Questa nota riprende il discorso già avviato in
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Continuare a dividere la vita e le opere di Immanuel Kant in due, la fase “precritica” e la fase “critica”, è - storiograficamente - un ‘delitto’, solo un modo per impedir-si e negar-si la comprensione della unitarietà della sua riflessione (scientifica e filosofica, teologica, politica, antropologica, ecc.) e le caratteristiche inedite della sua stessa soggettività. Basta prendere in considerazione solo una delle più importanti opere degli inizi, per comprendere quanto sia necessario e vitale togliere i paletti tra le due fasi.
La “Storia universale della natura e teoria del cielo ovvero Saggio sulla costituzione e sull’origine dell’intero universo secondo i principi newtoniani” è l’opera di un Autore (pubblicata anonima, nel 1755, a Koenigsberg) che ha appena compiuto trentuno anni. Già solo il titolo dà da pensare - e molto!
Se poi si considera che nella dedica (al di là della retorica del caso e del tempo) “A Sua maestà Serenissima e Potentissima / Al Mio Signore / Federico/ Re di Prussia (...)”, “L’Autore” si dichiara addirittura “per tutta la vita” e “con la più profonda devozione, umile servo” della “Mia Reale Maestà”, emergono altre indicazioni - e si aggiungono altre complicazioni (per una lettura più attenta!).
Nell’opera, dopo la “Prefazione” e l’indice del “Contenuto dell’intera opera”, segue la “Parte Prima”, che è titolata “Abbozzo di una costituzione delle stelle fisse ovvero molteplicità dei sistemi stellari” ed è accompagnata da un motto, ripreso dal “Saggio sull’uomo” di Alexander Pope: “Volgi lo sguardo al nostro mondo, scorgi la / catena d’amore che lega la terra al cielo”. Sono due versi famosi sovraccarichi di storia e di teoria - al passato: per il richiamo ai primi versi del canto I - “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove” - e, all’ultimo verso del canto XXXIII del “Paradiso” di Dante - “L’amore che muove il Sole e le altre stelle”; al futuro: per il richiamo al prezioso lavoro di Arthur O. Lovejoy, “La Grande Catena dell’ Essere” (“The Great Chaim of Being. A Study of a Histoy of an Idea”, del 1936). La cosa non è affatto di poco conto: nella “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel tentativo (nel saggio) di Kant di andare oltre Newton - sia dal punto di vista scientifico sia filosofico-teologico, Pope accompagna Kant fino alla fine. La “Conclusione” dell’opera - non è male ricordarlo e tenerlo presente - è intitolata: “Il destino dell’uomo nella vita futura”.
Il messaggio è abbastanza chiaro. Chi scrive, parla da uomo a uomo e da sovrano a sovrano e invita (se stesso e) il suo stimato “Signore / Federico / Re di Prussia” ad andare avanti e oltre sulla strada della scienza (Newton) e della saggezza (Pope) - con Newton e con Pope, senza separarli e senza assoggettare l’uno all’altro! L’indicazione di Galilei (se pure mai citato) è tra le righe ed è al fondamento del discorso di Kant: non confondiamo i “due” Libri e non confondiamo “come va il cielo” con “come si va in cielo”!
Quanto questa indicazione di Kant fosse carica di futuro e tuttavia difficile da seguire, lo dimostra subito Hegel nel 1801, con la sua “Dissertatio de orbitis planetarum” (cfr.: Hegel, Le orbite dei pianeti, a c. di Antimo Negri, Laterza, Bari 1984).
Dopo pochi anni dalla morte di Federico II di Prussia, e con Kant ancora in vita (muore nel 1804), egli dimentica e stravolge la lezione di Keplero (che aveva accolto la lezione e riconosciuto a pieno la vittoria di Galilei, con un più che significativo “Vicisti, Galilaee!”), ne riprende la vecchia indicazione di coniugare geometria platonica e Santissima Trinità cattolico-imperiale e lo arruola contro la nuova scienza, contro Newton e contro lo stesso Kant.
Il ‘Napoleone’ della nuova filosofia tedesca e della ’nuova’ monarchia prussiana si prepara alla grande galoppata con la sua sostanza-soggetto. Nel vero-intero della sua “Fenomenologia dello Spirito” e della sua “Scienza della Logica” dell’Assoluto non solo la “libertà dei pianeti” ma anche e soprattutto la libertà degli uomini sarà ‘messa a posto’.
Chi scrive e parla ora non è più un uomo (e un sovrano) che parla e scrive ad altri esseri umani (e sovrani), ma è la stessa Anima del mondo: Dio si è riconciliato con il mondo, con se stesso, e ora parla “da solo a solo”. Come già il giovane Holderlin, Hegel si avvia a diventare il teorico ateo-devoto del ’nuovo’ Cristo - dell’Uomo supremo, alla Emanuel Swedenborg!
