Il testo della poesia narra la storia di Sarchiapone, un cavallo purosangue che viene venduto per pochi spiccioli ad un carrettiere dato che oramai i suoi diciott’anni di età lo hanno reso inutilizzabile come cavallo da calesse.
Nel periodo in cui vive nella stalla del suo nuovo proprietario incontra Ludovico, un asinello vecchio quanto lui che, durante le nottate passate insieme, gli racconta la realtà della vita.
Infatti, Ludovico fa aprire gli occhi al cavallo dicendogli che la sua vita da nobile animale è ormai giunta al termine e di non farsi illusioni, dato che la dama alla quale apparteneva, lo ha già sostituito con un cavallo più giovane. Inoltre, Ludovico fa capire a Sarchiapone che l’uomo è tra le bestie più crudeli e, come riprova di questo, gli fa notare che l’essere umano agisce spesso per fare del male al prossimo. -Sarchiapone, che fino all’incontro con l’asino credeva di poter avere una seconda occasione, rimane molto turbato da questa prospettiva e, un giorno, mentre si trova sotto il carrettino del suo padrone, deluso dalla vita si getta in un burrone per farla finita.
Antropologia del Cavaliere
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 05.11.2010)
Implacabili, si sono via via accumulati nel tempo (si approssima il ventennio) i materiali che ora ci presentano a tutto tondo la figura di chi ha dato il tono a questa fase: Silvio Berlusconi. Con una sorta di irresistibile perentorietà sono sempre più manifesti i tratti di una personalità in qualche modo emblematica di come oggi ci si possa affacciare sulla scena pubblica, conquistarla, segnarne i caratteri. Nasce da qui una nuova antropologia, che non è soltanto la somma e l’esibizione di antichi vizi italiani, ma è anche l’effetto di un loro impastarsi con la post-modernità del sistema mediatico, con la cancellazione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, con la personalizzazione estrema della politica.
Una volta di più, l’Italia come inquietante laboratorio, luogo di anticipazione e sperimentazione di modelli? È già avvenuto con Mussolini, che aveva sedotto anche le opinioni pubbliche di paesi democratici con la sua grinta. Oggi quelle opinioni pubbliche assistono sbigottite e, ahimè, divertite alla via italiana al "buon governo".
Aveva ragione il vecchio Marx quando diceva che i fatti e i personaggi della storia «si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Solo che si tratta di una farsa che ci attira il dileggio degli stranieri, e fa ridere ben poco gli italiani. E quelle parole, ricordiamolo, erano poste quasi in epigrafe di quel classico delle disavventure della democrazia che è "Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte", l’altro Bonaparte, non quel Napoleone al quale Berlusconi ebbe l’ardire di paragonarsi, annunciando per sé un luminoso futuro da legislatore.
Qui l’antropologia si tinge di megalomania, quella delle autorappresentazioni come salvatore del mondo, come consigliere indispensabile d’ogni capo di stato o di governo nel quale abbia la ventura d’imbattersi.
Chi incitava a cogliere nel berlusconismo i tratti dell’innovazione, oggi dovrebbe riflettere non tanto sulle modernizzazioni autoritarie del secolo passato, ma piuttosto sul modo di questa nuovissima modernizzazione all’italiana. Senza dubbio Berlusconi seppe cogliere la Repubblica nel momento della sua massima crisi e si pose come "federatore" delle forze che potevano opporsi al centro sinistra. Ma, indubbio maestro nelle campagne elettorali, non è stato capace di trasformarsi in uomo di governo. Sì che oggi non solo la sua federazione si sbriciola, ma si ritrova con Fini come avversario e Bossi come padrone.
Il fedele Fedele Confalonieri ne invoca ora costumi morigerati e lo incita a tornare alle origini. Impresa impossibile, perché proprio l’intreccio di troppi vizi privati e di nessuna virtù pubblica è all’origine della sua fortuna. Così, le due "modernizzazioni", quella craxiana e quella berlusconiana sembrano avere lo stesso esito - una eredità di macerie. Ma se vittima di Craxi fu solo il Partito socialista, oggi rischia d’esserlo la stessa democrazia italiana.
