Premessa
TRA "CHARITAS" E "CARITAS", UNA DIFFERENZA ABISSALE. La lezione di Giambattista Vico e alcuni appunti sul magistero di Benedetto XVI - Ratzinger. *
GIAMBATTISTA VICO "fa una netta distinzione tra carus - caritas rispettivamente col valore di ’caro, costoso, di alto prezzo’ e ’carestia, scarsità’ da una parte, e charus - charitas rispettivamente col valore di ’grazioso, amabile, richiesto’ e ’grazia, amore di Dio’ dall’altra, perché per il Vico questi due ultimi termini derivano etimologicamente" dai termini greci ’charìeis’ e ’charis’ (cfr. G. Vico, Varia: Il ’De Mente Heroica’ e gli scritti latini minori, a cura di Gian Galeazzo Visconti, Alfredo Guida Editore, Napoli 1996, p. 31)
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Sul tema, in rete, si cfr.:
COPYRIGHT E PIRATERIA VATICANA!!! «DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO!!!
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
BENEDETTO XVI SI DIMETTE: UN ESEMPIO DI LATINO MODERNO (di Luciano canfora)
Federico La Sala (12.02.2013)
Perché è scomparso il timor di Dio
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 15.05.2016)
ANCHE a Gerusalemme il Tempio era il centro della città e dell’universo. Quando nel 70 il tempio venne distrutto esplose non solo la diaspora ma una nuova fase nella vita spirituale degli ebrei. Nella cultura occidentale sono state elaborate due ideologie per una convivenza sociale che fosse la meno ”ferina” possibile.
Nel XVIII secolo s’immaginò che una generale elevazione culturale delle masse sarebbe stata garanzia sufficiente. Forse lo sarebbe stata, ma per tutte le ragioni che sappiamo quel progetto si rivelò utopico. Le sue macerie sono sotto i nostri occhi. Prima ancora c’era stato l’espediente di assicurare una sopportabile tenuta sociale attraverso il timore degli dèi.
Famosa l’ipotesi del filosofo greco Crizia (siamo al solito V secolo a.C.) che fa risalire all’invenzione degli dèi la premessa per la nascita della civiltà. Le leggi non possono assicurare un controllo totalmente efficace sul comportamento umano. Dunque per garantire la legalità: «Un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor “degli dèi”, sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero».
Cito, con un sorriso, un’applicazione diciamo umile di questo “timor di Dio”. Nelle elezioni del 1948, che furono il primo vero spartiacque politico del dopoguerra, la Democrazia cristiana fece grande uso di manifesti con la scritta minacciosa: «Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no».
Tornando al discorso serio, l’invenzione degli dèi ha funzionato a lungo come deterrente. Oggi invece, soprattutto nei paesi dove la religiosità tende ad essere più rappresentazione esteriore che intimo convincimento, il timor di Dio sembra scomparso. Divinità e santi tendono a diventare orpello, superstizione, soprammobile.
Sviluppo umano
Così è nato il timor di Dio
Nuove ricerche fanno luce sui rapporti tra crescita economica e comparsa delle divinità morali
di Vittorio Girotto e Giorgio Vallortigara (Il Sole-24 ore, Domenica, 10.04.2016)
Chi non sa cos’è il «timor di Dio»? Dio, chiunque esso sia, vede tutto, giudica tutto e punisce ogni male. La grande maggioranza delle religioni professate ai nostri giorni si basa proprio su quest’idea. Eppure non è sempre stato così. Per molto tempo i nostri progenitori hanno creduto in divinità che non si occupavano direttamente delle vicende umane né, tantomeno, le giudicavano e sanzionavano. Secondo la testimonianza di Plinio il giovane, ad esempio, al momento dell’eruzione del Vesuvio i pompeiani credevano che gli Dei avessero lasciato il mondo, abbandonandoli al loro tragico destino. È solo in tempi relativamente recenti che si sono sviluppate le credenze in quelli che lo psicologo canadese Ara Narenzayan definisce «Grandi Dei» (Grandi dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo, Cortina, 2014), cioè divinità che sorvegliano la nostra vita quotidiana e la regolano con promesse e minacce che si concretizzeranno nella vita ultraterrena.
Da dove vengono queste divinità che sembrano oggi coincidere con l’idea stessa che abbiamo di religione? Secondo molti antropologi e psicologi, le dottrine e religioni morali si sono sviluppate in una fase recente dello sviluppo culturale umano, svolgendo un’importante funzione sociale: favorire la cooperazione e la coesione all’interno dei gruppi. Nelle piccole tribù dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori i legami di parentela e la conoscenza diretta tra gli individui erano probabilmente sufficienti a mantenere la cooperazione. Ma con l’avvento dell’agricoltura gli esseri umani si organizzarono in vaste e anonime società in cui era più facile comportarsi in modo non cooperativo. È proprio in queste società che le divinità morali avrebbero fatto la loro comparsa, per una evidente funzione sociale: gli individui che credono in divinità che sorvegliano e puniscono il male tenderanno a non danneggiare gli altri, anche quando non c’è nessun sorvegliante umano che li osserva. Questa tesi è stata recentemente confermata da una ricerca cui ha partecipato lo stesso Narenzayan pubblicata qualche settimana fa sulla rivista Nature.
Gli autori hanno intervistato e sottoposto a dei semplici giochi di tipo economico 591 persone di otto differenti comunità di varie regioni del mondo (dalla Siberia alla Tanzania) che appartenevano a differenti religioni, tra le quali l’induismo, il buddismo e il cristianesimo, e che si riconoscevano in credenze locali quali l’animismo e il culto dei morti. I giochi economici richiedevano ai partecipanti di allocare delle risorse (delle monete) a se stessi oppure ad altri individui credenti che potevano appartenere alla loro stessa comunità locale oppure a estranei che appartenevano a una comunità molto distante. I partecipanti al gioco dovevano, almeno in teoria, distribuire le risorse in modo casuale, sulla base del lancio di un dado.