(*). Immanuel Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, a c. di Giacomo Scarpelli e Stefano Velotti, Bulzoni Editore, Roma 2009.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi”; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così: “l’idea elementare è radicata nella psiche; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145); si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali: una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive: “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung: il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo:
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione:
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio”; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione: vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico:
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI" : NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Scienza. La Luna vista da Leonardo
Pochi hanno messo in connessione i 50 anni dell’Apollo 11 con i 500 anni del genio da Vinci che tra i primi studiò e disegnò il fenomeno della ’luce cinerea’
di Flavia Marcacci (Avvenire, martedì 19 novembre 2019)
Signora dell’anno 2019 è la Luna: si celebrano i 50 anni della conquista del suo suolo. Eventi e pubblicazioni si stanno succedendo rapidamente, ricordando quanto avvenne in quel frenetico 1969, che tra la protesta di Jan Palach e la nascita del progenitore di Internet Arpanet fu fitto di molti fatti decisivi per la grande e piccola storia. Eppure, il 20 luglio i passi silenziosi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna ebbero il potere di fermare ogni altro vocio e ogni altra preoccupazione.
Il potere di vedere (video) a distanza (tele) promesso dallo strumento che stava cambiando la società, la televisione, giungeva a un impensabile lontano: la potenza della tecnica veniva consacrata, quasi riscattando i timori che era andata suscitando dopo l’esperienza atomica.
La nostra Terra deve molto alla Luna, e non a caso essa è stata nei secoli un oggetto privilegiato per la scienza, la filosofia e l’arte. Il nostro satellite è stato il più vicino tra gli oggetti lontanissimi, la porta d’accesso al cielo deputato invalicabile e tramite esso finalmente accessibile. La luna fu scrutata da Leonardo da Vinci (1452-1519), altro protagonista del 2019, poiché del genio toscano ricorrono i 500 anni dalla morte. Pochi hanno notato la convergenza tra le due ricorrenze.
Leonardo aveva disegnato il satellite terrestre, dando nota del fenomeno della ’luce cinerea’ nel Codice Leicester (foglio 2 r), come ricordava fin dagli anni Settanta il noto studioso Carlo Pedretti (1928-2018). Il fenomeno si osserva tra novilunio e prima fase e nell’ultima fase: può capitare così che la luce del Sole venga riflessa dalla Terra e vada a illuminare una piccola porzione in ombra del satellite, in modo da renderlo visibile anche all’alba. Per lo stesso fenomeno, Armstrong e Aldrin dalla Luna avrebbero potuto osservare un bel ’chiaro di Terra’, con il nostro pianeta stabile nel cielo lunare (altezza in dipendenza dalla latitudine).
A completare la spiegazione della luce cinerea fu Galileo Galilei, chiamandola anche «candore lunare» a intendere le sfumature grigiastre, talvolta tendenti al verde o all’azzurro e capaci di conferire una leggerezza impercettibile al corpo celeste. Il Pisano diede alla Luna l’altro grande merito di segnare l’inizio dell’astronomia in senso moderno (ovvero usando strumenti), quando con il ’perspicillo’ (il telescopio, da perspicio, guardare in profondità) ne scoprì cavità e valli nel 1609 poi riprodotte nei famosi disegni pubblicati nel Sidereus nuncius (1610): da allora in poi, la scienza non sarebbe più tornata indietro.
Si avviò così la pratica di descrivere la Luna: la selenografia vantò tra i suoi adepti molti italiani, che raramente trovano un posto nelle storie italiane della scienza destinate al grande pubblico. Solo dopo Galileo il noto gesuita Cristoph Scheiner, docente a Roma tra il 1624 e il 1633, propose una delle prime mappe lunari (1614); dopo di lui fu la volta del confratello Giuseppe Biancani (1620).
Furono però soprattutto il bolognese Francesco Maria Grimaldi e il ferrarese Giovanni Battista Riccioli, entrambi ancora gesuiti, ad avere il merito di produrre gran parte della nomenclatura lunare che usiamo tutt’oggi. Il loro lavoro fu pubblicato nell’Almagestum novum ( 1651) e si dice che fu merito essenzialmente di Grimaldi, il quale compì la maggior parte delle osservazioni. I diritti d’autore sono però difficili da stabilire, essendo i due strettissimi collaboratori e Grimaldi una sorta di allievo di Riccioli. Ciò che conta è che sul suolo lunare essi impressero nomi celebri, molti dei quali già adoperati poco tempo prima dagli astronomi Michael F. van Langren e Johannes Hevelius (Jan Heweliusz): i due studiosi italiani ripresero le prime nomenclature per renderle più sistematiche e razionali. I crateri, le terre e i mari lunari furono battezzati con il nome di personaggi antichi, nell’emisfero nord, e moderni, nell’emisfero sud.
Per questo motivo oggi sulle mappe lunari troviamo memoria di astronomi (da Tolomeo e Ipparco a Copernico e Biancani), di santi e sante (da san Teofilo e san Cirillo a santa Caterina da Siena), di filosofi (da Anassimandro a Platone).
Guardare alla luna, però, non era utile solo per descriverla. Si cercava di comprendere la natura dei cieli (cf. La Lune aux XVIIe et XVIIIe siècles, edited by C. Grell and S. Taussig, Brepols, Turnhout, 2013). Nel Seicento alcuni pensavano, ad esempio, che il termine ’luna’ derivasse da lucuna (lux, luce e una, una) a intendere che la Luna fosse l’unica a essere sempre illuminata dal Sole. La Luna aveva anche un ruolo sociale rilevante, perché i suoi ritmi mensili andavano calcolati insieme a quelli del Sole per ottenere il calendario: fu proprio la sfasatura tra essi che portò alla grande riforma di papa Gregorio XIII.
