IL NAUFRAGIO. MORTE NEL MEDITERRANEO

PUBBLICATO NELL’OTTOBRE DELLO SCORSO ANNO DA FELTRINELLI IL LIBRO DI ALESSANDRO LEOGRANDE CI RACCONTA UNA STORIA ESEMPLARE DI CATTIVA MEMORIA E CATTIVA GIUSTIZIA
martedì 22 maggio 2012.
 

In questo eterno e incerto presente in pochi, davvero in pochi, ricordano la Kater i Rades(nella foto qui a fianco). Sembra inghiottita in qualche buco nero della nostra memoria collettiva, così come il 28 marzo del 1997, un Venerdì Santo, venne inghiottita nel Canale d’Otranto dalle acque del Mar Adriatico. La Kater i Rades è una motovedetta posta a secco, non si sa bene in quale anno, dalla marina militare albanese per vetustà e quasi sicuramente per problemi allo scafo. Pochi giorni prima del suo inabissamento viene rimessa in mare: non è altro che una vecchia e sgangherata imbarcazione utile lo stesso però alla banda criminale capeggiata dal temuto Zani, che spadroneggia a Valona, per trasportare uomini donne e bambini in Italia, in fuga dalla guerra civile che imperversa nel paese. A raccontarci quello che è successo prima di quel 28 marzo, il naufragio di quel Venerdì Santo, e soprattutto tutto quello che è capitato dopo, negli anni successivi, è Alessandro Leogrande che nell’ottobre dello scorso anno per Feltrinelli ha pubblicato “Il naufragio. Morte nel mediterraneo”. “Il naufragio” compendia mirabilmente la rigorosità e l’asciuttezza dell’inchiesta giornalistica con i toni coinvolgenti della prosa letteraria. Un libro che ci ricorda come dietro alle notizie dei cosiddetti clandestini, che in ogni modo e con ogni mezzo cercano di arrivare in Italia, ci sono storie, tantissime storie, l’una diversa dall’altra, con inizi simili magari, ma con finali diversi, ora fatti di speranza ora tragici, decisi dal caso o dalla precisa volontà di uomini, stati, poteri. A decidere la vicenda della Kater, e la sorte delle persone che vi erano a bordo, sono state una serie di concause,precise e determinate, la cui origine può ritrovarsi nella volontà politica posta in essere dall’allora Governo di centro sinistra guidato da Romano Prodi:fermare gli albanesi, non farli arrivare in Italia. L’importanza del libro di Leogrande forse sta proprio in questo:non solo nell’aver riportato alla luce questa sciagurata vicenda, ma nel cercare di porre al centro dell’attuale dibattito pubblico la necessità di affrontare il tema immigrazione non facendosi risucchiare nel gorgo della vulgata securitaria che sparge odio e accentua paure. La Kater dunque parte da Valona, è stracolma di gente, in molti vogliono lasciare l’Albania in preda al caos: il viaggio è rischioso ma è ancora più rischioso restare nell’incertezza di una guerra civile tra il Nord e il Sud del paese, senza dimenticare la presenza inquietante di clan criminali che controllano molte parti della città. In Italia intanto nello stesso periodo monta la rabbiosa polemica della Lega che preme per interventi urgenti, a pagina 36 del libro le parole di Irene Pivetti testimoniano la foga razzista di quei giorni “il giorno dopo al disastro...Irene Pivetti-l’ex presidente della Camera che il 28 mattina ha sostenuto dalle colonne del Corriere della Sera la necessità di buttare a mare gli albanesi- ribadisce, sempre sul Corriere, il suo credo elementare ’io non cambio idea:a mare i delinquenti’”. Inoltre, come sottolinea a pagina 20 Leogrande, “complice anche l’inizio della campagna elettorale per le amministrative(si vota a Roma, Milano, Torino e in altri importanti centri del nord)le misure antialbanesi sono ormai diventate il primo punto all’ordine del giorno di ogni agenda politica....Romano Prodi è ormai orientato verso la linea della fermezza”.A suggellare la linea della fermezza uno scambio di lettere del 25 marzo tra il Ministro degli esteri del Governo italiano Dini e quello del Governo albanese Starova. Dini scrive che il governo italiano offre “la propria assistenza per il controllo e il contenimento in mare degli espatri...mediante il fermo in acque internazionali e il dirottamento in porti albanesi da parte di unità delle Forze navali italiane di naviglio battente bandiera albanese...”.La risposta del governo di Tirana, che non controlla più il Sud del paese, è di “formale accettazione “ della lettera pervenuta al mattino. In pratica viene sancito un accordo internazionale che stabilisce il blocco navale tra Italia e Albania. Una posizione quella del Governo, espressa nella lettera di Dini, pressappochista e superficiale, di assoluta impreparazione:l’esecutivo non ha proprio idea di cosa significhi porre in essere un blocco navale in alto mare. L’avventatezza di questa scelta si tramuterà nell’operato della Marina militare italiana chiamata a far rispettare quell’accordo(in particolare sono due i comandi di terra che gestiscono le operazioni nel Canale d’otranto, il Maridipart di Taranto e il Cincnav con sede a Santa Rosa, a nord di Roma). Il pomeriggio del 28 marzo ci sono nel Canale cinque navi militari di pattugliamento, una di queste la Sibilla (quattro volte più lunga della Kater, tre volte più larga, con una differenza di peso totale che è di 1285 tonnellate per la prima mentre solo 56 per la seconda)andrà ad impattare sulla Kater i Rades facendola sprofondare in mare:34 persone si salveranno mentre 81 saranno i morti(57 i corpi ritrovati e 24 i dispersi). “Il naufragio” dipana il suo racconto ripercorrendo minuziosamente tutte le fasi del pomeriggio del 28 marzo fino a giungere alla manovra azzardata della Sibilla che alle 18.57 va a scontrarsi con la Kater. Leogrande poi analizza criticamente le decisioni politiche, gli ordini militari, il muro di gomma che si erge per tutelare i vertici della Marina, il processo di primo grado presso il Tribunale di Brindisi, e di secondo grado innanzi la Corte di Appello di Lecce che nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 2011 confermerà(con piccole riduzioni)la sentenza emessa a Brindisi per i due soli imputati : Fabrizio Laudadio comandante della Sibilla condannato a due anni e quattro mesi e Namik Xhaferri timoniere della Kater a tre anni e dieci mesi. Ma non si ferma a questo livello la narrazione, un posto di assoluta preminenza è rivolto al dolore, alla storia (alle storie) delle vittime, dei loro familiari, dei superstiti che si costituiranno in un Comitato che serve a tenere ancora viva la memoria, perché il ricordo di quanto accaduto “non può prescindere dalle parole. Dalle parole pronunciate in italiano, da quelle pronunciate in albanese. Dai racconti elaborati al di qua e al di là del Canale”.

domenico barberio

articolo già pubblicato sul mensile "l’altrapagina"


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