ITALIA. CULTURA E SOCIETA’ NELLA PUGLIA DELL’ETA’ GIOLITTIANA

PIERO DELFINO PESCE (1874-1939), LA RINASCENZA MEDITERRANEA, E LA BATTAGLIA CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA. Alcune pagine dal lavoro di Nicola Fanizza sull’intellettuale repubblicano di Mola di Bari e sulla cultura meridionale del primo Novecento - a c. di Federico La Sala

(...) Contro il disegno di privatizzare la gestione dell’acquedotto che avrebbe dato più da mangiare (ai gestori) che da bere (alla popolazione), Pesce continuò la sua battaglia, scrivendo nel 1912 anche un libello L’Acquedotto Pugliese - Storia di un carrozzone (...)
martedì 31 maggio 2011.
 



Alcune pagine (senza le note) dal libro di


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-  L’AVVENTURA EDITORIALE DI «ASPASIA» (1899-1900). GLI ANNI NAPOLETANI

La visione dalla terrazza della casa paterna - che dà sul grande giardino del palazzo dei Pesce - dei filari di peonie e di alberi rari ed esotici; il profumo intenso e inebriante che esalava in primavera dai fiori degli alberi di limone; lo stupore che investiva lo sguardo quando, a volte, si individuava sui rami di quegli alberi la presenza di uccelli dai colori sgargianti e dalla forma straordinaria; i ricordi di mia madre che da quella terrazza si era trovata casualmente ad osservare i rituali amorosi che avevano come protagonisti due fratelli (figli di Piero Delfino Pesce) e due sorelle (figlie di Vincenzo Fanizza), che abitavano in una casa contigua al giardino; la prossimità distanziante da una persona di cui i miei genitori parlavano spesso; il debito inconfessabile che si ha nei confronti del proprio padre; e, infine, il desiderio di scrivere qualcosa che abbia comunque a che fare con la città in cui si è nati. A tutto ciò va aggiunto la casualità legata a un furto: i ladri riuscirono a trafugare parte dei mobili - che, dopo la vendita del palazzo, erano stati trasferiti nella casa dello scrivente -, però, fortunatamente, abbandonarono per terra le lettere contenute in un comò. Sono più o meno queste le motivazioni che - insieme alla lettura di alcune di quelle lettere - hanno dato luogo alla presente ricerca, che è incentrata sulla figura di Piero Delfino Pesce e sulle sue imprese editoriali: la rivista quindicinale «Aspasia» (1899-1900) e la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924). Fu chiamata Humanitas anche la sua casa editrice.

Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era il primo di sette figli di un uomo1 di idee liberali e repubblicane che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli.

Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui incontrò Niccolò van Westerhout 2, un giovane musicista di Mola che viveva da alcuni anni nella città partenopea. Il compositore di origine olandese3 aveva rifiutato di seguire pedissequamente la tradizione operistica italiana e aveva cercato di svecchiarla, rifacendosi principalmente a Riccardo Wagner. La prima rappresentazione del Cimbelino di Van Westerhout era andata in scena, nel Teatro Argentina di Roma, l’8 aprile 1892. E in quell’occasione il pubblico, insieme alla critica, aveva accolto in modo lusinghiero l’esecuzione dell’opera. Da qui la visibilità pubblica del suo autore e i suoi legami con i maggiori rappresentanti della cultura napoletana del tempo. Van Westerhout, infatti, instaurò rapporti amicali con Giulio Massimo Scalinger 4, Roberto Bracco 5, Arturo Colautti 6, Salvatore di Giacomo e Gabriele d’Annunzio.

A proposito di quest’ultimo, va detto che visse a Napoli dal 1891 alla fine del 1893 e sembra ormai certo che van Westerhout abbia contribuito alla sua iniziazione 7 «wagneriana». D’Annunzio andava a trovare spesso il musicista molese nella sua casa e, come si evince dalla testimonianza del comune amico Salvatore Procida, «teneva per ore e ore van Westerhout al piano. Credo che avremo letto, in meno di un anno, dieci volte il Tristano e Isotta. Gabriele scriveva in quel tempo il Trionfo della morte. Tristano ne occupava lo spirito con una morbosa ossessione. Voleva udire e riudire il preludio assillante e pigliava appunti e quasi si attaccava cogli occhi alla pagina che inizia con la tortura del filtro» 8.