Oltre alla cosmologia e alla scienza calendrica, il satellite della Terra stimolava anche il mito e la poesia. Gli appellativi del nostro satellite erano così tanti che è difficile elencarli: dal greco Selene a indicarne lo splendore, all’ebraico Lebana a richiamarne la bianchezza; da Artemide, Selene ed Ecate, dee che custodivano il grembo del corpo celeste nelle sue varie fasi, fino alla dea ’triforme’ citata da Cleomede e Virgilio.
La Luna non andava soltanto descritta, ma scritta. La ricchezza delle fantasie lunari di Luciano di Samosata (II sec. d.C.) ebbe una certa fortuna in epoca rinascimentale, probabilmente avvantaggiata dalla diffusione del fascino per i mirabilia e i fatti immaginati e prodigiosi: l’Icaromenippo proponeva il viaggio di Menippo sulla Luna, per giungere da lì fino alla casa degli dei. Su tutti non si può evitare di pensare all’Astolfo sulla Luna di Ludovico Ariosto, fino alle ipotesi di John Wilkins protese all’eventualità di abitanti sulla Luna (The discovery of a world in the moone, 1638).
La Luna era in grado di evocare fantasie, sentimenti ed emozioni, attingendo da ciò che nell’essere umano vi è di più profondo. Probabilmente ne tennero conto coloro che volevano solo descriverla fino a intravedere sul suo suolo i luoghi esistenziali della crisi, della siccità, della tranquillità, della serenità e della fecondità. Per questo nelle sue regioni si trovano la ’Terra della sterilità’ e la ’Terra della Vita’, il ’Mare della Crisi’ e il ’Mare della Tranquillità’.
Dai tempi di Leonardo e della selenografia torniamo così ai nostri tempi. Proprio il Mare della Tranquillità divenne famoso cinquant’anni fa, quando allunarono nei suoi pressi gli uomini della Missione Apollo 11. La Luna, lontana, scrutata, sognata era stata raggiunta. Il satellite forniva all’umanità l’ennesimo servizio, facendosi solcare da da orme umane sui luoghi della Tranquillità, forse proprio quelli a cui ambisce più profondamente ogni anima e dove la scienza dovrebbe contribuire ad avvicinarsi.
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.... *
Plutarco, il maestro ripudiato dallo storicismo
di Maurizio Morini (Ritiri filosofici, 05.05.2019)
Plutarco è uno degli scrittori antichi di cui ci è pervenuto il maggior numero di scritti. Nato a Cheronea nella Grecia centrale, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo, Plutarco ha esercitato un’influenza enorme soprattutto nel periodo umanistico e rinascimentale tanto da essere riconosciuto come vero e proprio maestro da Montaigne ed Erasmo, Shakespeare e Bacone, Montesquieu e Rousseau. La sua opera più famosa, Le Vite parallele, biografie dei personaggi più famosi dell’antichità, è stata per lungo tempo fonte di ispirazione e notizie storiche. Tuttavia, a partire dalla metà del XIX secolo, Plutarco ha visto improvvisamente spegnere la sua fama fino ad essere prima accantonato e poi dimenticato.
Positivismo e storicismo prima, ideologie totalitarie e liberticide poi, hanno messo in secondo piano una filosofia che faceva della vita buona e della saggezza il suo centro. In nome di un auspicato “ritorno a Plutarco”, la Bompiani ha pubblicato nel 2017 la prima traduzione italiana completa dei Moralia, opera che raccoglie un’estesa trattatistica di carattere filosofico, pedagogico, religioso e di scienze naturali in cui non mancano saggi e brevi componimenti che affrontano il rapporto dei filosofi con la politica.
Il governo di se stessi prima condizione per governare
I testi di Plutarco sono un ricettacolo di osservazioni, consigli e massime nate spesso da piccoli episodi tratti dall’esperienza quotidiana di uomini impegnati nella cura degli affari pubblici. Il breve saggio Chi governa deve sapere prima di tutto governare se stesso inizia con l’osservazione secondo cui «nulla in natura è più orgoglioso, scostante e ingovernabile di un uomo che presuma di possedere la felicità». Se il trattato verte sulla necessità di ascoltare la ragione, in modo che il governante si ponga in sintonia con la provvidenza allontanando da sé gli istinti peggiori, è anche vero, riconosce Plutarco, che è difficile che i governanti ascoltino, presi come sono dal governo delle emozioni e dall’idea secondo la quale la ragione possa mettere a repentaglio la loro autorità. Non solo chi non riesce a controllare le proprie passioni, ma anche persone rozze e prive di cultura, nascoste dietro maschere di apparente sapere, giungono spesso al governo dello Stato. Tuttavia, è possibile riconoscere tal genere di individui utilizzando due paragoni. Il primo è quello del vaso vuoto: così come una volta riempiti, se marci o piene di crepe, i vasi cominciano a colare da tutte le parti andando facilmente in malora, così gli uomini privi di spessore culturale non riusciranno a mantenere quanto promesso finendo per rovinarsi da soli. Il secondo paragone è quello delle statue: chi ha più cultura ha peso e riesce a mantenersi, chi non ce l’ha non riesce a reggersi e finisce per rovesciarsi da sé.
