Ida e le altre
Il duce e le donne al cinema
di Michele Anselmi (il Riformista, 07.05.2009)
Fa bene Marco Bellocchio, in vista dell’anteprima a Cannes del suo Vincere, a ripetere nelle interviste: «Scrivendo il film non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini con Mussolini. A quasi 70 anni e con la carriera che ho alle spalle non ho paura di nulla. Perciò sono sincero quando dico che non ho pensato a Berlusconi, malgrado il premier abbia in comune col duce una grande capacità nell’usare e imporre la propria immagine». Fa bene, Bellocchio, ma non servirà a evitare paragoni birichini o maliziosi, allusioni alle vicende di questi giorni. Purtroppo.
Gira nelle sale e su YouTube il primo trailer del film. Giovanna Mezzogiorno, avvenente e fiera, scandisce: «Mi chiamo Ida Dalser, Sua Eccellenza Benito Mussolini è mio marito». Disconosciuta e vessata, finirà in manicomio, dove muore nel 1937. Cinque anni dopo toccherà al figlio Benito Albino. E intanto, ancora baffuto e dotato di folta capigliatura, vediamo il giovane Mussolini incarnato da Filippo Timi che urla con impeto futurista in una riunione di socialisti: «Questa guerra è rivoluzionaria. Darà, col sangue, alla ruota della storia il movimento». Ida annuisce ammirata. Non sa ciò che l’aspetta. Anche da queste poche scene si capisce perché il regista dei Pugni in tasca abbia voluto girare Vincere.
Bellocchio vede Ida Dalser come «la prima eroina antifascista, anche piuttosto antipatica, una vera rompiscatole che vuole affermare ad ogni costo la verità». Insomma, una donna unica, segnata dal rifiuto di qualsiasi compromesso. In fondo avrebbe potuto accettare di tornare nell’ombra, magari lautamente ricompensata, come avvenne per tante altre amanti del duce. Invece tenne duro, si espose platealmente, non accettò il tradimento dell’uomo amato in quel modo assoluto, al quale tutto aveva donato, patrimonio incluso. Incuriosisce sapere come Bellocchio, nel mostrare donna Rachele, la moglie sposata subito dopo Ida, renderà l’imbarazzo progressivo di Mussolini, la sua determinazione nel disfarsi, pure per ragioni di opportunità politica, di quell’antico amore. Pronto subito dopo a soddisfare le famose necessità di ordine sessuale con la più candida e fresca disinvoltura.
Chi vuole informarsi sul tema può leggere il libretto Mussolini e le donne (Sellerio), scritto con vivace e calda ironia, dove Gian Carlo Fusco ricostruisce il disinvolto percorso erotico-sentimentale del duce, gran sciupafemmine, amatore instancabile per quanto sbrigativo. Di sicuro non fu facile per Rachele, moglie ufficiale (e ufficialmente cornificata), sopportare il confronto con quello stuolo di amanti, almeno sei delle quali ben infisse nella carne e nei pensieri del marito.
Ida Dalser, appunto, madre di Benito Albino. Ma anche Angela Curti Cucciati, «candida agnella», creatura soave e delicata. O Margherita Sarfatti, forse la più importante, borghese, dotata di intelligenza e cultura. O Cornelia Tanzi, la poetessa. O la fulgida Romilda Ruspi. Per non dire di Claretta Petacci, la più nota, conosciuta nel 1933 e compagna anche nella morte a Dongo. È su quest’ultima che il cinema s’è specialmente concentrato, facendola ritrarre da attrici belle e temperamentose: Claudia Cardinale (in Claretta di di Pasquale Squitieri), Lisa Gastoni (in Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani), Barbara De Rossi (in Io e il duce di Alberto Negrin).
Secondo Marcello Dell’Utri, custode dei diari segreti di Mussolini e amico del premier, «a Palazzo Venezia, con le donne, Benito usava la tecnica musica e magia». Tra il 1935 e il 1939 il duce non avrebbe avuto amanti, ma «soltanto fugaci incontri». Commento di Mario Ajello sul Messaggero: «Berlusconi si sta rivelando molto meno abile di quel suo predecessore».
Verso Cannes. Il regista anticipa le scelte fatte per il suo «Vincere», unico film italiano sulla Croisette. E ne racconta anche i tagli
«Il mio Duce giovane fascinoso e brutale»
Bellocchio: Mussolini visto attraverso la donna che ripudiò
Dittatore. Filippo Timi, 34 anni, interpreta Benito Mussolini in «Vincere» di Marco Bellocchio, l’unico italiano in concorso al prossimo Festival di Cannes Il film traccia un duro ritratto del Duce, mostrato come un uomo «violento, calcolatore. brutale», come ha spiegato il regista
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 06.05.2009)
ROMA - «C’è il giovane Mussolini che combatte un duello verbale con un prete. Il futuro Duce chiede agli spettatori un orologio da taschino. Lo poggia sul tavolo. Proclama: ’Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste!’. In quel momento entra in sala una ragazza di Trento, bella e ricca: Ida Dalser. E si innamora di quegli occhi fiammeggianti...».
Dopo Buongiorno notte, sul caso Moro, Marco Bellocchio torna al cinema politico. Due anni fa, il grande regista aveva rivelato al Corriere il progetto di un film sul giovane Mussolini e l’amore divenuto persecuzione e finito in tragedia per la Dalser e il loro figlio, Benito Albino. Ora il film - Vincere - è pronto. Lo producono Mario Gianani e Rai Cinema. Rappresenterà l’Italia al Festival di Cannes, tra due settimane. E Bellocchio ne anticipa il significato politico.
«Il mio Duce è un uomo affascinante: non a caso anche Rachele racconta di essersene innamorata subito attraverso i suoi occhi folgoranti. È un uomo amato non solo dalle donne, ma anche dal popolo: come già per Moro, ho usato materiale di repertorio, visto e non visto (ad esempio un discorso in tedesco di Mussolini a una folla oceanica di nazisti). Documenti che testimoniano l’entusiasmo che la grande maggioranza degli italiani aveva per il capo, un attore dalla recitazione sempre più pagliaccesca con il passare del tempo, tanto che ogni volta guardandolo mi chiedo con stupore: come ha potuto la quasi totalità degli italiani credere così ciecamente a un simile buffone? Il Duce che ho rappresentato non è un uomo buono. Non è il pater familias amorevole tratteggiato dalla tv, che commette il solo errore dell’alleanza con Hitler. È un uomo violento. Calcolatore. Brutale. Buono è suo fratello, Arnaldo, fascistissimo ma molto cattolico, l’unico a prendersi cura del piccolo Benito Albino. Il Duce è invece senza pietà. Anche con la donna che aveva amato, e con il suo stesso figlio».
Mussolini è Filippo Timi. «L’ho scelto per la notevole somiglianza con il Duce da giovane - spiega Bellocchio -. Non mi andava di esagerare con il trucco, all’americana o alla Bagaglino, né di prendere un attore che con la fisicità del Duce non c’entrasse nulla, come Banderas che pure l’ha impersonato. E poi Timi ha il fascino magnetico di Mussolini ed è un attore generoso, sincero, pieno di talento. Il Duce di Vincere vuole essere sempre il primo, il più geniale, il più coraggioso. Dopo il duello con l’onorevole Treves, socialista, trascura di farsi medicare perché vuole verificare di persona che gli arbitri redigano fedelmente il verbale del combattimento e dei feroci assalti, per pubblicarlo poi su Il Popolo d’Italia, ordinando al redattore di fare un grande titolo e che il suo nome preceda quello di Treves. Il primo, il capo, il Duce. In un primo momento avevo pensato a un personaggio simile a Lou Castel di I Pugni in tasca, che uccide la famiglia. Poi una discussione con mio fratello Pier Giorgio mi ha fatto riflettere. Il protagonista dei Pugni in tasca ha la violenza schizofrenica del nazista. Il Duce era diverso. Dannunziano. Futurista. E io l’ho raccontato con un montaggio veloce che ricorda la velocità del futurismo. Il giorno prima di partire per la Grande Guerra, Mussolini porta Ida Dalser al cinema. Scorrono le immagini del fronte, il pianista suona l’inno di Garibaldi, gli interventisti lo intonano - «si scoprono le tombe, si levano i morti... » -, Benito si unisce al coro; i socialisti reagiscono, scoppia un tumulto che ha i colori della ’Rissa in galleria’ di Boccioni. E Ida si lancia in difesa del suo uomo, anche se al settimo mese di gravidanza».
Due anni fa, Bellocchio non aveva scelto ancora la sua protagonista. Diceva solo: «Dovrà essere di una bravura mostruosa». Per questo, spiega oggi, ha scelto Giovanna Mezzogiorno. «Mi è parsa perfetta perché anche lei, come Ida Dalser, ha una fisicità generosa di sé, sempre in movimento, scattante, reattiva. Non so se Giovanna abbia qualcosa di Ida, non glielo auguro, certo si è trasformata in una vera protagonista che di continuo fa piangere e fa arrabbiare. La Dalser storica non è simpatica. È quasi fastidiosa nel non cedere mai, nell’andare sotto le finestre del Popolo d’Italia a gridare e mostrare il bambino, nel continuare sino all’ultimo a voler rivedere il Duce. Ma nel film finisce per diventare un’eroina. Un po’ Antigone e un po’ Medea. Perché è l’unica donna che si oppone davvero, da sola, a un uomo cui la grande maggioranza delle italiane e degli italiani credeva e ubbidiva».
«Ida è una donna colta, conosce le lingue, ha un salone di bellezza. Ma Mussolini, a lungo bigamo, finisce per preferire Rachele: carina, ignorante, ma donna di casa, che sa stare al suo posto: le basta essere la madre dei figli del Duce. Quando nasce il figlio di Ida, Mussolini lo riconosce. Ma il giorno stesso sposa Rachele. È la scelta definitiva, a cui però la Dalser, che ha venduto tutti i suoi beni per finanziare il Popolo d’Italia, non si rassegna. C’era una scena un po’ da libro Cuore che ho tagliato, in cui Ida disperata per l’abbandono va a casa di Mussolini e alla piccola Edda che le apre chiede: ’Papà ti vuole bene?’. Invece ho lasciato la scena, storicamente attestata, in cui le due rivali si affrontano nell’ospedale in cui il Duce è ricoverato. Mussolini è stato ferito gravemente, più di 50 schegge in corpo, e ha appena ricevuto la visita del Re, che solo pochi anni prima da socialista rivoluzionario aveva irriso («nano!») e insultato («assassino!»). Ida non lo vedrà più. Mussolini, che appoggia la guerra ed è ormai in ottimi rapporti con il potere, riesce a farla arrestare. Lei viene portata a Firenze. Quindi a Caserta, al confino. L’accusano persino di essere una spia tedesca, per il solo fatto di essere nata in territorio austriaco. Finisce nel manicomio di Pergine, vicino a Trento. Infine in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia, dove morirà. Ida rivedrà il Duce solo al cinema, da spettatrice».
«Mussolini non aveva ironia. Ironico e provocatorio è il titolo del film, Vincere. Io non ho vissuto il fascismo, ma mi sono in parte formato su una cultura che, dopo essere stata complice del fascismo, l’ha deriso. Lo spirito di sconfitta come espiazione per aver creduto a quell’uomo. Di questo spirito di sconfitta la mia generazione si è in parte nutrita. Per poi conoscere l’altra grande disfatta storica, quella del comunismo (e anche Mao teorizzava la necessità di «osare vincere»). Per questo la nostra identità, di figli degli sconfitti o di una cultura della sconfitta, è stata a lungo depressa, grigia, vinta. All’ombra o nel buio di quella sconfitta si è formata la nostra sensibilità. Poi ognuno ha preso la sua strada: chi si è perduto, chi si è totalmente integrato, chi, come me, si è ribellato e si è liberato da una condanna che sembrava definitiva a un’infelicità passiva, che mi fa essere oggi ottimista senza sentirmi un imbecille, rappresentando da ottimista un’autentica tragedia. Parole come ’vincere’ erano indicibili. Fino all’arrivo di Berlusconi, che ha fondato democraticamente il suo successo sulla sua immagine vincente chiamando alla vittoria e all’ottimismo il popolo italiano: il suo primo partito non si chiamava Forza Italia? Usando la sua tv, così come Mussolini usò per imporre la propria immagine vincente i mezzi che aveva a disposizione, il cinema, la radio, la fotografia, la grafica, persino la scultura e la pittura».
Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensavo di chiudere il film con una scena ambientata dopo la Liberazione: il cognato di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene della polizia, assiste agli scontri di un corteo politico con le bandiere rosse e tutto, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire».
Il film sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino
Bellocchio e la moglie di Mussolini finita pazza
Il regista: «Il film parte da un documentario su parenti sacrificati»
Le lettere. La moglie scriveva e i federali la perseguitavano
Il figlio. Gli cambiarono l’affido il nome, lo fecero espatriare in Cina
di Malcom Pagani (l’Unità, 06.05.2009)
A Palazzo Venezia, con le donne, Mussolini usava la tecnica musica e magia. Tra il ‘35 e il ‘39 non aveva amanti, ma solo fugaci incontri. Tromba e sparisci». L’eleganza sublime e l’elogio trasversale. Democratico. Stallieri e dittatori. L’altro ieri, tramontata l’aura del 25 aprile pacificato, grazie a Marcello Dell’Utri scoprivamo i partigiani «di destra» e il Mussolini «troppo buono». Qualche giorno ancora e il festival di Cannes racconterà al mondo un altro duce. Bigamo e spietato. «Prima di allora, non sapevo nulla di questa storia. Poi nel 2005 lessi un articolo e vidi un documentario su Mussolini e sui parenti ignoti e sacrificati, la moglie Ida Dasler e il figlio legittimo del duce, Benito Albino».
Da 40 anni Marco Bellocchio esplora i lessici familiari. Codifica linguaggi, pugni tenuti in tasca, condanne, salti nel vuoto, mostri da occultare alla vista o sbattere in prima pagina. Un cinema che ripudia l’oblìo e spinge l’ex salesiano ribelle a occuparsi di terrorismo e psicanalisi, regimi e sacche di consenso. «Vincere», il suo film sul Duce più celato, sarà in concorso a Cannes. In luogo del ‘68 di Placido, la fotografia della donna che pagò caro l’irriducibile desiderio di non arrendersi. Fu bollata, resa incapace di nuocere all’immagine del dittatore, rinchiusa in manicomio.
Pazza. E quindi afona nel gridare, indecifrabile nello scrivere, querula nel chiedere aiuto. Pericolosa. Una serpe cresciuta in seno che rivendica l’amore del capo e diventa un problema. Da internare e dimenticare, usando ogni mezzo.
Stampa, Polizia, medici, prefetti. Il pubblico che si piega al privato e nasconde un segreto inconfessabile. Un gioco di scatole cinesi. Aperta la prima, non ci si può fermare. Il documentarista che insieme al giornalista Norelli ha guidato Bellocchio alla scoperta del lato oscuro di Mussolini si chiama Fabrizio Laurenti. Ha vissuto per 13 anni a New York, ondeggiato tra generi diversissimi e una sera per caso, è caduto sulla materia che avrebbe plasmato in 30 mesi di maniacale lavoro. «Mi dissero che Mussolini aveva avuto un figlio morto in manicomio. Mi sembrò incredibile. “Fidati, a Trento lo sanno tutti”. Decisi di indagare e mi immersi in un pozzo di fonti. Compagni di banco che avevano conosciuto Albino e le sue leggendarie imitazioni del padre, donne che vivevano di fronte al sanatorio dove era reclusa Ida, autentiche lettere autografe firmate Benito. Un materiale troppo importante sul funzionamento della burocrazia fascista per rischiarne l’estinzione».
Ida venne imprigionata a Pergine, «curata» con iniezioni di malaria nel sadico tentativo di «snebbiarle» la coscienza, screditata, messa infine in una fossa comune, nel 1937.
A Benito Albino cambiarono l’affido, il nome, lo fecero espatriare in Cina e poi, vista l’insistenza nel cantare un’aria sgradita, fatto accomodare in una struttura identica a quella della madre. Morì nel 1942.
«La corsa a guadagnare gli elogi del principe era senza freni. Compiacere è un meccanismo “naturale” che funzionava e funziona perfettamente». Laurenti coglie analogie con l’oggi. «Sono cambiate solo le facce. Come diceva Flaiano, correre in soccorso del vincitore è un istinto primario. Quando il potere diventa incontestabile e il consenso raggiunge vette così alte, c’è piaggeria. Ci sarà sempre un momento per essere ricompensati e magari vedersi catapultare in parlamento. Con Albino e Ida fecero cessare il rumore di fondo, il fastidio per una diceria che non doveva circolare».
Lei prendeva carta e penna: il nostro Benitino, “piccolo grande amore” lui riceveva freddi dispacci, frammenti di una violenza soffusa. «Per trovare le lettere incriminate, Tamburini, un federale di Trento, le smontò la casa. Portò via molte cose ma non quei fogli, nascosti dentro un gallo impagliato. Ci sono ancora. Tamburini, a Salò divenne capo della Polizia».
Ida non si adeguò mai. Fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino. «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione». Al di là di speculazioni, bizzarre similitudini, abbagli, equivoci di inizio estate.
“Il fascismo da stato d’animo a regime: “Vincere” di Marco Bellocchio”
di Mario Pezzella *
All’inizio di Vincere, Benito Mussolini, giovane e ancora socialista, sfida Dio - se esiste - a fulminarlo entro cinque minuti. Apparentemente vince la scommessa, di fronte a un pubblico ammutolito dalla sua trovata fanfaronesca: ma, alla fine del film, dopo una sequenza documentaria in cui vengono mostrati la rovina dei bombardamenti e la desolazione dell’Italia al termine della guerra, viene ripresa l’immagine di Mussolini che fissa l’orologio, e il suo ticchettio ci avverte che quei cinque minuti non sono mai passati, che giungono ora a scadenza, non hanno mai cessato di passare, mentre la storia faceva il suo corso: in un tempo più profondo e misterioso, dotato di un ritmo e di scansioni diverse da quelle cronologiche. Il film si chiude su una testa bronzea di Mussolini, frantumata da uno schiacciasassi. Una stessa dismisura, una stessa hybris, congiunge la sfida iniziale e la rovina finale, l’evocazione del fulmine e il fulmine che arriva, su di lui e sul popolo che con lui si era identificato[1].
Quasi un avvertimento ci pare allora la carovana dei ciechi (forse ricordo di un celebre quadro di Brueghel), che in una sequenza del film sfila davanti a Mussolini, che ha appena finito di vantare le sue qualità di superuomo: «Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi»[2].
[...]
La differenza fra democrazia e totalitarismo risiede anche nel diverso rapporto con la corporeità del potere sovrano: per una democrazia rappresentativa essa dovrebbe essere teoricamente indifferente, mentre il totalitarismo del 900 ha restaurato forme giubilatorie di sovranità “incarnata” (il Capo, la sua virilità, torsi nudi, baffi di foggia varia, ostentazioni muscolari, l’ebbrezza fusionale ed erotica tra il condottiero e la massa). Questo corpo sovrano, tuttavia, non deve il suo carisma alla grazia di Dio, come i Re medievali, o gli esempi di sovranità studiati da Kantorowicz, ma alla fantasmagoria immaginaria della società spettacolare, nel caso del fascismo quella che Debord ha definito come società spettacolare concentrata.
Il Duce non riceve il suo potere da nessuna volontà sacra o trascendente (tanto meno quanto più si presenta egli stesso come una controfigura di Cristo). È un dittatore e un decisore, non un sovrano legittimo[19]: ciò non toglie che intorno al suo corpo si cristallizzi una sorta di teologia immanente e demonica, che ne fa il rappresentante incarnato dell’idea della storia. Così la simbologia cristologica del martirio, del Salvatore e e della redenzione, può essere recuperata e attribuita in forma profana al dittatore. Il film di Bellocchio studia attentamente il passaggio da un Mussolini esaltato, certo, ma ancora umano, a colui che invaso da una inflazione psichica incontrollabile diviene preda della propria immagine grandiosa, diffondendola come un contagio nelle masse che si identificano con lui.
[...]