Un anno dopo la morte di van Westerhout, avvenuta il 21 agosto 1898, Pesce farà stampare, in memoria del giovane compositore, un numero doppio di «Aspasia». Sempre su questa rivista, nel fascicolo del 25 novembre 1900, verrà riprodotto un articolo del «Mattino» di Napoli, Doña Flor a Breslavia. Si tratta della traduzione dal tedesco di una recensione - apparsa sul quotidiano della Slesia «Schlesische Zeitung» - inerente alla messa in scena, nel Lobe-Theater di Breslavia, della Doña Flor di van Westerhout. Qui l’«anonimo» critico musicale tedesco dice di aver «assistito a un vero trionfo, per quanto postumo di un talento musicale indiscutibile»; che quella di van Westerhout è una «musica piena di fuoco, di profonda efficacia drammatica, ricca di passione e di colorito»; e, infine, che «Doña Flor si darà presto ad Amburgo e Dresda» 9.

Pesce, durante gli anni napoletani, segue le lezioni di Giovanni Bovio 10, il quale contribuisce in modo sensibile alla sua formazione intellettuale e politica. Tuttavia in questo periodo i suoi interessi sono precipuamente musicali:

«A Napoli come talvolta avviene - scrive Pesce -, fioriva la primavera lirica. Al San Carlo, che i giornaletti umoristici avevano ribattezzato San Gaetano per la invadenza, in cartellone, del repertorio donizzettiano, De Lucia e Battistini; al vecchio Fondo, rimesso a nuovo col nome di Mercadante dalla Ditta Sonzogno per cura del leccese Nicola Dasparo, repertorio francese con tenore Castellano e il soprano Agresti, che era una Aida insuperabile. Ma noi studenti si andava più volentieri al Bellini, non perché il posto costasse meno, che gli studenti che non sgobbano non hanno di queste malinconie, ma perché avevamo scoperto un giovane tenore meraviglioso, giovanissimo e già tanto tanto bravo, ed eravamo come fieri e gelosi della valorizzazione di questa nostra scoperta. Vi andavamo per Caruso, e anche e più, per Annina Franco, che, in Faust, era una Margherita ideale, bella brava squisita appassionata cantatrice di cui eravamo tutti pazzamente innamorati, come si può essere innamorati a diciotto anni, quando si distingue assai bene il fascino dell’arte da tutte le altre cose.
-  Seguitammo in seguito a informarci del tenore nostro e di Annina nostra. Costei non fece più carriera e ne restammo come personalmente offesi, poi che avevamo riposto in lei tanta nostra fiducia. Ma Caruso compensò a usura le nostre aspettazioni. Però non immediatamente. -L’anno dopo lo incontrai una sera al Gambrinus e mi disse con rammarico che aveva inutilmente aspirato a essere l’interprete, nella mia Mola, della Doña Flor, del van Westerhout, scritta per la inaugurazione del nostro piccolo Comunale. Gli era stato preferito, con il baritono Buti e la Bulicioff, il tenore Angioletti, che era stato al S. Carlo un dolcissimo Lohengrin. “Già: io non sono ancora celebre!” mi disse con quell’aria bonaria e spavalda propria dei napolitani di genio che, come i bambini, sentono Achille in seno, con la certezza che non mancherà mai il tempo per metterlo fuori» 11. Frequenta i caffè, i concerti, i teatri e, attraverso la mediazione di van Westerhout, entra in contatto col variegato ambiente culturale napoletano.