Tuttavia, poiché ciascun giocatore operava la sua scelta in privato aveva la possibilità di ignorare l’esito del lancio del dado e destinare più risorse sulla base delle sue preferenze. I partecipanti erano più propensi a giocare secondo le regole, e concedere quindi più monete ad altri individui credenti ma estranei, appartenenti a comunità più lontane, quando gli dei in cui credevano erano capaci di conoscere i pensieri e i comportamenti delle persone e di punirli per i loro comportamenti illeciti. Insomma, quanto più i partecipanti al gioco credevano in dei che si occupano direttamente dei comportamenti umani, in modo moralistico e punitivo, tanto più erano disposti a destinare risorse a estranei che condividevano la loro stessa fede religiosa. A determinare il comportamento altruistico sembra essere la paura di una punizione, piuttosto che la fiducia in una ricompensa di origine divina.
Questi risultati sembrano quindi confermare l’idea che lo sviluppo sociale umano è legato a quello delle religioni morali. La direzione della freccia causale però potrebbe andare in un senso opposto a quello sostenuto da Narenzayan e colleghi. Si potrebbe in effetti pensare che all’origine delle religioni morali vi sia lo sviluppo umano e non il contrario. Le divinità morali non sono infatti comparse subito dopo il costituirsi di società umane complesse, per esempio le religioni degli antichi imperi mesopotamici ed egizi ne erano prive. Esse fanno apparizione, quasi contemporaneamente, in tre diverse aree dell’Eurasia in un periodo relativamente breve e recente, compreso tra il V e il III secolo prima della nostra era.
In tale periodo emergono dottrine, anche secolari, come il confucianesimo (Cina), lo stoicismo (Mediterraneo orientale) e l’induismo (India). Malgrado le differenze, queste dottrine hanno in comune un principio di base, quello secondo il quale lo scopo della vita umana non è accumulare beni materiali ma vivere all’insegna della moderazione e dell’aiuto agli altri.
Lo storico di Stanford Ian Morris ha di recente scoperto che nelle aree geografiche e nel periodo sopra menzionati si manifestò un significativo aumento di indicatori di sviluppo economico come, in particolare, la quantità d’energia ricavata dall’ambiente. Per esempio, a differenza dei gruppi di cacciatori-raccoglitori che estraevano dall’ambiente 4.000 kcal al giorno per persona, e delle società arcaiche come l’antico Egitto che ne estraevano 15.000, le società che hanno dato la luce alle dottrine e divinità morali ne estraevano più di 25.000.
Sotto la guida del giovane psicologo francese Nicolas Baumard, un gruppo di ricerca franco-americano, di cui fa parte lo stesso Morris, qualche mese fa ha ulteriormente corroborato l’ipotesi che l’emergere delle divinità morali sia legato allo sviluppo economico. Baumard e colleghi hanno messo a confronto vari modelli formali e hanno scoperto che quelli basati su indici di avanzamento economico come la quantità di energia estratta dall’ambiente predicono la comparsa e la diffusione delle divinità morali meglio dei modelli basati su indici di complessità socio-demografica.
A questo punto sorge una domanda: stabilito che la crescita economica ha favorito la comparsa delle religioni morali, quali sono i meccanismi attraverso cui la prosperità economica ha permesso il diffondersi dell’ascetismo religioso e secolare? Tra le varie risposte considerate da Baumard e colleghi, la più convincente sembra essere la seguente: vivere in ambienti poveri e ostili porta le persone a focalizzarsi sul presente e le incoraggia a mettere in atto strategie a breve termine nell’interazione con gli altri (ad esempio, applicare la regola occhio per occhio, dente per dente).
Viceversa, vivere in ambienti prosperi e sicuri porta le persone a focalizzarsi sul futuro e a mettere in atto strategie più a lungo termine nei confronti degli altri (ad esempio, seguire la regola «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»). Insomma, le credenze e le pratiche legate ai principi delle religioni e delle dottrine ascetico-morali sarebbero il riflesso dei cambiamenti nelle motivazioni e negli stili di vita indotti dalla prosperità economica.
Quattrocento anni fa, Galileo accettava l’opinione di un «eminentissimo prelato» secondo la quale «l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo». Oggi possiamo constatare che per la scienza non valgono i vincoli saggiamente imposti, sin dai tempi di Galileo, dai più illuminati membri della Chiesa al loro stesso magistero. La ricerca scientifica è l’unico strumento che abbiamo per capire come va il cielo, ma è anche l’unico strumento che ci permette di capire i modi in cui, nel corso della loro storia, gli esseri umani hanno pensato di poter andare in cielo.
Purzycki, B.G, Apicella, C., Atkinson, Q., Cohen, E., McNamara, R.A., Willard, A.K. Norenzayan, A., Henrich, J. (2016), Moralistic Gods, Supernatural Punishment and the Expansion of Human Sociality , Nature, 530: 327-330.