I criteri di cui tener conto per entrare in politica
«La politica è come un pozzo: chi vi cade in modo accidentale è preso da angosce e rimorsi; chi vi scende con tranquillità affronta gli impegni con cura e serenità». Con questa metafora contenuta nei Consigli politici, Plutarco indica quattro elementi da considerare per chi vuole entrare in politica. Il primo è la motivazione, la quale non dev’essere fondata né sul capriccio né sulla vanagloria ma su una costante preoccupazione per il bene pubblico. In secondo luogo, bisogna essere consapevoli del carattere dei propri concittadini, in quanto l’ignoranza dei costumi e dei modi di vita porta a fallire il bersaglio e a cadute non meno rovinose di quelle che si hanno nei rapporti di amicizia con un re quando il suo favore viene meno. Importante è poi per il politico lo stile di vita perché, ricorda Plutarco, il popolo è attento ad ogni dettaglio e pronto a giudicare. Tutto ciò non deve far dimenticare infine l’efficacia della parola che si affianca al carattere della persona nella capacità di persuasione: l’arte di guidare gli uomini consiste nel convincere con l’eloquio, mentre addomesticare le masse con espedienti, come banchetti o elargizioni, è come pascolare animali privi di ragione.
Fine dell’educazione politica per Plutarco consiste nel rendere i cittadini ubbidienti per la semplice ragione che in ogni città i governati sono più numerosi dei governanti: di conseguenza, la scienza più bella è quella di saper ubbidire a chi detiene il potere. Le dinamiche del rapporto tra governanti e governati sono un tema particolarmente caro al filosofo: ad esempio, il popolo rinuncia alla propria forza quando cede alle lusinghe del denaro, così come gli stessi politici causano la propria rovina nel momento in cui, diremmo oggi, diventano populisti, solleticando il popolo nei suoi più bassi istinti con il risultato di renderlo soltanto più arrogante.
Nel breve opuscolo I filosofi devono dialogare soprattutto con i potenti, la riflessione di Plutarco si colloca su di un piano, per così dire, di massimizzazione dell’efficienza. La tesi del saggio consiste nell’idea che rivolgersi all’uomo politico, cioè alla persona che più di tutte più influenzare gli altri, costituisce per il filosofo il modo più efficace per diffondere la saggezza che deriva dalla filosofia: in questo modo l’impegno per l’edificazione altrui è più bello del ritrarsi in disparte.
Il declino della filosofia antica e il ritorno a Plutarco
Definito da Federico II di Prussia come l’antimachiavelli, Plutarco e le sue opere rientrano in un certo qual modo nella tradizione degli specula principis, termine con il quale si designa tutta quella trattatistica rivolta a re e governanti finalizzata alla loro educazione morale. Un colpo a questa letteratura fu dato da Machiavelli e dai suoi consigli rivolti al principe per la gestione cinica e spregiudicata del potere politico. Tuttavia, non fu l’acutissimo fiorentino a provocare il declino di Plutarco. Il suo vero affossatore fu Hegel ed il principio secondo cui la filosofia politica deve astenersi dal dare consigli allo Stato e interpretare il momento storico come qualcosa di razionalmente fondato, senza alcun riferimento a ciò che è bene o a ciò che è male. Lo storicismo aggravò il divario tra etica e politica in base all’idea secondo la quale è necessario distinguere tra giudizi di fatto e giudizi di valore, in nome di singole Weltanschauung alle quali riconoscere piena legittimità. Pretendendo di essere il continuatore dello scetticismo, lo storicismo ha demolito qualsiasi posizione che pretenda di rappresentare una dimensione di universalità: così facendo, la filosofia, specialmente quella antica, diventa qualcosa di assurdo.
Lo storicismo diventa la maschera del dogmatismo grazie soprattutto, come osservava Leo Strauss, a quella forma di storicismo radicale costituito dall’ermeneutica: se tutto è interpretazione, viene negata ab origine qualsiasi ricerca di un fondamento e diventa concreta la frase di Foucault secondo cui «un tempo c’erano i maestri di verità, oggi la volontà di verità». Lessing ripeteva che lo storicismo è l’inclinazione ad identificare il traguardo del nostro pensiero con il punto in cui ci siamo stancati di pensare: insieme a dogmatismo e relativismo, esso ha formato una triplice alleanza che ha liquidato Plutarco e la saggezza della filosofia antica. In un tempo, come quello attuale, in cui ci sarebbe bisogno di moderazione e prudenza politica, la lettura di un autore classico come Plutarco costituirebbe il rimedio a molti mali.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Nello spazio
L’avventura dell’universo
di John D. Barrow
Professore a Cambridge *
Per millenni i filosofi, gli astronomi e gli scienziati hanno concepito l’universo come una sorta di palcoscenico, un’arena fissa, immutabile, nella quale i pianeti, le stelle e altri corpi celesti erano stati messi in moto. Albert Einstein ha spazzato via tutto ciò nel 1916 con la teoria della relatività generale: mostrò che lo spazio e il tempo dovevano essere considerati entità dinamiche con una struttura, un tasso di cambiamento e un flusso plasmati dai contenuti materiali dell’universo. Invece di un palcoscenico fisso, lo spazio è semmai un trampolino, foggiato dal movimento della materia e dell’energia su di esso.