Diventa amico di Roberto Marvasi, un raffinato intellettuale che in seguito fonderà e dirigerà la «Scintilla». Su questa rivista scriverà alcuni articoli in cui denuncerà i legami fra camorra e politica e fra camorra e polizia. Il tema della collusione fra la delinquenza organizzata e lo Stato è, inoltre, presente nel saggio Malavita contro malavita12, che Marvasi pubblicherà, nel 1928, a Marsiglia, dove si è rifugiato per sfuggire alle persecuzioni fasciste. Si tratta di un opuscoletto che raccoglie una serie di conferenze che egli tenne presso la Sezione del PRI di Marsiglia sul tema della diffusione della criminalità nel Meridione d’Italia negli anni immediatamente successivi alla repressione del Brigantaggio e sull’uso politico che i governi post-unitari fecero di camorristi, mafiosi e delinquenti vari. E’ questo un approccio di straordinaria attualità poiché le sue tesi hanno trovato una ennesima conferma negli accadimenti della nostra storia recente. Questa amicizia continuerà nel tempo ed è testimoniata dalle lettere13 che Marvasi inviò a Pesce nel corso del 1922.

Sempre a Napoli entra in contatto con Alfredo Catapano, un poeta e scrittore destinato a seguirlo, alcuni anni dopo, nell’avventura editoriale di «Aspasia». La sua visibilità pubblica non era, comunque, legata alla produzione artistica, ma a un evento della vita della Napoli di quegli anni. Catapano era, infatti, anche un valente avvocato e, in tale veste, aveva patrocinato la difesa di una ragazza veneta sedotta da un ufficiale di cavalleria. Recatasi nella villa comunale presso il galoppatoio dove l’ufficiale si esercitava per chiedere aiuto per il figlio che doveva nascere si sentì rispondere: «Portalo all’Annunziata». La donna aveva una rivoltella con sé e uccise il cinico seduttore.

L’arringa terminò con queste parole: «Liberatela in nome di tutte le donne che soggiacquero alla violenza, all’inganno, alla frode; di tutte le donne che per un bisogno d’amore credettero alla bontà e alla sincerità delle false promesse; di tutte le donne esposte al vizio, alla miseria, alla fame e che trovano la virtù di risorgere, di vivere e di rigenerarsi nell’amore e nella protezione di un figlio». La Bella Veneziana fu assolta e Napoli impazzì di gioia. Centinaia di donne lo portarono in trionfo cantando in coro: «tu hai difeso a causa, Alfredo Catapano, e mò ‘a gente ‘e mane sbatteno pe’ttè».

Matilde Serao commentò la vicenda: «Se si uccidessero tutti gli uomini che vedono una bella ragazza e se ne innamorano, non crescerebbero più gli uomini» 14. Animo tormentato e malinconico, Catapano morì di morte volontaria il 28 febbraio 1927. Giovanni Napolitano, anch’egli avvocato e poeta, nonché padre del nostro Presidente della Repubblica, gli dedicò un libro e una intensa poesia, Illusione di eterno, che si configura come un potente inno alla vita.


2

LA BATTAGLIA CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DELL’ACQUA

Sin dall’alba del nuovo secolo, Pesce manifesta un sensibile interesse per la politica locale1. Da qui la spinta a candidarsi nel 1905 alle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio provinciale di Bari. Grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. L’amministrazione provinciale della terra di Bari era guidata da oltre ventidue anni dal senatore Nicola Balenzano, il quale si era fatto promotore nel 1902 - in qualità di Ministro dei Lavori Pubblici - della legge che istituiva la costruzione dell’Acquedotto Pugliese.

Da alcuni anni, pertanto, la popolazione della Puglia sitibonda viveva in un’atmosfera di rinascita, di autentica svolta epocale: non poteva nutrire alcuna diffidenza nei confronti di quel dono dello Stato che ben presto avrebbe mostrato il suo aculeo velenoso. Timeo Danaos et dona ferentes = Temo i Greci anche quando portano i doni scriveva Virgilio nell’Eneide. D’altra parte il termine tedesco gift sta a indicare il dono e, insieme, il veleno!

Di fatto la legge Balenzano prevedeva che lo Stato si sarebbe fatto carico della costruzione dell’opera solo qualora la gara d’appalto per la costruzione dell’acquedotto fosse andata deserta. Viceversa, la legge prevedeva che la società privata che si fosse aggiudicata l’appalto della costruzione della rete idrica pugliese, facendosi carico di una parte dei costi dell’opera, avrebbe ottenuto la gestione novantennale dello stesso Acquedotto.

