Palladio, un successo lungo cinquecento anni
di CESARE DE SETA
VICENZA. Nel vicentino c’è la più alta concentrazione di opere di Andrea Palladio di cui si celebrano i cinquecento anni dalla nascita. La sua architettura non è solo a Vicenza e Venezia, centri capitali del suo lavoro, ma nel padovano, nel trevigiano e nel veronese: da questa pianta è gemmata una forma mirabilis di architettura che s’è diffusa nell’Europa del nord, in Russia e nelle Americhe. Nessun architetto è tanto celebre e nessuno tra essi ha mai avuto tale e tanta influenza. Nato a Padova nel 1508 e morto a Vicenza nel 1580 Palladio ha costruito ville, palazzi pubblici e privati, chiese, opere pubbliche che sono nel cuore e nell’anima di chi ama la verità dell’arte e la sua assoluta perfezione.
In Palazzo Barbaran da Porto, l’unico palazzo che l’architetto realizzò integralmente (fino al 5 gennaio, poi alla Royal Academy of Arts di Londra) si può distesamente dialogare con lui e avere sotto gli occhi 78 disegni di sua mano, molti dei quali sono in Gran Bretagna: per l’occasione tornano a casa dopo che nel 1614 il grande architetto Inigo Jones li acquistò dalle mani di Vicenzo Scamozzi. Già solo questo è un evento anche per chi, nelle belle sale del Riba, in gioventù, si è chinato su queste reliquie con spirito devoto.
E non è forma retorica la mia, ma davvero i disegni di Palladio ispirano devozione per la calibrata misura di ogni tratto di penna o di matita, per la minuziosa precisione degli appunti che ingombrano questi fogli taluni di piccolo formato. Ma si sa che i disegni non sono sempre di agevole lettura e per tale ragione Guido Beltramini e Howard Burns che curano la mostra (catalogo Marsilio) hanno disposto decine di modelli che rendono visibili quanto tracciato sui fogli di carta. I modelli, in tal caso, sono didatticamente efficaci ma restano algide sembianze: poco utili quando replicano architetture esistenti.
Palladio, nome d’arte che gli diede il suo amico e mecenate Giangiorgio Trissino, ebbe modeste origini e a Padova visse da scalpellino fino all’età di sedici anni. Ma lentamente con l’aiuto dello studioso vicentino, scrittore e cultore anch’egli d’architettura, fece viaggi a Roma e imparò a vedere l’Antico. Come aveva fatto prima di lui Leon Battista Alberti: come questi non assunse quasi mai il ruolo di responsabile dei cantieri, fatto che da un lato non gli consentì lauti guadagni, come spiega Beltramini in un delizioso libretto su Palladio privato, dall’altro lo indusse a intraprendere la via del trattatista. I Quattro libri dell’architettura (Venezia, 1570) ebbero fortuna eccezionale, furono tradotti in più lingue e propagandarono il suo linguaggio e le opere nei quattro angoli del mondo. Innumerevoli architetti che mai visitarono il Veneto ebbero sul tavolo da disegno questo tomo assunto a Bibbia.
Tra le molte architetture del Palladio non esito a partire dalla Basilica di Vicenza, che, con uno scrigno lapideo riveste una preesistente fabbrica tardo medievale: l’incarico gli fu conferito nel 1546 e l’architetto adottò il partito della serliana che gli consentì di assorbire le differenti ampiezze di campata. Geniale trovata il cui funzionamento risulta chiaro nelle arcate d’angolo: qui le aperture architravate sono così ridotte quasi da scomparire. Ma il palazzo della Ragione col solenne rivestimento lapideo è anche un grande intervento d’architettura urbana, che con l’antistante Loggia del Capitanio dominata dall’ordine gigante, forma una delle più belle piazze d’Italia. Trent’anni circa separano le due architetture così differenti per articolazione tettonica e cromia, così che nella piazza dei Signori abbiamo a confronto l’incipit e la piena maturità dell’architettura palladiana.
Preziosa per la ricchezza delle informazioni la veduta a volo d’uccello di Vicenza incisa intorno al 1580 dalla quale si deduce che alla morte di Palladio molte fabbriche come i palazzi Chiericati, Thiene e Barbaran da Porto non erano conclusi.
L’altro polo si diceva è Venezia dove Palladio trovò amici come Daniele Barbaro e committenti: tra questi massime i monaci benedettini nell’isola di San Giorgio per i quali costruì la chiesa, il refettorio e il chiostro. Una delle novità più interessanti è che nella chiesa Palladio adottò la vernice rossa per porre in risalto le diverse parti degli ordini architettonici. In molte chiese veneziane era già dal Quattrocento in uso il grigio, ma il rosso ebbe certo un altro effetto. Fu la cultura neoclassica a sottoporre a candeggina gli interni di San Giorgio, così come altre ville dove solo il mattone e la pietra hanno retto all’imbiancatura. La facciata di San Giorgio disegnata da Andrea aveva un portico sporgente con colonne giganti, come attesta un disegno: quella esistente è più tarda.
Divenne dunque Palladio l’architetto del patriziato veneto che volle non piccole ville agricole come nel vicentino, ma sontuose residenze realizzate nel corso degli anni: da villa Cornaro a Piombino a villa Ema a Fanzolo, da villa Foscari detta Malcontenta alle porte di Venezia a villa Barbaro a Maser dove intervenne Paolo Veronese con gli affreschi. Questo patriziato ha l’ambizione di far di Venezia una seconda Roma e trova in Andrea - l’architetto dotato della mediocritas albertiana - ideale interlocutore per un disegno politico di egemonia.
