MAFIA e POLITICA/ Dove finiscono i voti dei clan?

sabato 5 giugno 2010.
 

di Andrea Succi

Per capire come funzionano i meccanismi elettorali in terra di mafie, è opportuno osservare quanto successo nei comuni sciolti per mafia, dove il Pdl ha trionfato. E vengono fuori numeri incredibili: in 98 comuni su 106 (esclusi quelli siciliani), l’ha spuntata il candidato pidiellino, con percentuali da far invidia ad un dittatore. Di questi 98, finiti al Pdl nelle elezioni di Marzo, ben 73 - nella tornata del 2005 - votarono in maniera esattamente opposta, decretando la vittoria del centro-sinistra. Il magma criminale, liquido e incontrovertibile, che si sposta a seconda di come tira il vento.

E allora conviene, per dare maggiore incisività alla riflessione, andare a spulciare quel che è successo nei tantissimi comuni sciolti per mafia, quasi tutti del Sud, con un preambolo che soffi sulle ceneri di una memoria storica sopita. Nel 2002 la rivista del Sisde, che all’epoca si chiamava “Per Aspera ad Veritatem” e oggi molto più semplicemente “Gnosis”, pubblica un articolo a firma di Andrea Cantadori, in cui viene ricordato come quando e perché la storia dell’antimafia cambiò, a seguito del caso-Taurianova, finito negli annali essenzialmente per due motivi.

Il primo è un barbaro assassinio di una faida in corso già da due anni: il 3 Maggio 1991 una testa mozzata venne lanciata in aria, nella piazza del paese e in pieno giorno, per fare tiro a piattello, con la lupara. Gli equilibri, siano essi di natura politica o mafiosa poco importa, non si discutono certo nei pranzi di gala come testimoniato dalle stragi di stato - per costruire l’agognata “stabilità al centro” (“Misteri d’Italia” Laterza, 1993) - o come dimostrato dalle stragi di mafia, per determinare vincitori e perdenti.

La seconda ragione per cui si parla di caso-Taurianova è di natura giudiziaria: l’efferatezza e la ferocia dell’omicidio produssero uno scandalo di natura internazionale, costringendo lo Stato italiano a creare una legge - la n° 164 del 31 Maggio 1991 - per imporre lo scioglimento dei comuni anche per il reato di “infiltrazione mafiosa” e non solo per “atti contrari alla Costituzione” o “gravi motivi di ordine pubblico”.

E un tiro al piattello di teste mozzate non era forse un “grave motivo di ordine pubblico”, tanto da far sciogliere l’amministrazione comunale, azzerare gli eletti e nominare una commissione straordinaria di “tre membri scelti fra funzionari dello Stato e magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa”?

Eppure c’era necessità che nessun cavillo burocratico potesse inficiare l’efficacia del nuovo provvedimento, che nei primi quattro mesi dalla sua entrata in vigore scioglie 21 amministrazioni per infiltrazione mafiosa. Nei successivi tre anni si arriva a 75, numero che ad oggi supera quota 150. Via via che gli anni passano gli attriti si calmano, la malizia cresce, le connivenze formano un magma liquido e a tratti impermeabile, tanto che la norma viene applicata con sempre minor frequenza, non perché il fenomeno mafioso sia in calo, tutt’altro, ma è così che va, e che ci vuoi fare.

Naturalmente, e data la circostanza, l’onore e onere del primo scioglimento toccò a Taurianova; ma tra i primi ventuno comuni azzerati per mafia troviamo Delianuova, Melito di Porto Salvo e Seminara nella Provincia di Reggio Calabria, Lamezia Terme e San Andrea Apostolo Ionio (CZ), Adrano e Misterbianco (CT), Cerda, Santa Flavia e Travia (PA), Piratino (ME), Gallipoli e Surbo (LE), Casapesenna, Casal Di Principe e Mondragone (CE), Calandrino, Marano Di Napoli, Sant’Antimo e Poggiomarino (NA).

In seguito è toccato, tra gli altri, anche ad Africo, Platì, San Luca, Locri, Rosarno, Bagheria, Capaci, Cinisi, Termini Imprese, Gela, Niscemi, Canicattì, Castel Volturno, Grazzanise, Santa Maria La Fossa, San Cipriano D’Aversa, Acerra, Afragola, Casoria, Villaricca, Nola, Pompei, Monopoli, Nettuno e persino Bardonecchia, nel tranquillo Piemonte.

Alcuni stranoti alle cronache, altri meno, alcuni sciolti più di una volta, altri solo per qualche mese.

Il primo dato che salta all’occhio è il totale dei comuni interessati dal provvedimento: 21 nel 1991, 21 nel 1992, 34 nel 1993; poi il trend si arresta di colpo - nel 1994 - anno della famosa discesa in campo, in cui solo 4 comuni vengono sciolti per mafia. Ancor meno l’anno seguente, nel 1995, e così via più o meno sulla stessa falsariga, fino ai giorni nostri.