Alla gara d’appalto si presentò una «sola» ditta che ottenne la gestione dei lavori. Va da sé che i lavori procedevano con lentezza poiché la ditta appaltatrice era oltremodo interessata a procrastinare nel tempo il completamento dell’opera: il suo obiettivo era, infatti, quello di rallentare il più possibile i lavori per ottenere un vantaggio economico, derivante dalla variazione progressiva dei costi in corso d’opera. E per di più Balenzano esercitava il ruolo ambiguo di Presidente del Consiglio Provinciale di Bari e, contemporaneamente, di consigliere di amministrazione della società appaltatrice dei lavori per l’acquedotto.

Preso atto di tale disegno e visti i legami inconfessabili fra la ditta appaltatrice e alcuni amministratori, Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.

Vitantonio Barbanente ritiene che nel 1911 fu ottenuta una parziale vittoria: la legge Sacchi prevedeva che la Società costruttrice «non avrebbe più anticipato le somme (capitale più interesse del 5%) allo Stato per poi rivalersene con gli introiti dell’esercizio novantennale, ma trovava nello Stato stesso l’anticipatore di quelle somme, mantenendosi per altro immutata la concessione novantennale dell’esercizio. L’unico vantaggio, non certo compensatore del grosso sacrificio della pubblica amministrazione, l’abbreviazione di due anni del termine di consegna del primo stato dei lavori» 2.

Per Pesce l’unica innovazione positiva era la clausola che prevedeva la presentazione di un programma di costruzione con una precisa scadenza poiché per il resto osservava: «Non si comprende quale utile abbia trovato lo Stato ad affidare ad una società di milionari all’uopo improvvisata la costruzione delle diversissime opere murarie. Se lo Stato avesse direttamente appaltato tali lavori a veri costruttori, avrebbe risparmiato la provvisione ultrausuraia ritenuta dalla ditta in questo giro di capitali, avrebbe scelto gli accollatari più adatti pagandoli meglio; avrebbe controllato direttamente la bontà delle costruzioni; avrebbe con le somme risparmiate dato un impulso maggiore ai lavori» 3.

Emerge qui il vizio d’origine che ha avuto conseguenze esiziali sulla vita quasi secolare dell’Acquedotto Pugliese: proprio perché erano interessati a guadagnare il più possibile, i costruttori privati approntarono senza cura i canali e gli invasi e utilizzarono materiali scadenti per le opere murarie, determinando il progressivo decadimento della rete idrica che si trasformò ben presto in un colabrodo.

Contro il disegno di privatizzare la gestione dell’acquedotto che avrebbe dato più da mangiare (ai gestori) che da bere (alla popolazione), Pesce continuò la sua battaglia, scrivendo nel 1912 anche un libello L’Acquedotto Pugliese - Storia di un carrozzone 4.

Nella denuncia dello scandalo, Pesce fu coadiuvato dal settimanale «La folla», diretto da Paolo Valera. A partire dal marzo 1913, sulla rivista milanese, l’«amico di Vautrin» - pseudonimo che Mario Gioda utilizzava quando firmava i suoi articoli su «La folla» - scrisse alcuni articoli al fine di rendere pubblico lo scandalo inerente alla questione dell’Acquedotto Pugliese nella prospettiva di infrangere il «cerchio di silenzio» intorno alle accuse del suo amico Pesce.

Mario Gioda era già da un anno corrispondente da Torino per l’«Humanitas» e pertanto era in contatto epistolare con Pesce, al quale, in data 13 marzo 1913, scrive: «Avrei intenzione di portare sulla Folla la questione Acquedotto Pugliese. Leggo avidamente i tuoi lucidissimi articoli. Però non sono nel cuore della questione. Non saprei su quali spunti particolarmente insistere e scuotere con violenza o su quali uomini politici concentrare lo scandalo. Mandami qualche nota sommaria. Segnami in margine al tuo opuscolo i punti più interessanti. Per intanto questa settimana con un articolo, in cui mi terrò sulle generali, inizierò follaiolmente il dibattito. E’ tempo di infrangere questo cerchio di silenzio intorno alle tue accuse. Ne hai diritto. E qui, credimi, non è l’amico che parla, ma il collega» 5.