Il cinema serve alla costruzione del mito totalitario, ma può divenire anche la sua critica e il suo smascheramento. Una vera cesura nella vita di Ida avviene quando uno psichiatra, che a differenza degli altri cerca di comprenderla e ascoltarla, fa proiettare Il monello di Chaplin su uno schermo eretto nel giardino dell’ospedale. Il montaggio alternato fra il film e il volto di Ida, che si identifica sempre più con il vagabondo innocente a cui vogliono sottrarre il bambino, mette in rilievo la distanza di Ida dall’immagine grandiosa del Duce e la carica antiautoritaria della comicità di Charlot. È proprio questo raccordo a porre una cesura significativa nel film di Bellocchio. Questo schermo cinematografico, montato nel giardino del manicomio, si oppone diametralmente all’altro, sospeso come un lenzuolo funebre sui feriti, nella sequenza in cui Mussolini si trova nell’ospedale di guerra; così come la retorica solenne e sacrificale del film sulla Passione di Cristo si oppone alla carica sovversiva e dirompente di Chaplin. L’immagine cinematografica può non essere strumento passivo del potere spettacolare, può esserne la critica espressiva.
[...] Non è un caso se Ida, dopo la proiezione del Monello, non si preoccupa più della sua identità immaginaria di moglie ed “eletta” del Capo e scopre un amore reale per il figlio, nella sua sofferenza e nella sua alterità. Ella non accetta il consiglio dello psichiatra di mettersi una maschera e recitare ciò che il potere vuole che sia. Il suo specchio si è rotto, l’immagine narcisista si è disgregata e ora ella si ostina a testimoniare della verità e dell’opposizione all’abuso. È un desiderio di Parresia a guidarla, non più la speranza delirante di assurgere al ruolo di moglie-madre del Capo patriarcale e padrone: «La parresia implica un contropotere esercitato nei confronti di chi ha il potere. Il rischio cui si espone parlando, le sue stesse qualità morali, la critica esercitata come dovere e la capacità di autocritica...fanno sì che il parresiastes sia nel vero, in quanto si colloca all’interno di un determinato potere-sapere con i suoi effetti e controeffetti di verità»[22].
In una delle sequenze più belle del film Ida è sospesa alla cancellata del manicomio mentre i fiocchi di neve che cadono, alla controluce, sembrano scintille bianche, come quelle che scendono dal cielo del Presepe, in una natività solitaria e riscoperta; come un natale, che riprenda il senso di un essere-per-l’inizio, di principio di un mondo altro. Ida getta al nulla e all’iridescenza della neve, a un dio che non conosce, le sue lettere. Il destinatario che ne raccoglierà la memoria è senza figura: ma siamo forse noi stessi, gli spettatori, dal nostro presente, a ritrovare la leggiblità di quelle lettere. In montaggio alternato, la sequenza mostra il figlio di Ida nel collegio, che vuole riconosciuto il suo vero cognome, che fronteggia un volto bronzeo di Mussolini nel corridoio, che lo rovescia a terra, e inizia quel tormentoso rapporto di identificazione e di rovesciamento mimetico che lo porterà alla follia.
È un’immagine di sogno la sequenza in cui Ida fugge dal manicomio, grazie a una suora che le cede i suoi vestiti liberando il suo volto di donna, torna a casa e poi, quando la riconducono via, è riconosciuta e salutata da tutti gli abitanti del paese, che vorrebbero liberarla. Come alla fine di Buogiorno notte o in Sangue del mio sangue e in altri film di Bellocchio, emerge un’improvvisa immagine utopica di liberazione, della storia come avrebbe dovuto essere o come potrebbe essere, che disloca il fatto accaduto o fa sì che il compiuto diventi incompiuto e l’incompiuto compiuto. Il suo cinema è rivolto alla redenzione di un possibile, schiacciato sotto la necessità della storia e la violenza sulla psiche. Gli uomini, le donne, i bambini che si raccolgono intorno a Ida sembrano improvvisamente consapevoli che l’oppressione subita da lei è la stessa che si è diluita per tutti nelle tetre giornate del regime declinante. Bellocchio inserisce nel film questa pausa-sogno di libertà, vita che scioglie il suo fluire irrigidito, riattualizzazione di un possibile sconfitto o dimenticato.
* Cfr. Le parole e le cose, 3 Luglio 2020 (ripresa parziale - senza note).
Bugiardo, audace e violento:, sono Mussolini, figlio del ’900
Dai fasci di combattimento, agli omicidi politici, alle donne la parabola del dittatore che “fiutò” lo spirito del tempo
di Mirella Serri (La Stampa, TuttoLibri, 29.09.2018)
La mucca è morta per una malattia infettiva. Il veterinario per evitare il contagio ne cosparge di petrolio la carcassa e la seppellisce in una profonda fossa. Ma i contadini del Polesine riesumano la bestia e la divorano. Giacomo Matteotti - chiamato dai nemici «socialista impellicciato» poiché figlio di un ricco proprietario terriero - nella campagna elettorale e nei comizi nelle sue terre fa di questa vicenda il simbolo della fame secolare e della povertà che spingono a mangiare cadaveri putrefatti.
Il deputato, detto anche Tempesta, è solo uno dei tanti protagonisti dello splendido romanzo di Antonio Scurati, M. il figlio del secolo. Con questo primo tomo - e ve ne sono in cantiere altri due per ricostruire la biografia di Benito Mussolini - lo scrittore napoletano nel suo «racconto-verità», dove persino i dettagli sono storicamente verificati, ripercorre gli esordi del Duce: la narrazione inizia il 23 marzo 1919, quando a Milano nei locali dell’Associazione Commercianti ed esercenti si riunì lo scarso manipolo di reduci che diede vita ai primi Fasci di combattimento, e termina alle ore 15 del 3 gennaio 1925 con il Capo che, «accigliato e scuro in volto», dopo l’omicidio dell’onorevole Matteotti denuncia la campagna denigratoria nei suoi confronti e dà il via al regime dispotico.
Il romanzo-documento di Scurati è un antidoto nei confronti di ogni indulgenza verso la dittatura: ci porta nelle viscere del fascismo, nel cuore dell’ascesa al potere degli ex combattenti, dei folli, dei delinquenti, dei fanatici e di tutta la «schiuma» di una terra avvelenata che riuniva i piccoli artigiani, i commercianti, gli impiegati statali i quali, dopo aver abbandonato il moschetto che non aveva regalato loro alcuna gloria, non avevano più un lavoro né mezzi di sostentamento. Come del resto gli operai e i contadini aggrediti dalla violenta crisi economica.
Di questo straordinario affresco in camicia nera fanno parte non solo Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo e Filippo Tommaso Marinetti ma anche figure meno note di quel «mondo di morti» che fu al potere per oltre vent’anni, come Michele Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia divenuto fedelissimo del Duce e poi fucilato dai partigiani a Dongo; Cesare Rossi, ex militante socialista e principale consigliere del despota; Amerigo Dùmini - picchiatore e sicario che si presentava «Dùmini otto delitti». Quest’ultimo nel 1924 fu tra i membri della Čeka del Viminale a capo del manipolo che sequestrò e accoltellò Matteotti.
Il «cerchio magico» delle belle signore che idolatrarono il Mascellone fu costituito da Margherita Sarfatti, dalla giovanissima Bianca Ceccato costretta ad abortire, da Ida Dalser che chiamò suo figlio con il nome del padre, Benito, a cui aggiunse Albino, e da Angela Curti. La dolce e remissiva Angela lo aveva avvicinato nel marzo del 1921 per ottenere la liberazione del marito ed era caduta tra le sue braccia. Divenne madre di Elena a cui Lui riconobbe una grande somiglianza con la sua «mascella quadrata».
Con un linguaggio alto, forte e ricco d’immagini, Scurati tratteggia anche le molteplici identità del tiranno abile politico e capace di imprevedibili voltafaccia. Come avvenne, per esempio, nel caso degli squadristi torinesi che si scatenarono dopo la marcia su Roma nella resa dei conti con i socialisti. Nel dicembre 1922 il feroce Piero Brandimarte che prendeva gli ordini dal monarchico fascista Cesare Maria De Vecchi, dette avvio alla mattanza per vendicare due suoi accoliti uccisi da un tramviere. In piena notte gli squadristi invasero l’abitazione di un fattorino delle tramvie e prima di assassinarlo lo torturarono davanti alla moglie e alla figlia. Poi toccò a un operaio comunista e al segretario della sezione torinese del sindacato metalmeccanici che legato per i piedi al paraurti posteriore di un camion fu trascinato per le strade del capoluogo sabaudo. Negli scontri morirono 14 uomini e vi furono 26 feriti mentre venivano date alle fiamme la Camera del Lavoro, il circolo dei ferrovieri anarchici e la sede dell’Ordine Nuovo. Mussolini protestò veemente e, indignato, definì il massacro «un’onta per la razza umana». Diceva sul serio? Per nulla. Tre giorni dopo proclamava l’amnistia per i reati di sangue a sfondo politico. E non solo: il 28 dicembre veniva istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale e il sanguinario Brandimarte ne diventava uno dei responsabili.
Bugiardo e spergiuro, il dittatore fu anche un Giuda pronto a liberarsi degli uomini a lui più vicini, come D’Annunzio. Oppure a far manganellare i seguaci ribelli, come il fascista dissidente Cesare Forni, bastonato in pieno giorno alla stazione di Milano. Fu anche un ottimo attore e performer: al Teatro Olimpia di Firenze, Mussolini si presentò alle folle plaudenti in tuta da aviatore come se fosse appena sceso dal suo aeroplano mentre aveva trascorso la notte tra le soffici coltri dell’hotel Baglioni.
Il Duce non si smentì mai nella sua proteiforme volgarità: avvertito della scomparsa di Matteotti, mentre tutto il Paese era attanagliato dalla paura, commentò: «Sarà andato a puttane!». Subito dopo Mussolini buttava alle ortiche democrazia e libertà e con celebri passaggi oratori spalancava le porte all’assolutismo: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Come dargli torto? Affermazioni sacrosante che non si potevano certo smentire.
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA DEL FASCISMO. LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.... *
Il Duce e le donne: storia di un’ossessione
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore Napoletano, Giovedì, 10 Agosto 2017)
Benito Mussolini non era bello, non era snello e neppure alto. Non aveva un portamento elegante e non presentava una sola di quelle particolari caratteristiche che normalmente affascinano il pubblico. Eppure “una gran massa di italiani visse in una sorta di simbiosi psicologica col suo corpo, desiderandolo nella componente femminile, sognando di essere come lui in quella maschile”.
Il sesso come simbolo del potere politico. Anche così il duce ha incarnato il mito della potenza nell’Italia fascista. È la tesi di fondo del bel saggio Dux. Una biografia sessuale di Mussolini [2012], scritto con competenza storica e sapienza narrativa da Roberto Olla, responsabile di Tg1 Storia, autore della fortunata serie di Combat Film.
In questo libro, uscito in Inghilterra prima che in Italia col titolo Il Duce and his women, si sostiene che il “mussolinismo” (che è cosa diversa dal fascismo) è stato costruito e si è fondato sul mito del suo corpo da contadino padano, con la mascella quadrata e il petto villoso: dalle schegge conficcate nelle sue carni durante la prima guerra mondiale ai muscoli esibiti col piccone in mano durante le demolizioni per aprire a Roma via della Conciliazione.
Alle radici di questo mito c’è il rapporto di Mussolini con le donne. Quattrocento sarebbero, secondo una stima attendibile, quelle “amate” nel corso della sua vita dal duce, che mise al mondo figli legittimi e illegittimi, intrattenendo molteplici amanti, brune e bionde, magre e procaci, di varie nazionalità: “Sono giovani e belle, le prendo, poi non ricordo più né il loro nome né come sono fatte”.
Il racconto di Olla, tutt’altro che pruriginoso anche se non privo di particolari piccanti e virulenti (“le fonti - si scusa l’autore - non permettono di rispettare questa esigenza di eleganza”), parte dall’apprendistato, invero alquanto rude, del giovane Benito nella Romagna contadina del tardo Novecento, da parte di tale Virginia B., come raccontò lo stesso futuro duce: “la presi lungo le scale, la gettai in un angolo dietro a una porta e la feci mia. Si rialzò piangente e avvilita”.
All’inizio Mussolini scelse donne intelligenti e moderne. Due su tutte: la rivoluzionaria ucraina Angelica Balabanoff, che affinò, politicamente e sessualmente, l’imberbe e rozzo Mussolini, e l’ebrea Margherita Sarfatti, coltissima e abile, che con il suo libro Dux [1926] esportò il suo Mito a livello mondiale.
Unitosi in matrimonio religioso con Rachele Guidi nel 1925, il duce continuò imperterrito nella sua collezione di donne, consumando gli amplessi davanti alle carte della sua scrivania a Palazzo Venezia, portandole al mare, in barca e in montagna.
Un “furor eroticus” che non ebbe fine neppure quando Mussolini “ufficializzò” il suo rapporto con Claretta Petacci, la donna che lo seguì fino al tragico epilogo di Piazzale Loreto. Claretta sostenne il suo Ben nella bufera della seconda guerra mondiale e di fronte ai segni del declino fisico, gli procurò il miglior afrodisiaco dell’epoca, l’antesignano del moderno Viagra: l’Hormovin, prodotto in Germania.
La “biografia sessuale di Mussolini” è un ritratto impietoso dal quale emerge un uomo politico ch’era preda, come si direbbe oggi, di una forma compulsiva di dipendenza dal sesso, e che porta alla luce ipocrisie, volgarità, aspetti caratteriali e della personalità del Dux, demolendo, se ce n’era ancora bisogno, anche dal punto di vista morale la vulgata buonista del “brav’uomo”.
Mario Avagliano
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA.
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota *
PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LAPROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti - ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo - ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.
In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è quasi traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un "carteggio" sorprendente (32 lettere - dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare" (Edizioni Dal Sud, Bari 2016). Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello", del quale sappiamo fondamentalmente poco (se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 (cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini"), non per questo deve continuare a restarvi).
ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico. In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 - 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.
Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio" Bologna 1993, ora in "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico". Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del "Grande Fratello" (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di "un culto molto ampio".
In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto di più ricostruzioni non solo come "amante del Duce", ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del "fratello del Grande Fratello"!
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano, “siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti... E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. - (Federico La Sala 09.02.2017)
A SCUOLA DA BRECHT - “MADDALENA SANTORO E ARNALDO MUSSOLINI” E I LIBRI DI STORIA.
NOTA A UN ESTRATTO del libro di
Nicola Fanizza Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare, edizioni dal Sud, 2016 :
INFANZIA SALENTINA ("Nazione Indiana"):
NON è CHE L’INIZIO! BENE! CONTINUARE LA LETTURA!!!
E non fermarsi al primo “libro”!
Il “carteggio” della seconda parte (pp. 109-154), è un altro “libro”: le 32 lettere che Maddalena Santoro, invia, dal 1919 al 1938, all’amica di Mola di Bari, Caterina Tanzarella, sono dei documenti storici di grande rilevanza, per sapere di più e meglio sia di questa donna salentina, intellettuale e scrittrice, fedele a se stessa e alla sua amica (e alla sua famiglia), sia del fratello del Duce, “il fratello di un Grande Fratello” (che, se “preferì restare nell’ombra”, come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 - cfr. “Il fascino di Arnaldo Mussolini”: http://www.corriere.it/solferino/montanelli/00-11-09/01.spm, non per questo deve continuare a restarvi).
Il coraggioso e originale lavoro di Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione storica sulla “storia d’amore che il duce voleva cancellare”, è una formidabile occasione per riprendere una “vecchia” indicazione di Luisa Passerini(in una sua relazione nel convegno a Bologna nel 1993, su “Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio”): “coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione” e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora “le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico”(cfr.: AA.VV, “Il regime fascista. Storia e storiografia”, a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506). E riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera!) con due occhi, non con un occhio solo!
DA NOTARE che in quello stesso Convegno (e si riconsideri il titolo e il tema) una - e dicesi: una! - sola volta è citato Arnaldo Mussolini e solo per problemi relativi al “connubio tra affari e politica” (op. cit., p. 133), e una e una sola volta (e proprio da Luisa Passerini) è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre sua e del “Grande Fratello”, oggetto di “un culto molto ampio” durante il fascismo...
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SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Walter Benjamin, l’inquilino in nero. Rec. di Massimo Palma ("Alfabeta 2", 11 gennaio 2017) del lavoro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, Ombre corte, 2016.
Normalità
di Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale *
John Broich è uno storico statunitense che insegna alla Case Western Reserve university, in Ohio. Studiando materiale d’archivio e diversi saggi usciti negli ultimi anni, ha cercato di ricostruire in che modo la stampa statunitense raccontò l’arrivo del fascismo e del nazismo in Europa. Tra il 1925 e il 1932 sui giornali americani uscirono almeno 150 articoli che parlavano di Benito Mussolini. In quegli anni il regime era già chiaramente violento e autoritario, ma il tono degli articoli è neutro se non addirittura positivo. Nel 1928 il Saturday Evening Post pubblicò a puntate tutta l’autobiografia di Mussolini.
I giornali spiegarono che i fascisti avevano salvato l’Italia dagli estremisti di sinistra e avevano rilanciato l’economia. Il New York Times scrisse che il fascismo avrebbe fatto tornare l’Italia, tradizionalmente turbolenta, alla “normalità”. Il modo in cui la stampa descrisse Mussolini ebbe un’influenza su come poi raccontò l’arrivo al potere di Adolf Hitler, definito nei giornali americani il “Mussolini tedesco”. Il leader nazista venne dipinto come una macchietta, che urlava in modo ridicolo frasi senza senso. “Ricorda Charlie Chaplin”, scrisse Newsweek. “Sembra una barzelletta”, è “volubile” e “insicuro”, scrisse Cosmopolitan.
Quando diventò cancelliere, nel 1933, molti commentatori sostennero che non sarebbe durato a lungo o che, una volta al potere, avrebbe assunto toni più moderati. “Hitler ha il sostegno di elettori impressionabili”, scrisse il Washington Post. Ora che è al governo “diventerà evidente all’opinione pubblica tedesca la sua inconsistenza”.
Tranne poche eccezioni, alla fine degli anni trenta quasi tutti i giornalisti statunitensi si erano resi conto del loro errore di valutazione. Dorothy Thompson, che nel 1928 aveva definito Hitler un uomo di “sorprendente insignificanza”, nel 1935 ammise che “nessun popolo riconosce un dittatore in anticipo”, perché “non si presenta alle elezioni con un programma dittatoriale” e “si definisce uno strumento della volontà nazionale”. E aggiunse: “Quando un dittatore arriverà da noi, di sicuro sarà uno dei nostri, e starà dalla parte di tutto quello che è tradizionalmente americano”.
Una protagonista: Margherita Sarfatti
di Roberto Dulio (Domus, 20 Aprile 2005) *
Senza dubbio Margherita Sarfatti non fu solo la critica d’arte che legittimò il gruppo dei pittori del Novecento, piuttosto che una delle innumerevoli amanti di Benito Mussolini. Rappresentò invece una figura intellettuale di rilievo, che condizionò fortemente - almeno sino all’inizio degli anni Trenta - le scelte culturali del regime, e non solo. Il suo influsso non era riducibile alla preferenza di una data connotazione stilistica, ma comportava una più complessa definizione dell’identità culturale della società fascista, del ruolo degli intellettuali al suo interno, della ricerca di una legittimazione storica dello stesso fascismo.
Trasformò Mussolini nel mito del Dux (Milano 1926, il volume era già apparso in inglese col titolo The life of Benito Mussolini, London 1925), una biografia fortunatissima che ebbe innumerevoli riedizioni e traduzioni, e contribuì in larga misura a forgiare quell’immaginario della “romanità” del fascismo che inebriò lo stesso Mussolini.
A questo proposito Renzo De Felice nella sua Intervista sul fascismo (Bari 1975) ricorda una conversazione con la Sarfatti avvenuta nel 1961, dopo la quale lo storico si domandò “quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità”.