I picchi del primo triennio non verranno mai più raggiunti.

Analizzando gli ultimi risultati elettorali vengono fuori numeri che hanno dell’incredibile: in 98 comuni su 106 sciolti per mafia (esclusi quelli siciliani), l’ha spuntata il candidato regionale pidiellino, mentre negli altri otto la sconfitta è stata di misura. Esistono situazioni eclatanti in cui le percentuali di vittoria sono bulgare e l’affluenza di gran lunga superiore al dato medio italiano, che si attesta su un 64%, in calo di otto punti rispetto alle precedenti votazioni.

A Casal Di Principe il candidato Pdl Stefano Caldoro ha preso più del 78% dei voti, dal 70% dei votanti; a Casapesenna ha votato ben l’85% degli aventi diritto e Caldoro ha ottenuto un ottimo 73%; a Frignano Caldoro 80%, affluenza 70%; a Grazzanise affluenza 87%, Caldoro 64%. A San Cipriano D’Aversa il dato di affluenza è tra i più alti d’Italia, quasi l’87%, e Caldoro ha trionfato con il 72% dei voti.

Nel regno dei Casalesi non si vince per il programma o per la dialettica: Lorenzo Diana, sotto scorta per le continue minacce della camorra, ha preso nella circoscrizione di Caserta 4305 voti, che a voler vedere il bicchiere mezzo pieno sono un buon inizio, ma la realtà è ben diversa dall’ottimismo. Diana è originario proprio di San Cipriano D’Aversa, dove si è votato anche per eleggere il nuovo consiglio comunale, e anche qui nessuna sopresa: tripudio Pdl.

Peccato che due settimane dopo le elezioni “polizia e carabinieri avrebbero segnalato alla Dda di Napoli almeno cinque consiglieri comunali eletti grazie ai pacchetti di voti garantiti da uomini della camorra” (Il Mattino, 13/04/2010)

Ma è nel napoletano che si riscontrano episodi troppo al limite per essere veritieri: a Casola di Napoli l’affluenza ha superato il 90% (!) e Caldoro l’80%, mentre a Santa Maria La Carità un’affluenza più bassa non ha impedito al candidato di origini molisane di portare a casa 8 voti su 10. Numeri da fare invidia a un qualsiasi aspirante dittatore.

A Isola Di Capo Rizzuto, nel crotonese, il candidato alla Presidenza regionale Giuseppe Scopelliti (Pdl) ha ottenuto il 70% delle preferenze: chissà se è un caso che ad appoggiare il Senatore pidiellino Di Girolamo - finito sotto accusa per essere stato eletto con i voti della ‘ndrangheta - fossero proprio gli Arena di Capo Rizzuto.

A Nettuno la Polverini ha “polverizzato” il suo diretto avversario sfiorando un roboante 60%, mentre a Fondi - il comune balzato agli onori delle cronache ad inizio 2009 perché, nonostante gli inequivocabili rilievi del prefetto di Latina, della Direzione Nazionale Antimafia, dell’Arma dei Carabinieri e del Ministro interrogato, non è stato sciolto per mafia - si torna su percentuali molto simili a quelle di territori dove le mafie regnano incontrastate: 81% di affluenza e 72% di preferenze per la Polverini.

Se mai qualcuno dovesse avere dubbi quanto ai pesanti condizionamenti mafiosi nell’amministrazione comunale di Fondi, lo stesso Ministro Maroni si espresse in questo senso - nel Febbraio 2009 - proponendo al Consiglio dei Ministri l’applicazione dell’articolo 143 del testo unico. L’unica risposta dello Stato arriva un anno dopo, in piena campagna elettorale: il prefetto di Latina, Bruno Frattasi, che aveva richiesto lo scioglimento dell’amministrazione, viene trasferito d’ufficio al Coordinamento e Pianificazione delle forze di Polizia presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza.

La giunta finita sotto accusa era di centro-destra, la nuova è ancora di centro-destra: la Polverini saprà sicuramente agire per il meglio.

A Bardonecchia, in piena Val Di Susa, una percentuale di votanti in linea con la media italiana vota più o meno in massa per il candidato Presidente del Piemonte Roberto Cota, che sfiora il 66% dei consensi. Il comune torinese detiene il triste record di primo paese del nord-Italia ad essere sciolto per condizionamento mafioso, causa fortissima presenza del clan Mazzaferro e di altre ‘ndrine che coltivano interessi soprattutto nei cantieri dell’alta velocità.

Si potrebbero riempire pagine d’inchiostro raccontando le storie dei comuni italiani sciolti per mafia, ma c’è un dato forse più importante che contribuisce alla riflessione. Di quei famosi 98 comuni finiti al Pdl nelle elezioni del Marzo scorso ben 73, nella tornata del 2005, votarono in maniera esattamente opposta, decretando la vittoria - seppur senza percentuali bulgare - del centro-sinistra.