Nondimeno dalla lettera inviata da Gioda, in data 4 aprile 1913, a Pesce si evince che l’«amico di Vautrin» non condivideva il modo in cui il suo direttore aveva condotto fino ad allora la campagna di denuncia nei confronti dello scandalo dell’Acquedotto Pugliese: «Ho notato che hai accennato alla pagina della Folla su l’A. P. Ti ringrazierò quando mi farai avere il materiale per proseguire perché così come mi trovo, povero di documenti e di conoscenza del problema, sarei e potrei essere facilmente distrutto. Vero è che all’uopo non mancheresti di intervenire. Valera anzi desiderebbe avere lo scandalo dell’A. P. riesumato da te stesso. E’ poi mia personale impressione che come pubblicista la campagna mossa contro i responsabili dell’immane carrozzone sia da te condotta troppo cavallerescamente, troppo - non so se riesco a spiegarmi - educatamente. Sei troppo generoso. In casi simili sono le pedate e le vociate che occorrono per affrettare l’interessamento pubblico. Con certa gente poi che ostenta un’insensibilità morale elefantesca, i riguardi e la cautela eccessiva non possono essere nella penna dell’epuratore» 6.

Dopo il 31 agosto del 1914 - termine perentorio di scadenza assegnato dalla legge Sacchi alla consegna del primo lotto di lavori -, la vicenda dell’Acquedotto Pugliese comincia a muoversi nella prospettiva indicata da Pesce: le inadempienze della società appaltatrice spinsero tutte le amministrazioni provinciali della Puglia a chiedere al Governo di attivarsi per affidare allo Stato sia il compito di portare a termine i lavori inerenti alla rete idraulica sia la gestione dello stesso acquedotto.

Intanto l’interesse per la politica militante spinge Pesce nel 1909 a iscriversi al Partito Repubblicano Italiano. Ci riferiamo qui a tale data poiché sappiamo con certezza, attraverso alcuni volantini e manifesti, che nel 1909 a Mola erano presenti una sezione del PRI e una sezione del PSI e che, nel luglio 1910, Pesce tenne presso la sede del Circolo Repubblicano Molese delle conferenze «Intorno all’idea repubblicana» 7.

In seguito alla sua iscrizione al PRI, i rapporti fra Pesce e i partiti personali, che avevano contribuito sei anni prima alla sua elezione a consigliere provinciale si guastarono. Da qui si originò una polemica con gli amministratori locali che lo portò a scrivere l’opuscolo Nel basso mondo - Polemiche quasi politiche 8. [...]


3

Note biografiche sulla figura di Piero Delfino Pesce

di Nicola Fanizza

Piero Delfino Pesce nacque a Mola di Bari il 1° giugno del 1874. Era il primo di sette figli di un uomo di idee liberali e repubblicane che da ragazzo era scappato da casa per arruolarsi, allo scoppio della terza guerra di Indipendenza, nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e che sempre fu molto attento alla educazione dei suoi figli. A tale proposito, in un articolo del 1951, Bruno Ricci parla di una sua visita alla villa di Brenca del 1910, situata nell’agro molese: «un sentiero addentrantesi tra ulivi contorti e carrubi giganti, rossastra la terra, portava in breve alla rustica costruzione dove, tra il verde, presso il busto di Garibaldi ci attendeva il garibaldino Angelo Pesce, capelli e barba fluenti, candidi come le vesti, tolstoiano per vita e per aspetto, in compagnia di ricordi e speranze. I ricordi: l’epopea garibaldina. Le speranze: i suoi sette figliuoli (ai quali tutti aveva dato il secondo nome di Delfino per distinguerli dagli altri Pesce non repubblicani)».

Dopo aver conseguito nel 1892 la maturità classica presso il liceo di Molfetta, Pesce si trasferì in Campania per frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Qui segue le lezioni di Giovanni Bovio, il quale contribuisce in modo sensibile alla sua formazione intellettuale e politica.