In realtà, Berlusconi ha portato a compimento quella mutazione genetica intravista da Enrico Berlinguer al tempo del craxismo trionfante, e che ora s’incarna in una nuova prepotente antropologia che tende a trasfondere una autobiografia personale nell’autobiografia di una nazione.
Se non ha governato, certamente Berlusconi ha trasformato il paese. Lo ha fatto con l’uso delle sue televisioni che facevano intenzionalmente regredire i telespettatori a fanciulli incolti; che li degradavano non a consumatori, ma a "consumati" dalla pubblicità (come scrive Benjamin Barber); che li consegnavano ad una informazione manipolata. Quando è "sceso in campo", aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo berlusconiano: l’appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere "sì" a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a "carne da sondaggio"; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l’"amore per le donne", ma le donne come suo personalissimo "logo".
Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola, di sottoporsi a qualche controllo. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano, fedeli o traditori. Della stessa verità, che modifica a suo piacimento.
Il senso dello Stato democratico è perduto, al suo posto troviamo lo Stato patrimoniale dove le risorse pubbliche sono nella piena disponibilità del sovrano. Uno Stato personale, dove vige la volontà del principe sciolto dalle leggi. E qui si coglie un altro tratto originario di questa antropologia. Quella dell’imprenditore, per il quale la democrazia si arresta ai cancelli della fabbrica. Quella del capo azienda, che seleziona le segretarie "di bella presenza".
Il caso Ruby è la sintesi, l’epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo. Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d’ogni regola. Si manifesta come rappresentante di una borghesia compradora, che ritiene di potersi impadronire di tutto ciò che è alla sua portata. È qui la ragione del suo successo, la nuova antropologia dell’italiano che non trova riscontro nelle descrizioni di Giulio Bollati o nell’antitaliano di Giuseppe Prezzolini?
Ma si fa pure strada la consapevolezza che un limite sia stato varcato, che non si possa più accettare ogni prepotenza. Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy (non mi pare sia stato ricordato il presidente della Repubblica francese Félix Faure, morto in un salone dell’Eliseo vittima delle cure di una antesignana di Monica Lewinski: lo aggiungo io, a buon peso). Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa. E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un "riscatto".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il Cavaliere e la strategia del camaleonte
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 22 novembre 2010)
Dopo il Caimano avremo il Camaleonte. L’animale che cambia il colore della pelle per muoversi con sicurezza in un ambiente diventato ostile ed attaccare il nemico. Se l’obiettivo di Berlusconi è rimanere al potere, deve solo trovare il modo di ricompattare con operazioni cosmetiche (di cui è maestro) le forze necessarie. E nel parterre politico italiano ce ne sono a sufficienza.
C’è una singolare contraddizione nelle analisi che da mesi enfaticamente annunciano la fine di Berlusconi. C’è incongruenza nelle conclusioni. Se il berlusconismo non è semplicemente espressione di una persona ma sintomo di una profonda mutazione della società, del costume e della mentalità diffusa presso ampi strati sociali, perché dovrebbe sparire d’incanto? Bastano davvero le senili sciocchezze personali del Cavaliere? Se dietro ad esse funziona sempre «il far finta di fare» (Fini) che consente il «fare i propri affari», che sta a cuore ai sostenitori di Berlusconi, perché dovrebbero abbandonarlo?
Basta che milioni di telespettatori assistano maliziosamente divertiti alla messa in berlina o al match di alcuni potenti, per segnalare un potenziale risveglio alternativo? Ma questa è semplicemente l’ultima versione mediatica di un antico (mal)costume italico. Ridere dei potenti e stare a guardare come va a finire, senza esporsi.
Dov’è il soprassalto morale dell’«altra» società, dov’è la fantomatica «società civile» con le sue energie sane e alternative? Che fanno i cattolici che sono la parte più consistente e qualificata della «società civile»? Ma di quali cattolici parliamo? Di quelli che condividono i giudizi severi di «Famiglia cristiana»? Una severità per altro che va in tutte le direzioni (anche contro il «vanitoso» don Gallo). O parliamo dei cattolici che sostengono le tesi di mons. Rino Fisichella, disposto a tutto comprendere e perdonare pur di avere nel berlusconismo una sponda antilaica e antisinistra? O semplicemente quei credenti (forse la maggioranza) che a Messa o fuori sono infastiditi da qualunque allusione considerata «politica»? Nella gerarchia poi sembra prevalere una mentalità iper-istituzionale: pur nei suoi espliciti rimproveri morali deve stare attenta a non mettere a repentaglio le risorse finanziarie e il sostegno in campo giuridico che le offre il governo più «compiacente» (parole di Berlusconi) mai avuto dopo il Concordato.