Se il progetto del palazzo ducale rimasto sulla carta fu un bene per Venezia, certo il progetto per il Ponte di Rialto, così come lo dipinse Canaletto, ci incanta. Come in ogni festa che si rispetti sono invitati anche altri colleghi: alcuni amati come Veronese, El Greco, Giulio Romano nel ritratto di Tiziano, devoti ammiratori come Inigo Jones ritratto da Van Dyck ma anche rivali acerrimi come Jacopo Sansovino ritratto da Tintoretto: noblesse oblige!
* la Repubblica 22.09.2008
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
ANDREA PALLADIO 5OO. Cinquecentenario della nascita 1508-1580 (IL SOLE-24 ORE,9 febbraio 2007
Andrea Palladio (Wikipedia).
L’ITALIA DEVASTATA E IL SIGNIFICATO DI "CAMORRA". RIVELAZIONI SUL FILO DELLA PAROLA.
FLS
Architettura. Sul Ponte di Bassano Andrea Palladio creò la sua la piazza
Una mostra e un volume centrati sul progetto del grande architetto: una costruzione che, pur così priva del linguaggio classico, è squisitamente palladiana nella fusione di funzione ed estetica
di Alessandro Beltrami (Avvenire, giovedì 22 luglio 2021)
«Sul ponte di Bassano / noi ci darem la mano / noi ci darem la mano / ed un bacin d’amor». Era il 1916, la Grande Guerra infuriava sul Grappa alle porte della città veneta e un autore anonimo intonava una melodia entrata presto nel repertorio degli alpini, quegli alpini che trent’anni più tardi avrebbero contribuito a ricostruire il ponte, De Gasperi inaugurante, dopo che i partigiani l’avevano fatto saltare in aria alla fine di un’altra guerra, non ultima di una serie di distruzioni e ricostruzioni... C’è qualcosa di magnetico nel Ponte di Bassano, o Ponte Vecchio, o Ponte di Palladio, o Ponte degli Alpini - e la selva di nomi già suggerisce qualcosa. Pochi ponti hanno attirato la storia su di sé come lui. E a ben vedere non sono poi tante le canzoni popolari ambientate su un ponte: ma quella in questione forse fa capire che non di un semplice ponte si tratta. Andate a Bassano all’ora dell’aperitivo e sul ponte troverete amici di ogni età che bevono, chiacchierano, discutono. E coppie mano nella mano e bacin d’amor. Il ponte è la vera “piazza” di Bassano. Lo è da quando Andrea Palladio lo progettò e costruì nel 1569, dopo che le brentane (le piene del Brenta qui sono così epocali da avere un nome tutto loro) e le guerre ne avevano distrutto una manciata di precedenti. Un ponte disegnato così bene da resistere a quattro piene, fino a che nel 1748 una brentana più brentana delle altre se lo portò via, «come una cesta di vimini» dicono le cronache del tempo. Il ponte è da ricostruire: ma questa volta lo si rifà come l’aveva fatto Palladio. O forse no.
Nei mesi scorsi si è concluso l’ultimo lungo restauro del ponte (le fondazioni lignee sono state sostituite da pilastri e travi in acciaio, mascherati dal legno) che nel frattempo era stato distrutto e ricostruito più e più volte, sempre a causa di piene e buriane militari. Un restauro che ha suscitato un vespaio di polemiche, perché a Bassano il ponte non è soltanto un ponte.
Polemiche non diverse da quelle accesesi in occasione delle ricostruzioni precedenti. Anche per questo il Museo Civico ha preparata una mostra molto interessante dedicata a “Palladio, Bassano e il ponte. Invenzione, storia, mito”, a cura di Guido Beltramini, Barbara Guidi, Fabrizio Magani e Vincenzo Tiné. Un percorso ricco di documenti, modelli e opere d’arte, accompagnato da un importante omonimo volume (Sagep, pagine 226, euro 35,00), che muove dal rapporto particolare tra il grande architetto veneto e i ponti.
A differenza di molti architetti suoi contemporanei, Palladio infatti si è sempre interessato al tema, progettando ponti di pietra - come quello di Rialto, mai realizzato e poi finito in un celebre capriccio di Canaletto, in mostra - e ponti di legno. I modelli erano, ovviamente, quelli antichi: il ponte (in pietra) di Augusto a Rimini e quello (in legno) realizzato a tempo di record da Cesare sul fiume Reno, un vero e proprio atto forza e dimostrazione della potenza bellica romana. Un ponte, quest’ultimo, avvolto dal mito, con gli ingegneri-umanisti a scervellarsi sulle tecniche costruttive. Per Bassano, dove avrebbe voluto costruire in pietra ma la città bocciò l’idea, Palladio muove dalle pagine del De bello Gallico e ne offre la sua versione. E lo copre, come pensava loggiato Rialto, perché fraintendendo i testi antichi sulla scia dell’Alberti era convinto che coperti fossero anche i ponti di Roma.
La grande idea di Palladio è trasformare un ponte, una infrastruttura, cioè qualcosa che sta nel mezzo, in un centro. Non solo un luogo su cui transitare ma un posto dove stare. L’idea davvero sorprendente è dare al ponte un valore urbanistico. Che non sia un caso, qualcosa generato dall’uso delle persone, appare chiaro dall’idea progettuale per Rialto, dove il ponte era parte di un più ampio intervento che razionalizzava il cuore commerciale di Venezia: due piazze colonnate all’antica alle estremità, di cui il ponte costituiva una terza monumentale piazza perno, nuova isola di marmo tra le altre isole.