Conseguita la laurea, Pesce ritornò in Puglia nel 1897 e due anni dopo avviò l’impresa editoriale di «Aspasia», che aveva come sottotitolo «Cronaca d’arte». La rivista, che ambiva a un respiro nazionale, uscì la prima volta a Bari il 2 aprile del 1899 e continuò le pubblicazioni fino al 20 dicembre del 1900. Per quel che riguarda i collaboratori troviamo Luigi Capuana, Salvatore di Giacomo, Lucio D’ambra, Guelfo Civinini e Anton Giulio Barrili e Arnaldo Cervesato

Nel 1901, scrive alcune novelle che vengono pubblicate in volume col titolo di Macchiette; nel 1902, inizia la sua collaborazione con la rivista «La Nuova Parola», con contributi di carattere prevalentemente critico-letterario; sempre nello stesso anno pubblica, presso l’editore Vecchi di Trani - una città che dista circa trenta chilometri dal capoluogo pugliese -, una raccolta di liriche intitolata Preludio; e, infine, nel 1904, porta a compimento la sua riflessione sull’arte, pubblicando, per la casa editrice Laterza di Bari, Riflessi, che si presenta come il suo libro più importante.

A partire dal gennaio 1902, svolge la sua attività editoriale in qualità di redattore capo nella rivista .romana «La Nuova Parola», Il lavoro redazionale gli consente di entrare in contatto con i diversi redattori della rivista - Sibilla Aleramo, Giovanni Amendola e Arturo Lancellotti - nonché con alcuni collaboratori, seppure saltuari, come Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini ed Emilio Cecchi.

Nel 1905, grazie al voto dei suoi concittadini viene eletto consigliere provinciale per il mandamento di Mola per il settennio 1905-1912. Sono questi gli anni in cui si sta costruendo l’Acquedotto Pugliese e Pesce si mise in gioco, ingaggiando dai banchi dell’opposizione una virulenta battaglia in seno al Consiglio Provinciale di Bari nei confronti della lentezza dei lavori, della gestione degli appalti e degli interessi privati, con l’obiettivo di rendere pubblica la gestione dell’Acquedotto stesso.

Nel 1907 si sposa con l’ostunese Caterina Tanzarella- dal matrimonio nasceranno quattro figli.

Nel 1991 pubblica Il diritto; fonda la casa editrice Humanitas; e, infine, la rivista settimanale «Humanitas» (1911-1924), che rappresentò, in tutti i suoi tredici anni di vita, un momento comunque importante per lo sviluppo della coscienza democratica del nostro Paese. Pesce aprì il suo giornale al libero dibattito di idee senza alcun pregiudizio di appartenenza ideologica. Di fatto l’«Humanitas» fu una tribuna aperta a voci diverse: accanto agli articoli di scrittori politici di area repubblicana come Terenzio Grandi, Eugenio Chiesa, Napoleone Colajanni, troviamo anche articoli di scrittori eretici o di difficile collocazione come Mario Gioda, Alfonso Leonetti, Dino Fienga e Tommaso Fiore, nonché gli scritti di poeti e letterati come Anton Giulio Bragaglia, Francesco Meriano, Enrico Cardile, Hrand Nazariantz e Salvatore Quasimodo.

Nel luglio 1922 il partito repubblicano di Puglia, guidato da Pesce, aderisce all’iniziativa unitaria delle forze antifasciste, inserendosi in «Alleanza del lavoro» per preparare «un terreno comune di difesa contro le sopraffazioni, le violenze conservatrici, a sola ed esclusiva tutela di un minimo di fondamentali libertà politiche e civili».

Da qui il suo impegno contro il fascismo e il suo arresto: l’8 agosto fu deferito all’autorità giudiziaria sotto l’imputazione di «formazione di bande armate contro i poteri dello Stato, istigazione a delinquere e complicità in omicidio». Rimase in carcere per un mese finché i magistrati presero atto che le accuse a suo carico erano infondate.