Molti alti prelati non sopportano l’idea di dover fare di nuovo i conti con i «cattolici adulti». Sin tanto che il mondo cattolico è diviso e politicamente opportunista, Berlusconi può stare tranquillo. Il Cavaliere è riuscito a creare o a saldare attorno a sé una nuova classe politica, reinventandola o riciclandola dai vecchi partiti, al punto che non si vede all’orizzonte una nuova classe politica alternativa. Questa infatti rischia di essere «ciò che resta» delle vecchie forze politiche nebulosamente orientate verso il centro. Per non parlare di ciò che resta della sinistra masochisticamente ripiegata su se stessa.
Rimane la Lega, ora diventata baluardo del berlusconismo. Strano destino, basato su un patto di reciproco interesse. A Berlusconi interessa la sopravvivenza politica, a Bossi sta a cuore il federalismo. Ma che cosa significhi concretamente questo progetto, non è chiaro. Lo ripetono anche quei pochi analisti che cercano seriamente di andare a fondo del progetto bossiano. In realtà i leghisti lo sanno benissimo: federalismo significa che «ci teniamoci i nostri soldi», «paghiamo meno tasse», «non dipendiamo più dalla burocrazia romana». Più chiaro di così...
Il problema adesso è che cosa è disposto a concedere su questi punti il governo, e soprattutto Tremonti. Bossi fa il gioco di sempre: sta con Berlusconi, ma insieme pensa al dopo; lo sostiene ma dice apertamente (a suo modo lealmente) che non condivide le sue opinioni. Vuole le elezioni perché è l’unico modo di tenere sulla corda gli elettori che vogliono il federalismo che non arriverà certamente da un governo che ha di mira la sola sopravvivenza.
Ma forse sottovalutano il camaleonte Berlusconi che diventerà più verde per mimetizzarsi con i leghisti, sarà azzurro per tenere attorno a sé il malconcio «popolo delle libertà» e sarà sempre bianco per rabbonire i cattolici di chiesa. Chi si aspettava la sua fine imminente, deve riaggiustare le previsioni.
L’italia del sottosuolo
di BARBARA SPINELLI *
Sono settimane ormai che l’annuncio è nell’aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l’Italia: il feeling, scrive l’Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.
In realtà c’è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all’epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto - non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando - bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l’antropologia dell’uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l’opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa. Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.
Un regime fondato sull’antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest’ultima a rendere anomala l’Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l’ha resa anomala è l’ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d’interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell’Italia.
Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l’avventura iniziata nel ’94. L’avventura è il risultato di un’opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l’idea di una nuova pòlis, un’altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni ’70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l’Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel ’74 si chiama Milano-2, diverrà l’impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull’individualismo. Su un’Italia che somiglia all’Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un’Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un’Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un’Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l’America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.
Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s’impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull’informazione e il conflitto d’interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l’essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell’informazione, fallirà.
Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l’intransigenza sul conflitto d’interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).
A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l’assicurazione che l’impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d’interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D’Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel ’96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia".
La verità l’ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d’interessi alla Camera, il 28-2-02: "L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel ’94 quando ci fu il cambio di governo - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d’interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell’Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel ’96. Non successe nulla. Nel luglio ’96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l’indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell’ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.
Se davvero si vuol uscire dall’anomalia, è all’idea di Sylos Labini che urge tornare: all’ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo ’57. D’altronde non fu Sylos a dire che l’ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un’intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l’Italia, non essendo l’Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c’è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.