Il ponte di Palladio diventa per Bassano quella che oggi verrebbe definita una “architettura iconica”. E quando viene distrutto nel 1748 non ci sono dubbi: ricostruire com’era dov’era. Ma se sul dov’era ci sono pochi dubbi, sul com’era scatta una classica storia all’italiana, tra lettere anonime e polemiche. Da una parte c’è Bartolomeo Ferracina, geniale orologiaio bassanese, incaricato di ricostruire il ponte e sostenuto da Francesco Algarotti. Dall’altra l’architetto veneto Tommaso Temanza, proto della Magistratura della acque della Serenissima.
La querelle in estrema sintesi è questa: Ferracina ricostruisce il ponte come lo conoscevano i bassanesi con qualche modifica, Temanza lo vorrebbe come Palladio lo pubblica nei Quattro libri dell’Architettura. Il problema è che entrambi, il ponte di legno e il ponte di carta, sono autentici. Tra teoria e pratica, o se vogliamo in termini platonici tra idea e fenomeno, è un caso da manuale che mette alla prova il concetto di filologia. È interessante notare come man mano che le ricostruzioni si allontanano nel tempo, si tende a far fede allo scritto e distaccarsi dal costruito. Ma la stessa idea del ponte non nasce forse da un equivoco, l’avere inteso che i ponti romani fossero coperti?
Il Ponte di Bassano è il progetto apparentemente meno palladiano di Palladio, così privo del linguaggio classico. Eppure è palladiano all’ennesima potenza perché è la dimostrazione di come il cuore dell’architettura del grande veneto non è l’allure stilistica ma la fusione di funzione ed estetica, la capacità di trovare una soluzione spaziale un problema reale attraverso la qualità della forma che prima di essere rigorosa è soprattutto ricca di inventiva. Il sistema di triangoli generato dalle capriate e dalle “pinne” che si allungano nel Brenta, contrafforti che spezzano la corrente e si oppongono ai tronchi che scendevano dalle valli alpine verso i cantieri veneziani, risolve il tema strutturale con estrema eleganza e forza visuale.
L’architettura di Palladio è da questo punto di vista come la dimostrazione di un teorema: esatta quando è bella. È ciò che trasforma questa opera di edilizia in qualcosa di completamente inedito: perché prima ancora di essere un ponte o una piazza coperta, il Ponte di Bassano è un oggetto affettivo. Altrimenti crollato un ponte se ne sarebbe fatto un altro. Uno qualsiasi.
Dopo 500 anni svelato volto di Palladio
Storici e Polizia scientifica, mistero risolto a Mosca e Usa
di Daniela Giammusso *
ROMA. La fronte ampia, convessa e stempiata sui lati. Gli occhi tondi, con le sopracciglia regolari e il naso pronunciato rettilineo, senza gobbe. Eccolo Andrea Palladio, il più grande architetto di tutti i tempi, l’artista delle ville patrimonio Unesco, il genio che ispirò la Casa Bianca ma anche Caterina di Russia. Dopo 500 anni il mistero del suo volto è risolto grazie a un’indagine senza precedenti che ha messo insieme storici dell’arte del Palladium Museum, Polizia Scientifica e Soprintendenza belle arti e paesaggio di Verona, Rovigo e Vicenza, presentata dal Sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni.
Sul banco degli ’imputati’, i 12 ritratti più celebri e accreditati dell’artista nel mondo, firmati anche da El Greco, Jacopo Bassano, Federico Zuccari, fino al 18 giugno riuniti a Vicenza per la mostra Andrea Palladio. Il mistero del volto. Ma facciamo un passo indietro, perché il giallo viene da lontano. Sin da quando, ricorda il curatore Guido Beltramini, "nel 1570 Palladio pubblicò i Quattro libri dell’architettura e, al contrario degli artisti del suo tempo che si autopubblicizzavano, non vi inserì una sua immagine". La sua fama però era tale che "in Inghilterra, non avendo un ritratto ufficiale, nel 1716 se ne inventarono uno falso", spacciato per opera di Paolo Veronese.
Una sorta di dilagante fake news ante litteram, che non ha risparmiato nemmeno la Royal Collection inglese se a Kengsinton Palace campeggia un falso Palladio, giovane e dai tratti quasi cinesi. Nel 1733 toccò agli italiani, con una versione calva e barbuta, copiata da un ritratto della Rotonda, sparito nel 1849. Dopo tre anni di studi incrociati, raggi X, infrarossi, prelievi materici e age progression (l’invecchiamento dei volti che si usa per le foto dei latitanti), uno a uno ecco però cadere gli ’impostori’. "Oggi ci abbiamo messo un quarto d’ora - racconta il Soprintendente Fabrizio Magani - a ’smentire’ il dipinto fino a qualche anno fa considerato il ’vero’ autoritratto", il Palladio di Villa Valmarana, "che invece è una derivazione ottocentesca". Scartato anche quello dei reali inglesi. "Lo vendette il console Joseph Smith a re Giorgio III - dice Beltramini - Le radiografie dimostrano che la scritta Andrea Paladio è un’aggiunta successiva. Gli inglesi, mortificati, pensano che a falsificarlo sia stato un inglese. Ma quella L sola fa pensare proprio a un veneto".