Il saggio di Simona Urso ripercorre queste vicende, scartando l’opzione biografica e concentrandosi sull’avvicinamento della Sarfatti al fascismo, dalla sua militanza socialista, seppure precocemente revisionista, nella Milano del 1902 - dove la giovane ebrea veneziana, nata Grassini, si era trasferita dopo il matrimonio con l’avvocato Cesare Sarfatti - ai suoi rapporti con l’ambiente futurista, poi con la rivista La Voce, alla propaganda interventista alla vigilia della Seconda guerra mondiale, fino a coniugare la funzione rigeneratrice dell’arte al contesto del rinnovamento politico. Proprio quest’ultima connotazione porterà la Sarfatti, a ridosso della marcia su Roma e della creazione di Novecento, a concepire quell’idea di “politicizzazione dell’estetica” che costituirà una delle chiavi per leggere il suo ruolo all’interno del fascismo. Un impegno all’interno del regime che, come afferma l’autrice, “può essere spiegato, come quello di molti suoi coetanei, con la volontà - non sempre realizzata - del ceto medio intellettuale di trasformarsi in ceto politico, un’inedita classe dirigente convinta di incarnare una nuova idea di nazione”.
Il lavoro di Urso può essere confrontato con quello di Philip V. Cannistraro e Brian R. Sullivan, che con The Duce’s other woman (New York 1993, subito tradotto in italiano col titolo Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Milano 1993) si erano misurati con le vicende sarfattiane dopo la reticente autobiografia Acqua passata (Rocca San Casciano 1955) che la Sarfatti aveva pubblicato qualche anno prima della morte, avvenuta nel 1961. Gli studi di Cannistraro e Sullivan erano condotti nell’ambito di una scuola storiografica americana che aveva assunto le contraddittorie vicende dell’Italia fascista come campo di indagine privilegiato, contribuendo a dare uno sguardo nuovo, scevro da coinvolgimenti di sorta, a quegli avvenimenti dal drammatico epilogo.
I due storici americani avevano ripercorso l’intera vita della Sarfatti, dalla formazione, alla militanza socialista, al coinvolgimento fascista, alla sua posizione di rilievo all’interno del regime, fino al sempre più limitato ruolo, e poi, dopo le leggi razziali che la costringono all’esilio, alla permanenza in Sudamerica e al ritorno a Roma nel 1947. Nel volume appariva evidente il peso che aveva avuto la Sarfatti, non solo nel determinare un orientamento culturale nuovo - attento alle tradizioni ma lontano dagli atteggiamenti xenofobi delle direttive più retrive del regime - ma anche nel mettere a punto una strategia in cui le componenti culturali e politiche erano strettamente connesse. Cannistraro era del resto l’autore del noto saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media (Bari 1975) che certo doveva averlo reso ben consapevole dei meccanismi della macchina culturale e politica del regime.
Se la narrazione biografica di The Duce’s other woman disperdeva, a volte, la concatenazione delle varie tappe del progetto culturale della protagonista nell’intimismo e nel colore di molte vicende personali della sua vita, il documentatissimo volume di Urso soffre del difetto opposto. Tutta la vicenda della Sarfatti appare infatti svolgersi in modo preordinato, senza contraddizioni, perfettamente aderente, disillusioni comprese, all’interpretazione dell’autrice. Inoltre l’utilizzo, pur corretto, di innumerevoli “etichette storiografiche” - solo a pagina 32 si susseguono “la crisi del pensiero razionale”, i “sindacalisti rivoluzionari”, la “revisione del marxismo”, la “crisi del positivismo”, la “avanguardia cattolica e, poco più tardi, futurista, che portarono a Milano la cultura francese, il simbolismo, e il mito della modernità”, la “militanza riformista” e i “cenacoli informali della Milano laica” - genera una sorta di ermetismo disciplinare che non sempre giova ad una lettura del volume da parte di un pubblico più ampio di quello degli “addetti ai lavori”.
Difetti comunque minimi per un volume che ha il merito di riprendere in maniera fruttuosa il contributo più qualificato che la storiografia americana ha dedicato all’argomento e, come già sottolineato, di ripercorrere in maniera analitica il ruolo di Margherita Sarfatti nella costruzione del mito fascista e, dopo la disillusione e le leggi razziali, nella ricerca di “una nuova Roma” in America. A questo mito americano allude infatti il sottotitolo del volume, un mito alla cui costruzione la Sarfatti stava già dedicandosi prima di lasciare l’Italia, pubblicando L’America, ricerca della felicità (Milano 1937), un mito verso il quale Urso ci conduce solo fino alla soglia, non occupandosi poi del periodo americano dell’autrice di Dux.
Margherita Sarfatti da un mito all’ altro
di Nello Ajello (la Repubblica, 22.12.2003)
Giornalista, critica d’ arte, corifea del fascismo nascente: Margherita Sarfatti (1883 - 1961) viene descritta in questo volume con molta passione. Si tralascia a bella posta il legame intimo fra la scrittrice - ebrea veneziana trapiantata a Milano - e Benito Mussolini. Simona Urso lavora a un ritratto culturale del personaggio, sul percorso da socialista a «donna-icona» del fascismo».
La Sarfatti conobbe infatuazioni febbrili - interventismo, femminismo, «modernismo» cattolico - e assunse a maestri Prezzolini, Ruskin, Carlyle. Dall’ Avanti! al Popolo d’Italia, dalla Voce ad Ardita, il suo progetto consisteva nel trasformare l’ estetica in una sorta di religione dello Stato nuovo incarnato da Mussolini.
Il «Novecento», la corrente da lei fondata nel 1922, adottò il futurismo come lievito contemporaneo per modernizzare la classicità romana. A quest’ ultima si rifaceva fin dal titolo il volume Dux (1926), precoce e fortunatissima icona biografica di Mussolini. Anzi, «doppia biografia»: di Mussolini e della Sarfatti insieme.
Il tramonto della scrittrice si profila quando la politica culturale del regime «adulto» diventa un compito da apparato; e si concluderà con le leggi razziali.
In un libro - testamento della Sarfatti, L’ America alla ricerca della felicità (1937), il mito eroico da lei fabbricato per il dittatore italiano troverà una reincarnazione imprevista: Roosevelt.
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Simona Urso Margherita Sarfatti, dal mito del duce al mito americano Marsilio pagg. 240 euro 21,00
NELLO AJELLO
La Storia
Sigilli alla tomba di Claretta Petacci
«In abbandono, gli eredi sono in Usa»
Roma, il dirigente del servizio cimiteri: senza di loro non si può intervenire. Vicino alla sua tomba c’è quella in cui è sepolto il partigiano che la fucilò: «Per lui fiori di plastica, quelli veri li tolgono»
di Tommaso Labate *
Le ultime tracce dell’intervento di un essere umano sono l’impianto di un doppio reticolo di quelli che si usano per delimitare i cantieri, nylon verde fuori e filo di ferro dentro, più un foglio A4 plastificato, col timbro dell’Ama (la municipalizzata dei rifiuti di Roma), che certifica la presenza di un «manufatto in stato di abbandono». Oltre a un buco, creato forse con l’aiuto di un temperino. Uno squarcio attraverso il quale s’intravede il mausoleo che ospita, nel lato inferiore, i resti del «Nobilis Homo Professor Francesco Saverio Petacci», morto nel 1970, e della moglie «Giuseppina Persichetti in Petacci», deceduta nel 1962. Più in alto, ed è il motivo che ha armato la mano o il temperino dell’anonimo curioso, la gigantesca lapide di marmo con l’incisione a caratteri cubitali. Una sola parola, «Claretta».
La tomba abbandonata
Al cimitero monumentale del Verano, confinante con la cappella di famiglia di Peppino de Filippo, c’è una tomba abbandonata e messa sotto sigilli. È la tomba di Claretta Petacci, amante di Mussolini, con lui condannata a morte il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra e con lui appesa a testa in giù a Piazzale Loreto, a Milano. «L’accertamento dello stato di abbandono di questo manufatto», si legge nel foglietto dell’Ama, «ha determinato l’avvio del procedimento amministrativo di dichiarazione dell’avvenuta decadenza della concessione come previsto dall’articolo 52 del Regolamento di polizia cimiteriale vigente». Maurizio Campagnani, dirigente del Servizio cimiteri capitolini, scuote la testa.
«Senza l’intervento degli eredi, che sono proprietari della concessione, non possiamo fare nulla. Li abbiamo rintracciati negli Stati Uniti, abbiamo spedito due raccomandate ma non abbiamo mai avuto risposta... Si è fatta avanti un’associazione di reduci fascisti per prendersi cura della manutenzione. Ma senza gli eredi, se non si cambia l’articolo 52, abbiamo le mani legate...».
L’articolo 52 del Regolamento di polizia cimiteriale vigente a Roma prevede che - qualora i concessionari non rispettino l’obbligo di curare la manutenzione prevista dall’Amministrazione entro sei mesi - la concessione decade. E sarà «carico dell’Amministrazione di provvedere alla conservazione dei resti mortali, nel modo in cui essa giudicherà più opportuno». In linea teorica, dunque, il mausoleo Petacci potrebbe anche sparire. E toccherebbe all’amministrazione del Verano decidere l’ultima sorte di Claretta Petacci.
La tomba (abbandonata) del partigiano
Per un beffardo scherzo del destino, a qualche decina di metri, c’è un’altra lapide che non trova pace. È quella di Walter Audisio, il leggendario «colonnello Valerio» che eseguì la fucilazione di Mussolini e della Petacci, tumulato in una cappella comune. A omaggiarlo, soltanto un fiore finto. «Perché ogni volta che qualcuno va a metterci dei fiori veri», raccontano al Verano, «c’è sempre qualche mano misteriosa che li toglie». Il fiore del partigiano, «bel» in Bella Ciao, è diventato un fiore di plastica. Oltre il reticolo che avvolge il malridotto mausoleo dei Petacci, invece, la parvenza di quelli che erano stati sette fiori sopravvive all’incedere del tempo. Sono sette fiori vecchi, ormai appassiti.
* Corriere della Sera, 22 agosto 2016 (modifica il 23 agosto 2016 | 15:10) (ripresa parziale - senza immagini).
M. Santoro e A. Mussolini Amanti in bella epoque
La storia d’amore che il Duce voleva cancellare
di Piero Fabris *
MADDALENA SANTORO E ARNALDO MUSSOLINI - La storia d’Amore che il Duce voleva cancellare (Edizioni dal Sud. Pagg.158. €15,00) è un’operazione di Nicola Fanizza, che restituisce alla memoria collettiva non solo la figura della scrittrice salentina, ma soprattutto, in forma vellutata, l’affresco illuminante di un’Italietta sognatrice che nell’estasi della “belle epoque” è tutta rivolta verso prospettive di pace e relativa prosperità. Un periodo di innovazioni tecnologiche, che lasciano sperare in un futuro prospero e felice. arnaldo copertina
Maddalena Santoro è figlia di questa visione onirica che, miope di fronte alle realtà del disagio, si tuffa e presenta ai propri lettori l’ebrezza di una vita piena. arnaldo maddalena santoro
Nicola Fanizza con puntualità e chiarezza ripercorre la carriera letteraria, psicologica, emotiva di Maddalena Santoro, evidenziando i suoi aspetti brillanti e opachi, la sua ribellione a certa educazione femminile e poi il suo asservimento a quella cultura che vuole la donna distante dalla politica, ma molto concentrata in quella spirituale.
Il lavoro di Nicola Fanizza evidenzia la sofferenza di una donna costretta a vivere sempre nell’ombra, perché l’amante di un uomo in vista come Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, la sua solitudine, il suo rapporto amicale con Caterina Tanzarella, moglie di Piero Delfino Pesce, ma l’opera ha il pregio di accendere a dubbi: Era intellettualmente onesta? Era prostituita al suo desiderio di notorietà?
L’autore del testo offre pagine intense, grazie alle quali si coglie il clima di quel periodo con tutte le sue contraddizioni e la retorica del periodo.
Riconoscibile il metodo di lavoro del Fanizza che oltre ad essere rigoroso è scorrevole; Un testo illuminante, utile a quanti vogliono conoscere realmente la storia, i fatti, quelli sui quali Nicola Fanizza sa soffiare e almeno accennare a tanti autori finiti nell’oblio come Guido da Verona, Carolina Invernizio, Sibilla Aleramo o Matilde Serao.
* Fonte: Affari italiani, 30.08.2016 (ripresa parziale - senza foto)
La vera storia di Ida Dalser. Il Duce non la perseguitò
Nuovi documenti sulla donna che disse di essere la moglie di Mussolini e gli diede un figlio. Morì dimenticata in manicomio ma non per colpa di Benito
di Giancristiano Desiderio *
Fu Benito Mussolini a perseguitare Ida Dalser o fu Ida Dalser a perseguitare Benito Mussolini? Stando ad una vulgata storiografica che ha avuto buona fortuna, si è avvalsa di vari passaggi televisivi ed è approdata infine al film del 2008 di Marco Bellocchio, Vincere, non ci sarebbero dubbi: fu Mussolini che sfruttò la Dalser, dalla quale ebbe un figlio - Benito Albino -, e dopo averla usata non ne volle più sapere, quindi per liberarsene la fece rinchiudere in manicomio fino alla morte una volta diventato capo del governo.
Invece, stando alle ricerche di Antonio Alosco, allievo e collaboratore di Renzo De Felice, non solo ci sono i dubbi ma anche le certezze documentarie che dimostrano che la donna, con la quale il giovane Mussolini ebbe una relazione, era affetta da uno «squilibrio mentale» con un «carattere neuropatico». Tutta un’altra storia.
Ida Irene Dalser, nata a Sopramonte nel 1880, incontrò Mussolini nel 1909 quando il futuro capo del fascismo era giornalista a Trento e lavorava in un foglio socialista diretto da Cesare Battisti. La relazione tra i due, però, iniziò anni dopo, tra il 1914 e il 1915, e fu breve. Lui era già legato a Rachele dalla quale aveva già avuto Edda quando la Dalser gli comunicò di essere incinta. Benito e Rachele si sposarono nel dicembre del 1915, la Dalser mise al mondo Benito Albino l’11 novembre del 1915 e Mussolini riconobbe il figlio nel gennaio dell’anno seguente. La donna, però, voleva altro: voleva il matrimonio e disse, senza dimostrarlo, di essere la vera moglie di Mussolini.
Da qui hanno origine tutta una serie di pubblicazioni come, ad esempio, il libro di Alfredo Pieroni Il figlio segreto del Duce: la storia di Benito Albino Mussolini e di sua madre Ida Dalser o di Maria Antonietta Serena L’altra moglie del duce. Ma è solo con le trasmissioni televisive come La grande storia di Raitre, che la storia è divulgata ed è raccontata come la persecuzione della Dalser e del figlio da parte di Mussolini fino alla loro morte in manicomio.
Arnaldo Mussolini, fratello del duce, sarebbe stato colui che avrebbe fatto carte false - certificati medici - e pressioni sulle autorità per far rinchiudere i due in manicomio. Questa tesi, con varie sfumature, fu sostenuta anche nella trasmissione di Corrado Augias, Enigma, alla quale presero parte Gianni Vattimo, Marco Bellocchio, Emilio Gentile.
Ma questa stessa tesi salta completamente in aria con la documentazione che Antonio Alosco mette in coda al suo ultimo libro Cento anni di Blocco popolare a Napoli durante la Grande Guerra pubblicato ora da Guida editori. Il testo, molto documentato, dedica una sezione proprio al caso della Dalser e ne ricostruisce proprio quel tassello mancante nella vulgata della persecuzione mussoliniana.
Dunque, la Dalser, dopo la disfatta di Caporetto, in quanto originaria del Trentino, nella primavera del 1918 venne destinata come profuga, insieme con il figlioletto, al campo di Piedimonte d’Alife (Caserta). Il caso non è né unico né raro: Silvio Gava, ad esempio, il futuro leader democristiano, anch’egli trentino, fu destinato a Castellammare di Stabia. La Dalser si trasferì a Napoli per alcune visite mediche del bambino.
La diagnosi medica del 18 agosto 1918, riportata in appendice nel testo, è chiara: il bambino era di costituzione linfatica e presentava una paresi all’arto inferiore destro in rapporto «con probabile sifilide ereditaria». Si consigliava una visita specialistica di malattie dermo-sifilopatiche. Cosa che fu fatta perché nei rapporti successivi di prefettura e questura veniva riportata la infermità del bambino dovuta a sifilide organica ereditaria. Il piccolo compendiava «tutto lo squilibrio mentale della genitrice» che veniva descritta come «squilibrata con carattere neuropatico». La donna avanzava le sue pretese - soprattutto richieste di danaro, aumento straordinario del sussidio, cosa che le fu anche concessa - con violenza, minacciando nel novembre del 1918 il suicidio.
Le date in questo caso sono importanti perché nel 1918 Mussolini non era il potente capo del governo e del fascismo e non poteva di certo intervenire in perizie mediche e in relazioni prefettizie e di polizia. La Dalser raccontava anche storie personali e intime, accusava il governo e Mussolini, asseriva di appartenere ad una delle famiglie più facoltose del Trentino e di aver versato i capitali per la fondazione del Popolo d’Italia.
Il prefetto di Napoli, trattandosi di storie personali, si rifiutò di entrare nella controversia. Lo stato mentale della donna era attestato dai rapporti di polizia - era sorvegliata - che ne descrivevano «la cattiva condotta specie morale essendosi data alla vita allegra riservatamente».
Insomma, tutta la storia drammatica di Ida Dalser e del figlio Benito Albino è precedente alla storia del Mussolini capo del fascismo. Giustamente Antonio Alosco conclude la sua ricostruzione molto documentata con queste parole che pongo a chiusa dell’articolo: «Il sottoscritto è convinto che ricostruire la verità storica valga molto di più che attribuire a Mussolini e al fascismo colpe (ne hanno moltissime) che non hanno».
MOLA DI BARI, Giovedì 28 luglio 2016
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI
Nicola Fanizza
"MADDALENA SANTORO E ARNALDO MUSSOLINI"
Interverranno:
Prof. Vito Antonio Leuzzi - Prof.ssa Valeria Nardulli - Prof. Vito Gallotta
Moderatore: Waldemaro Morgese
Giovedì 28 luglio 2016 - ore 20.30
Mola di Bari - Palazzo Pesce
(Via Van Westerhout, 24)
Maddalena Santoro
Un’intellettuale salentina nella storia dei Mussolini
La donna segreta di Arnaldo, fratello del duce
di Vito Antonio Leuzzi (La Gazzetta del Mezzoggiorno, 24.07.2016)
C’è una figura di donna da conoscere, da approfondire: è la singolare figura di intellettuale salentina il cui nome è Maddalena Santoro. Con la sua scrittura, riesce nel primo dopoguerra a Milano ad occupare uno spazio non marginale nello scenario politico-culturale segnato dall’ascesa del fascismo.
È lei la protagonista di un recente volume di Nicola Fanizza, dal titolo Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare, (Edizioni dal Sud, pagg. 160, euro 15,00).
L’autore, con una accurata e documentata ricerca d’archivio, traccia il contesto della formazione di Maddalena Santoro nella Lecce del primo Novecento e il suo intimo sodalizio con Caterina Tanzarella, originaria di Ostuni, sua coetanea al Liceo «Palmieri» di Lecce.
Nel volume si analizza l’intensa corrispondenza tra le due amiche, carica di vicende intime legate ai rispettivi contesti socio-familiari, e si ripercorre la storia della narrativa della Santoro e il suo «tenace desiderio di rendere trasparente il mondo femminile». La scrittrice, per la sua costante attenzione ai romanzi che parlano dell’anima femminile, ottiene un incarico redazionale nel 1921, a Milano, presso la Casa editrice Alpes.
In questo contesto si colloca il legame di Maddalena con Arnaldo Mussolini, fratello minore del capo del fascismo, che nella capitale economica d’Italia svolge un ruolo politico-culturale rilevante come direttore de Il Popolo d’Italia e come responsabile, tra l’altro, della «Scuola di mistica fascista»; mentre la sua amica di Liceo, Caterina, su una sponda opposta, segue le traversie del marito, l’intellettuale di formazione repubblicana Piero Delfino Pesce, originario di Mola di Bari e direttore di Humanitas, la rivista degli intellettuali democratici, soppressa dal fascismo dopo il delitto Matteotti.