* la Repubblica, 17 novembre 2010
Ma i disastri sono apocalittici. Strutture dello Stato stravolte e il popolo dei berluscones deciso a resistere per non perdere privilegi che immaginava eterni. Travestiti da cattolici o da liberali, adesso il pericolo sono loro
La caduta di B: 25 aprile? Ultimi giorni di Pompei? No, una farsa
di Raniero La Valle *
La politica vive anche di simboli. Quelli che sono stati evocati da politici e giornalisti per rappresentare la fine del potere di Berlusconi, alludono tutti a delle catastrofi. Il discorso con cui a Bastia umbra Fini ha chiesto le dimissioni del governo, è stato paragonato dai difensori del premier alla marcia su Roma: un colpo di Stato! I giornali che cercavano di descrivere la portata dell’evento, lo hanno paragonato al 25 luglio, quando solo la rivolta di ministri e gerarchi del duce poté provocare la fine del regime. Altri hanno assimilato il crollo del regime berlusconiano al 25 aprile, quando dopo la devastazione della guerra si dovette ricominciare tutto dalle macerie. I disastri culturali e ambientali hanno poi offerto facilmente il destro di richiamare gli ultimi giorni di Pompei, e le alluvioni del Veneto e del Salernitano, di cui il potere non si è accorto, sono state prese a simbolo di un governo allo sbando, incapace di lucrarci sopra come aveva fatto col terremoto dell’Aquila.
Questi simboli apocalittici tirati in ballo per raccontare un’ordinaria crisi politica, sono più eloquenti di molte analisi. Vuol dire trasportare in un clima da caduta degli dei, quello che in democrazia dovrebbe essere un normale cambiamento di governo. Ma questo dice fino a che punto il sistema politico-istituzionale è stato snaturato dagli inventori di nuove repubbliche. Per licenziare un presidente del Consiglio ricusato anche dai suoi, e ormai impresentabile in ogni sede, persino nei “forum” governativi dove si discute della famiglia, non dovrebbe esserci bisogno di passare attraverso convulsioni paragonabili alle più grandi catastrofi che il Paese ha subito; anche perché se è vero che la seconda volta le tragedie si presentano come farsa, a guardare la condizione in cui è precipitata l’Italia, si può dire che pur nella farsa di oggi la tragedia non manca.
Un sistema politico in cui il tramonto di un leader populista suscita questi traumi e si fa rappresentare da immagini e simboli della fine, è un sistema che non è sano, che non funziona, e che comunque è fallito. Questo è il vero tema che dovrebbe esplodere nella discussione politica, al di là del dibattito sulle vie d’uscita, su nuovi improbabili governi o sul tempo più adatto alle elezioni. Il bipolarismo così come è stato realizzato in Italia è sbagliato. Esso ha permesso che si realizzasse un circuito perverso tra Stato e società: una società che stava perdendo tutti i suoi punti di riferimento, politici, costituzionali, etici e religiosi, ha dato alimento alle ideologie antipolitiche della riduzione personalistica, maggioritaria, manichea del sistema istituzionale; e lo Stato, che a sua volta dà forma alla società, ha impresso in essa il marchio del conflitto, della disgregazione sociale, della irresponsabilità verso il bene comune e della violenza in tutta la scala dei rapporti pubblici e privati.
Se non si rimedia a questo, agendo sia nel senso del rinnovamento culturale e morale della società, sia nel senso della rigenerazione democratica dello Stato, non c’è futuro. Certo nessuno oggi si può illudere di guadagnare o di precostituirsi posizioni più favorevoli in questa crisi. Nessuno può riuscire a fare il suo gioco.
Il gioco deve ripartire da capo, richiamando in campo tutti i protagonisti, anche gli esclusi dal Parlamento e i milioni di elettori che le urne hanno perduto. Anche quanti ancora credono nel bipolarismo e nel privilegio della governabilità sulla rappresentanza, dovrebbero comprendere che, anche ai loro fini, occorre una nuova partenza. Perciò sarebbe necessario che ora si eleggesse un Parlamento senza premi di maggioranza e sbarramenti, ma con una legge proporzionale che permettesse di impostare la prossima legislatura come una legislatura costituente, in cui, oltre a provvedere al dissesto economico e occupazionale, si decidesse quale debba essere l’orientamento del sistema politico, in una recuperata coerenza con la Costituzione, e quale debba essere la definitiva legge elettorale. Ciò comporterebbe che ora si andasse alle urne non con la legge Calderoli, che è la maggiore responsabile dell’attuale rovina.