La Polizia, intanto, dicono il prefetto Vittorio Rizzi e Gianpaolo Zambonini della Scientifica, procedeva con "le comparazione fisionomiche. Un lavoro più complicato del solito, perché sui quadri, rispetto alle foto, c’è la mano dell’artista". Ma tutte le indagini sono arrivate alla stessa conclusione: il vero Andrea Palladio appare in due ritratti. "Uno con cappello - dice Beltramini - acquistato a un mercatino delle pulci in New Jersey" e realizzato dal pittore Bernardino India. "Ci sorprendevano le piccole dimensioni, ma abbiamo scoperto che era parte di una collezione di 300 ritratti, una sorta di Figurine Panini, sparsi tra Liverpool, Venezia, Bassano". L’altro, forse di Alessandro Maganza, "era nella Rotonda fino a quando fu venduta nel 1835", "comprato poi nel 1909 dall’architetto russo Zotosky, tanto amante del Palladio da convincere a ispirarsi a lui" tre uomini così diversi come "Lenin, Stalin e Krusciov. Venuto a Vicenza addirittura per comprare la Rotonda, ovviamente non ci riuscì e si accontentò di tornare a Mosca con il ritratto, che appese nello studio".
La mostra forse arriverà anche a Londra. Ma resta ancora un mistero: perché Palladio non volle ritrarsi nei suoi libri? "Forse per una certa ritrosia veneta - riflette Beltramini - Ma penso fosse piuttosto una volontà di potenza. I suoi 4 libri sono un manuale per cambiare il mondo, istruzioni per un’architettura utile, bella e poco costosa, che vive nel futuro. Se avesse inserito il suo volto, sarebbe stato ’solo’ il libro di Palladio. Così invece è il libro di tutti noi".
Palladio, ecco il ’mistero del volto’
A Vicenza dal 3/12, ritratti e scoperte su grande architetto
di Nicoletta Castagni *
VICENZA - Il vero aspetto di Andrea Palladio, il grande architetto della Rinascenza che non volle lasciare alcuna traccia delle proprie sembianze, è al centro della mostra ’Palladio. Il mistero del volto’, allestita dal 3 dicembre al 4 giugno negli spazi del Palladio Museum di Vicenza. Esposte le rare raffigurazioni, eseguite soprattutto nel XVIII secolo (in particolare nel mondo anglosassone), ma anche recenti scoperte (forse di mano del Tintoretto) e nuove acquisizioni, a partire dallo splendido busto neoclassico, simile a quello conservato nella Protomoteca in Campidoglio e uscito dalla bottega del Canova, da poco nelle collezioni del museo vicentino.
’’Un anno e mezzo fa abbiamo iniziato a mettere in cantiere la mostra - dice il direttore del Cisa (Centro Internazionale di studi di architettura Andrea Palladio, in cui è inserito il museo) Guido Beltramini - e ora è arrivata la possibilità di inserire questo nuovo, splendido marmo nelle nostre raccolte. E’ come se la testa, per molto tempo in collezioni private, fosse voluta venire da noi’’. Il marmo, che è stato presentato oggi in una conferenza stampa, fu commissionato nel 1813 da Canova per accostarlo ai busti degli artisti italiani che dal ’500 affollavano il Pantheon. ’’Erano così numerosi - prosegue lo studioso, anche tra i curatori della mostra - che alcuni, come quello di Palladio, furono spostati al Campidoglio’’.
Ma il famoso scultore aveva voluto affidare la realizzazione dell’opera all’allievo amatissimo Leandro Biglioschi, abilissimo modellatore in cera di origine polacca, che realizzò per il maestro anche i ritratti di Beato Angelico e Carlo Goldoni. Alta 51 centimetri, l’opera del Cisa è una versione a grandezza naturale del busto colossale collocato al Pantheon nel 1813 e oggi conservato nella Protomoteca in Campidoglio. I due ritratti sono quasi identici nella fisionomia e nei dettagli della barba e dei capelli, ma mentre l’esemplare capitolino è rappresentato in abiti cinquecenteschi, quello di Vicenza è in puro stile neoclassico, all’antica, a petto nudo.
La preziosa resa esecutiva non lascia dubbi sulla provenienza dell’opera dall’atelier di Canova. Il ritratto costituisce quindi un’importante aggiunta alle rare prove della fortuna figurativa ottocentesca dell’iconografia palladiana. L’architetto, cosa insolita per il tempo, non aveva voluto apporre una propria raffigurazione sul frontespizio del suo famoso trattato. E del resto non ci sono tracce di opere coeve che lo ritraggono, a parte una citazione del 1599 nell’inventario di Tintoretto. E’ appunto seguendo questa pista, che è riemerso un dipinto, custodito in una raccolta russa, che potrebbe rispondere alle descrizioni coeve. ’’Dovrebbe arrivare a Vicenza per la mostra, potremo così studiare da vicino l’opera’’.
Il primo ritratto di Palladio, prosegue Beltramini, è molto tardo e risale al 1733, una sorta di risposta agli inglesi che si erano inventati di sana pianta una fisionomia, con turbante e camicia aperta. Compare all’inizio della prima traduzione dei ’Quattro Libri dell’Architettura’, realizzata a Londra dall’italiano espatriato Giacomo Leoni fra il 1715 e il 1720. Al di là delle molte ipotesi e congetture, conclude Beltramini, ’’per Palladio vale quanto Durer affermò a proposito del suo dipinto raffigurante Erasmo da Rotterdam, che il vero ritratto sono le sue opere. Anche il grande architetto veneto ha voluto nascondersi dietro di esse’’.