La cosmologia prima di Einstein mi fa venir in mente un ramo della storia dell’arte. Potevamo dipingere qualunque immagine dell’universo ci piacesse: poteva essere un cubo o una gigantesca piramide cosmica o una successione di tartarughe sistemate l’una sopra l’altra, e nessuno era in grado di dimostrare il contrario. Ma Einstein ha anche trasformato la cosmologia in una scienza, fornendo un insieme di equazioni matematiche le cui soluzioni (e ce n’è un numero infinito) descrivono tutte quante interi universi possibili. Queste descrizioni matematiche fanno previsioni che gli astronomi vanno poi a controllare con telescopi e satelliti.
Per nostra fortuna, particolari soluzioni delle equazioni di Einstein ci danno un’ottima approssimazione del nostro universo, mostrano un comportamento molto semplice e ci consentono di fare previsioni verificabili sulla natura del cosmo. Per fortuna, il nostro universo sembra aver evitato alcune delle complessità permesse dalle equazioni. Poco a poco abbiamo imparato molte cose su come l’universo è evoluto da un passato semplice alla complessità delle galassie, delle stelle e dei pianeti che vediamo oggi. Strada facendo, abbiamo anche trovato connessioni inaspettate tra le proprietà dell’universo e le condizioni necessarie perché la vita ci esista e continui ad esistere.
La zona abitabile
Dopo Einstein, il lavoro di Georges Lemaître, Edwin Hubble, Milton Humason e altri ha dimostrato che l’universo è davvero in uno stato di cambiamento generale, si espande in continuazione come un grosso pezzo di pasta lievitata messa al forno.
Se tornassimo indietro nel tempo a pochi milioni di anni dopo il Big Bang, troveremmo un universo migliaia e migliaia di volte più piccolo e più caldo di quello odierno. In quelle condizioni estreme, potevano esistere solo protoni, elettroni, fotoni e altre particelle elementari. Non ci sarebbero strutture: niente galassie, niente stelle, niente pianeti e niente gente come noi.
Dopo un’espansione di centinaia di migliaia di anni, l’universo si raffredda abbastanza perché i protoni catturino elettroni e formino così degli atomi e poi delle molecole semplici. Pochi miliardi di anni ancora, e parte di quella materia accumula altra materia e si condensa (attraverso processi complessi che oggi non capiamo fino in fondo) in stelle, galassie, ammassi di galassie e infine in sistemi planetari, compreso il nostro sistema solare.
Da quel momento, le previsioni a lungo termine si fanno piuttosto cupe. Nei prossimi venti miliardi di anni tutte le stelle, anche il Sole, finiranno per esaurire il proprio combustibile e si estingueranno, trasformando l’universo in un grande cimitero di mondi morti. Esistiamo perciò in un intervallo propizio della storia cosmica, in una zona abitabile del tempo per così dire, dopo la formazione delle stelle, ma prima che si spengano tutte. Il vantaggio della vecchiaia
Il fatto stesso che esistiamo in questa zona è inestricabilmente legato alle proprietà più fondamentali dell’universo, prima fra tutte la sua età estrema.
Per quanto riguarda gli elementi, l’universo giovane era composto quasi esclusivamente da idrogeno (75%) ed elio (25%), con soltanto minuscole tracce di tutto il resto. Il carbonio, l’ossigeno e gli altri elementi pesanti che formano la vita di oggi non sono comparsi pronti per l’uso all’inizio dell’universo, ma sono stati forgiati nelle fornaci di stelle morenti, dove gli atomi di elio si sono combinati in berillio, il berillio con altro elio per formare carbonio, il carbonio con l’elio per formare ossigeno e così via fino a formare tutti gli elementi più pesanti.
Ci sono voluti miliardi di anni per completare le reazioni che hanno prodotto i materiali da costruzione della biochimica e della complessità. Non dovremmo quindi essere sorpresi di ritrovarci in un universo con la veneranda età di 14 miliardi di anni, universi molto più giovani non avrebbero avuto il tempo di produrre gli ingredienti di base della complessità biochimica.
Né dovrebbe sorprenderci la dimensione enorme dell’universo. La sua immensità ne rispecchia l’immane vecchiaia. In effetti, non potremmo esistere in un universo significativamente più piccolo del nostro. Un universo grande come la Via Lattea, con i suoi miliardi di stelle e di pianeti, forse ci sembra una scena abbastanza ampia perché la vita emerga, ma avrebbe poco più di un mese, appena il tempo per ricevere il conto della carta di credito, figurarsi per evolvere una vita complessa.
Si sente dire spesso che in un universo così vasto, di sicuro non ci sarà vita soltanto sulla Terra. Può anche darsi, ma resta vero che l’universo dovrebbe avere le dimensioni attuali perfino per sostenere la vita in un avamposto solitario. D’altronde il vuoto sconfinato dell’universo non deve neppure suggerirci che è profondamente antitetico alla vita.
