Un processo storico, è stato definito da molti, in quanto per la prima volta davanti al gup del Tribunale di Palermo Piergiorgio Morosini si trovano a rispondere insieme uomini di primo piano delle istituzioni e capimafia. L’accusa che la procura di Palermo muove a dieci dei dodici imputati è quella di aver esercitato minaccia ad un corpo politico dello Stato, il governo italiano, allo scopo di ottenere benefici per Cosa Nostra sotto il ricatto delle bombe. Cinque uomini dello Stato e cinque boss mafiosi rispondono di tale reato: l’ex ministro Calogero Mannino, il senatore Marcello Dell’Utri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno, tutti all’epoca ufficiali del ROS; insieme a loro i boss mafiosi Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano, quest’ultimo accusato anche di concorso nell’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima. Tra gli imputati ci sono inoltre l’ex ministro Nicola Mancino, indicato sia da Massimo Ciancimino che poi da Giovanni Brusca come terminale politico della trattativa, che risponde del reato di falsa testimonianza, mentre l’ultimo imputato, Massimo Ciancimino, nel processo riveste la doppia veste di imputato (per concorso esterno in associazione mafiosa per il ruolo di postino tra il padre e Provenzano da lui stesso raccontato ai pm e per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro) e di teste chiave dell’accusa.
Un processo storico abbiamo detto, ma anche un processo scomodo, un processo che in molti dentro lo Stato non vorrebbero, un processo a cui si arriva significativamente con un conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la procura di Palermo ancora aperto, mentre tutti abbiamo assistito al clima sempre più forte di delegittimazione contro i magistrati della procura di Palermo da una parte, anche dall’interno della stessa magistratura, e il testimone chiave Massimo Ciancimino dall’altro.
Ma nonostante tutto un primo traguardo è stato raggiunto: a Palermo si celebra l’udienza preliminare, l’inchiesta è approdata davanti a un giudice. Certo, alla verità emersa finora mancano ancora tanti tasselli e l’elenco degli imputati è ancora breve, ma essere giunti a questo punto è una grande vittoria per quella parte del Paese che vuole la verità su quegli anni. Grandi sono le speranze e le aspettative intorno a questo processo.
Durante la prima udienza che si è tenuta il 29 ottobre, si è avuta la richiesta di costituzione delle parti civili ed è stata discussa la possibilità di aprire le udienze al pubblico, ma il giudice ha poi preferito rinviare in modo da non assumere decisioni prima del pronunciamento della Corte d’Appello sulla richiesta di ricusazione avanzata dalla difesa di Giuseppe De Donno, richiesta poi rigettata: sarà Morosini il giudice che deciderà dei rinvii a giudizio del processo della trattativa.
La seconda udienza si è svolta il 15 novembre ed è durata fino a sera con un breve intervallo per il pranzo. Data l’importanza del processo e l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica su di esso, sarebbe stato importante che le udienze avessero potuto svolgersi davanti alla stampa, permettendo ad ogni cittadino di essere informato compiutamente. Ricordiamo che il codice di procedura penale prevede che le udienze davanti al gup si svolgano in camera di consiglio, ma se c’è l’accordo delle parti è possibile aprirle al pubblico. Così si è nuovamente discussa la questione. Ma anche stavolta l’opposizione di uno dei legali non ha permesso lo svolgimento pubblico dell’udienza. La stampa è rimasta fuori, ad attendere qualche notizia, nonostante il temporale pomeridiano che ha messo a dura prova la resistenza dei cronisti.