Maddalena Santoro svela all’amica il fascino esercitato su di lei da Arnaldo «con il suo solito sorriso bonario», mite e riflessivo (la casa editrice Alpes, rilevata dal fratello di Mussolini, con i consigli della Santoro e di Massimo Bontempelli pubblica il primo romanzo di Alberto Moravia Gli Indifferenti).
La relazione sentimentale tra la scrittrice e il fratello del duce si carica progressivamente di aspetti drammatici e di lati oscuri «per i tormenti legati alla sua condizione di essere amante di un uomo sposato» che per lungo tempo le aveva celato anche la presenza di tre figli.
In una missiva «compromettente», Maddalena svela a Caterina Tanzarella questi ed altri particolari, relativi anche al capo del fascismo che era sposato civilmente con Rachele Guidi, madre dei suoi primi tre figli (ad Arnaldo viene, infatti, affidato il compito di gestire anche sul piano legale i rapporti con i tre figli del fratello Benito). Scrive Fanizza: «Dalla lettera emerge che Maddalena aveva esercitato sul duce pressioni dirette e indirette - attraverso il fratello - per convincerlo a far battezzare i suoi figli, come di fatto avvenne il 2 aprile 1923».
In questo difficile contesto esistenziale, Maddalena scrive il suo primo romanzo Trasparenze femminili con la casa editrice Bemporad che pubblica opere di Sibilla Aleramo, Matilde Serao, Annie Vivanti.
A Caterina, in una lettera del 26 luglio del 1923 comunica: «Ho scritto un libro. Un romanzo a quanto pare non brutto [...]. Ho preferito la Bemporad all’Alpes, perché più importante e più nota anche nell’Italia meridionale».
Nella puntuale e articolata indagine di Fanizza, che mette in luce gli aspetti politico-affaristici del duce e di suo fratello Arnaldo (coinvolto nella tangentopoli milanese del 1930 e custode, tra l’altro, di un ingente patrimonio finanziario e di molti segreti, tra cui le vicende connesse al delitto Matteotti), balza all’attenzione l’attività di rigido controllo e di censura nei confronti della Santoro, esercitata dalla polizia segreta dopo l’improvvisa scomparsa di Arnaldo nel dicembre del 1931.
Maddalena, stabilitasi a Firenze in un appartamento che le aveva comprato Arnaldo, non riesce più a concentrarsi (aveva in precedenza scritto Fanatici d’Amore e L’inutile gloria, quest’ultimo pubblicato nel 1932). «Ovunque va - scrive Fanizza - avverte di essere seguita. La polizia politica controlla ogni suo movimento; si sente osservata» (la scrittrice si era rifiutata di consegnare agli emissari del duce le lettere di Arnaldo). La sua vita privata si complica, contribuendo sempre di più alla sua infelicità, dopo la relazione sentimentale con il conte Paolo Alberto Colombini che secondo le normative della polizia politica aveva subito «numerose condanne per truffa». Tutte vicende che arricchiscono di particolari la sua già interessante biografia, che sembra uno spaccato delle vicende italiane del primo Novecento.
La scrittrice continua a scrivere novelle, articoli di moda, commedie, ma la sua vita è minata da una grave malattia nel 1938. Le sue pubblicazioni si fermano al 1941, tre anni prima della sua morte, avvenuta a Triuggio, in provincia di Monza, il 13 febbraio 1944.
La donna segreta di Arnaldo Mussolini
Un libro racconta la sua relazione col fratello del Duce. Attraverso le lettere spedite a un’amica lo spaccato dell’ascesa del fascismo in Italia dal punto di vista femminile
Fu la donna di Arnaldo Mussolini, l’adorato fratello del duce e oggi la sua figura riemerge grazie a un libro: -Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini: la storia d’amore che il duce voleva cancellare. Pubblicato dalle edizioni del Sud.
di Emanuela Carucci *
Maddalena Santoro non fu solo vicina ad Arnaldo, ascoltatissimo fratello di Benito Mussolini, che guidò, per certi versi, l’ascesa del capo del fascismo e le scelte politiche, fu direttore del Popolo d’Italia e responsabile della scuola di mistica fascista. Santoro fu anche una importante figura intellettuale nel panorama pugliese del primo novecento e nel libro di Nicola Fanizza vengono messe in luce le sue qualità raccontando il carteggio intercorso tra la donna e l’amica Caterina Tanzarella, ostunese, coetanea e compagna di liceo.
Nelle missive che le due donne si scambiarono emergono non solo le storie delle rispettive famiglie, ma anche l’ascesa come scrittrice di Maddalena Santoro e il suo impegno tutto al femminile per l’emancipazione culturale della donna. Questa sua inclinazione sarà premiata con un posto da redattrice nella casa editrice Alpes, la stessa che Arnaldo Mussolini rilevò e che pubblicherà il primo romanzo di Alberto Moravia, "Gli Indifferenti".
Santoro rivela all’amica l’intreccio che la lega ad Arnaldo Mussolini, ma la storia d’amore vivrà periodi difficili e tormentati. Arnaldo Mussolini era già sposato e padre di tre figli. Fino alla morte prematura del fratello del duce, nel 1931. Dopo la morte di Arnaldo,
Maddalena Santoro fu sottoposta a un regime di ferreo controllo da parte della polizia politica fascista. Questo contribuì non poco ad acuire il dolore già vivo dopo la scomparsa di Arnaldo. Santoro continuerà a scrivere novelle e articoli fino a poco prima della morte. Si spense per una grave malattia nel 1944.
NOTA EDITORIALE
Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini - La storia d’amore che il duce voleva cancellare
di Nicola Fanizza
Maddalena Santoro, salentina con la passione per la scrittura , e Arnaldo Mussolini s’incontrano per la prima volta a Milano presso la redazione della casa editrice Alpes. "Fu un colpo di fulmine, un amore a prima vista. Maddalena non riuscì a nascondere la sua emozione, pronunziò il suo nome con un filo di voce; lui s’inchinò per baciarle la mano. Arnaldo non osò farle ripetere il nome e perciò quel pomeriggio si adattò a conversare con una donna di cui non conosceva il nome. Il giorno dopo si mise sulle sue tracce."
SCHEDA (SALENTO FEMMINILE):
Santoro Maddalena
(Lecce 1884 - Milano 1944)
Figlia dell’avvocato e pubblicista leccese Saverio Santoro, frequenta il R. Liceo ginnasio Palmieri e sin da giovanissima si cimenta nella pubblicazione di novelle e liriche sui periodici locali. All’inizio degli anni Venti si trasferisce a Milano, che diviene la sua patria d’elezione. L’attività letteraria, iniziata nel 1923, continua per più di un decennio con romanzi, novelle, articoli, ma anche con la collaborazione a periodici e ad almanacchi.
Contrae matrimonio in età matura (almeno intorno al 1938) con il conte Colombini.
Trasparenze femminili. Romanzo
Arezzo, Prem. Stab. Tip. Ettore Sinatti, 1923; 2ed. Firenze, Bemporad, 1924.
Così donna mi piaci
Arezzo, Prem. Stab. Tip. Ettore Sinatti, 1923; 2ed. Firenze, Bemporad, 1926.
Ombre sull’aurora
Firenze, Bemporad, 1925.
L’altra
Firenze, Bemporad, 1926; 2ed.1933.
L’amore ai forti
Firenze, Bemporad, 1928; 2ed.1933.
Fanatici d’amore
Firenze, Bemporad, 1930.
Sulle ali del’enigma. Versi
Firenze, Bemporad, 1931.
L’inutile gloria
Firenze, Bemporad, 1931; 2ed.1932.
Solitudine. Versi
Firenze, Bemporad, 1933.
Senza amore, Romanzo
Milano, Tip. Editoriale, 1935.
Bibliografia:
Enzo Panareo, Una scrittrice leccese tra le due guerre: Maddalena Santoro, in «Sallentum», a. III, 1980, n. 1-2, pp. 81-135.
Daria De Donno, Intellettuali e fascismo. Un percorso al femminile: Maddalena Santoro (1884-1944) in «Ricerche Storiche», n. 2, 2010, pp. 349-372.
Abstracts - Polistampa:
Il dibattito storiografico sulla storia delle donne, con particolare riferimento alle scritture femminili, si è arricchito in tempi più recenti di ricerche che hanno fatto emergere, talvolta in maniera imprevista, una pluralità di percorsi al femminile che in molti casi esulano, si sganciano dai modelli classici della femminilità. Gli itinerari di vita (pubblici e privati), nelle loro numerose interazioni, permettono, infatti, di comprendere in maniera più ravvicinata realtà, ambiti, contesti per esplorare e reinterpretare un’epoca attraverso nuovi codici narrativi, sociali, politici.
Da questo punto di vista, risulta significativa la vicenda della giornalista e scrittrice Maddalena Santoro, figura di intellettuale dinamica ed emancipata, che da Lecce giunge a Milano, dove con il ‘mestiere della scrittura’ riesce a ritagliarsi uno spazio rilevante nello scenario culturale del ventennio fascista.
L’indagine, condotta attraverso l’intreccio progressivamente sempre più fitto di piani di lettura differenti (dalle trame dei romanzi alle annotazioni giornalistiche, dalle recensioni alle scritture private) ha svelato la “presenza” di una donna, di una letterata, di una professionista fortemente attiva nelle pieghe di una società pensata al maschile. Ma ha acceso anche spie significative su altri fronti. Da un lato ha permesso di cogliere esperienze, mentalità, prese di posizione, contraddizioni nell’ambito del milieu di regime in cui la scrittrice lavora; dall’altro ha consentito di mettere in rilievo e di valutare il ruolo di mediazione con il potere esercitato da una intellettuale/donna non-engagée, che si esplicita nel complesso e spesso ambiguo panorama culturale e politico del fascismo al femminile.
La memoria cancellata di Alessandro Mussolini
di Angelo Martino *
Non fu un’infanzia felice quella di Alessandro Mussolini fra un padre assente e una madre fiaccata dai parti e dalle malattie. Nato a Montemaggiore di Predappio l’11 novembre 1854, da Luigi e Caterina Vasumi, Alessandro ricevette la prima istruzione dallo zio Tancredi, che soleva raccontargli anche le gesta dei rivoluzionari garibaldini romagnoli. D’altra parte il piccolo Alessandro era nato proprio nella casa che aveva ospitato Giuseppe ed Anita Garibaldi in fuga da S. Marino verso le Valli di Comacchio.
A Dovadola iniziò l’apprendistato di fabbro e la formazione politica, con la partecipazione nel 1872 alla Conferenza di Rimini, nella quale prevalse la linea del socialismo libertario rispetto a quello marxista. Di ritorno a Predappio il giovane Alessandro era già “diventato il più efficace e irresistibile apostolo” del socialismo, raccogliendo intorno a sé tantissimi amici e concittadini che seguivano le stesse idee.
L’interesse e l’entusiasmo dei cittadini di Predappio era dovuto anche al fatto che Alessandro, il politico del paese, aveva conosciuto a Rimini il pugliese Carlo Cafiero e l’imolese Andrea Costa, che sarebbe stato il primo deputato socialista del parlamento italiano. Inoltre, in quei primi anni di affermazione del socialismo libertario, con Alessandro vi era anche il giovane Giovanni Pascoli.
Allievo di Giosuè Carducci, il Pascoli era solito congratularsi con Alessandro Mussolini per i suoi ” discorsi belli e appassionati”, ma era la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento durante i quali entrambi avrebbero conosciuto l’iscrizione nei casellari giudiziari della questura di Bologna .
Fu proprio nel 1878, anno in cui si spense la madre, che Alessandro dovette affrontare la prima dura carcerazione. La drammatica esperienza fu ricordata nel 1910 dal figlio Benito che sul giornale “La lotta di classe”, da posizioni decisamente più massimaliste del padre, scrisse: “Gli internazionalisti allora erano considerati come delinquenti da segregare e mio padre, reo di aver fondato e diretto un gruppo dell’Internazionale, fu arrestato. Passò parecchi mesi nella vecchia Rocca di Forlì. Uscito dal carcere, mio padre fu condannato alla sorveglianza speciale. Questa specie di dura, esasperante prigionia morale durò quarantadue mesi”.
Proprio in quel periodo Alessandro Mussolini conobbe la maestra ventenne Rosa Maltoni, giunta a Dovia dalla frazione di Bocconi, vincitrice del concorso indetto dal comune di Predappio e i due si sposarono nel 1882, anno in cui Andrea Costa diventò il primo deputato socialista del parlamento italiano.
Alessandro Mussolini ebbe modo di ricevere nel corso degli anni i più grandi personaggi del socialismo libertario di fine Ottocento, tra cui la bella bionda Anna Kuliscioff, mentre scaldava i cuori dei concittadini di Predappio, parlando di socialismo, uguaglianza e giustizia sociale. La sua empatia per i poveri e sofferenti lo portò a scrivere, un giorno che passavano a Dovia torme di operai di ogni età, in cerca di lavoro, diretti a Firenze: “Li vidi magri, sparuti, macilenti, mal vestiti; lor si vede scolpita la miseria patria. Il dolore per aver lasciato la famiglia senza pane, lo strazio per l’incertezza di trovarne li rendono talmente accasciati che non vorreste non averli veduti. Povera umanità! E dire che a ogni casa dimandano un tozzo di pane per isfamarsi”.
Il 15 agosto 1891 costituì la Società cooperativa braccianti e sezione d’arti di Predappio, di cui fu presidente, con segretario Silvio Marani. Nel 1910 il figlio Benito, ricordandolo ancora nelle pagine del giornale “Lotta di classe”, scrisse che “l’articolo 4 determinava il fine della Società di “assumere ed eseguire in cooperazione lavori oggi eseguiti dagli appaltatori quali sarebbero lavori di muratura, costruzione di ponti, tronchi ferroviari, strade, argini, dissodamenti di terreni, ecc. affinché ogni lavoratore consegua i frutti del proprio lavoro” e che “ la cooperativa visse mi pare sei anni di vita attiva e poi si sciolse”.
Nelle elezioni comunali di Predappio del 1889, Alessandro Mussolini fu assessore, impegnandosi per estendere le scuole serali e adoperandosi per la distribuzione di libri e quaderni ai bambini di famiglie povere con il sussidio comunale. Richiese, inoltre, aiuti per la Cooperativa braccianti da lui formata e per una biblioteca circolante per i ceti operai, come anche medicine per gli iscritti nelle liste della Congregazione della carità.
Intanto collaborava con fogli socialisti radicali, quali “Lotta”, “La Rivendicazione”, “Il Risveglio” e il repubblicano “Pensiero romagnolo”.
Il 15 luglio 1890 scriveva su ” La Rivendicazione”: Domenica scorsa ebbero luogo le elezioni suppletive. Erano in lotta il partito Operaio Democratico, quello dell’attuale amministrazione, ed il Conservatore, quella della passata. Mai non si vide tanto accanimento, ma il paese ha risposto lealmente al nostro appello[...] Su 291 iscritti 197 sono accorsi alle urne e la vittoria è stato nostra con 49 voti di maggioranza, vittoria resa anche più grande se si considera che nomi chiari di avvocati e di persone facoltose furono battuti da quelli oscuri di operai”.
Durante questo periodo il figlio Benito gli procurava preoccupazioni per il suo carattere ribelle e irruento, tanto indomabile da costringere il genitore a rinchiuderlo nel collegio salesiano di Faenza, su volontà della moglie Rosa. Dal collegio il futuro Duce scappò costringendo il padre a condurlo nella scuola - convitto di Valfredo Carducci , fratello di Giosué, a Forlì, dove a Benito sarebbe stata affidata la commemorazione di Giuseppe Verdi. Tuttavia gli esami e il diploma finale conseguiti da Benito non soddisfecero i genitori.
Alle amministrative del 6 luglio 1902 i socialisti si presentarono a Predappio con un programma avanzato di riforme, senza alleanze. In un clima infuocato i socialisti persero le elezioni, a cui seguirono disordini che costarono ad Alessandro sei lunghi mesi di detenzione. Poté tornare a Dovia da Rosa e dai figli la vigilia di Natale del 1903, con il fisico malandato. La morte della moglie Rosa, l’anno successivo, aggravarono il suo stato di salute, tanto da condurlo alla morte il 19 novembre 1910, a 56 anni,.
Quando il figlio Benito divenne Duce del Fascismo, la memoria di Alessandro Mussolini fu - come scrive Vittorio Emiliani - “una vita, in sostanza, cancellata”.
In effetti, già dal 1914 la figura del padre Alessandro era diventata imbarazzante per l’interventista Benito Mussolini, che ebbe modo di ricevere le disapprovazioni aperte degli abitanti di Predappio, tra cui tanti amici e conoscenti del genitore.
A fascismo consolidato, dopo la Marcia su Roma, nel 1925, su Alessandro calò il silenzio, mentre per la madre, Rosa Maltoni omaggi ed epigrafi di gran rilievo non mancarono da parte del figlio Benito.
“Negli anni del regime - scrive Emiliani - “la memoria dell’anarchico, internazionalista, socialista rivoluzionario viene dunque rimossa”, mentre ben rilevanti erano gli articoli che nel 1910 su “Lotta di classe” il figlio Benito aveva dedicato al padre e alla sua attività politica. Di tale realtà ebbe consapevolezza il fratello del Duce, Arnaldo, cattolico e moderato, il quale rivelò all’ex socialista Francesco Bonavita: “Mi sarebbe giusto che qualcuno portasse ricordasse nostro padre”. Francesco Bonavita scrisse un libro “Il padre del Duce”, illudendosi di poter animare il ricordo del socialista rivoluzionario Alessandro Mussolini e di rivalutarne la sua figura in quegli anni.
Il libro uscì a Roma nel 1933, ma - come scrive ancora Vittorio Emiliani - “rimase, in pratica, semiclandestino”. Tuttavia Alessandro fu certamente protagonista, pur fra qualche contraddizione o sbandamento, di una storia autenticamente socialista, lontana da ogni violenza e sopraffazione, una storia dall’immensa carica umanitaria, intessuta di lealtà verso i compagni, di generosità verso i deboli, i più derelitti, di speranza nel sol dell’avvenire.
Bibliografia:
Vittorio Emiliani - Il fabbro di Predappio - Società Editrice Il Mulino- 2010
* Nuovo Monitore Napoletano, Mercoledì, 06 Luglio 2016
Benito Mussolini e la Madre Rosa Maltoni *
Quella che vedete a lato è una delle rare immagini che possediamo di Benito Mussolini bambino, qui addirittura in fasce tra le amorevoli braccia della madre Rosa Maltoni, maestra elementare, moglie e madre affettuosa, gran lavoratrice e probabilmente la donna più importante nella vita del Duce.
Figlia di un veterinario, nata nel 1859 a San Martino in Strada, vicino Forlì, da giovane Rosa si innamorò, ricambiata, del maniscalco, pare un po’ ruvido e sfaccendato, Alessandro Mussolini, animato da una sincera e veemente passione per la politica, precisamente per il Socialismo, di cui era un convinto sostenitore; Rosa tuttavia, da fervente cattolica quale era, non avrebbe mai accettato di unirsi a qualcuno se non con un matrimonio religioso celebrato in chiesa, ipotesi inizialmente scartata dall’irruento fidanzato.
Alla fine l’amore trionfò, lui cedette alle richieste di lei e i due, finalmente, si sposarono nel 1882 a Dovia di Predappio.
Dall’unione, oltre al futuro capo del Fascismo, nacquero anche Arnaldo (1885) ed Edvige (1888).
Tra Rosa, costretta a fare il capofamiglia a causa di un marito spesso latitante, e il primogenito Benito (nato nel 1883), da lei stessa descritto come un piccolo “monello irrequieto“, si era instaurato fin da subito un rapporto complice e profondo; la madre, sempre molto attenta all’educazione, fece in modo che il figlio, a nove anni, venisse accettato nel Collegio dei Salesiani a Faenza (Ravenna) affinché potesse proseguire negli studi.
Fu il destino a spezzare per sempre, in modo tragico ed imprevisto, il legame tra Mussolini e Rosa, che morì nel 1905, a soli 46 anni, per un attacco fulminante di meningite.
Fu il destino a spezzare per sempre, in modo tragico ed imprevisto, il legame tra Mussolini e Rosa, che morì nel 1905, a soli 46 anni, per un attacco fulminante di meningite.