Ma se una modifica della legge “porcellum” non fosse possibile per il rifiuto di Berlusconi a rinunziarvi, allora attraverso una larga intesa tra le altre forze politiche potrebbe essere praticato un uso alternativo della stessa legge Calderoli. Essa infatti nel suo impianto fondamentale è una legge schiettamente proporzionale, e potrebbe essere fatta funzionare senza che scattino le ipotesi del premio di maggioranza e dei proibitivi sbarramenti per le forze politiche minori, e senza alcuna investitura populistica di un “sovrano del popolo”.
Raniero La Valle è presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Ha diretto, a soli 30 anni, L’Avvenire d’Italia, il più importante giornale cattolico nel quale ha seguito e raccontato le novità e le aperture del Concilio Vaticano II. Se ne va dopo il Concilio (1967), quando inizia la normalizzazione che emargina le tendenze progressiste del cardinale Lercaro.
La Valle gira il mondo per la Rai, reportages e documentari, sempre impegnato sui temi della pace: Vietnam, Cambogia, America Latina. Con Linda Bimbi scrive un libro straordinario, vita e assassinio di Marianela Garcia Villas (“Marianela e i suoi fratelli”), avvocato salvadoregno che provava a tutelare i diritti umani violati dalle squadre della morte. Prima al mondo, aveva denunciato le bombe al fosforo, regalo del governo Reagan alla dittatura militare: bruciavano i contadini che pretendevano una normale giustizia sociale.
Nel 1976 La Valle entra in Parlamento come indipendente di sinistra; si occupa della riforma della legge sull’obiezione di coscienza. Altri libri “Dalla parte di Abele”, “Pacem in Terris, l’enciclica della liberazione”, “Prima che l’anno finisca”, “Agonia e vocazione dell’Occidente”. Nel 2008 ha pubblicato “Se questo è un Dio”.
Promotore del “Manifesto per la sinistra cristiana” nel quale propone il rilancio della partecipazione politica e dei valori del patto costituzionale del ’48 e la critica della democrazia maggioritaria.
* "Domani", 15-11-2010: http://domani.arcoiris.tv/la-caduta-di-b-25-aprile-ultimi-giorni-di-pompei-no-una-farsa/
Il tramonto del demiurgo
È sempre più diffusa la consapevolezza di esser di fronte non solo al declino di un leader o di una proposta politica ma all’esaurirsi di una fase intera della storia del Paese, iniziata già prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ma quando era iniziata, cosa ha significato nel vivere collettivo, quali sono i rischi e le opportunità che il suo declinare ci pone di fronte?
di Guido Crainz (la Repubblica, 12.11.2010)
Alla lunga distanza appare sempre più chiaro il significato fortemente simbolico della cerimonia funebre in onore di Aldo Moro, nel maggio del 1978: venne forse sepolta allora un’intera stagione della Repubblica. Terminò forse allora la fase in cui gli aspetti positivi del "sistema dei partiti", il loro essere protagonisti reali dello sviluppo nazionale avevano sostanzialmente prevalso su quelli negativi. Avevano in qualche modo offuscato o lenito i processi distorsivi che si erano delineati già negli anni sessanta e settanta. Nella stretta degli anni di piombo, e nel contemporaneo venir alla luce di gravi processi di corruzione e di degenerazione delle istituzioni, quella fase stava volgendo ormai al termine e nella sua agonia prendevano sempre più corpo nuovi modi di essere della politica e della società. Nello scenario che allora si aprì Bettino Craxi fu l’alfiere più deciso e consapevole di una trasformazione destinata a coinvolgere largamente il sistema dei partiti, in sintonia profonda con pulsioni presenti nell’insieme del Paese. E non capiremmo né il "craxismo" né il suo legame con ciò che è venuto dopo senza por mente alla più generale mutazione degli orizzonti e dei comportamenti collettivi che si delinea negli anni ottanta. Quegli anni ci appaiono non tanto espressione e simbolo della nostra modernità -come spesso si dice- quanto della pessima qualità etica e civile di essa. Vedono il prepotente diffondersi di un modo di "essere italiani" che è sempre più debolmente contrastato da altri modelli, da altri modi di intendere l’appartenenza nazionale, pur presenti e operanti. E’ nell’insieme della società che viene sempre più erosa l’idea di "bene comune": a questo rinviano sia l’impetuoso irrompere della Lega delle origini sia l’esteso verminaio che le indagini di "Mani Pulite" rivelano.