(traduzione di Sylvie Coyaud)
* Il Sole - 24 Ore, Domenica, 27.05.2018
COSMOLOGIA E CIVILTA’. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO.... *
Polemiche
SALONE DEL LIBRO
Carlo Sini: una cultura dispersa è l’anticamera del conformismo
Il filosofo denuncia: nelle scelte dell’editoria le logiche commerciali prevalgono sui criteri scientifici
di Cristina Taglietti (Corriere della Sera, 12.05.2018)
TORINO Niente come una fiera, e il Salone del Libro in particolare, con il suo corollario di voci e rumori, a volte di musiche assordanti, sembra incarnare meglio lo spirito del nostro tempo votato, dice il filosofo Carlo Sini, alla dispersione. Eppure, nella vetrina dei saperi, dove lo spazio delle riflessione sembra compromesso, gli incontri filosofici hanno un pubblico tenace e neppure tanto piccolo. Molti visitatori, ieri, sono rimasti fuori dalla lectio magistralis di Sini, ma anche dall’incontro in cui Danco Singer, del Festival della Comunicazione di Camogli, ha messo a confronto lo storico Alessandro Barbero e il filosofo Maurizio Ferraris, su un tema, Visioni, che guarda avanti verso il futuro e indietro verso il passato incrociando i saperi.
Il pubblico che segue gli incontri filosofici ha caratteristiche molto peculiari. Si va alla fiera come a lezione, con il quaderno degli appunti e i testi dei filosofi, non soltanto quelli dei relatori: La scienza della logica di Hegel, le opere di Platone, l’immancabile Derrida sono alcuni dei titoli visti tra le mani. E alla fine molti chiedono, più che il firmacopie, un supplemento di spiegazione, l’approfondimento su un’opera citata o su un concetto espresso, come se fossero studenti desiderosi di ben figurare.
Venerdì l’editore Mimesis ha dedicato, con Massimo Donà, Giuliano Compagno e Gianni Vattimo, un omaggio a Mario Perniola, scomparso lo scorso gennaio, figlio elettivo di due padri, Luigi Pareyson e Guy Debord, e alla sua capacità di guardare al contemporaneo con uno sguardo obliquo, libero da condizionamenti. Oggi arriveranno Umberto Galimberti (in dialogo con Enzo Bianchi e poi con Nadia Fusini), Giulio Giorello (a riempire con nozioni di filosofia per ragazzi il format chiamato L’ora buca, assieme a Giancarlo De Cataldo che, invece, farà lezione di diritto), mentre Simone Weil (1909-1943) «parlerà» attraverso le lettere, pubblicate da Adelphi, con il fratello matematico André.
Sini, che conosce bene il Salone, vede tutto ciò come uno degli effetti tutto sommato positivi della dispersione. «Queste manifestazioni la rappresentano bene. Siamo colmati da una molteplicità di voci. Questo è il posto canonico, il luogo della totale dispersione. Da uno stand all’altro la cultura è esplosa: c’è tutto, dalle arti marziali ai francobolli cinesi. Ma sarebbe sciocco dire che è un male. Io propongo una lettura positiva. È la vita stessa, la ricchezza è nella molteplicità».
È quella che nel libro Del viver bene (edito da Jaca Book che sta pubblicando le Opere di Sini, 6 volumi in 11 tomi) definisce «la democrazia delle occasioni». «Se non dà un accesso il più possibile diffuso al maggior numero di persone è una finzione, è pura retorica». Ma, è il pensiero del filosofo, più esplode la molteplicità, più si mette in movimento qualcosa di paradossale che ha come risultato l’omogeneità: «Tutto è differenziato, niente è differente. -Il conformismo è l’altra faccia della dispersione. Tutto si adegua alla produzione di merci che, intendiamoci, non sono il diavolo. Ma questo modello è stato così potente che ha assimilato a sé anche il modello culturale. La desertificazione delle culture nazionali ne è una delle conseguenze».
Così, se nella formazione domina il modello anglofono, tecnico-scientifico, al difetto omogeneizzante non sfugge neppure l’editoria. «C’è un’unica editoria - dice Sini - si copiano tutti tra loro, gli autori sono sempre gli stessi che fanno il giro, nessuno osa niente. Non c’è coraggio, non c’è scoperta, si propone un prodotto uniforme, ripetitivo. D’altronde i direttori scientifici sono diventati direttori commerciali, attenti al marketing».
Un discorso che Sini fa pensando anche alla produzione filosofica. «Prima andava di moda Deleuze, adesso è il momento degli anglosassoni. Per venire pubblicati devono aver sfondato un certo livello di riconoscibilità, magari per ragioni biografiche. Lo stesso Sartre è diventato famoso con L’essere e il nulla, poi è stato dimenticato».