L’aula in cui si è tenuta la seconda udienza è quella storica del primo maxiprocesso, l’aula bunker dell’Ucciardone. Di sicuro un buon auspicio per un processo la cui portata storica, se ci si riuscirà ad arrivarci, potrebbe essere di gran lunga superiore a quella del maxiprocesso a Cosa Nostra. Gli imputati mafiosi sono tutti presenti in videoconferenza, a parte Bernardo Provenzano la cui difesa punterebbe a sostenere l’incapacità del boss di stare in giudizio per gravi condizioni di salute che ne comprometterebbero le capacità mentali, anche se una recente perizia ha stabilito il contrario. Mancano invece quasi tutti gli imputati delle istituzioni, già assenti alla prima udienza: unico presente Nicola Mancino, che ha presentato istanza di stralcio per la propria posizione. Presente come sempre Massimo Ciancimino, l’imputato-testimone senza il quale oggi non saremmo qui, come gli fanno notare in tanti.
Per prima cosa il giudice ha deciso sulla costituzione delle parti civili, poi sull’istanza di stralcio di Mancino.
Salvatore Borsellino con il suo legale Fabio Repici aveva presentato richiesta di costituzione di parte civile sia come presidente dell’Associazione Agende Rosse che come familiare di Paolo Borsellino. In mattinata il pm Nino Di Matteo si era opposto a quest’ultima richiesta in quanto “non esistono i presupposti formali e sostanziali” ma aveva espresso parere favorevole alla costituzione di parte civile dell’Associazione Agende Rosse citando anche la giurisprudenza che legittima la costituzione di un’associazione nata in seguito ai fatti oggetto del processo se questa associazione tutela comunque degli interessi che con tali fatti sono stati danneggiati. Il gup ha sostanzialmente condiviso la posizione della procura, non ammettendo la costituzione di parte civile di Salvatore Borsellino in quanto fratello di Paolo, dei familiari degli agenti della scorta morti in via D’Amelio e di Antonio Vullo, l’agente della scorta sopravvissuto alla strage, ma ammettendo quella dell’Associazione Agende Rosse rappresentata dal suo presidente Salvatore Borsellino. Soddisfazione è stata espressa dallo stesso Borsellino: “Personalmente ritengo che sia andata bene: sono più contento di esserci come presidente del Movimento che come familiare”. “Innanzi tutto a me interessava partecipare al processo come parte attiva, e questo l’abbiamo ottenuto, in secondo luogo a me il fratello che mi hanno ammazzato non me lo ridà nessuno e a me non interessano i risarcimenti dato che ho anche rifiutato la provvisionale che mi sarebbe spettata come parte civile nei primi processi. Dallo Stato io volevo Giustizia non un impossibile risarcimento. Allora preferisco non essere presente al processo in veste di parte civile come fratello di Paolo, ma in rappresentanza di quelle persone che hanno continuato a chiedere Giustizia e Verità e senza le quali questo processo forse non si sarebbe neppure fatto.”
Vengono ammessi come parti civili anche il comune di Palermo, la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Partito della Rifondazione Comunista (unico partito che ne ha fatto richiesta), il sindacato di polizia Coisp, il Centro Studi Pio La Torre, mentre i familiari di Salvo Lima sono ammessi come parte civile solo contro Bernardo Provenzano relativamente al concorso in omicidio. Infine il sottosegretario Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e dei servizi segreti, si è costituito parte civile solo contro Massimo Ciancimino per l’accusa di calunnia nei suoi confronti.
Data la presenza di numerosi e diversificati capi di imputazione, la trattazione delle richieste di costituzione di parte civile è stata complessa, poiché il giudice ha dovuto stabilire l’attinenza delle richieste con i vari capi di imputazione, così ad esempio il comune di Palermo, le Agende Rosse, Rifondazione Comunista e il Coisp si sono visti rigettata la richiesta di costituzione contro Nicola Mancino, anche se al contrario invece Nino Di Matteo si era detto favorevole e aveva anzi sostenuto che il governo avrebbe dovuto costituirsi anche contro Mancino.