Baumard, N., Hyafil, A., Morris, I., Boyer, P. (2015), Increased Affluence Explains the Emergence of Ascetic Wisdoms and Moralizing Religions, Current Biology, 25: 10-15
“La Vergine mi annunciò il nuovo Papa”. La mistica al Fatto: “Tutto iniziò così...”
di Lucio Musolino *
Con sette mesi d’anticipo la mistica Teresa Scopelliti aveva previsto anche la nomina di Papa Francesco”. La madonna mi aveva parlato di un fulmine nella Chiesa. Erano le dimissioni di Papa Ratzinger. Ne avevo parlato con il mio sacerdote e quando ho visto Papa Francesco uscire dal balconcino stavo svenendo”. Lo ha affermato lei stessa durante l’intervista realizzata poco prima dell’ennesima “apparizione” della Madonna nel cielo di Quarantano, la frazione di Oppido Mamertina (Reggio Calabria) dove, come ogni 13 del mese, anche ieri si sono radunate centinaia di persone per assistere a quello che ormai viene definito “il miracolo del sole“. ”Ho iniziato ad avere le prime visioni di Gesù e della Madonna - racconta la mistica Teresa - a 12 anni, ma da poco le ho rese pubbliche”. E sulle apparizioni di Quarantano: “Molte persone riescono a riacquistare la fede grazie alle mie parole, sono la voce della Madonna. Un po’ ho paura che qualcuno possa speculare su questa vicenda, ma io non prendo soldi. Sono una mamma, una moglie e viviamo solo con lo stipendio di mio marito. L’unica cosa che mi spinge a farlo è il voler portare le parole di Maria alle persone”
DIMISSIONI DI STATO E LOTTA DI LIBERAZIONE, IERI (E OGGI)
Elsa Morante scrisse nel suo "Diario":
Roma 1° maggio 1945 *
Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.
Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo.
Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti di questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.
Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita.
Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti , anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare.
Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando.
Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.
* Cfr.: Elsa Morante, Opere, Mondadori (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII.
E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi - con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono - si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza. È strano come l’eternità si lasci captare piuttosto in un segmento effimero che in una continuità estesa.
* Cfr.: Elsa Morante, Aracoeli, Einaudi, Torino, 1982.
REGGIO EMILIA, 31 luglio 1945: TRIPLICE VITTORIA (don Giuseppe Dossetti, su "Reggio democratica")
Perché non possiamo non dirci laburisti
di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)
Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.
Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.
Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.
Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.
Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.
La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.
Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.
Reggio Emilia, 31 luglio
Federico La Sala (18.02.2013)
La ragione della fede tra gli atei nativi
di Salvatore Natoli (Avvenire, 12 febbraio 2013)
In un film recente e controverso - Habemus papam - il regista Nanni Moretti ci raccontava di un
cardinale restio a diventare Papa perché non si sentiva idoneo a prendere su di sé il grande peso di
governare la Chiesa, schivato peraltro anche dagli altri; oggi Papa Benedetto XVI che si dimette dal
pontificato perché non si sente più nelle condizioni fisiche o spirituali - o spirituali e fisiche insieme
per potere stare ancora alla guida della Chiesa. Nella storia della Chiesa ci sono state dimissioni
celebri - tutti ricordano quella di Celestino V - tanto che il diritto canonico le prevede, anche se non
appartiene alla prassi ordinaria.
Da laico non voglio entrare nel merito della teologia - e visto che si parla di papato neppure della teologia politica - ma mi limito a notare come in genere e per lo più si tenda a identificare la Chiesa con il Papa, anche se il papato è un servizio alla Chiesa nella Chiesa.
Non voglio neppure affrontare la questione circa il rapporto tra persona e funzione in questo caso direi meglio mandato, ma mi pare che nelle dimissioni del papa motivo di riflessione siano le ragioni da lui avanzate.
Nel momento in cui per motivi diversi non ci si sente all’altezza del proprio compito è giusto riconsegnarlo a coloro da cui lo si è ricevuto; e in questo caso alla Chiesa. Una decisione degna di grande apprezzamento perché indica come non bisogna mai confondere il compito con il potere e perciò sulla necessità di intendere il potere come servizio. In una società in cui si tende ad identificare sé con il potere - tanto che nessuno si dimette se non sconfitto - le dimissioni del Papa mostrano un senso alto di responsabilità nei confronti del proprio compito e perciò anche di dedizione alla Chiesa. L’erogazione di un servizio presuppone la consapevolezza del limite e perciò il dovere di ritirarsi quando si ritiene di non essere più in grado di espletarlo al meglio.
Dimettersi in questo caso oltre ad essere indice di una grande qualità morale, è anche un atto razionale, consapevole di quello che si è in grado di fare o meno. D’altra parte Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato si è sempre appellato alla ragione fino al punto da impegnarsi, da teologo, a mostrare la ragionevolezza della fede senza nulla togliere al suo mistero. Certo quel che seguirà a queste dimissioni non è facile da prevedere: quanto una presenza così importante come quella dell’ex Papa influirà sul conclave e, ancorché silente, condizionerà l’elezione del nuovo Papa?
Come è noto certe conseguenze insorgono anche quando non si vogliono. Ma ciò nulla toglie al valore etico di chi declina un mandato e si mette a disposizione per altro servizio che può meglio sostenere.
Certo il peso che Papa lascia in eredità al suo successore non è lieve: la Chiesa si trova oggi per la prima volta ad operare in un ambiente totalmente secolarizzato; possiamo dire di ’atei nativi’, come nei processi cognitivi si parla di ’nativi digitali’. Non più contro Dio, ma senza Dio, almeno secondo il modo tradizionale di concepirlo.
Di questo il Papa stesso se ne era reso perfettamente conto quando ha lanciato l’idea di una nuova evangelizzazione, consapevole che il regime di cristianità sia definitivamente consumato e i cristiani sono divenuti minoranza. Per questo o tornano ad essere lievito o periscono. Per questo quel che Benedetto XVI non farà più da Papa continuerà a farlo nella forma in cui lo ha sempre fatto, educando all’ intelligentia fidei , da teologo. E su questo piano i non credenti restano ancora interlocutori possibili.