La riflessione sulla dispersione, e sulla moltiplicazione delle verità, delle competenze, dei saperi, è al centro della riflessione del filosofo che, anche nella sua lectio, nata in risposta a una delle domande lanciate dal Salone (Chi voglio essere?), ne ha illustrato gli effetti negativi. «Oggi domina l’interdisciplinarità, mentre dovremmo parlare di transdisciplinarità. Il progetto che ci incalza è quello di tentare una riunificazione dei saperi che non sia contraria alla specializzazione, ma che la riconduca a un nucleo condiviso. Un tempo non è che Kant non capisse Newton. Oggi è così: tra filosofi e scienziati non ci intendiamo perché non abbiamo più un sapere comune».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT, NEWTON, E POPE. Note (di avvio) per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI. Alcune precisazioni sulla sua intervista impossibile
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....*
Nel giorno in cui cadono le stelle /
Leopardi. Frammenti di una cosmologia poetica
di Antonio Prete *
Un’immagine, un’apparizione: nel fitto meditare del giovane Leopardi lungo i margini di una biblioteca affollata di voci. Voci di antichi e di moderni, parole dell’epos e della filosofia, convivio di idee convocato dall’Encyclopédie e dai nuovi saperi. Una casa pensile, che è sospesa nell’ aria, ed è legata con delle funi a una stella. Un’immagine che pare il resto figurabile di un sogno che subito è disperso con la prima luce del giorno. O il ricordo fulmineo di un disegno infantile: la stella in alto, e giù la casa, priva di terreno, sospesa nel bianco della pagina, ma qualcosa deve legare la casa alla stella, ecco allora le funi che impediscono che la casa precipiti, e la fanno oscillare nel vento, casa di carta e stella di carta, casa dipinta e stella infiammata. Non ha rapporto con la terra la casa: è sollevata, come se fosse portata via da una forza - da una carrucola - che ha in una lontanissima stella il suo sostegno. Non è trasportata, la casa. Non è la casa di Nazareth che gli angeli portano in volo, come racconta una popolare credenza, per deporla a Loreto, proprio nei pressi di Recanati. Non è stata neppure sradicata dalle fondamenta, questa casa, è lì, sospesa in aria, sospesa nell’immaginazione: è la pura sospensione del terrestre, del domestico, del quotidiano. Non sappiamo se è abitata, la casa pensile, ora appare nella sua fisica figurazione di casa sospesa nel vuoto e tuttavia sostenuta da un principio, non più attratta dalla terra ma appartenente ai simulacri che abitano l’aria e che di solito non vediamo.
Ma l’immagine è anche una lampeggiante abbreviazione, o persino un compendio metaforico, del pensiero leopardiano, o forse un presagio inconsapevole - disegnato nella “camera oscura” dell’immaginazione - di come quel pensiero si svolgerà, del cammino che avrà lungo diverse stagioni, ma anche di alcune esperienze poetiche fino a quel momento vissute. Una figura dei modi conoscitivi e insieme poetici che saranno trama e respiro di un pensiero. Ecco la leggerezza, e con essa il senso della elevazione - annuncio della élévation baudelairiana -, cioè sguardo che dall’alto si volge verso il linguaggio del mondo, ascolta il silenzio delle cose, ma osserva anche l’intorpidimento dei sensi fatti opachi dall’“incivilimento”, atrofizzati dalla progressiva “spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo” in cui consiste la pretesa perfezione della civiltà (l’operetta Elogio degli uccelli opporrà a questa atrofia dei sensi umani la libertà vigorosa delle creature alate, la loro armonia, il movimento e la vista dall’alto).
Una stella: figura della presenza cosmografica che è tessitura assidua del pensare leopardiano, ed è sorgente di interrogazione costante sul rapporto tra finitudine e infinito, percezione della sospesa condizione umana in un universo che è nascita e morte, costruzione e distruzione incessante, orizzonte sconfinato nel quale il fiore e il deserto, il fiore del deserto, sono emblemi dell’esistenza, e la terra non è che un “granello” perso negli spazi infiniti. La stella è anche principio che sostiene ciò che è più familiare, una casa: è una lontananza assoluta, intransitabile, e tuttavia luminosa, che sostiene quel che ci si presenta come proprio, prossimo, domestico. E c’è un legame tra quel che è sovranamente altro e quel che invece appartiene alla terra, c’è un legame tra l’oltretempo proprio dell’elemento stellare e l’esperienza della propria condizione.
Questo legame, gli scorci - di teoresi e di immaginazione - su questo legame, fanno della poesia di Leopardi la lingua di un’interrogazione aperta, ogni volta, a scrutare l’esistenza, il suo ritmo, sullo sfondo metafisico di un altro ritmo, quello che fa pulsare il cosmo, la sua energia, il suo consumarsi e il suo divenire.
Le considerazioni cosmologiche del Cantico mattutino del gallo silvestre, la rappresentazione della fisica - origine e fine dell’universo - come prende forma nella prosa del Frammento apocrifo di Stratone, le domande sul senso e sul vuoto di senso che il pastore errante rivolge alla luna, ai suoi silenzi, al suo enigmatico sapere dell’universo, l’azzardo della poesia di voler dire l’infinito nella impossibilità di dirlo e, nel naufragio del pensiero, e della poesia stessa, il soccorso all’io dato da quel “m’è dolce” che è nel cuore dell’ultimo verso -prossimità corporea e sensibile nell’impossibile esperienza dell’assoluta lontananza -, tutto questo ha qualcosa che è come compendiato e messo in figura in questa frase isolata che interrompe i pensieri dello Zibaldone: “Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella”. Quasi iconica impresa da porre sul frontespizio del Liber di una vita, e di una incessante ricerca, che è lo Zibaldone. Ho detto interrompe i pensieri: non è proprio così, l’interruzione è già avvenuta con l’immagine che precede nella stessa pagina del 1 ottobre 1820 e che qui di seguito riporto come secondo momento di questo margine.