Della figura materna, dolce e forte al tempo stesso, il Duce fece in seguito quasi un motivo di culto, tanto che presso la tomba nel piccolo cimitero di Predappio non mancavano mai gerarchi in rispettoso pellegrinaggio.
Per avere un’idea precisa di quanto la madre abbia contato nella vita, e possiamo supporre nella formazione, di Mussolini, basti pensare che nessuna figura femminile, neanche quelle della moglie Rachele e dell’amante storica Claretta, comparivano sulla scrivania dello studio di Palazzo Venezia, tranne quella di Rosa, raffigurata in una piccola miniatura (Foto da: ilduce.net).
Della figura materna, dolce e forte al tempo stesso, il Duce fece in seguito quasi un motivo di culto, tanto che presso la tomba nel piccolo cimitero di Predappio non mancavano mai gerarchi in rispettoso pellegrinaggio.
Per avere un’idea precisa di quanto la madre abbia contato nella vita, e possiamo supporre nella formazione, di Mussolini, basti pensare che nessuna figura femminile, neanche quelle della moglie Rachele e dell’amante storica Claretta, comparivano sulla scrivania dello studio di Palazzo Venezia, tranne quella di Rosa, raffigurata in una piccola miniatura (Foto da: ilduce.net).
* FONTE: PILLOLE DI STORIA (senza foto)
MOLA DI BARI, Giovedì 28 luglio 2016
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI
Nicola Fanizza
"MADDALENA SANTORO E ARNALDO MUSSOLINI"
Interverranno:
Prof. Vito Antonio Leuzzi - Prof.ssa Valeria Nardulli - Prof. Vito Gallotta
Moderatore: Waldemaro Morgese
Giovedì 28 luglio 2016 - ore 20.30
Mola di Bari - Palazzo Pesce
(Via Van Westerhout, 24)
Un tragico lessico famigliare
Il figlio del Migliore fu l’agnello sacrificale
Il ragazzo fragile che Togliatti “dimenticò” a Modena in clinica psichiatrica per 31 anni
di Sergio Pent (La Stampa, TuttoLibri, 18.06.2016)
Documento storico dettagliato e sofferto, esplorazione del passato attraverso i luoghi oscuri della politica e delle utopie sociali. Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri, si colloca in queste dimensioni di studio postumo che raggruppa la Storia in un blocco compatto di accadimenti necessari a suggellare un’epoca, e stenta - proprio per questo - a trovare la collocazione ideale in una collana di narrativa. Non è, infatti, una rivisitazione romanzata del Partito Comunista Italiano, ma si basa su precise ricostruzioni che - questo si può condividere - rendono vivo come un romanzo l’impegno politico di Palmiro Togliatti, uno degli ultimi grandi utopisti del secolo veloce. Un’altra parte del mondo, a dire il vero, è quella che cerca oltre l’orizzonte del mare Aldo Togliatti, il figlio fragile e imbelle del «Migliore», quello che nasce timido e cresce solo e infine si perde in un disagio estremo che lo vedrà trascorrere gli ultimi trentun anni della sua vita appartata in una clinica privata di Modena per malati psichici.
La storia raccontata da Cirri avrebbe potuto davvero essere un romanzo, ma l’autore si intrufola come un oscuro visitatore del futuro negli angoli - pubblici e privati - di una storia familiare che è innanzitutto storia collettiva, comune e comunista. L’ombra di Aldo Togliatti segna le stagioni di impegno del padre, ma anche della madre Rita Montagnana, rampollo di una bella stirpe di idealisti borghesi di Torino. Il destino è spesso nel nome che ci portiamo addosso, e il destino di Aldo - fin da subito - è quello dell’agnello sacrificale immolato sull’altare del Partito.
Le vicende procedono in parallelo, e la minuziosa ricostruzione degli accadimenti ci consente di mettere in luce un periodo storico di enormi fermenti crollati con la caduta del mito di Stalin e con l’avvento di un’epoca di pesanti contraddizioni politiche. Ma il percorso di Aldo Togliatti è un filo di memorie discrete che attraversano tutti i grandi eventi, dai quali lui fu sempre tenuto in disparte, anche se la famiglia lo obbligò a frequentare la rigida scuola di Ivanovo in Russia, destinata ai figli dei leader comunisti del mondo.
Cirri ricostruisce con diligenza - talvolta un po’ didascalica - quel lungo periodo, in cui Aldo riuscì a trovare una sua dimensione di esile confronto con altri giovani «espatriati». Ma il ritorno in Italia, nella Torino del dopoguerra, coincide con le prime avvisaglie della sua indole solitaria, prevale la paura delle responsabilità, l’assenza - e l’ombra comunque incombente - del padre contribuiscono a creare in lui una bolla di diffidenza nella quale gradualmente rimarrà imprigionato.
Una volta lo trovano sul molo a Civitavecchia, un’altra addirittura a Le Havre, scambiato per un barbone, ma il coraggio di abbandonare quella vita di sacrifici e di rinunce non lo trova mai, ed è inevitabile, per «Aldino», seguire la parabola politica - anche quella discendente, anche quella della sua «scandalosa» unione con Nilde Iotti - del glorioso genitore, esiliandosi definitivamente dal mondo, spegnendosi nel silenzio di Villa Igea nel 2011, a 86 anni.
Ciò che colpisce, in questo intenso vagabondaggio tra le pieghe della Storia, è l’elenco di personaggi ormai dimenticati che hanno sfiorato la gloria, lottato, sognato un futuro diverso e migliore, anch’essi alla ricerca di un’altra parte del mondo, come Aldo Togliatti che, però, si limitò a immaginarlo dal suo eremo di silenzi e di paure. In questo, il coraggioso impegno documentale di Cirri è un suggello definitivo e privo di omissioni su un momento storico che avrebbe potuto modificare, chissà come, chissà quanto, le prospettive politiche del futuro. Quello in cui stiamo annaspando rassegnati.
Mussolini senza copyright tornano i diari dimenticati
Scaduti i diritti sugli scritti del duce studiosi di destra e sinistra riscoprono le memorie della grande guerra
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 12.01.2016)
Tutti pazzi per Mussolini? Parrebbe di sì, solo a guardare gli scaffali delle librerie. Dove sono appena arrivate ben cinque edizioni del diario di guerra di Mussolini, ossia le cronache dal fronte pubblicate sul “Popolo d’Italia” tra il dicembre del 1915 e il febbraio del 1917. Il Mussolini soldato, non ancora duce, ma già sapiente artefice di un’autorappresentazione che gli sarebbe tornata utile.
L’inatteso fenomeno editoriale sembra contagiare geografie culturali ed editoriali molto distanti, dalla sinistra di Mario Isnenghi e Mimmo Franzinelli alla destra postfascista di Alessandro Campi, fino a toccare le sponde eversive e criminali di Franco Freda, sì lui, il terrorista, responsabile insieme a Ventura della strage di piazza Fontana, che incredibilmente sopravvive come editore di Ar (marchio distribuito da una libreria di Avellino). E accanto a questi lavori c’è anche il journal mussoliniano curato da Denis Vidale per la Biblioteca dei Leoni. A tenerli insieme, nella siderale lontananza, la comune riscoperta di un testo ovviamente riproposto più volte nel ventennio nero, poi rimasto sepolto nell’opera omnia mussoliniana e di fatto ignorato dalla storiografia della grande guerra.
Perché questo improvviso interesse per il diario dal fronte? La risposta più semplice è di carattere giuridico ed editoriale: sono appena scaduti i diritti di Mussolini - proprio come quelli di Hitler - , le case editrici possono liberamente riproporre i testi senza passare attraverso la tagliola del copyright.
Spiega Ugo Berti, responsabile del catalogo storico del Mulino che ora pubblica l’opera con la introduzione di Isnenghi (Il mio diario di guerra): «Nel centenario del primo conflitto mondiale siamo andati tutti a riguardarci la bibliografia, scoprendo in questo modo testi dimenticati come il diario di Mussolini. La coincidenza dello scadere dei diritti ha fatto il resto. Da qui il gran fermento dell’editoria, mossa anche da ragioni di mercato: la grande guerra fa vendere». Una spiegazione minimalista, quella di Berti, che seppure fondata non esaurisce la questione.
E allora per capire di più bisogna partire dalla sponda sinistra. E chiedersi perché uno storico come Isnenghi, che nel Mito della Grande Guerra aveva ignorato il diario di Mussolini, oggi decida di firmarne la introduzione. «Ho cominciato a fare i conti con quel lavoro in uno dei convegni animati da Gianfranco Folena a Bressanone », risponde lo studioso dalla sua casa di Padova. «Poi, nel 1989, quando ho ripubblicato Il Mito dal Mulino, decisi di riconoscere pubblicamente il mio errore: il diario di Mussolini è uno dei testi più incisivi della letteratura di guerra. Si era trattato di un’automutilazione, dettata dal clima politico e culturale in cui preparai il Mito». Il suo capolavoro storiografico uscì in prima edizione da Laterza nel 1970, nel pieno dell’antifascismo militante. «Nessuno mi ha mai rimproverato quell’omissione», continua Isnenghi. «La memoria del fascismo era ancora molto viva. Oggi rimuovere il diario di Mussolini non avrebbe senso».
Però ancora oggi c’è chi oppone resistenza. Ed è lo stesso Berti a raccontarcelo, dal suo longevo osservatorio storiografico. «Il nome di Mussolini per qualche storico è tuttora impronunciabile. Ancora Marco Mondini, nel suo bel libro La guerra italiana pubblicato lo scorso anno, nemmeno cita il diario. Gli ho chiesto perché e lui mi ha risposto che gli era apparso inopportuno occuparsene».
Ad alcuni studiosi, al contrario, appare opportuno occuparsene proprio con un intento civile. È il caso di Mimmo Franzinelli, curatore del Giornale di guerra per le edizioni Leg. «Anche nella diversità dei testi, accade con i diari di Mussolini quello che è successo con il Mein Kampf. Anche io mi sono posto il problema dell’opportunità: ho scelto di pubblicare il testo con centinaia di note in cui invito a non prendere per oro colato le parole del soldato Mussolini. In sostanza cerco di demistificare la sua autorappresentazione eroica, mostrando la doppiezza tra il Mussolini politico e il Mussolini militare». Un taglio critico in parte coincidente con la lettura di Isnenghi, che mette in guardia dalla finalità di Mussolini: orientare lo sguardo di chi lo legge - si tratta di un diario pubblico, pubblicato sul suo giornale, non un diario privato - offrendo di sé l’immagine di «protagonista e coro, leader e gregario, attore politico trainante e soldato nella massa». Insomma, ricerca del consenso e prove generali da futuro duce.
Lettura che non convince Alessandro Campi - un passato remoto nelle file del neofascismo, un passato prossimo da protagonista nel laboratorio della nuova destra democratica di Gianfranco Fini, oggi direttore della Rivista di Politica. Tra pochi giorni esce da Rubbettino una sua accurata edizione storico-critica del Giornale di Guerra. «Non mi persuadono quelle interpretazioni che tendono a sovraccaricare il testo di Mussolini di un significato strumentale: il diario segnerebbe l’inizio del suo culto pubblico, con il fine di accreditarlo quale leader politico degli italiani. Tutto questo non tiene conto di vari elementi. Il primo è che Mussolini quando va in guerra può morire, cosa che è accaduta ad altri interventisti. Il secondo è che il diario viene scritto in un una fase magmatica della sua biografia che non prefigura né fascismo né conquista del potere». Questa lettura, secondo Campi, ha finito per svalutare un testo di grande dignità sul piano politico e letterario, un racconto in presa diretta dotato di una freschezza che manca a molta letteratura di guerra, rielaborata in fase successiva. «La sua assenza, nel trionfo memorialistico del centenario bellico, mi ha molto sorpreso. Per questo l’ho proposto a Rubbettino. Era giusto sottrarlo all’area nostalgica neofascista per restituirlo agli italiani in forma critica».
Al di là delle diverse interpretazioni, resta da capire perché oggi Mussolini possa essere al centro della scena editoriale e dunque culturale. La «fascinazione ancora esercitata tra i più giovani», come sostiene Franzinelli? O «il carisma dell’uomo solo al comando, in sintonia con lo spirito del tempo», come dice Isnenghi?
Fa riflettere l’affermazione di Ugo Berti: «Dieci anni fa il Mulino avrebbe avuto dei problemi ad avere Mussolini in catalogo ». Forse oggi c’è maggiore serenità, ormai distanti le aggressioni della destra anti antifascista, il tentativo di riabilitare politicamente il duce («il maggior statista italiano» disse Fini prima della svolta democratica), lo svilimento della Resistenza, l’equiparazione tra partigiani e repubblichini, la proposta di abolire il 25 aprile. Umori che ora avvertiamo lontani, ma in realtà risalgono a un passato recente. «Oggi pubblicare Mussolini è il segno di un paese maturo», dice Campi. O, meglio, la speranza di un paese maturo, che abbia davvero fatto i conti con il passato.
A proposito. In questo nostro girovagare tra i testi mussoliniani ci siamo imbattuti, grazie a Ugo Berti, in una stranezza. L’Istituto Poligrafico dello Stato continua a proporre, in una collana per bibliofili, Scritti e discorsi di Mussolini. Ma non un’edizione critica, bensì la veste originale uscita nel 1939, carta in filigrana con il fascio littorio e la sigla LDS, Libreria dello Stato. Che era quello fascista. Questo, sì, decisamente imbarazzante.
Mussolini e Maria José una storia a luci rosse
Ne Le donne del Duce lo storico Mimmo Franzinelli rivela la liaison con la principessa
di Mirella Serri (La Stampa, 06.09.2013)
Una situazione degna del miglior Boccaccio! Claretta Petacci, tutta sudata e infuriata, chiusa nell’estate del 1937 per ben due ore nella cabina-doccia del capanno del Duce a Castelporziano, mentre Mussolini s’intratteneva con un’ospite presentatasi all’improvviso nella tenuta reale. Qui il capo del governo, oltre a godersi il mare e a sbrigare il lavoro d’ufficio, di solito faceva accedere le sue partner più fidate. Ma solo Maria José di Savoia si poteva permettere il gesto ardito di visitare a sorpresa il più grande amatore d’Italia. Il testamento dell’ultima regina d’Italia prevede che i suoi diari, dove ogni giorno «ho annotato» scrive lei stessa, «i nomi degli imbecilli che ho incontrato, ma anche degli altri», siano consultabili solo nel 2071. Non dobbiamo però aspettare quella data per conoscere l’incredibile verità. La sposa infelice del principe ereditario Umberto, la futura, convinta antifascista di casa Savoia, si presentò seminuda al capanno, spiegando di essere naturista, abituata ai bagni di sole. Mussolini, di fronte alla generosa profferta, fu incerto se far prevalere l’uomo o il politico che non voleva turbare i suoi rapporti con la Real Casa. Poi cedette. E offrì pessima prova di sé e del suo Lui.
Ora a dimostrare, documenti alla mano, il legame tra il creatore del fascismo e Maria José, di cui si è discusso a volte ma senza certezze nel dopoguerra, arriva il saggio di Mimmo Franzinelli Il duce e le donne (Mondadori). Un libro che rappresenta un’importante integrazione alla vicenda politico-sentimentale di Benito e porta in luce tanti aspetti inediti della vita erotica del Duce Truce. E non c’è niente di più azzeccato del nomignolo gaddiano: oltre le centinaia di incontri occasionali e le avventure più prolungate con Ida Dalser (a cui Marco Bellocchio ha dedicato Vincere ), con l’anarchicamusulmana Leda Rafanelli, la squadrista Giulia Mattavelli, la pianista bretone Magda Brard, la contessa Alice de Fonseca Pallottelli, emergono altre relazioni sconosciute di Mussolini. Ai suoi appetiti erotici il dittatore non negava niente e rivolgeva le sue pulsioni persino a Fiammetta, figlia adolescente della sua amante Margherita Sarfatti. Solo Maria José riuscì però a prendersi una bella rivincita sul libidinoso tiranno. Dopo l’iniziale défaillance con la moglie di Umberto, noto per la sua omosessualità descritta nei mattinali di polizia impilati sul tavolo del dittatore, il rapporto non terminò ma si sviluppò in maniera intermittente per circa tre anni.
L’ammirazione della principessa belga per il seduttore-conquistatore risaliva al 1936: arruolata nella Croce Rossa, dall’Abissinia aveva telegrafato per la proclamazione dell’Impero: «Esulto... fiera del mio alto privilegio di avere ascoltato il suo glorioso messaggio». A fine settembre 1939 le simpatie di Maria José andavano all’Asse, alla fine del 1940 si iscrisse al Pnf (Partito nazionale fascista). Ma a far scemare progressivamente l’attrazione per il Duce sarà la delusione che proverà nei confronti del Reich e per l’occupazione tedesca del suo paese natio. Durante i loro incontri Mussolini, intimidito dalla spregiudicatezza e dal lignaggio, si sentirà in una «scomoda posizione di sudditanza», spiega Franzinelli. Il dittatore, connotato dal suo superomismo, non si trovava a suo agio tra le lenzuola con la signora di sangue blu. Facendo eccezione alle sue abitudini, fu proprio lui stesso a negarsi e a non voler più abboccamenti.
La serie degli amorazzi con le minorenni prende avvio con la 17enne Bianca Ceccato, segretaria del Popolo d’Italia. Il direttore Mussolini aveva superato i 30 anni e le si propose come un buon padre, l’accompagnava in carrozza, le accarezzava le mani. Conosciutone l’interesse per un coetaneo bersagliere, gelosissimo, la licenziò. Lei contrita e senza una lira tornò sui suoi passi e Benito la convocò in un albergo. Le fece bere spumante a garganella e la violentò in una squallida camera. La costrinse poi ad abortire e quando gli darà un figlio, Glauco, non vorrà nemmeno incontrarlo. Bianca in seguito volle provare a rifarsi una vita e a sposarsi e il dittatore inviò la polizia nel suo appartamento per intimorirla e dissuaderla. Ci riuscirà, condizionandone la vita. Persecutorio lo sarà anche con la 14enne Fiammetta, nata da una delle poche donne che sosteneva di aver amato, l’ebrea Margherita. La Sarfatti, che sarà costretta dalle leggi razziali a fuggire a Montevideo, supplicò in una lettera il quarantenne statista di non «farle richieste indegne». Ma l’Orco-Benito non rinunciò al rapporto a tre che durerà, tra scenate e rivalità tra madre e figlia, almeno una decina di anni. Mussolini stesso confiderà menzognero a Claretta che Margherita gli aveva offerto su un piatto d’argento la prosperosa fanciulla.
Anche la Petacci finì nel tourbillon del ménage à trois, come denunceranno i giornali l’indomani della caduta di Mussolini nell’agosto del 1943. Fin dal 1938 la quindicenne Myriam, detta Mimì, fece da mediatrice nella liaison tra la sorella maggiore e Ben. Toccava a Mimì, ad esempio, fare da chaperon nelle trasferte del Duce e di Claretta al Terminillo. Ma a un certo punto la Petacci si impensierì: «Viene Mimì, lui si sofferma a parlare e la guarda con occhio diverso, da maschio, come prima mai. Rimango un po’ perplessa. Infatti dopo, riprendendo la passeggiata, ha uno strano atteggiamento d’uomo che pensa di poter piacere, di avere ciò che vuole, e altri pensieri che qui non trascrivo». Da quel momento sarà sempre più preoccupata: «In tutto il tempo che ha parlato ha guardato molto Mimì e mi ha veramente seccato che abbia tenuto questi discorsi dinanzi a lei. Tanto che molte volte ho cercato di farlo smettere, ma inutilmente: non capisce queste cose... ». Non è solo Claretta a notare la bramosia del maturo satiro. Le chiacchiere sul terzetto dilagano e i Petacci faranno sposare Myriam in gran pompa e in gran fretta. A dare scacco al Duce, tra le tante, sarà Maria José. Entrata in rapporto con il gruppo di Umberto Zanotti Bianco, antifascista liberale che la introdusse al cenacolo di Benedetto Croce, diventerà una delle pedine nella débâcle e nella rovina di Mussolini. Ma dovrà aspettare fino al 25 luglio 1943.