L’avvocato di Mori e Subranni ha voluto invece esprimere la sua personale critica a Salvatore Borsellino che aveva chiesto di costituirsi parte civile contro tutti gli imputati tranne che contro Massimo Ciancimino. Ma subito è stato interrotto da Di Matteo e da Morosini, in quanto tali considerazioni personali non sono ammissibili. Inoltre è stato ricordato come Massimo Ciancimino non sia imputato per la trattativa (come i dieci imputati per violenza a corpo politico) ma solo per il suo ruolo di postino tra il padre e Provenzano. La richiesta di Salvatore Borsellino di costituirsi anche contro Nicola Mancino, fondata sul fatto che lo stesso con la sua falsa testimonianza avrebbe cercato di occultare fatti a sua conoscenza relativi alla trattativa “anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l’impunità” relativamente a quella vicenda, è stata invece respinta, nonostante il parere favorevole del pm.
Concluso al momento il capitolo delle costituzioni di parte civile (c’è tempo per fare richiesta fino alla prima udienza dibattimentale, attesa ad esempio l’annunciata costituzione della Regione Siciliana), in serata il giudice decide sullo stralcio di Mancino. Dopo essersi ritirato in camera di consiglio, il verdetto: la richiesta è respinta, l’ex ministro sarà processato insieme ai capimafia e ai “colleghi” delle istituzioni accusati della trattativa. I legali annunciano che presenteranno istanza per essere giudicati dal tribunale dei ministri, cosa che però secondo molti pareri ha scarse probabilità di essere accolta in quanto il reato di falsa testimonianza contestato a Mancino sarebbe stato commesso in data 24 febbraio 2012 durante la sua deposizione al processo Mori e non nel 1992 quando ricopriva la carica di ministro degli Interni.
Gli avvocati di Dell’Utri annunciano la presentazione di eccezioni di incompetenza territoriale, nel tentativo di spostare il processo a Roma o a Caltanissetta, mentre anche il difensore di Riina ha sollevato la questione della competenza territoriale, sostenendo che il processo debba essere trasferito a Caltanissetta. Siamo solo agli inizi, ma come previsto è da subito palpabile la voglia di spostare il processo in altre sedi, ritenute più favorevoli dagli imputati, che cercano in ogni modo di strappare la competenza alla procura di Palermo che ha istruito il processo portandoli sul banco degli imputati.
Si prosegue il 20 novembre.
Adriana Stazio
Una manifestazione a Roma
Con i magistrati, per la Costituzione
di Salvatore Borsellino (il Fatto, 12.12.2012)
Caro direttore,
ci sono dei momenti nella vita di una nazione in cui non si può stare alla finestra. Ci sono momenti in cui è necessario mettersi in gioco e dare, ciascuno di noi, il nostro contributo nella difesa dei valori in cui crediamo e che vogliamo trasmettere ai nostri figli.
Stiamo attraversando un momento particolare della nostra storia perché, per la prima volta nella storia del nostro paese, lo Stato sta trovando il coraggio di processare se stesso.
C’è un peccato originale alla base di questa che chiamano Seconda Repubblica, una scellerata trattativa tra pezzi dello Stato e quello che dovrebbe essere l’anti-Stato.
Sull’altare di questa trattativa è stata immolata la vita di Paolo Borsellino, dei ragazzi che gli facevano da scorta, sono stati sacrificati i martiri di via dei Georgofili e di via Palestro.
Per mantenere su di essa il segreto c’è stata una congiura del silenzio che è durata vent’anni e che ha coinvolto centinaia di personaggi della politica e delle istituzioni. C’è stato un depistaggio che ha falsato il processo sulla strage di via D’Amelio.
Quando finalmente l’opera di alcuni magistrati, le rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, hanno cominciato a squarciare il velo, sono cominciati i muri di gomma e la guerra scatenata contro i magistrati.
Mi sarei aspettato che a questi magistrati arrivassero incoraggiamenti, che venissero spianati gli ostacoli che si frapponevano sulla difficile strada della Verità.