Caro Cardinale Martini
“Era””, “è ”: GESU’, IL SALoMONE, IL PESCE (“Ixthus”), sempre libero dalle reti del Pastore-Pescatore (del IV sec.)!
di Federico La Sala *
Karol Wojtyla, il grande Giovanni Paolo II è morto! E se è vero che “il mondo - come ha detto il nuovo papa - viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori”, è anche vero che nel IV secolo - con il ‘pallio’ ... di Roma, comincia “la grande politica” - muore il cristianesimo e nasce l’impero cattolico-romano. La religione ebraica diventa passato, archeologia, e la religione cattolico-romana diventa storia, presente e futuro. Contro ogni tentennamento, la “Dominus Jesus” non è stata scritta invano e la prima Omelia (24 aprile 2005) di Ratzinger - Benedetto XVI ha chiarito subito, senza mezzi termini, a tutti i fratelli e a tutte le sorelle, chi è il fratello maggiore (e chi sono - i fratelli maggiori)... chi è il nuovo Papa, e qual è la “nuova Gerusalemme”.
Per Ratzinger - BenedettoXVI non c’è nessun dubbio e nessun passo indietro da fare. Finalmente un passo avanti è stato fatto. Guardino pure i sudditi dell’Urbe, e dell’Orbi: il “distintivo” cattolico è qui! Ma Wojtyla? Giovanni Paolo II? La visita alla Sinagoga di Roma? Toaff? - La Sinagoga?! Toaff?! Gerusalemme?!: “Roma omnia vincit”, non Amor...! Rilegga l’Omelia (www.ildialogo.org/primopiano): la Chiesa cattolico-romana è viva, vince alla grande, im-mediaticamente! Rifletta almeno su questi “passaggi”:
"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo [...] Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi". "Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. [...]
"E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica magari in modo anche doloroso e così ci conduce a noi stessi. [...] In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.[...]. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore [...]. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”.
In verità, Nietzsche, uno dei tre grandi - con Marx e Freud - maestri del sospetto che stimava Gesù, ma nient’affatto il cattolicesimo - definito da lui, un platonismo per il popolo, l’aveva già detto - e anche in modo più profetico: “il deserto avanza. Guai a chi nasconde il deserto dentro di sé!” (Così parlò Zarathustra).
Cosa pensare? Che fare, intanto? Aspetterò. Sì! Aspetterò! Per amore di tutta la Terra e “per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come una lampada. Allora tutti i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria”(Isaia).
Federico La Sala
I due pontefici in Vaticano
di Vito Mancuso (la Repubblica, 12 febbraio 2013)
A partire da Pasqua la Chiesa cattolica avrà due papi, uno solo de facto, ma tutt’e due de iure? A parte il celebre caso di Celestino V e Bonifacio VIII alla fine del Duecento, una situazione del genere non si era mai verificata in duemila anni di storia, senza considerare che papa Celestino passò il tempo da ex-papa prima ramingo e poi imprigionato a molta distanza da Roma, mentre Benedetto XVI continuerà ad abitare in Vaticano a poche centinaia di metri dal successore. Costituirà per lui un’ombra o una sorgente di luce e di ispirazione? Ovviamente nessuno lo sa, neppure lo stesso Benedetto XVI, il quale certamente è una persona discreta e assai rispettosa delle forme, ma il cui peso intellettuale e spirituale non può non esercitare una pressione su chiunque sarà a prendere il suo posto. Una cosa però deve essere chiara: a Pasqua non ci saranno due papi, ma uno solo, perché Joseph Ratzinger non sarà più vescovo di Roma ed essere papa significa prima di tutto ed essenzialmente essere “vescovo di Roma”.
L’inedita situazione determinata dalle dimissioni di Benedetto XVI è di grande aiuto per comprendere che cosa significa veramente fare il papa. Fino a ieri “essere papa” e “fare il papa” era la medesima cosa. Fino a ieri la persona e il ruolo si identificavano, non c’era soluzione di continuità, ed anzi, se tra le due dimensioni doveva prevalerne una, era certamente quella di “essere papa” a prevalere, facendo passare in secondo piano il fatto di avere o no le piene possibilità di poterlo fare.
Tutti ricordano, ai tempi della conclamata malattia di Giovanni Paolo II, le ripetute assicurazioni della Sala stampa vaticana sulle sue condizioni di salute. Giovanni Paolo II non poteva più fare il papa, ma lo era, e ciò bastava. Prevaleva la dimensione sacrale, legata all’essenza, al carisma, allo status, all’essere papa a prescindere anche dal proprio corpo. E non a caso Giovanni Paolo II, quando qualcuno gli prospettava l’ipotesi delle dimissioni, era solito ripetere che «dalla croce non si scende».
Benedetto XVI vuole forse scendere dalla croce? No, si tratta di altro, semplicemente del fatto che egli ha prima riconosciuto dentro di sé e poi ha dichiarato pubblicamente che il calo progressivo delle forze fisiche e psichiche non gli permette più di “fare il papa” e quindi intende cessare di “essere papa”. La funzione ha avuto la meglio sull’essenza, il ruolo sull’identità.
Io aggiungo che la laicità ha avuto la meglio sulla sacralità. Si è trattato infatti di una decisione laica, perché opera una distinzione, e laddove c’è distinzione, c’è laicità.
La distinzione tra la persona e il ruolo introdotta ieri da Benedetto XVI con le sue dimissioni si concretizza in queste parole dette in latino ai cardinali: «Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». C’è un ministero, una funzione, un ruolo, un servizio, che ha la priorità rispetto all’identità della persona.
