colore, misurandoli quasi musicalmente, soppesandone le potenzialità nelle composizioni. Si sente in questi anni prima della Grande Guerra un bisogno di riforma. Le «alte grida di lamento per la rivoluzione in corso» si levano a Monaco soprattutto per la mostra dei futuristi alla Galleria Thannhäuser. Klee parla specialmente di Carrà: gli ricorda Tintoretto e Delacroix.
Ma l’impressione è che il roboante mondo dei futuristi che aspira alla novità con prorompete foga retorica sia legato a doppia mandata all’arte antica. Forse l’unica strada possibile per riformare il linguaggio artistico è gettare uno sguardo alle raccolte etnografiche o, ancora meglio, in casa propria, «nella stanza riservata ai bambini». Le creazioni dei bambini e dei malati di mente, tanto più solo elementari, tanto più possono essere, secondo Klee, esempi istruttivi, da considerare «con una serietà maggiore a quella che si riserva a tutte le pinacoteche, se si vuole oggi riformare la pittura». Un interesse del genere fa il paio in pittura almeno con Picasso.
Nel campo letterario, per rimanere in tema, si possono citare anche le ricercate crudezze linguistiche di Gertrude Stein. La guerra entra nei Diari in modo fulmineo con la scomparsa, tremenda, di Franz Marc, in una delle pagine più intense e drammatiche del libro.
Da quel 4 marzo 1916 la morte del giovane compagno di ricerche riaffiora fino alla fine «come un fulmine, come se qualcosa crollasse in me». E a qualche mese di distanza, raccontando Marc, Klee racconta se stesso. La scomparsa improvvisa ne ha stroncato la maturazione, Marc si sarebbe evoluto in un senso universale, come un’idea, perciò con uno sconforto martellante l’amico si chiede: «ma allora perché è morto?».
In questo frangente, solo l’incontro con Kandinskij e l’impegno nel Blaue Reiter chiariscono le ragioni definitive della propria ricerca: «Quanto più spaventoso è questo mondo, come oggi, tanto più astratta è l’arte». L’astrattismo raccoglie il senso più profondo di una realtà oltre il visibile, con freddezza calcolata, al di là di ogni espressione sentimentale: «Nel grande serbatoio delle forme giacciono macerie a cui in parte teniamo ancora. Esse offrono la materia dell’astrazione». Vibrano, in queste parole, i traumi inauditi della guerra.
Negli anni successivi Klee continua a lavorare moltissimo. Le brevissime interruzioni sono dovute a fatti contingenti come gli impegni militari, eppure a monte di ogni sua opera sta un ragionamento a sé. Disegna o dipinge ispirato da una fantasia che pare infinita, accompagnata a un’ intelligenza prodigiosa. I suoi pensieri non sono raccolti solamente nei diari.
Dal 1921 al 1931, in concomitanza con le sue lezioni al Bauhaus - prima a Weimar, poi a Dessau -, l’artista ha compilato dei quaderni solo in parte pubblicati, e le cui 3900 pagine, fitte di appunti e disegni, sono rese da poco disponibili online dal Zentrum Paul Klee di Berna (www.zpk.org), con scansioni e trascrizioni. Vale la pena sfogliarli: questi fogli stanno al Novecento come gli scritti di Leonardo al Rinascimento. Un paragone che trova senso nelle pagine dei Diari: Leonardo è il nume italiano di Klee, un «pioniere nell’uso delle tonalità», un artista al quale, attraverso lo studio, la natura appare rivelata. Una natura che per l’uomo moderno è «mobile» e infinita nella sua varietà, dai microcosmi visibili attraverso le lenti del microscopio allo spazio infinito oltre l’atmosfera terrestre.
E per concludere dove si è iniziato, dalla conferenza di Jena del ’24: «Chi mai non vorrebbe, come artista, dimorare là, dove l’organo centrale d’ogni moto temporale e spaziale - si chiami esso cervello o cuore della creazione - determina tutte le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto?»