Vicenza
JEFFERSON, INVENTORE DEL CAMPUS
Una mostra dedicata all’architetto presidente, che costruì l’Università della Virginia come fosse una villa veneta
di Guido Beltramini (Il Sole-24 Ore, 20.09..2015)
Per tre azioni Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809, volle essere ricordato. Fece incidere sulla propria tomba: «autore della Dichiarazione d’Indipendenza, promotore della legge sulla libertà di religione e padre dell’Università della Virginia».
Le prime due hanno cambiato il mondo, ma la terza - del Jefferson architetto, oltre che politico - non è stata da meno. Essa segna la nascita del “campus” universitario, una discontinuità radicale nel mondo dell’istruzione.
Jefferson disegna l’Università della Virginia come una grande villa veneta dove aule, residenze e la monumentale biblioteca si affacciano su un prato verde e alberato. L’idea manda in soffitta l’edificio scolastico come tetro palazzone e proietta una idea di comunità e insieme la visione che la cultura sia la base su cui costruire il futuro di una nazione.
La centralità dell’istruzione era nella mente di Jefferson sin dagli inizi della sua carriera politica, dopo aver passato anni a studiare il greco e il latino che gli permisero di leggere i classici in lingua originale per tutta la vita.
Appena trentenne, nel 1784 Jefferson era stato a capo della commissione del Congresso per il National Survey, chiamata a rilevare il territorio degli Stati Uniti.
La vittoria sugli inglesi aveva fatto gli americani, ma l’Ameri- ca mancava ancora: i territori a ovest delle tredici colonie erano inesplorati e non esistevano le mappe che permettessero la partizione dei terreni. Anziché parcellizzare il territorio seguendo fiumi e montagne, Jefferson concepì una griglia regolare, basata sui meridiani e paralleli e ispirata alla centuriazione romana. Un reticolo astratto, ancora ben leggibile nelle campagne e città americane, suddiviso in unità amministrative quadrate (township) al centro delle quali, per legge, un lotto era sempre destinato alla scuola pubblica.
Per chi vive in Italia, e in particolare nel Veneto, l’architettura della Università della Virginia emana una sorprendente aria di famiglia. Una ragione c’è: i padiglioni e la biblioteca in forma di Pantheon furono disegnati da Jefferson seguendo i Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, un testo che definiva la propria Bibbia.
Ma perché un architetto italiano diventa la fonte di ispirazione nella costruzione della nuova nazione americana, dall’università agli edifici del potere sino alle case di Via col vento? Più in generale, come viaggiano e si trasmettono le idee in architettura, e quale il rapporto fra originale e copia nella più cerebrale delle arti?
A queste domande ho tentato di dare una risposta insieme a Fulvio Lenzo e Alessandro Scandurra (che ha realizzato anche l’allestimento) con la mostra aperta ieri fino al 28 marzo 2016 al Palladio Museum di Vicenza Jefferson e Palladio. Come costruire un mondo nuovo.
Jefferson non visitò mai di persona le architetture di Palladio, e conobbe l’opera del suo ispiratore solo attraverso i Quattro Libri di cui possedeva tre esemplari, in edizioni francese e inglese. Sebbene queste offrissero una lettura per certi versi distorta, fu proprio l’accesso a Palladio esclusivamente attraverso il suo trattato a consentire a Jefferson di coglierne le strategie di trasformazione dell’esistente.
Palladio, come Leon Battista Alberti e Le Corbusier, è infatti quel tipo di architetto che vuole cambiare il mondo e scrive in un libro le istruzioni per farlo. Egli concepì e comunicò la visione sistematica di una nuova architettura organizzata come una lingua, costituita da vocaboli che sono blocchi costruttivi (sale, colonnati, scale, portali, finestre) legati da una sintassi data da tipologie e rapporti proporzionali. Si trattava di una lingua moderna, con cui Palladio costruiva edifici del proprio tempo, ma che traduceva il latino architettonico della tradizione classica. Con sagacia i Quattro libri pubblicavano le ricostruzioni dei principali edifici della Roma antica accanto alle realizzazione palladiane, che da esse avevano tratto i propri algoritmi compositivi.
E’ proprio questo nesso ad essere cruciale per Jefferson che riconosceva in Palladio colui che aveva reso disponibile l’architettura classica agli usi del proprio tempo.
Nel caso delle architetture di Jefferson, questi ultimi contaminano a loro volta il modello palladiano con le novità dell’architettura francese o la ricerca del “comfort” tipicamente americana, dando vita ad edifici propriamente americani.
Come raccontano le fotografie di Filippo Romano, realizzate per la mostra ed esposte accanto a disegni, busti, modelli, libri antichi e ai bozzetti in gesso di Antonio Canova per il monumento a George Washington, il Virginia Capitol di Jefferson a Richmond definisce quello che sarà il prototipo dell’edificio del potere civile nel Nuovo Mondo: un tempio antico, la Maison Carrée di Nîmes, riproposto come spazio della nuova democrazia. Lo stesso è vero per la casa privata di Jefferson, che egli chiama Monticello in omaggio alla Rotonda che Palladio scrive sorgere su un “monticello di ascesa facilissima”: diventata una icona dell’architettura, è finita nelle tasche di ogni americano, incisa nella moneta da 5 cents. E vale anche per la Casa Bianca.