Anche allora, anche agli inizi degli anni novanta la riflessione sulle tragedie e sulle macerie di un sistema politico e di un Paese fu presto accantonata, nel diffondersi di nuovi miti e di nuove illusioni. Nella aspettativa, se non nella certezza, di un nuovo "miracolo italiano" destinato a fiorire su quella macerie. La demonizzazione della "prima repubblica" permetteva di rovesciare sul sistema dei partiti ogni responsabilità del disastro mentre la discesa in campo di Silvio Berlusconi offriva riferimento e approdo a quei modelli di egoismo sociale e di sprezzo delle regole, a quelle modalità di affermazione individuale, a quelle visioni di sé e del mondo che si erano consolidate negli anni ottanta. Non aveva dunque radici fragili l’Italia che si strinse attorno al Cavaliere, e naturalmente la sua ampiezza e il suo spessore sono fortemente cresciuti in questi anni. Nonostante i limiti e il profilo non eccelso del premier, nonostante il periodico offuscarsi del suo carisma.
Non riusciamo a spiegare il lungo permanere di questa egemonia solo con le inadeguatezze (enormi) dello schieramento che gli si è contrapposto. Solo con l’incapacità del centrosinistra di contrapporre modelli di "buona politica" al dilagare di un populismo senza regole. Nel momento in cui la crisi del "berlusconismo" appare irreversibile non andrebbe ignorato che per un’ampia parte degli italiani -piaccia o non piaccia- Silvio Berlusconi era apparso come il demiurgo di una nuova fase. Aveva annunciato una nuova era, riproponendo quell’ (irresponsabile) ottimismo degli anni ottanta alla cui ombra erano stati erosi pilastri essenziali del modo di essere e della legalità del Paese. Di nuovo una illusione, certo. Una nuova, rassicurante ideologia che ha dato ulteriore alimento ad alcuni dei modi peggiori di "essere italiani". Una illusione sinceramente condivisa, però, da consistenti settori sociali che hanno poi visto crollare progressivamente quelle aspettative e sono esposti ora al disincanto se non al rancore, e alla ulteriore chiusura negli egoismi individuali e di ceto.
Un "crollo delle aspettative" di diversa natura ma altrettanto profondo segna anche quella parte del Paese che a lungo ha tentato di opporsi allo "spirito del tempo". Quella che ha sperato in un diverso futuro e per esso si è mobilitata più volte, in differenti e molteplici forme. E ogni volta ha visto andare deluso quell’impegno, ha visto scolorire la speranza che il centrosinistra sapesse raccogliere adeguatamente quella volontà e quella spinta. Sapesse proporre un’alternativa credibile. Non è paradossale allora che al declinare della maggioranza non corrisponda oggi una crescita di consensi per l’opposizione, né che appaiano sfuocate tutte le ipotesi e le formule politiche che sono state evocate in questo periodo.
Per tentare di uscire dal fango attuale, per rimettere in moto energie positive, occorre indubbiamente una larga alleanza, convergente su alcuni obiettivi essenziali (in primo luogo il ripristino delle regole e uno sviluppo equilibrato, con priorità a istruzione e lavoro), ma su quali basi? È stata evocata una "unità da Cln", ma al di là di ogni altra considerazione il paragone è fuorviante: quei partiti erano legittimati dalla Resistenza, quelli attuali sono il risultato di anni di involuzione politica. Per iniziare a porvi argine dovrebbero dare fortissimi segnali di coraggio, di lungimiranza e di discontinuità. Cominciando ad esempio col riconoscere l’esigenza di una leadership autorevole - un candidato premier e una possibile squadra di governo da lui scelta, come vuole la Costituzione- caratterizzata da un programma condiviso ma largamente autonoma dai loro quotidiani veti e vincoli. Certo, sarebbe un colpo d’ala oggi quasi impensabile, ma senza un grande colpo d’ala sarà molto difficile vincere un confronto elettorale non lontano. Soprattutto, sarà molto difficile convincere realmente il Paese. Infondergli la fiducia, le motivazioni e le speranze necessarie per invertire una lunga deriva. Per riprendere il cammino.