La parola decisiva nell’annuncio papale di ieri è però un’altra, la seguente: «Nel mondo di oggi». Ecco le sue parole: «Nel mondo di oggi per governare la barca di san Pietro è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito». Nel mondo di ieri, fa intendere Benedetto XVI, la distinzione tra persona e ruolo poteva ancora non emergere e un Joseph Ratzinger indebolito avrebbe ancora potuto continuare a svolgere il ruolo di Benedetto XVI.
Nel mondo di oggi, invece, non è più così. Io considero queste parole non solo una grande lezione di auto-consapevolezza e di laicità, ma anche una grande occasione di ripensamento per il governo della Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI possono condurre a una riforma della concezione monarchica e sacrale del papato nata nel Medioevo, e riprendere la concezione più aperta e funzionale che il ruolo del papa aveva nei primi secoli cristiani?
È difficile che ciò avvenga, ma rimane l’urgenza di rimettere al centro del governo della Chiesa la spiritualità del Nuovo Testamento, passando da una concezione che assegna al papato un potere assoluto e solitario, a una concezione più aperta e capace di far vivere nella quotidianità il metodo conciliare. Non si tratta infatti solo delle condizioni di salute di Joseph Ratzinger che vengono meno.
Occorre procedere oltre e giungere a porsi l’inevitabile interrogativo: “nel mondo di oggi” è in grado un unico uomo di guidare la barca di Pietro? Si obietterà che il papa non è solo, ma è circondato da numerosi collaboratori. Ma si tratta di collaboratori ossequienti, spesso scelti tra plaudenti yes-men e senza capacità di istituire un vero confronto e una serrata dialettica interna, condizioni indispensabili per assumere decisioni in grado di far navigare la barca di Pietro “nel mondo di oggi”.
All’inizio però non era così. San Pietro aveva certamente un ruolo di guida nella prima comunità, come si apprende dal libro degli Atti, ma non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso l’anno 50 e l’aperta opposizione di San Paolo verso di lui nell’episodio di Antiochia.
L’annuncio papale di ieri è avvenuto nel contesto di alcune canonizzazioni, una delle quali riguardava i Martiri di Otranto, gli 800 cristiani uccisi dagli ottomani nel 1480 per non aver rinnegato la fede. Martirio è testimonianza. La tradizione della Chiesa però oltre al martirio rosso del sangue versato conosce il martirio verde della vita itinerante per l’apostolato e il martirio bianco per l’abbandono di tutti i propri beni.
Nel caso di Benedetto XVI abbiamo a che fare con un martirio-testimonianza di altro colore, quello del riconoscimento della propria debolezza, della propria incapacità, del proprio non essere all’altezza. È la fine di una modalità di intendere il papato, e può essere la nascita di qualcosa di nuovo.
Coraggioso sacrificio o grande sconfitta?
di Franco Cardini (il manifesto, 12 febbraio 2013)
Potenza delle coincidenze simboliche, ironia della storia. Il settimo vescovo di Roma dopo quello che fu il protagonista della Conciliazione tra la chiesa e lo stato italiano se ne va - caso, più che raro, propriamente unico nella lunga storia del pontificato - l’11 febbraio, esattamente nell’ottantaquattresimo anniversario di quell’evento: e al tempo stesso due giorni prima della solennità penitenziale delle ceneri. E il giorno dopo, 12 febbraio, martedì grasso, scoppia il gran carnevale romano delle dietrologie e del totopapa. Perché se n’è andato Benedetto XVI? E chi gli terrà dietro? Se i media sembrano impazziti, la follia dei blog trionfa in termini d’un caleidoscopio rabelaisiano.
Il papa se ne va dicendo che lo fa «per il bene della chiesa»: ma, secondo l’antica cosiddetta Profezia di san Malachia, discusso ma comunque inquietante testo forse del XII, forse del XVI secolo, che mette in fila 112 motti latini ciascuno attribuibile alle caratteristiche di altrettanti papi, tanti quanti a metà del XII secolo si diceva dovessero succedersi nella storia sino alla fine della chiesa (e del mondo?), a Benedetto XVI sarebbe spettato l’epiteto di De pace olivae. Non è forse l’olivo il simbolo della pace? E non sarà che papa Ratzinger, andandosene «per il bene della chiesa», se ne sia in realtà andato pro bono pacis, sentendo di non poter più reggere ai conflitti interni alla gerarchia e alla stessa comunità dei credenti: conflitti dei quali egli, a torto o a ragione, si è sentito almeno in parte responsabile, o per aver contribuito a farli maturare o per non riuscire a gestirli?
E adesso, quo vadis, romana ecclesia? Chi sarà il prossimo ad ascendere al soglio del principe degli apostoli? Ratzinger s’immergerà probabilmente nel silenzio, come alcuni anni or sono scelse di fare Carlo Maria Martini, che in molti avrebbero voluto veder papa al suo posto. Continuerà senza dubbio a studiare e a pregare, scriverà magari altri libri, ma forse tornerà ai suoi prediletti conforti, il pianoforte e i gatti. E su chi all’interno del Sacro Collegio gli succederà, dopo un conclave che possiamo aspettarci abbastanza a breve e al quale evidentemente il cardinal Ratzinger non parteciperà, impazza la ridda delle scommesse.
Ci si affida anche alle tradizioni, alle leggende. Come quella che i cognomi dei pontefici si alternino tra quelli con e quelli senza la lettera "r": il che escluderebbe automaticamente, ad esempio, Bertone, il quale è però favorito da due altre circostanze profetico-leggendarie: la prima ch’egli è il camerlengo pontificio (i camerlenghi sono molto favoriti, come futuri papi); la seconda che egli si chiama di primo nome Tarcisio ma di secondo Pietro e ch’è nato in un paese piemontese di nome Romano.