Alla ricerca di una architettura repubblicana per la casa non di un re, ma di “Mr. President”, Jefferson sceglie una villa: partecipa al concorso del 1792 proponendo una copia della Rotonda di Palladio. È sconfitto, ma quando diventa presidente, interviene sull’edificio vincitore aggiungendogli i due pronai su colonne che ancora oggi fanno assomigliare la Casa Bianca a una villa della Serenissima repubblica di Venezia.
Andrea Palladio: His Life and Legacy
31 Jan-13 Apr 2009
In the Main Galleries
This is the first exhibition devoted to Andrea Palladio (1508-1580) to be held in London for over 30 years and celebrates the quincentenary of his birth. (Royal Academy of Arts)
ARCHITETTURA
Andrea Palladio 500
Vicenza
Palazzo Barbaran da Porto
Fino al 6 gennaio
Catalogo Marsilio
A Vicenza omaggio al grande artefice che con Leon Battista Alberti schiuse le vie della modernità architettonica. Soluzioni semplici e geniali con figure geometriche rielaborate ed essenziali
Palladio, geometria e invenzione del Moderno
di Renato Barilli (l’Unità, 19.10.2008)
È più che giusto che per protagonisti d’eccezione si colgano a volo le occasioni dei centenari dalla nascita o dalla morte per metterne in scena grandiose celebrazioni. Questa volta l’onore tocca all’architetto Andrea Palladio (1508-1580), per il quale Vicenza, sua città d’elezione, ha predisposto un’ampia rassegna, in Palazzo Barbaran da Porto (a cura di Guido Beltramini e Howard Burn, fino al 6 gennaio, poi alla Royal Academy di Londra).
Il Palladio fu uno dei principali fondatori di una linea che potremmo legare al concetto del moderno, in sé alquanto usurato, ma in questo caso esso va preso nel senso secondo cui negli anni Venti del Novecento si ebbe appunto un fondamentale Movimento Moderno, avente tra i vari membri anche il francese Le Corbusier, che molto opportunamente, in mostra, è menzionato come uno degli ultimi eredi dell’insegnamento da lui partito. In realtà, occorrerebbe fare un passo indietro di circa altri cento anni e venire a Leon Battista Alberti, nato nel 1406, cui, in occasione del relativo centenario, si sono tributati omaggi a dire il vero alquanto caotici, non nitidi e concentrati come questo riservato al Palladio. E dunque l’erede diretto risulta meglio trattato rispetto al progenitore.
Ma appunto dall’Alberti al Palladio parte una tendenza irresistibile che altra volta mi è piaciuto siglare con un’etichetta scandalosamente anacronistica, quella di Minimalismo. Infatti essi hanno insegnato all’intero Occidente che l’architettura poggia su un numero ridottissimo di elementi primari, il pilastro, che sostiene l’architrave, con spigoloso e rigido angolo retto; o in luogo del pilastro può entrare anche la colonna, ma già meno bene; e certo vi sta pure l’arco, dono prezioso proveniente dall’arte romana. Attraverso una oculata distribuzione spaziale di questi pochi dati strutturali può venir fuori qualsivoglia edificio, ecco la grande lezione congiunta proveniente dai due. Che però, ovviamente, l’hanno applicata in modi alquanto diversi.
L’Alberti non poteva non essere ligio ai canoni dell’Umanesimo, e dunque, questa sua concezione della scatola elementare doveva essere rapportata alle misure dell’uomo, venir concepita in modi raccolti e unitari. Il Palladio invece, per questo verso più lanciato verso traguardi ulteriori della modernità, non si sente vincolato al rispetto di quelle auree misure, e dunque tende a prolungare senza limite la scatola, facendone una stecca, per così dire, un edificio pronto a ospitare le complesse funzioni della burocrazia o dell’industria, gli alveari in cui l’individuo deve rassegnarsi ad essere racchiuso. Ma in entrambi i casi alla base di tutto c’è una griglia, una scansione implacabile di orizzontali-verticali.
Naturalmente una mostra dedicata a un architetto non può esibire le sue realizzazioni tridimensionali, deve limitarsi a schizzi e abbozzi, possibilmente autografi, ed è quanto la rassegna vicentina fa con abbondanza. Così, riesce perfettamente possibile seguire la marcia risoluta del Palladio verso il moderno, che qui potremo puntualizzare attraverso alcune tappe. Iniziando con Villa Pisani a Bagnolo, se ne veda in particolare il retro, dove compare appunto la scatola, a pareti lisce, sgombrate di ogni ornamento, anche Gropius avrebbe potuto firmare un progetto del genere. Palazzo Chiericati, poco dopo, segna un passo più avanti, a favore della nudità di una griglia strutturale, al punto che nelle ali dell’edificio scompare la riempitura muraria, il pretesto di continuare il corpo centrale dell’edificio con due verande aperte consente all’architetto di lasciar cadere appunto il riempitivo, e l’ossatura dell’edificio può apparire a nudo, quasi che egli potesse già valersi di pilastri in cemento armato.