Al contrario ho dovuto leggere con raccapriccio di intercettazioni in cui a un indagato in questo processo, Nicola Mancino, che si lamentava al telefono per essere stato lasciato solo, veniva, non so se a torto o a ragione, promessa la benevolenza e l’attenzione della più alta Istituzione del nostro Stato. Fino all’ultimo atto, quello in cui, per impedire la divulgazione delle intercettazioni che in maniera casuale riguardavano lo stesso Presidente della Repubblica, viene sollevato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, che rischia di essere il più grave ostacolo sull’iter di un processo dal quale ci aspettavamo quella Verità.
PERCHÉ questa ansia, quasi questo panico, sul contenuto di queste intercettazioni e sulla possibilità che l’opinione pubblica ne venga a conoscenza? Forse contengono dei giudizi di merito su dei magistrati, su dei parenti di vittime che a voce troppo alta continuano a gridare la loro rabbia per una verità occultata?
Io non credo, non voglio e non posso credere che sia così, ma è proprio per poterne dissipare anche soltanto il sospetto che la stessa Presidenza della Repubblica dovrebbe chiedere la divulgazione del testo di queste intercettazioni. Anche perché per quanto riguarda direttamente me, fratello di Paolo Borsellino, mi è già sufficiente essere stato escluso, insieme con mia sorella Rita, dal novero dei parenti di Paolo nel messaggio inviato dalla Presidenza della Repubblica all’Anm il 19 luglio.
Questa stessa sorte forse toccherà ora, per le sue manifestazioni di sdegno nei confronti dell’imputato Nicola Mancino, anche ad Agnese, la moglie di Paolo, alla quale, insieme con il figlio, quel messaggio era stato rivolto.
E adesso è arrivata anche la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzioni, sentenza della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ma che sembra non colmare il vuoto legislativo o indicare una corretta interpretazione della Costituzione riguardo alle casuali intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica. Sempre che di un vuoto si tratti e non di un esplicito silenzio. E mentre fa riferimento a un inapplicabile, in tale caso, articolo 271 del codice di procedura penale, a meno che in quelle telefonate Mancino non pensasse di rivolgersi al suo avvocato o al suo confessore, la sentenza non manca di censurare pesantemente l’operato della Procura di Palermo che invece ha agito applicando rigorosamente le leggi sulle intercettazioni.
A FRONTE di queste continue invasioni di campo del potere legislativo ed esecutivo su quello giudiziario, per dimostrare a questa classe dirigente che non siamo tutti assopiti, che abbiamo ancora la forza di reagire, noi non resteremo a guardare. E lo facciamo come passo successivo e conseguente all’appello sottoscritto da migliaia di cittadini a sostegno di questi magistrati. Noi crediamo che una firma non sia sufficiente, noi chiamiamo tutti i cittadini che hanno il coraggio, come Antonio Ingroia, di dichiararsi “partigiani della Costituzione”, a scendere in piazza con noi e a gridare la nostra voglia di Giustizia, di Verità e di Resistenza.
Assieme a me, ai giovani e ai sempre giovani delle Agende Rosse e a tutte quelle persone che hanno deciso di non tacere. Assieme a Marco Travaglio, a Luigi De Magistris, a Ferdinando Imposimato, a Sonia Alfano, a Sabina Guzzanti, ad Aldo Busi, ad Antonio Padellaro, a Marco Lillo, a Vauro Senesi, a Moni Ovadia, a Silvia Resta, a Sandra Amurri, a Fabio Repici, a Daniele Silvestri, a Manuel Agnelli e a tanti altri, che sabato 15, a Roma, in Piazza Farnese hanno accettato con entusiasmo di essere assieme a noi.
Dimostriamo a questa classe dirigente, al paese, a noi stessi, che siamo ancora capaci di alzare la testa. A fianco dei magistrati del pool di Palermo.
La geometria del diritto
di Franco Cordero (la Repubblica, 6 maggio 2012)
Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia.
Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.
La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole.
Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.
La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.
I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra .Pour cause
I comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).
In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disantinviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127).
Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio.
Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.