Ora, la Profezia di Malachia nomina come papa successore di De pace olivae un Petrus romanus, e aggiunge che sarà l’ultimo della storia della chiesa. In che senso? In quello che da allora in poi tale istituzione muterà il suo assetto direzionale e non saranno più eletti papi, o in quello che sarà la chiesa stessa a scomparire, o in quello che finirà il mondo?
Ma le profezie riguardano il futuro. Pensiamo al presente. Era parecchio tempo, per la verità, che tra gli addetti ai lavori, i vaticanisti, circolava la dicerìa dell’intenzione del papa di tirarsi da parte. L’abbiamo sottovalutata tutti, anche perché di vere e proprie dimissioni, nella lunga storia del papato, non se ne sono in fondo mai avute. Anche qui, la ridda delle ipotesi è vertiginosa.
Le ragioni gravi di salute - alcuni hanno parlato di problemi oculistici massicci, altri hanno addirittura evocato lo spettro di un diagnosticato Alzheimer - sono state escluse dall’abilissimo responsabile della sala stampa vaticana, padre Lombardi, che è maestro nell’eludere con affabile eleganza le domande compromettenti ma che è di solito molto affidabile: e che ha esplicitamente detto che nessun processo morboso in atto o in vista è stato causa delle decisioni del Santo Padre.
Ma allora, che ruolo hanno le ragioni fisiche nel terzetto di motivi che il papa stesso ha indicato nel suo breve scritto in tedesco che ha fatto seguito alla dichiarazione, pronunziata in latino alla fine del concistoro del mattino dell’11?
Egli ha alluso con sobrietà ma anche con precisione a ragioni fisiche, psichiche e spirituali: in quest’ordine, omettendo però di dirci se stava enumerandole dalle più gravi alle più leggere o viceversa.
Ora, è abbastanza normale che un ultraottantenne accusi qualche acciacco e che senta vivo il desiderio di ritirarsi e di godersi un po’ di riposo. Ma che questa sacrosanta necessità fisica si accompagni a uno stress "psichico" e addirittura "spirituale", quindi - più che a una somma di tensioni e di preoccupazioni - a un vero e proprio turbamento, fa pensare. Il concistoro, cioè la solenne riunione con i cardinali, alla fine del quale si è avuto l’annunzio del papa, lascia quasi ipotizzare che la sua decisione, magari a lungo meditata e maturata, sia arrivata in tempi così inattesi in seguito a un qualche evento all’interno dei lavori della mattinata.
Si discuteva sulla canonizzazione dei "martiri di Otranto", cioè delle vittime di una scorreria turca nel salentino del 1480. Che l’evento abbia provocato fra i cardinali una discussione sull’opportunità o meno di richiamare un episodio che mette di nuovo in luce la lotta tra cristiani e musulmani, con tutti i risvolti attualistici del problema, e che ciò sia stato causa di un nuovo e più duro emergere delle tensioni interne alla chiesa, delle lacerazioni che ormai attraversano la comunità dei fedeli non meno della gerarchia?
O che abbiano qualche ragione gli osservatori statunitensi che hanno interpretato il gesto di papa Ratzinger come un risultato delle difficoltà economiche e finanziarie che ultimamente hanno sfiorato la stessa cattedra di Pietro? Ma anche quei problemi hanno un risvolto ben più profondo, in termini addirittura di concezione del cristianesimo.
Che cosa intendeva dire Paolo VI quando alluse al «fumo di Satana» insinuatosi all’interno della Chiesa? Che rapporto può esserci, ormai, proprio nella compagine dei cattolici - e parlo da cattolico anch’io - tra i soliti ignoti o seminoti che hanno potuto favorire la resistibile ascesa di un Gotti Tedeschi da una parte e gli Enzo Bianchi o gli Andrea Gallo dall’altra? Tra i prelati che benedicono le lobbies multinazionali e i loro business e quelli che stanno dalla parte degli "ultimi", ora che secondo i calcoli più recenti il 90% della popolazione mondiale vivacchia gestendo appena il 10% delle risorse del mondo, e che quindi gli "ultimi" rasentano i 6 miliardi di persone mentre la ricchezza è concentrata nelle mani di poche centinaia tra famiglie e gruppi? Come si può fare tranquillamente il "mestiere di papa", mentre la sofferenza dei poveri arriva davvero a lambire il trono di Dio e grida sul serio vendetta al Suo cospetto?
Accanto al presente, è il passato ad aiutarci: a patto di leggerlo correttamente. Lasciamo perdere il caso di Celestino V, un mistico eremita ignaro delle cose del mondo eletto nel 1294 in quanto considerato docile strumento nelle mani di chi lo avrebbe diretto e ritiratosi dopo cinque mesi per manifeste debolezza e incapacità: sia o no lui - non è mai stato provato con certezza - che Dante indica senza nominarlo come «colui che fece per viltade il gran rifiuto», nulla lo può avvicinare al colto, avveduto, prudente e competentissimo Joseph Ratzinger, che conosceva alla perfezione i meccanismi curiali e che per anni ha retto la chiesa anche prima di esser papa, discretamente nascosto dietro la mole gigantesca di quel Giovanni Paolo II che regnava eccome, ma non governava per nulla.
E lasciamo da parte anche i divertenti casi del fosco e ferreo XI secolo, Benedetto IX che più che dar le dimissioni vendette letteralmente l’ufficio pontificale, per parecchie libbre d’oro, a Gregorio VI suo pupillo che lo acquistò, e che a causa di ciò fu poi deposto per simonia. Ma forse ci aiuta il paragone con il Quattrocento, e più in particolare con il quinquennio 1409-1414, quando lo scandalo dello scisma e della chiesa divisa tra obbedienza romana e obbedienza avignonese causò la deposizione, uno dopo l’altro, di ben tre pontefici (Gregorio XII, Benedetto XIII e Alessandro V) e la convocazione del concilio di Costanza.