Anna e Angelica, le regine russe del primo socialismo italiano
La Kuliscioff era la compagna di Filippo Turati, la Balabanoff l’amante di Mussolini: due donne diverse legate dall’impegno civile e politico
di Amedeo La Mattina (La Stampa, 27.11.2015)
La fucina intellettuale vibrava al numero 23 della Galleria di Milano. Era il salotto di Anna Kuliscioff, la casa della regina del socialismo italiano e del suo compagno Filippo Turati. Lì si riunivano l’intellighenzia riformista di Critica sociale e la redazione femminista della Difesa delle lavoratrici, nella quale lavorava Angelica Balabanoff. In quel luminoso appartamento, dove campeggiava un enorme ritratto di Karl Marx, Anna regnava sovrana. Ordinata, curata, elegante, sempre pronta con la battuta tagliente sulle labbra, odiava tutti coloro che contraddicevano il suo «Filippino», cioè Turati.
In quel salotto ogni tanto appariva un giovane baffuto con gli occhi spiritati, la mascella squadrata, il bavero del cappotto alzato e il cappello floscio da brigante. Era il giovane Benito Mussolini. La Kuliscioff non lo sopportava. Lo considerava un anarcoide ignorante e provinciale. Anna non aveva digerito la sconfitta subita dai riformisti nel congresso nel 1912 e la perdita dell’Avanti!, alla cui direzione i massimalisti vincitori avevano messo il focoso romagnolo. Un affronto doppio perché era stato estromesso Claudio Treves, il pupillo di casa Turati. E per ironia della sorte politica, del gruppo dirigente massimalista faceva parte la Balabanoff, che aveva un trasporto non solo politico per il giovane rivoluzionario.
Era stata Angelica nel 1904 a scoprirlo in Svizzera e a educarlo ai testi del marxismo, alla cultura e alla filosofia europea. «Se non l’avessi incontrata in Svizzera, sarei rimasto un piccolo attivista di partito, un rivoluzionario della domenica»: è il riconoscimento (l’unico nei confronti di una donna) che il Duce tributava negli Anni Trenta alla rivoluzionaria russa. La quale intanto girava per l’Europa e gli Stati Uniti a gridare (inascoltata) contro il capo del fascismo, «traditore e puttano».
Anna e Angelica. Entrambe russe, ebree, poliglotte, coltissime, provenienti da famiglie ricche, innamorate dell’Italia, degli italiani, della nostra cultura e di quel socialismo mediterraneo che negli Anni Dieci del Novecento sviluppava la migliore tradizione riformista e incubava le sue «eresie» comunista e fascista. Le divisioni politiche tra l’aristocratica Anna e l’intransigente Angelica trovavano pace nella redazione della Difesa delle lavoratrici. Le loro battaglie per l’emancipazione delle donne non dovevano fare i conti solo con la mentalità maschilista. Gli avversari ce li avevano pure nel partito dominato da uomini. Kuliscioff insisteva affinché il gruppo parlamentare socialista presentasse una proposta di legge per riconoscere alle donne il diritto di voto. Turati a casa diceva sì, non ti preoccupare, ma quando arrivava a Roma non se ne faceva mai niente.
Anna era un medico, la «dottora dei poveri», che si era laureata con una tesi sull’origine batterica delle febbri puerperali, aprendo la strada alla scoperta delle cause delle morti post partum. Angelica era la «missionaria del socialismo», amica di Rosa Luxemburg e di Lenin. Nei comizi incantava con la sua oratoria da predicatrice. Nel «loro» salotto fece irruzione un’affascinante e giovane veneziana, Margherita Grassini. Anche lei ebrea, sposata con Cesare Sarfatti, un rampante avvocato sionista che aveva detto alla moglie: «Segnati il suo nome perché questo giovanotto sarà l’uomo del futuro». Margherita prese in parola il marito e diventò l’amante di Mussolini, strappandolo all’austera Angelica, che aveva assunto la carica di caporedattore dell’Avanti!.
La Grande Guerra divise Kuliscioff e Balabanoff. La prima, come molti riformisti di allora, finì per essere favorevole all’intervento dell’Italia in difesa della Francia. La seconda rimase un’inflessibile neutralista, venne espulsa dall’Italia e nel 1917 in Russia si tuffò nel fuoco della rivoluzione bolscevica. Si pentì amaramente di avere seguito Lenin. Dopo un lunghissimo giro di boa tra Europa e Stati Uniti, fece ritorno in Italia nel 1947. In odio ai comunisti si schierò con i socialdemocratici di Saragat. Fu l’ennesima cocente delusione che Angelica subì nella sua lunga e tormentata vita, al termine della quale si ricongiunse, anche idealmente, alla compagna Kuliscioff.
Ora, da domani, quel salotto di Anna sarà esposto a Milano presso Palazzo Moriggia (Museo del Risorgimento). Fa parte della mostra organizzata dalla Fondazione Kuliscioff,. Foto d’epoca, manoscritti, poesie, articoli, giornali, riviste, opuscoli originali. Ci sono pure i disegni, anch’essi originali, che il vignettista Giuseppe Scalarini dedicò al tema della donna durante la Grande Guerra.
l’Unità 10.9.11
Lacrime e standing ovation per Bellocchio e Bertolucci
Maestri. Marco Bellocchio riceve dalle mani di Bernardo Bertolucci il Leone d’oro alla carriera e si commuove. «Le nostre vite si sono sfiorate», afferma il regista di «Ultimo tango a Parigi». Poi prende la parola Bellocchio: « Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista. Non la libertà civile che è garantita in questo paese, ma la libertà d’immaginazione. Il “devo” o il “non devo” paralizza l’artista. che ha bisogno di libertà e questo premio è il riconoscimento della mia libertà». È standing ovation.
Alberto Crespi:
Oggi è il giorno dei premi, ma nessun possibile vincitore eguaglierà in talento e in commozione il duo che si è esibito ieri sera sul palco del Palazzo del cinema. Marco Bellocchio ha ricevuto il Leone alla carriera dalle mani di Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo ha raccontato che un po’ di anni fa, all’Accademia di Brera di Milano, un ammiratore gli disse: «La seguo da quando ha girato I pugni in tasca» che come è noto è il film d’esordio di Bellocchio. «Magari avessi girato io I pugni in tasca», ha concluso Bertolucci.
Bellocchio ha tenuto un bellissimo discorso, molto applaudito: «Non sono più il rivoluzionario e il ribelle di I pugni in tasca ha detto -, i protagonisti delle mie storie non sono più assassini o suicidi, la mia vita è cambiata. Ciò che non cambia è la voglia di stare dalla parte degli oppressi, di chi è vittima della violenza. Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista». E ha annunciato il ritorno al progetto su Eluana Englaro, a suo tempo accantonato. Si intitolerà Bella addormentata, sarà il suo prossimo film. Farà discutere. E noi ci saremo, a difendere se necessario la libertà di cui sopra.
Quei Pugni in tasca che restano nel tempo
“Ricorrente è la domanda: Ma la tua rabbia dei Pugni in tasca, dove è finita? Da allora le mie immagini sono cambiate, perché la mia vita è cambiata. Ciò che non è cambiato è una naturale inclinazione a stare dalla parte di chi è oppresso, di chi è vittima di qualsiasi violenza, di chi accetta passivamente la sconfitta e predica la rassegnazione”. E ancora: “Questo premio alla carriera non è una riconciliazione istituzionale, ma il riconoscimento di una coerenza che in tutti questi anni ho cercato sempre di difendere”. Così parlò Marco Bellocchio ritirando ieri il Leone d’oro. Oltre al discorso ufficiale, il regista ha parlato del suo prossimo film su Eluana Englaro (titolo provvisorio, La bella addormentata) e dei giovani che vogliono fare i registi. “Li scoraggerei - ha detto - oggi è diverso da quando ho iniziato io”. E del cinema italiano dice: “È povero e misero. Tutti si buttano sulla commedia perché ha successo, mentre bisogna cercare strade nuove”.
«Benito mi ha lasciata col bambino»
Ida Dalser chiese aiuto a Luigi Albertini per il figlio avuto da Mussolini
di Dino Messina (Corriere della Sera, 16.12.2010)
«Giovane Dottoressa. Vedova, con piccino, cerca posto presso distintissima, buona ricca persona. Non esige stipendio purché volessero accettarla col pargoletto. Offre serietà, documenti, ottime cure a persona sofferente» . Il 16 gennaio 1916 un allibito Luigi Albertini riceve questa richiesta di inserzione assieme a una lettera firmata da Ida Dalser, in realtà non una dottoressa ma una massaggiatrice, che spiega al direttore del «Corriere della Sera» l’origine dei suoi guai: la relazione con Benito Mussolini che dopo averla «lasciata in mezzo alla strada prima di dare alla luce il suo piccino, oggi è partito nuovamente per il fronte» , lasciandola sola, «vestita d’estate col conto da pagare dell’Albergo, il piccino mezzo nudo» .
Comincia così una corrispondenza a senso unico che durerà sino al 1925. Albertini non risponderà mai alla donna anche se le farà scrivere dal fratello Alberto o dal segretario di redazione Andrea Marchiori cui darà l’incarico di aiutarla con piccole somme di danaro.
Quelle lettere, custodite in parte presso l’Archivio storico del «Corriere della Sera» , in parte presso il Fondo Albertini dell’Archivio di Stato a Roma, sono state ora raccolte a cura di Lorenzo Benadusi nel volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera con il titolo Mussolini ha deciso di internarmi col piccino (pagine 141, e 10). È un capitolo inedito del dramma che già milioni di italiani conoscono grazie al documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli trasmesso su Rai Tre il 14 gennaio 2005 (Il segreto di Mussolini) e al bel film di Marco Bellocchio, Vincere. Ida Dalser conobbe Mussolini nel 1909, ne divenne l’amante e forse lo sposò in chiesa, ma di questo non si sono trovate prove. Di certo ebbe da lui un figlio, Benito Albino, nato l’ 11 novembre 1915, che Mussolini riconobbe solo per poter esercitare la patria potestà e inviarlo in un brefotrofio.
Mussolini il 16 dicembre del ’ 15 si sposò civilmente con Rachele Guidi da cui aveva avuto nel 1910 Edda. Ida chiese per tutta la vita di vedere riconosciuti i suoi diritti. Una lotta impari che si concluse con l’internamento di madre e figlio in due manicomi diversi e con la morte nel 1937 della donna e nel 1942 del ventisettenne Albino. Cosa aggiunge di nuovo questa testimonianza a quello che si sa già e che è stato scritto in molti libri, a cominciare dai saggi di Alfredo Pieroni, Il figlio segreto del duce (Garzanti), e di Sergio Luzzatto, «La demente Dalser» inserito nel volume Sangue d’Italia (manifestolibri)? Come spiega Benadusi nell’introduzione, queste lettere oltre a restituirci la voce di una donna coraggiosa e moderna, pur se fragile e con tratti maniacali, ci aiutano a leggere la biografia di Mussolini e la nascita del suo mito, la dialettica fra sesso e potere, i costumi di inizio Novecento e i rapporti che uomini come Albertini e lo stesso Francesco Saverio Nitti tenevano con l’astro nascente della nuova politica. I testi della Dalser ci dicono innanzitutto che il mito dell’uomo Mussolini, la fronte ampia, il collo taurino, il fisico forte, le labbra sensuali, nasce ben prima della conquista del potere. Benito M. è il prototipo della nuova bellezza, nervosa e spregiudicata, e la povera Ida ne sarà una delle prime vittime.
Il fatto poi che Albertini non abbia risposto mai all’ex amante di Mussolini ci dice non soltanto che forse non credeva alla sua promessa di documenti scottanti sui finanziamenti francesi al «Popolo d’Italia» e di altre prove contro l’ex socialista interventista, ma anche che il direttore del «Corriere» , uno dei maggiori promotori dell’intervento nella prima guerra mondiale, non voleva inimicarsi l’uomo espulso dal Partito socialista proprio per il suo interventismo. Così più avanti il presidente del Consiglio Nitti avrebbe chiuso un occhio sui peccati privati del politico rampante per guadagnare un atteggiamento meno aggressivo in parlamento. Una volta al potere il capo del fascismo riesce letteralmente a seppellire le prove del suo scomodo passato privato. Ida sente la morsa e il 14 agosto 1925 nell’ultima lettera ad Albertini scrive: «Mani unghiate mi opprimono mi soffocano (...). Le mie lettere sono intercettate mandatemi vostre nuove a mezzo persone fidate» . Sembra un delirio, era la realtà.
Mussolini e la sua amante Ida Dalser Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione Il volto cinico di una dittatura
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 22.06.2009)
C’è un’opera che gira le sale cinematografiche e inquieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Bellocchio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conseguenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’inferno manicomiale che la inghiotte. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Grandestoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.
A differenza del documentario, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquietanti e tragiche dentro lo spettatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al destino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cinegiornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclusione in manicomio e delle ipocrisie che cercano di raddolcire questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immolata da una rete di complicità - nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...»
Non siamo, però, in presenza di un film «politico». La politica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi comuni, i convincimenti banalizzanti, le edulcorazioni autoassolutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italiana, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisivo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglierò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verrebbe da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepotente, il sopruso come strumento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito entra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.
Diventa una parabola: quella della Dalser, che, come scrisse Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da raccontare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a raccontarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diverse generazioni - a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli - il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza comune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cavaliere dalle molte macchie e dalle tante paure (di cui Filippo Timi esalta le caricaturalità emotive), quasi che, oltre che come autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.
C’è infatti un mondo di medici e parenti, suore e baciapile, idioti e carogne che si muove sullo sfondo del mondo manicomiale che manduca i sogni della quarantenne dichiarata demente. E che, anziché capire la vicenda di questa Cassandra d’Italia (che crede di essere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci - perfino gli ignavi colti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abito religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla radio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.
Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, svelare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che depura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Luce, che si deve chiedere di spiegare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di dire il suo perché, è propria della settima arte, quando viaggia a questo livello.
L’incubo di Albino, figlio di Mussolini
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 27.05.2009)
Cortese dott. Augias, ho visto il bel film di Bellocchio ’Vincere’. Mi hanno disturbato le risatine da «bambini scemi» durante la prima parte quando Filippo Timi tratteggia il giovane Benito e l’atmosfera che lo circondava. Che Mussolini avesse personalità e carisma da leader non lo scopro certo io, che fosse un cialtrone lo testimonia lui medesimo, come capita a tutti i cialtroni che non possono uscire da sé stessi neanche volendo. Resta drammatico il rapporto che si instaura fra quel personaggio e un popolo che lo riconosce come guida. Accade talvolta che questi «burattinai» siano in realtà dei «burattini» che ad un certo punto si scollegano dai fili di chi crede di poterli tenere alla giusta distanza. Tutto ricade sulle spalle del popolo che non sempre ha i mezzi per riconoscerli per ciò che sono. L’attualità del film di Bellocchio è da questo punto di vista sconvolgente. Che abbia sin qui raccolto maggiori consensi all’estero, dove lo possono guardare con sereno distacco, che non in Italia, dove richiamando alla memoria il passato, si alza come un potente grido di allarme, forse è, allo stato delle cose, inevitabile.Vittorio Melandri vimeland@alice. it
’Vincere’ come ha benissimo riferito la nostra Natalia Aspesi da Cannes, racconta la vicenda di Ida Dalser, giovane donna trentina (nata nel 1880) che Mussolini avrebbe sposato con rito religioso e dalla quale nel 1915 ha avuto un figlio (Benito Albino) da lui regolarmente riconosciuto. Credo di capire da dove siano venute le ’risatine’. Nella prima parte il rapporto tra i due amanti è descritto in tutta la sua passionalità. Mentre però nella donna (interpretata da Giovanna Mezzogiorno) c’è dedizione completa. In Mussolini (Filippo Timi), all’ardore amoroso si mescola l’ambizione politica per cui lo si vede (di spalle) mentre, scioltosi da un abbraccio, si affaccia nudo su una piazza deserta che di colpo si riempie delle grida di una folla osannante come sarà poi a piazza Venezia.
Proprio perché così appassionata, la sventurata Ida diventa un impaccio per il giovane aspirante dittatore e Mussolini è costretto a disfarsene. Come? Facendo rinchiudere in un manicomio lei e in un altro asilo per alienati suo figlio Benito Albino. La donna protesta di essere sua moglie, il giovane si proclama suo figlio ma questo può solo peggiorare la loro situazione. Il controllo di Mussolini sulla polizia e sui media sta diventando totale. E quando si dispone di una stampa servile nulla può la verità. E’ questo aspetto che a buon diritto ha impressionato il signor Melandri. Mi ha scritto da Bologna Valeria Babini (babini@philo. unibo.it): «Bellocchio ci dà, attraverso il racconto di una vicenda privata, la storia di un incubo che è stato di tutti».
L’arsura del potere
Il critico: La prole di Napoleone, di Roberto Escobar
Lo storico: Impreciso ma efficace, di Emilio Gentile
Il film di Marco Bellocchio Vincere racconta, più che il presunto matrimonio religioso del duce, la buia ascesa di un uomo che approfittò della Grande guerra per smania di dominio
Il critico: La prole di Napoleone
di Roberto Escobar *
Dal buio emergono indistinte figure "in marcia". Intanto, rivolto a Ida DaIser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. C’è fanatico amore di sé, nei suoi occhi. E c’è rapimento affascinato in quelli della sua amante (più tardi diventata sua moglie). Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi.
Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere (Italia e Francia, 2009,128’). Non è una storia d’amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l’amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni.
Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute. Chi è il giovane verboso che approfitta della Grande guerra per la sua sete di dominio? Chi è l’uomo che esibisce una virilità di cui oggi (forse) si ride? Chi è l’oratore che torce la bocca in slogan di morte? Tutto è troppo visto e insieme troppo dimenticato, per non passarci davanti senza lasciar traccia. Ogni crimine è ormai fantasma. Ma nel film, nel suo racconto di due vite distrutte, il fantasma riprende corpo. Le carni e il sangue di Ida e del figlio diventano il luogo - molto materiale, molto "evidente" - in cui la Storia torna a parlarci, obbligandoci a prender posizione. Ida non è antifascista, e non lo è il figlio. Anzi, sull’una e sull’altro il capo del fascismo esercita un fascino almeno pari a quello che esercita sulla gran maggioranza degli italiani Ed è questo che li condanna: da lui vogliono un amore impossibile, e per loro dunque mortale.
«Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori», consiglia a Ida un medico. il Paese è muto e sordo, compatto nell’annullamento d’ogni libertà e pietà. Conviene, aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s’affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe.
Lo storico: Impreciso ma efficace
di Emilio Gentile *
Benito Mussolini non era a Trento nel 1907, ma vi fu per quasi un anno nel 1909. Ma non fu a Trento, bensì a Losanna nel 1904, che egli avrebbe sfidato Dio a colpirlo entro dieci minuti per provare la sua esistenza. La smargiassata, con la quale inizia Vincere, non è di sicura fonte mussoliniana, ma gli è stata attribuita dalla sua ex amante e maestra di marxismo Angelica Balabanoff.
Un fìlm ambientato storicamente non è un compito di storia, perciò non implica una critica alla sua qualità artistica il segnalare qualche imprecisione, inesattezza e anacronismo. Come, per esempio, un gagliardetto degli Arditi, nella sede del «Il Popolo d’Italia» prima dell’intervento italiano nella Grande Guerra, perché il corpo degli arditi fu costituito nel 1917. Oppure il tentato incontro fra la Dalser e il ministro Fedele, avvenuto nel 1926, ambientato nel mausoleo a Cesare Battisti inaugurato nel 1935. O il riferimento alla Guardia Regia, sciolta nel 1922, fatto dall’umanissimo psichiatra del manicomio di Venezia in un colloquio con Ida negli anni Trenta.
Uno storico non può evitare di verificare i riferimenti storici che un film contiene, ma può apprezzare egualmente quanto il regista propone per interpretare una vicenda storica. Può apprezzare, per esempio, la rappresentazione del presunto matrimonio religioso di Mussolini con la Dalser, che sarebbe avvenuto in una chiesa del Trentino nel settembre 1914, come una sorta di appagamento onirico della donna sedotta e abbandonata. Un matrimonio religioso nell’Austria in guerra, fra una cittadina austriaca e uno dei massimi dirigenti nazionali del partito socialista, direttore dell’organo ufficiale del partito, molto noto nel Trentino come virulento mangiapreti e spregiatore di Dio, avrebbe forse lasciato tracce più clamorose, anche in mancanza di una trascrizione nel registro parrocchiale, mai rintracciata.