Dopo l’arresto, Pesce non dà tuttavia alcun segno di cedimento. Nel dicembre del 1922, partecipa a Roma al congresso del PRI e parla a favore della linea dell’intransigenza contro la minoranza del partito che sosteneva una posizione accomodante nei confronti del fascismo. L’ordine del giorno approvato fu quello per l’appunto di Pesce: «Il XVI Congresso Repubblicano, preso atto che di fronte alla reazione incombente, si afferma e si fa coscienza di masse la necessità politica nella difesa delle libertà civili ed economiche, delibera di persistere nelle proprie direttive di rigida e fervida intransigenza».

Nel rilevare l’impegno del direttore di «Humanitas» contro il fascismo, Tommaso Fiore nell’articolo Fascismo e Mezzogiorno, pubblicato il 30 ottobre 1923 su «la Rivoluzione Liberale», scrive che in Puglia è rimasta «una voce libera, quella del repubblicano Pier Delfino Pesce, anch’egli nazionalisteggiante, ma una sola, predicante nel deserto». Da qui le persecuzioni fasciste: la casa editrice «Humanitas» fu più volte devastata da fascisti armati; e la stessa cosa accadde alla villa di San Materno nell’agro di Mola.

Il 1924 è l’anno di fuoco di «Humanitas»: in vista delle elezioni politiche, Pesce sostiene l’astensione del PRI, ma, quando nella direzione del partito prevale la tesi della partecipazione, si lascia mettere in lista insieme ad un gruppo di intellettuali borghesi meridionalisti di grande prestigio.

Dopo l’assassinio di Matteotti, Pesce, come tanti altri, riteneva che il crollo del regime mussoliniano fosse ormai inevitabile e accentuò pertanto il tono antifascista della sua «Gazzetta»: chiede le dimissioni di Mussolini e incita alla rivolta. Ma la reazione dei fascisti non si fa attendere: un’irruzione di squadristi - guidati da di Crollalanza? - negli uffici della sua tipografia produce danni irreparabili e la «Gazzetta» di Pesce cessa le pubblicazioni nel dicembre del 1924. Dopo la chiusura di «Humanitas», Pesce riprende la lotta42 contro il fascismo, ma, il 5 aprile 1925, mentre era in corso una riunione per indire una manifestazione contro la soppressione della libertà di stampa e di associazione, viene nuovamente arrestato

Costretto dagli eventi ad abbandonare la sua professione di giornalista e di insegnante - dopo aver insegnato per ventidue anni - Pesce vede peggiorare le sue condizioni economiche. Quello che inizia per lui, dopo la chiusura di «Humanitas», è un periodo di grande depressione che dura circa dieci anni. A tale proposito, la lettera che Pesce scrive a Terenzio Grandi il 1° gennaio 1927 è intensa e, insieme, dolorosa: «Mi sono chiuso nel mio guscio. Dieci tra invasioni domiciliari e perquisizioni; esonerato dall’insegnamento all’Istituto Tecnico per non essere intervenuto alla commemorazione della marcia su Roma; stimato, dicono essi, anche dagli avversarii, ma tenuto in quarantena e sotto controllo. Sono tornato a fare l’agricoltore, il pittore, il musicista; di nuovo faccio anche un po’ l’avvocato. Assisto e noto. La penna si è incantata ma non mi si è spezzata tra le dita; né si è piegata».

A partire dagli inizi del secondo lustro degli anni Trenta, una nuova fioritura spirituale lo riporta ai suoi anni migliori: scrive diverse commedie e, nel 1935, Anton Giulio Bragaglia mette in cartellone, presso il Teatro delle Arti di Roma, una commedia di Pesce intitolata Partita a carte. Sono questi anni di illusioni ma anche di delusioni. E tuttavia non si arrende. Di fatto Pesce viveva nella speranza che le sue opere potessero essere messe in scena nei grandi teatri di Milano e Roma. Nell’attesa si accontentava di rappresentare le sue commedie nel piccolo teatro comunale di Mola.

Pesce morì nel dicembre 1939 per un attacco cardiaco, mentre era intento a mettere in scena la sua commedia, La novella di Natale.

Nicola Fanizza


CENTRO DOCUMENTAZIONE PIERO DELFINO PESCE


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