Forse è proprio questo, il problema del concilio e quindi della direzione monarchica o collegiale della chiesa, quel che nel Quattrocento fu messo a tacere dopo il 1449 e lo scioglimento del concilio di Basilea, ma che con forza tornò a venir discusso con il vaticano II.
Può darsi che, nelle tensioni vigenti oggi all’interno della chiesa, la questione conciliare sia tornata a riproporsi: e con essa i temi della direzione collegiale, del celibato del clero, del sacerdozio femminile, soprattutto della "chiesa dei poveri".
Dopo l’orgia di bestialità con le quali neocons e teocons, cristianisti libertarians e "atei devoti" ci hanno ammorbato negli ultimi lustri, può darsi che la discussione sul senso da dare al tema dell’Avvento del regno dei cieli all’inizio del III millennio si sia riproposta con forza, e il tempo delle scelte si stia avvicinando. Che un teologo e giurista ultraottantenne non se la sia sentita di esser lui ad affrontare e gestire l’insorgere di queste antiche eppur sempre nuove problematiche, sarebbe più che comprensibile.
Il Papa errante
Tutti i rimandi alla storia del papato ci dicono che siamo di fronte a una svolta destinata ad avere ripercussioni sui sentimenti e le emozioni di un miliardo di persone.
di Giulietto Chiesa *
È già divenuto banale, scontato, dire che le dimissioni di Benedetto XVI sono un evento storico. Tutti i rimandi alla straordinaria storia del papato ci dicono che siamo di fronte a una svolta destinata ad avere grandissime ripercussioni sui sentimenti e le emozioni di un miliardo di persone in ogni angolo del pianeta, e perfino sui rapporti di forza politici e finanziari che si dispiegano in varie aree cruciali del mondo. Perché questa Chiesa cattolica è certo luogo di fede e di speranza per milioni, ma è molto di più centro di potere. Credo che abbiano ragione coloro che ritengono che questo dramma sia il risultato di una evidente crisi politica che ha il suo epicentro nel "sistema" dei corridoi vaticani. Una crisi virulenta, immediata e gravissima, che non ammetteva dilazioni. Un gesto quasi obbligato. Non c’è bisogno di ricordare il lungo rosario di scandali italiani, bancari in primo luogo, che hanno costellato il percorso di questo Papa. C’era e c’è del marcio in Vaticano. Lo Ior, Istituto per le Opere di Religione, e i suoi rottami, erano da tempo un bubbone maleodorante che infettava ogni mossa della Chiesa cattolica.
Lo scandaloso comportamento dei cardinali "capi" verso il potere politico italiano, il mercimonio praticato per anni con un "delinquente abituale" capitato, non per caso, alla testa del governo della Repubblica, il silenzio prolungato (quando non l’aperta e rivoltante complicità) verso il corruttore dei costumi e della pubblica morale italiani, tutto questo era ormai divenuto tanto visibile da apparire uno "scandalo" anti-evangelico. Masse di fedeli italiani non potevano ignorare le esibizioni dei cardinali che guidavano la danza.
Un "basso impero" vaticano faceva da specchio ai bassifondi della prostituzione pubblica e privata dell’Italia berlusconiana e della corruzione del Palazzo inteso nel suo complesso.
Joseph Ratzinger, probabilmente, era estraneo a gran parte di questi giochi di potere. Dai quali è stato soverchiato. Se "ha deciso" di andarsene non è certo per motivi di salute. O ha scelto di rompere lui, o è stato costretto a rompere. Ma tensioni che creano una rottura così clamorosa debbono essere enormi e irreversibili. Dunque non correrà troppo tempo perché esse emergano alla luce. Certamente per gradi. Ma si è rotta una immensa diga e il liquame dovrà uscire. Forse Ratzinger ha preferito mettersi al riparo.
Ma non è di questa crisi che voglio parlare. Ne intuisco i contorni, per le faglie strutturali che traspaiono, ma non ne conosco i dettagli. E credo più utile aspettare che essi vengano fuori da soli.
Intendo parlare di una crisi assai più vasta, devastante, strategica che è in incubazione da un tempo molto più ampio degli otto anni del papato di Benedetto XVI.
Una crisi che era già percepibile durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, ma che era stata coperta e resa invisibile dal suo carisma, dalla sua potenza fisica, dal mito che egli aveva costruito attorno a sé e che il mainstream mondiale aveva attivamente contribuito a costruire.
Giovanni Paolo II era una "star". E, in quanto star, era parte integrante della società dello spettacolo. Un totem che sovrastava una chiesa stracca e senza slancio. Poi c’era il condimento ideologico: il trionfatore sul comunismo, colui che aveva collocato la Chiesa cattolica nel solco della vittoria dell’Occidente. Non era solo fumo negli occhi: era, fu, un fungo atomico di propaganda spettacolare. Ma, nei suoi 26 anni di pontificato, Wojtyła non fece nulla per mettere ordine nella Curia romana. Arrivare dopo un tale Papa sarebbe stato dunque difficile per chiunque, sotto ogni profilo.
Forse fu questa una - non l’unica - delle ragioni per cui il conclave di 8 anni fa decise di elevare al soglio pontificio il più vecchio candidato tra quelli esaminati dai concilii che si sono tenuti dal lontano 1730: avere un papa "breve". Abbastanza per prendere respiro e consentire al Vaticano di riprendere la rincorsa. Volevano un papato di transizione e l’hanno avuto. Ma la velocità della crisi mondiale (non solo di quella vaticana) è stata troppa per un gigantesco organismo abituato a muoversi con pachidermica lentezza.