Un altro dei tratti che il Vicentino eredita dall’Alberti, ed è di nuovo un segno di avanzante modernità, di quella modernità che arriverà a condannare l’ornamento «come un delitto», sta proprio nella riduzione del ricorso a statue ornamentali. Queste ci sono, nella cimasa di Palazzo Chiericati, ma come prolungamenti dello slancio verticale delle strutture portanti, per ribadirlo, piuttosto che per nasconderlo. Ma veniamo alle modalità con cui il Palladio affronta il tema vincolante delle facciate delle chiese, portatrici di esigenze di culto da cui non è facile svincolarsi. Eppure anche in questo caso egli parte da una sorta di scatola essenziale, magari scandita lungo l’intera sua superficie dal motivo di colonne, però agili, simili a putrelle metalliche. E poi, per ricavare sia il timpano della navata centrale, sia quelli delle navate laterali, ovvero per interrompere il dominio dell’angolo retto, il nostro grande progettista inserisce un dimezzamento, un motivo in diagonale, il quadrato insomma viene diviso in due, ma mentalmente l’osservatore può effettuarne un raddoppio, e restituire la totalità dell’insieme. Questo il ritmo di scomposizione e immediata ricomposizione che il Palladio applica ai due gioielli veneziani, S. Giorgio Maggiore e il Redentore.
Ma se si vuole ammirare la sua genialità all’opera, senza vincoli utilitari, si vadano a vedere i suoi disegni per illustrare i campi di battaglia, per esempio il dispiegamento delle legioni con cui Cesare andò alla conquista della Gallia. Sono davvero composizioni allo stato puro, estensioni illimitate di tanti moduli minimali che si associano in una grammatica al tempo stesso libera e vincolante.
Variazioni PALLADIANE - UN MAESTRO DELL’ARS COMBINATORIA
Con la sua opera Palladio, al quale Vicenza dedica una grande mostra per l’anniversario della nascita, ci ricorda come l’arte del costruire abbia senso solo quando crea una grande narrazione collettiva che, nata in un luogo preciso, è capace di rendersi universale
di Franco Purini (il manifesto, 06.11.2008).
Tra i vari tipi di mostre quelle dedicate all’architettura sono le più difficili e contraddittorie. Difficili perché di solito gli edifici, che dovrebbero esserne l’oggetto, non ci sono. Al loro posto si possono osservare i progetti, i modelli, le carte relative alla genesi e allo sviluppo dell’opera, le fotografie delle realizzazioni, materiali che per essere decifrati esigono la conoscenza di linguaggi specifici, posseduti da chi pensa e costruisce l’architettura nonché dagli storici e dai critici di questa disciplina, ma poco diffusi tra il grande pubblico. Queste mostre sono inoltre contraddittorie perché, proprio a causa della loro difficoltà, si tende ad aumentare la documentazione da esporre, con il risultato di rendere ancora più ardua per i non addetti ai lavori la comprensione di quanto viene offerto. In effetti ciò che attende il visitatore è una paziente riconduzione della molteplicità dei vari materiali proposti all’unità di un oggetto caratterizzato da una «presenza-assenza». In sintesi, le mostre di architettura finiscono quasi sempre con l’evocare, più che con l’esibire, ciò che è il loro oggetto, richiedendo un’attitudine quasi medianica.
Dimensione locale, scenari aperti
Solo in rare occasioni le difficoltà e le contraddizioni vengono a cadere, o almeno ad attenuarsi notevolmente. È questo il caso della mostra Palladio, una grande impresa scientifica e insieme una incalzante sequenza di suggestioni visive, che costituisce una opportunità, quale non si verificherà più per molti anni, di vedere riuniti in una unica sede, e in una accurata composizione di temi e di ipotesi storico-critiche, materiali provenienti da varie istituzioni museali. Qui le difficoltà e le contraddizioni connaturate a una mostra di architettura scompaiono quasi del tutto, perché l’oggetto della mostra, l’architettura palladiana, è fisicamente presente sia negli spazi del Palazzo Barbaran da Porto, costruito dallo stesso Palladio, sia perché la mostra si prolunga naturalmente prima nelle strade e nelle piazze di Vicenza, dove si ritrovano molte opere documentate nei disegni e nei modelli esposti, poi nel territorio veneto, fino a trovare a Venezia alcuni episodi memorabili. Ultima di una serie di esposizioni dedicate a Palladio, questa rassegna densa e coinvolgente intende restituire nella sua organica completezza una figura rimasta fino a oggi, nonostante la sua fama ininterrotta e la straordinaria influenza che ha esercitato nel mondo, incompleta e misteriosa. Senza cedere alla tentazione di «attualizzare» Palladio, ma leggendolo attraverso e dentro il suo tempo, i curatori Beltramini e Burns hanno suggerito alcuni piani interpretativi di grande interesse. Tra questi vanno ricordati il tessuto culturale nel quale Palladio era inserito, un sistema di valori complesso e mutevole dominato da Giangiorgio Trissino, un sistema sempre al limite dell’implosione, animato da interessi mitologici e antiquari, percorso da contrasti e da tensioni al di là della sua intensa idealità; una condizione produttiva dell’architettura divisa tra il radicarsi in una dimensione locale, sentita come luogo di una appartenenza da coltivare e approfondire, e una opposta disponibilità verso scenari più aperti e imprevedibili; la sospensione tra un realismo critico vissuto con sorprendente consapevolezza, uno slancio visionario (si pensi ai progetti per il nuovo Ponte di Rialto) e una spiccata attitudine per un concettualismo spinto a volte sulla soglia dell’ermetismo compositivo.