E altrettanto efficace appare storicamente, l’interpretazione della ostentata ostinazione con quale Ida pretendeva di essere accanto al duce al potere, padre del suo unico figlio che portava il suo nome. lda non voleva rassegnarsi a esser cancellata come non fosse mai esistita, e neppure accettare nell’ombra una vita normale, mentre il preteso marito era all’apoteosi in Italia e nel mondo. Voleva per sé e per il figlio la gloria del duce. Vittima della sua stessa spasmodica ambizione, finì schiacciata dal cinico potere mussoliniano.
Storicamente efficace appare, infine, l’evocazione dell’ambiente di un regime totalitario, nel contrasto fra folle adoranti il duce, cortei di alti prelati congiunti ad alti gerarchi, madri dalle grandi poppe allattanti la nuova prole italica e la spietata reclusione manicomiale, fino alla morte, di Ida e di Benito Albino. Nelle ultime scene, il figlio sembra annunziare, con l’imitazione del padre a Berlino, il destino tragico di un Mussolini hitlerizzato. Che alla fine riappare, giovane, nell’atto di sfidare Dio, sotto lo sguardo affascinato di Ida, per finire schiacciato in effige dalla disfatta della storia. Qualcuno potrebbe pensare che, alla fine, trentasei anni dopo, Dio avesse accettato la sfida.
* Il Sole 24 Ore Domenica 24.05.2009
Il Mussolini di Marco Bellocchio
Da Crono al padre duce
di Giulia Galeotti *
Per molti versi, Vincere di Marco Bellocchio è anche l’emblema di ciò che per secoli è stata la paternità fuori dal matrimonio. Una paternità spietata che poteva disporre a suo completo piacimento dei figli (e, quindi, di riflesso delle loro madri), in nome di un potere maschile che, come un sofisticato Crono, era l’arbitro assoluto delle loro esistenze, autentico signore della vita e della morte.
Nonostante alcune imprecisioni storiche, la bella pellicola di Bellocchio riesce bene a comunicare questo lato oscuro della paternità, che fino all’utilizzo in aula del Dna - negli anni Ottanta del xx secolo - è stata inscindibilmente legata alla volontà maschile: o un uomo si riconosceva volontariamente come padre oppure non vi era modo alcuno (salvo rarissime eccezioni) di ancorarlo alle proprie responsabilità. In questo senso la vicenda di Mussolini che Vincere racconta è assolutamente paradigmatica. Tutto il film è profondamente cupo e buio. L’unico punto di luce sono gli occhi sgranati di Ida Dalser, per la passione travolgente prima e per la follia poi (personaggio ben interpretato da Giovanna Mezzogiorno), e quelli di Benitino, ossessionato sin da piccolo dalla figura del padre sino alla folle chiusura del film (anche Filippo Timi dà un’ottima prova di sé).
Contrariamente alla prassi più in voga, il futuro Duce non si limita a concepire un figlio dalla bella amante per poi abbandonare l’uno e l’altra, ma - come emerge dai documenti d’archivio - l’11 gennaio 1916 si reca nello studio dell’avvocato Guido Gatti e, dinnanzi al notaio Vittorio Buffoni e a due testimoni (Carlo Olivini di Brescia e Irma Marcosanti di Viareggio), sottoscrive una dichiarazione con la quale riconosce, "per ogni conseguente fatto di legge", che il bimbo "chiamato attualmente Benito Dalser, nato a Milano all’Istituto della maternità l’11 novembre 1915" è suo figlio. In questo senso colpisce la scelta di Bellocchio di concentrarsi sul presunto matrimonio tra i due amanti - del quale non v’è traccia storica - piuttosto che soffermarsi su questo aspetto di cui invece ci è giunta ampia documentazione, e cioè il riconoscimento formale di Benito Albino da parte di suo padre (la pellicola lo accenna solo tardi e di sfuggita).
Siamo del resto in un’epoca in cui tale volontaria attestazione dava all’uomo un potere esclusivo anche in caso di nascita fuori dal matrimonio. Come molte donne hanno vissuto drammaticamente sulla loro pelle (Maria Montessori in testa), dinnanzi al riconoscimento maschile la donna - anche se era stata lei concretamente ad occuparsi per anni del nato - si trovava del tutto priva di poteri sulla prole. È proprio il comportamento di Mussolini verso il bambino che per molti versi legittima la spirale di follia da cui Ida, che resterà sempre follemente innamorata di lui, verrà travolta. Se il tribunale di Milano condannerà il futuro Duce a versare 200 lire mensili per il mantenimento del bimbo, ecco che - sebbene solo molto tardi e disordinatamente - Mussolini effettivamente pagherà; nel 1920, quando ormai la relazione tra i due è finita, la Dalser riesce a braccare Mussolini a Napoli, convincendolo a battezzare il figlio; poco dopo, il fratello di Mussolini e Riccardo Paicher, cognato di Ida, che momentaneamente riuscì ad assumere la tutela del nipote, troveranno un nuovo accordo economico; ancora nell’anno scolastico 1924-1925 i documenti parlano chiaro: leggiamo dell’alunno Benito Albino Mussolini "figlio di Benito Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ida Dalser".
Bellocchio ben descrive la situazione paradossale in cui la donna si trova: se tutti sanno che la paternità che ella non smette mai di rivendicare è vera, la sua pazzia è nel non voler vedere la crudeltà del comportamento di Mussolini, imputandola a una sorta di prova d’amore a cui l’uomo la starebbe sottoponendo, onde sincerarsi dei suoi veri sentimenti.
Il film è sapientemente diviso in due parti. Nella prima il giovane Mussolini - arrogante, brutale e violento - domina la scena in prima persona, mentre nella seconda, quando ormai la sua carriera politica è decollata, lo vediamo e ascoltiamo solo attraverso i filmati dell’istituto Luce. Difficilmente Bellocchio avrebbe potuto scegliere un modo migliore per segnare il cambiamento nella vita di Ida (e di Benitino): l’ottica dalla quale la vicenda si muove è proprio quella dei loro occhi, sgranati e impotenti dinnanzi al potere di un uomo che, da lontano e passo dopo passo, li schiaccia fino a ridurli entrambi al silenzio. È il padre inutilmente rincorso, atteso e desiderato per tutta la vita.
In questi giorni nelle sale v’è un altro film italiano che parla di paternità: questa volta però è protagonista la paternità del nuovo millennio. Ci riferiamo a La casa sulle nuvole in cui v’è il padre adolescente che (inutilmente) rincorre un’età ormai superata anagraficamente, venendo prima odiato, poi perdonato e infine accudito dai figli ben più maturi di lui.
In Vincere, del resto, Bellocchio inserisce - involontariamente? - una scena che anticipa la tappa successiva della storia della paternità: mentre è detenuta in manicomio, Ida si commuove dinnanzi a Il Monello di Charlie Chaplin. È la storia nella storia: il celebre attore-regista ha svolto infatti un ruolo chiave nella vicenda della paternità occidentale. Ma questo capitolo lo lasciamo al prossimo film.
* ©L’Osservatore Romano - 28 maggio 2009
STATO E CHIESA: APOLOGIA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA, DI IERI E DI OGGI. Benito Mussolini aveva carisma, come Berlusconi. Una riflessione di Lucetta Scaraffia, sul film di Marco Bellocchio
Non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
L’unico italiano in concorso "rischia" di ammaliare la giuria di Cannes
Con "Vincere" Bellocchio squarcia (di nuovo) la storia d’Italia
di Roberta Ronconi (Liberazione, 20.05.2009)
Cannes. Marco Bellocchio continua a battere sui nervi tesi della storia italiana, e lo fa con coraggio e senza sconti (nemmeno a se stesso), con una generosità che gli riconoscono più i critici stranieri che non gli italiani.
A Cannes il maestro italiano arriva con Vincere, film che sta sollevando un polverone in Italia, e questa volta polverone storicamente giustificato. La vicenda del figlio segreto del duce e della sua presunta prima moglie (scomparsi tutti i documenti ufficiali) è ferita ancora così infetta da provocare negazioni isteriche.
Dopo quelle esagitate di Alessandra Mussolini dalle solite poltroncine di Vespa, è ancora di questi giorni la pubblicazione sul settimanale Oggi di documenti sulla "follia" di Ida Dalser, malattia mentale i cui segni erano, secondo la pubblicazione, evidenti ben prima della nascita del piccolo Benito Albino. Smentiscono, qui da Cannes, con forza Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, autori del documentario Il segreto di Mussolini a cui Bellocchio si è in gran parte ispirato. Così come da oltre mezzo secolo tentano di gridare la loro contro-verità le genti delle zone del Trentino dove Ida era cresciuta e amata. Furono loro, i conterranei di Ida e della sua famiglia, tra i pochi a difenderla, anche contro la giustizia fascista. Soprattutto le donne che videro in lei una madre-martire, gettata a marcire in un manicomio come suo figlio, dove entrambi morirono senza essersi mai potuti rincontrare.
Una storia nascosta sotto il tappeto dell’ipocrisia italiana, scomparsi e distrutti tutti i documenti. Salve solo poche lettere, da cui trapela una donna disperata ma lucida, che dopo la passione travolgente per Mussolini e il suo abbandono è determinata solo a tener viva la verità. Sua e di suo figlio. A costo della libertà, della giovinezza, della vita. A costo di tutto, pur di risultare nelle pagine della Storia come la prima moglie, madre del primogenito del duce. Una avanguardista, futurista, rivoluzionaria, donna a cavallo tra un femminismo ante-litteram e l’adorante donna del capo.
Tra Antigone e Aida, «la nostra è una storia piena di eroi, soprattutto uomini, antifascisti - spiega Bellocchio -. Avevo voglia invece di raccontare la storia originale di una donna che si oppose a Mussolini fino allo stremo, dopo aver condiviso con lui le prime idee rivoluzionarie e averlo amato con passione».
Interpretato con impressionante professionalità da Giovanna Mezzogiorno e da Filippo Timi (più facile, per lui, entrare nei panni del giovane esaltato Mussolini), per il racconto cinematografico Bellocchio sceglie la strada del melodramma, privilegiando così nell’intento la follia amorosa a quella storica. Questa seconda la lascia raccontare per intero ai documenti dell’Istituto Luce che da metà film in poi sostituiscono completamente la parte del duce-finzione con quello reale. Nell’opera si crea una frattura tra la potenza dell’invenzione e la freddezza del documento. Frattura che non si sana e che - a nostro avviso - impedisce la nascita del capolavoro.
Ma poco importa, la densità di Vincere rimane in gran parte intatta. Rafforzata proprio dal soggetto, dal disvelamento storico, dall’intenzione - peccato, poi tradita - di vedere la grande tragica storia di un paese attraverso gli occhi di una piccola, fragile, potentissima, innamorata, tragica donna che alla fine delle sue pene è capace di scrivere al suo Benito: «Va’ là Duce che sei solo un pover’uomo».
Di collegamenti con il presente e con il caso Berlusconi-Lario, Bellocchio è costretto a parlare sotto sollecitazione dei giornalisti italiani: «Sono restio a fare paragoni tra Mussolini e Berlusconi, anche se le analogie sono ovvie. Il fatto è che la sinistra si è rotta i denti nello scontro frontale contro il Berlusconi brutto e cattivo. Dimenticandosi in questo accanimento del suo ruolo politico».
In realtà, nella mania tutta italiana di fare una lettura politicizzata del cinema, più che all’anti-berlusconismo, in Bellocchio pesa il profondo, inossidabile anti-clericalismo. Quello che con forza gli fa rivendicare la sua «laicità di fronte a una chiesa cattolica che ha le chiese vuote ma che ci riempie i giorni con le notizie su Ratzinger». Sanguigno come di rado, il regista si scaglia contro quei Patti lateranensi che nel ’29 vede allearsi «un’ideologia cattolica criminale - si scalda nell’intervento - con il cinico calcolo di Mussolini. Un’alleanza vergognosa che porterà il Papa a definire Mussolini come "l’uomo della provvidenza"».
Vincere esce oggi nelle sale italiane, distribuito da 01. Già venduto in Francia e osannato come pochi dalla rivista-bibbia del cinema Variety , il film scritto da Bellocchio assieme a Daniela Ceselli ha dalla sua anche l’avvolgente fotografia di Daniele Ciprì. Vederlo è il minimo, amarlo soggettivo.
Diventa un caso "Vincere", unico film di casa nostra in concorso al festival
Il Duce di Bellocchio "Con radio e cinema cambiò la politica"
Italiani tiepidi, all’estero piace
"Mussolini divenne papista per calcolo anche oggi ci si piega al Vaticano con cinismo"
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 20.05.2009)
CANNES. «Concepito come un potente melodramma, nella struttura e nel tono, Vincere? si apre con la grandiosità di Il crepuscolo degli Dei stemperandosi poi come fosse Sigfrido. Wagner, in tutti i casi». È il giudizio entusiasta di Variety, come molto positive sono le critiche di quasi tutti i giornali stranieri che candidano il film al palmarès. Come mai parte della stampa italiana è rimasta invece perplessa e, amando e stimando molto il regista Marco Bellocchio, ora si batte il petto e pensa di non aver capito niente? Può essere che essendo Mussolini, per noi italiani, una figura ancora troppo nera, funesta, eppure caricaturale, metta disagio vederlo giovane, bello, nudo e impegnato in lunghi affamati amplessi? O che rivedendo il filmato del suo discorso di Ancona, in cui appare oggi come un irresponsabile buffone, ci si vergogni pensando che mai un uomo fu tanto amato da un intero popolo malgrado la sua tragica ridicolaggine, e che purtroppo questi innamoramenti si ripetono?
Marco Bellocchio assicura che raccontando la storia del breve amore tra Mussolini trentenne e Ida Dalser di tre anni più grande, che sino alla morte non si rassegnò al ripudio suo e del figlio di entrambi, non aveva nessuna intenzione di provocare riferimenti al presente italiano. «L’antiberlusconismo non mi sfiora perché ha distrutto la sinistra italiana, rendendola incapace di proporre alternative, di rendersi conto della realtà, di capire e farsi capire dalla gente. Oggi io mi riconosco nei radicali, e comunque, essendo ottimista, dovunque ci sia la capacità di guardare oltre il momento contingente. Se proprio devo trovare un’analogia col presente, mi pare che Mussolini sia stato il primo uomo politico mediatico, che si sia servito della propria immagine, del proprio corpo, per asservire il paese al suo potere: sapeva come conquistare le masse apparendo in divisa, partecipando alla battaglia del grano a torso nudo, sollevando bambini e baciandoli, trasformando fatali errori come la guerra di Etiopia in entusiasmante propaganda.
Allora non esisteva l’idea di conflitto di interessi, c’era la dittatura: e il Duce controllava tutti i mezzi d’informazione, radio, giornali, e soprattutto il cinema, messi al servizio della sua glorificazione personale: i funzionari provvedevano e censurare ogni sua immagine che limitasse il suo imperio e non fosse abbastanza carismatica. Non sempre era necessario massacrare o chiudere in galera gli oppositori: bastava renderli invisibili, cancellare la loro immagine e le loro parole da ogni forma di comunicazione; e nello stesso tempo far dilagare la propria ovunque, ossessivamente negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nelle strade». Come capita oggi con il premier, moltiplicato quotidianamente nei giornali e alla televisione.
Bellocchio mostra Mussolini giovane (il bel baffuto Filippo Timi) quando, socialista, antinterventista, giornalista dell’Avanti!, marcia con i compagni (i socialisti di Bellocchio sono sempre vecchi, litigiosi e urlanti) gridando «strapperemo le budella al papa per strangolare il re!». Poi nel ’27 sposa in chiesa Rachele già sposata civilmente nel ’15, un mese dopo aver riconosciuto Albino Benito, figlio suo e di Ida che aveva sposato in chiesa nel settembre del 1914: il suo potere si trasforma in dittatura, e Vincere ci mostra il vecchio tremolante filmato della firma dei patti lateranensi nel ’29: «Cinicamente, Mussolini era diventato papista per consolidare il suo potere, tanto da meritarsi, da parte di Pio XI, il titolo di "Uomo della provvidenza": oggi le chiese sono semivuote ma si pratica una sottomissione altrettanto cinica e formale alle posizioni del Vaticano, che ricambia con il suo appoggio ottenendo anche di avere come in nessun altro paese cattolico al mondo, Papa Benedetto XVI quotidianamente e più volte al dì nei telegiornali».
La tragedia dell’ostinata Ida Dalser (l’appassionata Giovanna Mezzogiorno) e del figlio Benito Albino (da adulto lo stesso carismatico Timi), separati per sempre e fatti scomparire in due diversi manicomi, era conosciuta nel loro paese, Sopramonte, e in tutto il Trentino, ma tale era stata la rete di sindaci, poliziotti, medici, avvocati, tutori, magistrati, ecclesiastici, funzionari pubblici, disumani e cortigiani, che avevano provveduto a stracciare documenti e a sorvegliare e punire la fastidiosa ripudiata e il suo innocente figlio.
In Italia dove tutto si sapeva delle tante amanti del duce, di questa moglie non si sapeva nulla: «Se sospettavano che qualcuno ne parlasse, arrivavano le squadracce fasciste e bastonavano le persone e distruggevano le case», dice Fabrizio Laurenti che con Giancarlo Norelli tre anni fa ha prodotto un documentario molto bello per RaiTre, cui Bellocchio si è ispirato. «Quando sei anni fa ho cominciato le ricerche, dopo più di 70 anni dalla morte di Ida e più di 60 dalla fine del fascismo, i pochi sopravvissuti di quegli anni avevano ancora paura a parlare, a rivelare dove erano nascoste le lettere che dal manicomio Ida scriveva al duce, al papa, al re, e che non furono mai spedite». Vincere, dice Bellocchio, è non solo la rievocazione di una storia vera e crudele e di una drammatica stagione politica, di guerra, miseria e morte, della giovinezza violenta di un futuro dittatore e della tragica parabola di una donna che osò opporsi sola al potere, ma è anche un tetro ritratto di quel che fu e potrebbe ancora essere, la società italiana.
«Vincere» La storia della moglie segreta di Mussolini
L’ira di Bellocchio: «Il mio melodramma pugnalato in Italia»
Elogi all’estero e applausi dal pubblico
Confronti. «Analogie tra il Duce e Berlusconi? L’uso dei media e dell’immagine.
Tra Ida Dalser e Veronica Lario nessun paragone»
di Giuseppina Manin (Corriere della Sera, 20.05.2009)
CANNES - «Siamo stati pugnalati alla schiena dalla stampa italiana». Marco Bellocchio ha appena letto i commenti su Vincere (da oggi nelle sale) e ne è rimasto amareggiato. Non tanto per i giudizi, non sempre lusinghieri, ma per quella loro «frettolosità» che, a suo dire, impedisce una seria riflessione. Nel frattempo, a consolarlo arrivano le prime recensioni straniere.
Variety, bibbia del cinema americano, definisce Vincere «un film che toglie il respiro», l’autorevole Screen parla di «Fuochi d’artificio d’autore». Perfino L’Osservatore Romano lo elogia. E in nottata alla proiezione per il pubblico sono arrivati lunghi e calorosi applausi. «Qualunque cosa succeda sono molto orgoglioso di questo film, un melodramma futurista », lo definisce Bellocchio, 70 anni, sette volte al Festival, una da giurato. Regista civile, scomodo, stavolta sa di aver portato in gara un film che scotta, su uno dei segreti meglio custoditi del fascismo: la relazione del giovane Mussolini (nel film Filippo Timi) con Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno), forse sposata forse no, la nascita di un figlio, Benito Albino, prima riconosciuto, poi rinnegato. Una storia ricca di appigli con il presente. «Per la stampa straniera il parallelo Mussolini-Berlusconi è inevitabile - assicura -. In effetti, qualche analogia non manca». Per esempio? «L’uso dei media e dell’immagine. Mussolini è stato il primo a capire quanto fosse importante. Come Berlusconi ha preteso il controllo di ogni foto, di ogni filmato. Come Berlusconi era lui il padrone di gran parte dei mezzi di comunicazione». Un uso dei media spregiudicato e abilissimo nella cui trappola oggi, spiega Bellocchio, è caduta la nostra sinistra, convinta di batterlo sullo stesso terreno cavalcando l’antiberlusconismo. «Mentre la sola vera arma sarebbe quella di proporre un’alternativa di idee. Tanto per cominciare un sano laicismo, fronte su cui invece resistono solo i radicali. Perciò alle prossime elezioni voterò per loro. Non ne posso più di aprire la tv e vedere il Papa. La Rai è un servizio pubblico, non del Vaticano. In nessun altro Paese d’Europa accade questo, solo da noi».