Il magma - appunto - liquido e incontrovertibile, che si sposta a seconda di come tira il vento.

La figura che più di tutti incarna questo concetto è tal Roberto Conte, ex consigliere regionale campano dei Verdi e della Margherita, condannato in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e coinvolto in altri due procedimenti, di cui uno per corruzione, ribattezzato “Mister DiecimilaPreferenze” il 29 Marzo 2010, quando risulta eletto consigliere regionale nella lista Alleanza di Popolo, collegata a Stefano Caldoro.

Conte, che si sente un perseguitato politico e fa politica proprio per difendersi dalle accuse (un pò come Dell’Utri&Company), viene condannato nel Giugno 2009 in seguito alle dichiarazioni del boss camorrista Peppe Misso, rilasciate il 20 Dicembre 2007 dal carcere di Rebibbia - dov’è detenuto - al Pm di Napoli Franco Roberti: “Ho fatto la campagna elettorale per l’esponente dei verdi Roberto Conte”. Chiaro che se un clan fa campagna elettorale per qualcuno, vorrà dei favori in cambio, le pacche sulle spalle servono a poco: Misso chiedeva appalti e forniture di servizi per gli enti pubblici.

La compravendita di voti - sempre secondo Misso - era stata finanziata dallo stesso Conte sborsando poco più di centomila euro: Michele Zagaria, il boss di San Cipriano, ha speso per la sua “campagna acquisti” esattamente il doppio. Un metodo semplice e indolore, quello di regalare cinquanta euro al disoccupato perché vada a votare, o pagare le bollette della casalinga che non arriva a fine mese e così via. Maggiore è il numero dei poveracci, più alta sarà la probabilità di racimolare voti in certe zone d’Italia, che non a caso vengono tenute in condizioni di sottosviluppo.

E Roberto Conte, che cretino non è, quando ha capito che per Bassolino e il suo partito non c’era modo di vincere, ha saltato il fosso (pare su spinta di Nicola Cosentino) e si è gettato tra le braccia di Caldoro. Il neo-Presidente campano non ha preso per niente bene né la candidatura né l’elezione di un condannato per associazione camorristica, tanto da ritenere “politicamente inconciliabile la presenza in Consiglio di Roberto Conte, innanzi tutto per motivi politici e poi per le vicende giudiziarie che lo riguardano”.

Forse è il caso che Caldoro da Campobasso la smetta di fare la mammoletta e si convinca che di “Conti” da pagare ce n’è a bizzeffe, e di solito si nascondono sempre tra i vincenti. Eppure l’affaire Conte era stato più volte sottoposto anche alla Commissione Antimafia, Presidente Giuseppe Pisanu, che il 2 Marzo si impegna a occuparsi del caso, “dopo le elezioni” però.

Grazie ad uno scambio di battute tra il senatore Piccolo e il senatore Garraffa (entrambi del PD), si arriva al nocciolo della questione-Conte:

P. “Non capisco, infatti, cosa intendano alcuni rappresentanti del PdL quando sostengono che è una candidatura di servizio. Per che cosa?”

G. “Per la camorra.”

Le liste inquinate da personaggi collusi o, peggio ancora, appartenenti ai clan, restano un problema non solo campano, come rilevato dalla Senatrice Napoli (Pdl): “Senza fare distinzioni tra destra, centro e sinistra, rilevo, purtroppo, la presenza tra i candidati di figli di personaggi scomparsi per lupara bianca e parenti di noti boss della Piana di Gioia Tauro, come Muto o Commisso di Siderno, ma potrei elencarne a più non posso.”

Com’è accaduto in un comune del napoletano, Castellammare di Stabia, che seppur mai sciolto per mafia, ha vissuto una vicenda a dir poco emblematica: nel Novembre 2008 il giovanissimo Catello Romano, appartenente al clan D’Alessandro, si candida alle primarie tra le fila del PD; passano tre mesi appena, siamo a Febbraio 2009, e Romano uccide - su ordine del clan - il consigliere comunale del PD Luigi Tommasino.

Il movente “secondo le ricostruzioni degli inquirenti così come riportate dalla stampa locale e nazionale, sarebbe direttamente riconducibile alla presunta attività illecita che il consigliere comunale Tommasino svolgeva in diretto collegamento col clan camorristico”.

Certo è che se i cittadini dovessero leggere il Resoconto n° 37 della Commissione Parlamentare Antimafia sui rapporti tra mafia e politica, rimarrebbero sbigottiti, “perché questa non è una redazione di giornale, non è una associazione culturale ma un’istituzione che è stata delegata dal Parlamento ad indagare, ad ispezionare...

Sono entrati in Senato. Cosa dobbiamo aspettarci? Che entrino nel Colle?”


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