Lo sdoppiamento dell’oggetto
Scorrendo i magnifici disegni autografi, che consentono quasi di vedere Palladio mentre è intento al suo lavoro; interrogando con lo sguardo i modelli; analizzando la struttura delle superfici e valutando il senso dei dettagli che lo descrivono, per poi entrare negli interni, concatenati in successioni spaziali di sorprendente novità; decifrando le tavole del celebre trattato I quattro libri dell’architettura, e delle opere storiche di Palladio è possibile individuare alcuni aspetti della sua ricerca. Il primo riguarda la concezione del comporre: forse per la prima volta nell’architettura del Cinquecento la composizione architettonica non è più il mettere assieme gli elementi dell’ordine per raggiungere un determinato risultato spaziale e costruttivo. Come molti anni fa misero in luce Rudolf Wittkower, Colin Rowe, Renato Cevese e altri storici, Palladio, dopo aver acquisito con le inevitabili riserve l’eredità vitruviana e albertiana, inventa un vero e proprio sistema combinatorio. Questo dispositivo per la composizione è fatto di parti autonome e complete, ovvero di unità predeterminate governate da rigorosi proporzionamenti, disponibili a essere montate in più modi attivando una serrata dialettica formale tra l’unità dell’edificio e la riconoscibilità delle sue componenti. Attraverso un processo di natura paratattica l’oggetto architettonico si configura così come l’esito di operazioni logiche che si inscrivono, come due secoli e mezzo dopo faranno quelle di Jean-Nicolas-Louis Durand, in una diagrammaticità colma di potenziali evoluzioni.
Un secondo aspetto dell’opera palladiana è rappresentato dal suo forte vettore comunicativo. Forse approfondendo temi tratti da Giulio Romano e Sebastiano Serlio, Palladio si rende conto che non basta costruire un edificio per rappresentarne il senso. Perché questo diventi esplicito, occorre dar luogo a una «duplicazione» dell’oggetto architettonico. Alla sua realtà primaria va aggiunto un «simulacro», una rappresentazione che materializzi l’orditura semantica che lo sostiene, trasformandolo in un vero e proprio slogan visivo. È questo ad esempio il senso del pronao sovraimpresso alla casa come il suo simbolo più diretto. Gli archetipi del costruire vengono convocati attorno agli edifici in un gioco di sovrapposizioni, di stratificazioni e di compenetrazioni - come nelle facciate delle sue chiese e di alcuni suoi palazzi - per farne altrettante «macchine comunicative».
Terzo aspetto dell’architettura di Palladio sottolineato dalla mostra vicentina è la «dimensione territoriale»: le ville da lui costruite nel territorio veneto sono i nodi di una rete che conferisce al paesaggio un inedito ordine scalare e un nuovo contenuto morfologico. È come se ogni villa emettesse segnali che le altre raccolgono e rinviano generando un campo di risonanze formali, di allineamenti virtuali e di riverberazioni all’intorno delle loro geometrie. Formando un unico «corpo», le ville palladiane descrivono il territorio veneto costituendo la sua migliore mappa tematica.
C’è infine un quarto aspetto da segnalare, riguardante la sostanza stilistica dell’opera palladiana, caratterizzata da una rilevante ricorsività delle soluzioni. La scrittura architettonica di Palladio appare come un universo formale compiuto, in grado di riportare ogni mutazione alla «conferma dinamica» di alcune modalità compositive. Ciò non implica in alcun modo un meccanico reiterarsi delle scelte formali. Queste sono infatti ritrovate all’interno di una serie di variazioni quasi «musicali» che declinano tutte le potenzialità espresse da un sistema grammaticale e sintattico.
Animate dalla volontà di fornire un profilo completo dell’opera di Palladio, di cui il quadro di El Greco, probabile ritratto dell’architetto, costituisce una potente metafora iconica chiamata a suggellare la mostra, le attente ricognizioni storiche dei curatori non vogliono certo svelare l’enigma che avvolge vita e opera del costruttore della Basilica di Vicenza, ma senz’altro rinnovarlo. L’imprevedibile e forse irripetibile alchimia dalla quale ha avuto origine un genio multiforme e inconsueto come Palladio è stata sottratta alla leggenda di una nativa istintività e riformulata attraverso la messa in scena di una connessione conflittuale e creativa tra il progetto culturale di una determinata epoca e di un certo ambiente culturale - la nobiltà veneta del Cinquecento - e le risposte architettoniche, nelle quali una accentuata sperimentalità si unisce al tentativo di stabilire una serie di principi teorici capaci di orientare le strategie compositive, il tutto all’interno di una piena accettazione dei limiti generali e contingenti dell’architettura.
Architettura dell’immagine
La mostra, i saggi e le schede presenti nel catalogo forniscono una pluralità di percorsi che disegnano nel loro insieme un «Palladio prossimo venturo», reinventato sulla base di letture che, evitando astrazioni e schematismi, inquadrano i fenomeni in un contesto storico-critico problematico e costantemente mutevole. Si esce dalla mostra con un insegnamento di una certa importanza. Quella palladiana è senz’altro un’«architettura dell’immagine» ma al contrario di quella che domina il mondo globale modellandone, e più spesso stravolgendone, le metropoli non è frutto di scelte estemporanee e incidentali come quelle oggi così diffuse. Essa si basa su convinzioni disciplinari elaborate nel corso di decenni, su confronti approfonditi e reiterati. Con l’intera sua opera Palladio ricorda, non solo agli architetti, che l’arte del costruire ha senso solo quando sa creare una grande narrazione collettiva la quale, nata in un luogo preciso, è capace di rendersi universale e, in qualche modo, perenne.