Adesso si dirà che Ratzinger ha dovuto fronteggiare scandali che non erano suoi. Le prime falle si erano già palesate con Wojtyła sul trono di Pietro: l’esplosione degli scandali sessuali, della pedofilia del clero in Irlanda e negli Stati Uniti. Ma l’ esplosione venne con Benedetto XVI: in Belgio, Austria, Olanda, Norvegia, Germania, ancora Stati Uniti.
Si dirà anche che tutti i tentativi di lanciare messaggi al mondo moderno, effettuati dal Papa che si dimette, si sono rivelati clamorosamente inadeguati: dalle gaffes verso gli ebrei, a quelle verso l’Islam. Ma non fu il primo papa a fare gaffes. Per qualche gaffe un vicario di Dio in terra non si dimette.
Il fatto più rilevante, mi pare, è contenuto simbolicamente nel nome che Ratzinger si scelse al momento della sua elezione: Benedetto. Un richiamo esplicito al santo Benedetto da Norcia patrono d’Europa. Ratzinger, cioè, si proponeva la riconquista dell’anima religiosa europea. Era l’Europa il centro dei suoi pensieri, il suo obiettivo principale. In una organizzazione che da oltre 2000 anni fonda il suo potere sui simboli, un tale segnale non poteva essere sottovalutato. Ma era, esso stesso, il segnale di una sconfitta storica, irrimediabile, di una ritirata strategica.
Negli stessi anni del suo pontificato Joseph Ratzinger avrebbe assistito, insieme a tutti noi, al trionfo della globalizzazione e all’inizio della sua fine. Allo spostamento dei centri del potere mondiale fuori dall’Europa e dall’Occidente. Uno sconvolgimento che non fu previsto, e neppure visto. E la Chiesa educatrice, la Chiesa della catechesi, fu soverchiata dalle nuove tecnologie della comunicazione, che predicano il vangelo del consumo, ben più potente ormai di quello del Cristo.
E la Chiesa si ritraeva clamorosamente nella cittadella che aveva dominato per secoli, incapace di qualsiasi proiezione, di qualsiasi slancio. Mentre chiese e seminari, e conventi europei si svuotavano, e quel poco che ancora restava e resta viene alimentato dai luoghi lontani e ancor miseri degli ex paesi del terzo mondo. Una Chiesa - quella di Ratzinger, ma anche quella di Wojtyła - incapace di affrontare le grandi sfide epocali di una transizione inevitabile, e dunque incline, per manco di afflato spirituale, a rifugiarsi nei meandri del potere occidentale. Un potere, per giunta, anch’esso in evidente declino.
Questa è la crisi di cui dovrà occuparsi il prossimo Papa di Roma.
Papa: la foto simbolo della giornata spiegata dall’autore [Alessandro Di Meo] *
Otto secondi, con la macchina fotografica appoggiata su una balaustra. Sembra banale la spiegazione tecnica della foto del fulmine sul cupolone della Basilica di San Pietro, eletta a simbolo dell’annuncio delle dimissioni di papa Benedetto XVI e che ieri ha spopolato su internet e oggi ha monopolizzato i principali quotidiani italiani e stranieri. L’inquadratura abbraccia il colonnato del Bernini, la facciata del Maderno e la cupola voluta da Bramante e da Michelangelo Buonarroti. Proprio sulla cupola cade un fulmine, che sembra colpire la basilica di San Pietro. E che probabilmente la colpisce, dato che proprio in quel punto e’ sistemato un parafulmine.
’Stava arrivando un temporale - racconta Alessandro Di Meo, il fotoreporter dell’ANSA autore dello scatto realizzato ieri -. Quando ho visto il primo fulmine ho avuto l’idea e mi sono subito spostato sotto il colonnato. Sono stato quasi quaranta minuti a combattere con la macchina fotografica e le intemperie per cercare di realizzare la foto che avevo pensato’’.
Una lotta contro il tempo, ma anche contro la sfortuna: ’’Mentre pulivo la lente dalle gocce di pioggia, un primo fulmine ha colpito la cupola. E io non ho potuto far altro che osservare impotente, oltre che decisamente arrabbiato’’. La sfortuna pero’ non e’ bastata a scoraggiare Di Meo, che ha perseverato nel tentativo di cercare di realizzare la foto cosi’ come la aveva immaginata.
’’Ho provato ancora diverse volte - aggiunge il fotoreporter - finche’ un fulmine ha colpito la cupola proprio mentre scattavo’’. Per gli amanti della tecnica fotografica, Di Meo ha rivelato anche i dati di scatto della foto: ’’La macchina fotografica era poggiata su una transenna, e non su un cavalletto. Il tempo di esposizione era di otto secondi, a 9 di diaframma e 50 iso di sensibilita’. Ovviamente la macchina era impostata in manuale e montavo un obiettivo grandangolare che mi permetteva di includere tutta la basilica nell’inquadratura’’.
La foto non ha mancato di scatenare accese discussioni, rimbalzate soprattutto sul web e sui social network. Molte voci della rete hanno messo in discussione la veridicita’ della foto, sospettando un fotomontaggio o qualche intervento di fotoritocco. La smentita di Di Meo e’ categorica: ’’Capisco che la foto possa sembrare incredibile. Ma foto di fulmini se ne sono sempre fatte - replica fermamente il reporter -. L’unica differenza, in questo caso, e’ che si tratta del fulmine giusto, nel posto giusto e al momento giusto. Io ci sono riuscito per caparbieta’, e, perche’ no, anche con un pizzico di fortuna’’.