E poi c’è la questione delle donne. Certi politici sembrano attrarle come mosche al miele. Tutte pazze per il Duce, ai tempi. Un immaginario erotico femminile segnato dal maschio Benito, dal torace possente, virile pelata, voce stentorea, labbra e gli occhi roteanti all’unisono come gli attori del cinema muto. Chissà che amante, sognavano impiegate e sartine, maestre e signore dell’alta società. Persino belle, colte e appassionate com’era Ida Dalser. Quando lo incontrò, poco più che ventenne, Mussolini non era ancora il Duce. Un ambizioso socialista populista, agitatore di folle, mangiapreti. Ida ne è folgorata. Per lui vende tutto quello che ha, i soldi servono a finanziare il «Popolo d’Italia» il giornale che gli fa da trampolino di lancio. Gli dà un figlio. In cambio chiede solo di essere amata. «Ma Mussolini era quanto mai spregiudicato e cinico verso le donne, le usava finché gli servivano poi le gettava via - prosegue Bellocchio -. Così successe con Ida. Solo che al contrario delle altre lei non si rassegnò, non volle mai scendere a patti, accettare vitalizi o risarcimenti. Lei sosteneva di essere la moglie, e voleva che Benito si occupasse di loro figlio».
Una battaglia pubblica contro l’uomo più potente e tutti i suoi accoliti che fa di Dalser un’eroina, sostiene Bellocchio. «Nel tentativo di non farsi dimenticare Ida scrisse lettere su lettere a tutti, dal Papa all’allora direttore del Corriere Albertini ». Una denuncia mediatica per qualcuno affine a quella recente di Veronica Lario. «Mi sembra tutta un’altra storia - risponde Bellocchio -. La signora Lario ha reso pubblica la sua volontà di divorziare ma non mette certo in discussione i suoi diritti e privilegi. Ida è morta in manicomio, offesa e dimenticata. Non sarà certo la sorte di Veronica».
Più politica che passione Bellocchio convince a metà Applausi (di cortesia) a «Vincere» sull’amore segreto del Duce
Aspettative in parte deluse alla prima per la stampa del film, forse troppo complesso, dell’unico italiano in gara. Stasera controprova con il pubblico: un bookmaker ieri lo dava per favorito
di Paolo Mereghetti (Corriere della Sera, 19.05.2009)
CANNES - Un applauso contenuto, più di cortesia che veramente convinto, ha chiuso la prima proiezione di Vincere a Cannes. Vedremo domani, davanti al pubblico della Sala Grande se le anticipazioni del bookmaker inglese che dava ieri il film di Bellocchio come favorito numero uno per la Palma saranno confermate.
Quello che è certo è che un film così denso e complesso, anche stilisticamente, avrebbe bisogno di più di una visione e più di una riflessione per portare a un giudizio calibrato e pertinente.
Nell’impossibilità (una programmazione poco razionale quest’anno ci costringe a scrivere subito dopo la visione) cercheremo di procedere per gradi. Cominciando dalla storia che racconta l’odissea di Ida Dalser, la donna trentina che incontrò Benito Mussolini quando era socialista e direttore dell’Avanti a Milano, se ne innamorò (verrebbe da dire molto contraccambiata), gli offrì tutti i suoi soldi per iniziare l’avventura del Popolo d’Italia dopo la «conversione» interventista, rimase incinta del piccolo Benito Albino (che il padre riconobbe legalmente, nonostante avesse già la figlia Edda da Rachele Guidi) e fu ben presto abbandonata al proprio destino da un leader politico che stava diventando il padrone d’Italia.
Se nella prima ora (il film ne dura poco più di due) la straordinaria prova degli attori principali - Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno - sa trasmettere al pubblico il misto di passione e narcisismo che guida il futuro Duce anche nei comportamenti privati e lo struggimento incosciente di una donna che si concede totalmente a quello che crede un grande amore, nella seconda parte il film cambia registro affidando solo ai cinegiornali il resoconto della carriera politica di Mussolini e documentando con rigore, ma anche con freddezza, l’odissea della donna rinchiusa dal fascismo nei manicomi di Pergine e San Clemente.
I grandi temi della carriera di Bellocchio si possono ritrovare in larga parte dentro Vincere, dal peso della figura paterna, autoritaria e lontana, allo sbandamento rabbioso di un figlio che si vede privato prima di uno e poi dell’altro genitore fino alla ribellione impotente della donna che paga l’aver dato ascolto alle proprie passioni rifiutando ogni «finzione» razionale (come le suggerisce uno psichiatra). Anche stilisticamente, il gusto visivo per i chiaroscuri (come sempre con predominio degli scuri sui chiari) attraversa tutto il film, grazie soprattutto alla bellissima fotografia di Daniele Ciprì. Mentre negli ambienti si ritrovano i «labirinti domestici» dove l’orientamento (e la via di fuga) è sempre problematica.
Ma tutti questi elementi faticano a trovare una sintesi che arrivi immediatamente al cuore dello spettatore, come succedeva per esempio nell’Ora di religione o in Buongiorno, notte e la presenza della co-sceneggiatrice Daniela Ceselli fa venire in mente di più la struttura della Balia, con il suo amore impossibile. Anche se qui le «gabbie» che dividono le persone sono più politiche che di classe. Anzi, proprio la parte politica alla fine finisce per schiacciare il nostro interesse per la storia della Dalser e di suo figlio (morti in manicomi diversi, lei a Pergine, lui a Mombello), grazie al montaggio di Francesca Calvelli che fonde perfettamente immagini di repertorio e musica, questa sì l’unico elemento davvero melodrammatico in un film che, dopo questa prima visione, ci sembra prediliga la Storia alla Passione.
Presentato ieri sera in anteprima mondiale l’unico film italiano in concorso: l’atteso «Vincere» di Marco Bellocchio, la storia della donna che Mussolini fece internare in manicomio per opportunità politica.
Bellocchio racconta il fascismo ma sembra proprio l’Italia di oggi
«Oggi siamo tutti costretti a recitare. Non che la verità non vada detta, ma non va gridata. Faccia la buona madre fascista, che sta in casa e in silenzio. Preghi la Vergine perché la Chiesa è l’unica madre di cui hanno paura... e il fascismo, poi, non durerà in eterno».
di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 19.05.2009)
C’è davvero tanto Bellocchio, soprattutto la sua difesa sempre viva della laicità, in questo attesissimo Vincere, in cui racconta la drammatica vicenda della prima moglie del duce, Ida Dalser, fatta «sparire» dalla storia ufficiale insieme al suo primogenito Albino. Il film è stato accolto dagli applausi non del tutto calorosi del pubblico degli accreditati. Un film comunque attesissimo per gli italiani, perché è l’unico di casa nostra ad affrontare il concorso. E attesisissmo per il pubblico internazionale perché segna il ritorno sulla croisette di un maestro del cinema europeo che, guarda un po’ proprio qui, pochi anni fa, aveva già portato un altro manifesto del suo laicismo: L’ora di religione.
L’aveva detto lui stesso che Vincere sarebbe stato un melodramma dal ritmo futurista. E così è. Un melodramma che procede su due piani: quello storico, che prende le mosse dai movimenti interventisti e irredentisti nel primo decennio del Novecento. E il piano privato: quello dell’amore di Ida Dalser per il Mussolini socialista direttore de L’Avanti. I due interpreti, Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno, davvero notevoli - non è da escludere un ingresso italiano nel Palmarés grazie a loro - offrono un apporto fondamentale a tutto l’impianto drammaturgico. Che a tratti, però, soffre forse di una difficoltosa fusione fra i due piani storico e privato, entrambi densissimi di «materiale».
Ne viene fuori comunque il ritratto «promesso» da Bellocchio di un’eroina tragica all’Antigone o da melodramma alla Aida. Ida infatti, nonostante il rifiuto sempre più violento del duce è lì che combatte contro tutto e contro tutti per ottenere il riconoscimento del suo status di moglie, scalzato via, invece, per opportunità politiche - ad un passo dal Concordato Mussolini non poteva avere contrasti col Vaticano - da donna Rachele, riconosciuta da tutti la vera moglie. Donna coraggiosa e testarda non perderà occasione per sputare in faccia al regime e ai suoi uomini la verità. E per questo sarà «punita» definitivamente: internata in manicomio lì morirà lontana dal figlio Albino, anche lui internato in un istituto dove morirà a guerra finita.
Una pagina di storia dimenticata, anzi cancellata - il fascismo fece sparire tutti i documenti - che Bellocchio ci riconsegna come un testimone. Perché hai voglia a dire - come ha fatto fin qui il regista - di non aver voluto raccontare il fascismo pensando al presente. Andate al vedere il film - nelle sale venerdì - e vedrete quante analogie con l’oggi. Solo che allora le mogli «scomode» venivano nascoste e cancellate, oggi invece vengono «crocifisse» sui giornali con il seno scoperto.
Vorrei esaminare il film di Bellocchio e la vicenda storico-politica sine ira ac studio. In primo luogo va apprezzata la scenografia e la ricostruzione di certe atmosfere da parte del regista. Da un punto di vista storiografico non sono però accettabili alcuni strafalcioni ed inesattezze cronologiche e situazionali come la confusione tra Angelica Balabanoff ed Ida Dalser a proposito dell’episodio dell’orologio. Gaudens Megaro, nel suo "Mussolini dal mito alla realtà" ci fornisce dettagli che pochi oggi conoscono. Non è il caso di soffermarsi sul livello culturale e di cognizione storiografiche di registi, attori ed attrici italiane contemporanee a proposito del periodo 1914-1945. Ignoranza, stereotipie conoscitive e cialtroneria predominano. Il discorso ci porterebbe lontano. Gente assolutamente ignorante si auto-promuove psico-biografa. La puntata di "Porta a Porta" dedicata al film di Bellocchio ha "brillato", come al solito, per pochezza e superficialità. Pochezza e superficialità che accomunava tutti a tutti da Alessandra Scicolone Floriani alla Mezzogiorno ed a Vespa.
Abbiamo alcuni dati di fatto. Ida Irene Dalser non è mai stata sposata con Benito Mussolini, come risulta dalla sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano, presidente Giovanni Maria Antonioli, giudici Vincenzo Porro e Luigi Serra, nella causa promossa il 19 maggio 1916 (e non siamo in periodo fascista) da Ida Dalser, proprietaria di un salone di bellezza, contro Benito Mussolini, giornalista, per essere stata «sedotta e resa madre con promessa di matrimonio non mantenuta». La Dalser nasce a Sopramonte (Trento) il 25 agosto 1880 da Albino Dalser e Caterina Corradini. E’ più grande di 3 anni di Mussolini. Giunge a Milano nel 1906 e si occupa in qualità di governante. Notizie importanti ci fornisce il "Rapporto dell’ispettore generale di Pubblica Sicurezza Gasti su "Mussolini e i Fasci di combattimento"" redatto il 4 giugno 1919. Dopo qualche anno va a Parigi per apprendere la professione di <
Allo scrivente interessa sottolineare alcune cose semplicemente:
1) certamente il comportamento di Benito Mussolini verso un figlio che porta il suo stesso nome e cognome è stato inqualificabile sino alla morte del ragazzo 27enne.
E’ assurdo che un padre abbia fatto cambiare addirittura il cognome del ragazzo in Benito Albino Dalser. Elena Curti, figlia naturale del Duce, dallo scrivente intervistata, ha rivelato il senso di rimorso del padre verso la sorte del fratellastro che confidò a Lei stessa privatamente. In questo senso l’atteggiamento di disinteresse del padre verso Benito Albino non ha giustificazioni di sorta. Sangue del proprio sangue non può ignorarsi.
2) La Dalser, ha utilizzato il figlio per accaparrarsi della vicinanza del padre naturale e della posizione relativa.
Non era nuova a comportamenti ricattatori del resto, vedi il precedente attuato dalla stessa verso il professor Giuseppe Brambilla, con realtivi strascichi giudiziari.
3) Ma soprattutto, nella disamina della vicenda Mussolini-Dalser, non si vuole, per ignoranza di molti o per malafede di pochi (che conoscono l’affaire spionistico), considerare la delicatezza della questione. Siamo in piena prima guerra mondiale. Contatti d’intelligence, diplomazia sotterranea, servizi segreti zaristi russi, francesi ed inglesi che cercano di staccare l’Italia giolittiana dalla Triplice Alleanza con Germania guglielmina ed Austria asburgica ed ungarica. Mussolini viene sollecitato anche da Antonino Paternò Castello marchese di Sangiuliano a fare propaganda per l’Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia dei Romanov non ancora sovietizzata). E riceve fondi e sostanze dai servizi francesi, forse da Pietrogrado, dagli Agnelli, gli Ansaldo, i Perrone e poi da influenti personaggi delle comunità israelitiche. La Dalser, orecchiante o addentrata perché amante dell’ex direttore dell’<
Alessandro De Felice (www.alessandrodefelice.it)
Buonasera Sig. De Felice! sono la nipote del citato avvocato "tal Bonavita". Si chiamava Francesco, era di Forlì, ma soprattutto era un grande amico di Alessandro Mussolini, prima che uno dei legali di Benito e non le nascondo che mi piacerebbe sapere di più su lui e sul figlio Stelio. possiedo una certa quantità di materiale dell’epoca riguardante la famiglia Mussolini, ma di cui ignoro troppo delle cose che ho tra le mani. se fosse interessato, mi piacerebbe un confronto/incontro.
Cordialità Donatella Bonavita donatellabonavita@mac.com
«Non sembri aver altro pensiero per la mente Ben, rifletti prima di riunire il Gran Consiglio»
Dal carteggio di Mussolini con la Petacci emerge la figura di una donna capace di lucide analisi politiche. Ma sorprende che a pochi giorni dalla fine parlino di sesso
di Giovanni De Luna (La Stampa, 04.09.2012)
Una collaboratrice fedele e lontana dal cliché banale dell’amante del Duce Lui si sente tradito da tutti e non ha fiducia né nella Rsi né nell’alleato tedesco Le lettere vanno dal 1943 al 1945 e ripercorrono gli ultimi drammatici anni della coppia Il Duce voleva che l’epistolario fosse distrutto, fu Claretta a conservarlo «per la Storia»
L’ultima lettera di Mussolini a Claretta Petacci è del 18 aprile 1945. Manca poco più di una settimana al tragico epilogo che porterà i loro corpi allo scempio di Piazzale Loreto. Pure, nel marasma in cui si sta consumando il crollo della Repubblica Sociale, quella lettera è scritta solo per rassicurare l’amante, di frenarne la gelosia («Vedo che sei sempre bene informata. Ieri sera ho ricevuto la signorina Pia Piazzi - e naturalmente sono accadute tremende cose. Non è accaduto assolutamente niente...»), introducendo toni da commedia rosa in una tragedia che stava assumendo le tinte fosche della violenza e della morte. Non c’è niente di epico in quella lettera, nessuna «ultima raffica di Salò», niente propositi di un’ultima disperata resistenza in Valtellina.
Questa dimensione privata del Duce è uno degli aspetti più rilevanti delle lettere scritte tra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1945 da Mussolini alla Petacci. Il carteggio, depositato all’Archivio centrale dello Stato, ha già attirato l’attenzione degli studiosi ed è l’oggetto di un libro curato da Luisa Montevecchi. uscito nel 2011. Grazie alla disponibilità dell’Archivio centrale dello Stato è stato reso accessibile nella sua completezza agli studiosi e viene ora riproposto in una trasmissione televisiva, dall’eloquente titolo Mussolini il cadavere vivente, con una selezione delle lettere più significative affiancate dalle risposte di Claretta, in un dialogo interpretato da Michele Placido e Maya Sansa.
Le lettere di Mussolini confermano molte certezze storiografiche sul suo ruolo di leader impotente (la definizione del titolo della trasmissione è dello stesso Duce), sul fallimento della Rsi, incapace di darsi un apparato istituzionale credibile, sul dominio assoluto esercitato dai tedeschi. In più, la scelta della trasmissione di intrecciarle con quelle di Claretta restituisce a quest’ultima un’immagine lontanissima dallo stereotipo dell’«amante del Duce». In particolare, quella del 20 luglio 1943 è assolutamente sbalorditiva. Accompagnata da un appunto («Non distruggere: è storia! È la verità su di me e su di te») la lettera comincia con un approccio dimesso ( «Ben - ascoltami... io sono una povera donna - una creatura semplice e che mai ha voluto occupare un posto oltre quello che spetta alla donna-mamma-amante e sorella...) ma poi va subito al sodo di questioni cruciali per la sopravvivenza del regime.
Siamo alla vigilia del 25 luglio, nell’imminenza di quella riunione del Gran Consiglio in cui la «congiura monarchico-badogliana» prenderà la forma del colpo di Stato contro Mussolini. E Claretta scrive: «Ben rifletti... rifletti prima di riunire il Gran consiglio... io sento che questo è il famoso passo verso la fine... Ricordati che tutti sono contro di te... L’esercito tradisce tutto - la massoneria lavora - i ministri che tutto ti devono sono venduti ai loro interessi alla loro smodata smisurata ambizione - quelli in cui tu hai fede. Casa Reale ti tradisce credimi - e ti tradisce perché mai ti perdoneranno di essere più grande di loro tu figlio di un fabbro - tu nato dal popolo... Nessuna gratitudine in loro... solo interesse e freddo disprezzo... Tu non mi credi quando ti dico che Badoglio lavora... mi hai risposto - “Badoglio giuoca a bocce... ” e io ti ripeto quanto ti dissi.. “si gioca a bocce ma con la tua testa...! ” ».
Possibile che Claretta abbia intuito tutto quello che Ben sembrava ignorare? «Io sento - continua - questo lavorio di forze contrarie - io sento che si prepara il grosso colpo... io sento che l’inglese Grandi credendo di sosti- 10 aprile 1945 «Clara, vi è qualcosa di sommamente antipatico nelle tue lettere e cioè l’ossessione del mio fatto sessuale e del tuo. Non sembri avere altro pensiero per la mente, la tua preoccupazione è questa: che io prenda altre donne. Tutto ciò è tremendamente stupido. Penosoffensivo. Tu dici di conoscermi? Una volta. Oggi non più. Non sono questi giorni da donne, nemmeno se si trattasse di Veneri redivive...» tuirti in un domani - ti tradirà...!!! ». Si tratta di «previsioni» così esatte da far pensare che la lettera sia stata scritta «dopo» il 25 luglio, che Claretta l’abbia rimaneggiata «conoscendo» già quello che era successo. O si tratta quindi di un «falso» consapevolmente architettato nell’atmosfera mefitica di Salò per mostrare a posteriori la propria lungimiranza o siamo in presenza di una lucidità politica davvero notevole. Ma anche nelle lettere successive Claretta si mostra una consigliera sollecita per un Duce sempre più solo e che lei rassicura con l’impeto di una fiducia assoluta nell’uomo e nel fascismo.
Claretta, in realtà, non è solo la donna innamorata che perseguita il Duce con la sua gelosia; le si offre come una collaboratrice «alla pari», gestisce una sorta di potere parallelo con la sua corte di intrighi e di spie, sceglie di morire per essere fedele non solo all’amore ma anche a una fede fascista professata fino all’ultimo. Da Mussolini, giustamente preoccupato per la propria immagine frantumata dalla crudele sincerità di quelle lettere, arriva in maniera ossessiva l’invito a distruggerle. Claretta invece le conservò gelosamente, così da offrirle oggi agli occhi impietosi degli storici. Ed è questo il suo unico, vero tradimento nei confronti del Duce.