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Il frammento narrativo può a questo punto essere letto anche come orizzonte fantastico nel quale appare la casa pensile. Con la nuova cosmografica data dai singolari e sconfinati occhiali si può vedere anche la casa pensile, tra le innumerevoli altre presenze che trascorrono nel cielo, che abitano il cielo. Ma può anche darsi che le due proposizioni fantastiche abbiano tra di loro solo il legame invisibile, indescrivibile, dell’immaginazione, un legame insondabile, subito nascosto, per lasciare scoperto solo l’altro fisico legame, quello dell’appartenenza alla stessa pagina dello smisurato manoscritto che è lo Zibaldone. Una prossimità che ha solo la scansione di uno spazio tra un frammento e l’altro. E tuttavia, se la casa pensile si accampa nell’aria come un’apparizione - infatti ha dell’apparire l’elemento dell’inatteso e dell’inspiegabile - il paio di occhiali appartiene a un tempo narrativo, suppone infatti un personaggio, il cui volto e la cui identità - umana, sovrumana, animale, celeste, terrestre? - non è rivelata, è lasciata per dir così alla discrezione e all’energia dell’immaginazione di colui che legge, ma anche dello stesso che scrive, il quale non vuole configurare il personaggio, tanto meno nominarlo. Ma il lettore è autorizzato a chiedersi: chi può essere colui che “si mise” lo stravagante paio di occhiali?
Certo, l’immensità dello strumento non può che far pensare a un personaggio immenso, o a un corpo celeste trasformato in figura gigantesca dalle fattezza umane - con occhi e mani, dunque - che compie il gesto di sollevare gli occhiali per porgerli a cavallo dell’incavo nasale o persino appoggia le stanghette sterminate (ma invisibili e innominate) nell’attaccatura delle orecchie. E quel passato remoto - “si mise” - a quale tempo si riferisce? Forse a un tempo senza tempo, un’era in cui la terra, non ancora abitata da animali e da uomini, ha già preso la sua forma e gravita nella sua orbita priva di presenze che non siano angeliche, ed è appunto una di queste presenze - emanazioni della divinità, declinazioni e manifestazioni dei suoi poteri - che fa dei due poli due cerchi tenuti insieme dalla metà di un meridiano (un meridiano celeste?) e guarda attraverso di essi l’opera della creazione, guarda i mondi che roteano seguendo le loro ellissi, oltre la via lattea, fino ad altre galassie in fuga nello spazio infinito. Per raccontare questo gesto non c’è che da ricorrere a un’immagine antropomorfica e a un gesto usuale per scorgere meglio i corpi celesti: guardare attraverso delle lenti speciali. Una sorta di cannocchiale che ha un’altra forma, una forma in cui le lenti - anche queste innominate e invisibili - hanno un potere ben superiore a quello delle lenti che Galileo mise nel suo formidabile strumento, raddoppiando e rovesciando le lenti usate dagli olandesi.
Oppure, semplicemente, questi occhiali sono solo una raffigurazione di quegli altri occhiali che ciascuno di noi possiede nel bagaglio delle sue facoltà, gli occhiali dell’immaginazione, quelli di cui Leopardi disporrà ogni volta che si volgerà a scorgere gli oggetti lontani - quella torre, quella campagna - con l’altra vista. Ecco, gli occhiali “fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari” sono lo strumento - l’interiore disposizione - che permette l’altra vista. E colui che se li mise, e continua a metterli, è proprio l’autore. O il lettore. E insomma quanti, dal limite corporeo e sensibile del loro terrestre stato, sentono la necessità di scrutare con un nuovo sguardo il mondo che è di là dall’orizzonte visibile, l’universo di stelle che nascono e deflagrano, di comete in fuga, di nebulose e galassie che corrono e si dilatano in uno spazio che non ha confini, in un tempo che non ha tempo. Perché scorgere il nesso tra il visibile e l’invisibile, tra il qui e l’altrove, tra il limite e lo sconfinato può essere la sfida estrema dei sensi, e della poesia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
KANT, NEWTON, E POPE. Note (di avvio) per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Newton-Halley il lato creativo dell’amicizia
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 30.10.2016)
Trecentosessanta anni fa, il 29 ottobre 1656 (secondo il calendario giuliano) nasceva Edmond Halley, il cui nome è legato alla famosa cometa. Non perché fu lui a scoprirla, ovviamente, ma perché fu lui a capire che le grandi comete del 1531, 1607 e 1682 erano in realtà la stessa, e a prevedere che essa sarebbe tornata nel 1758: cosa che puntualmente fece, dimostrando la maturità della moderna astronomia.
I calcoli di Halley si basavano sui metodi sviluppati da Isaac Newton negli anni della peste di Londra, tra il 1665 e il 1666: la teoria della gravitazione universale, da un lato, e il calcolo infinitesimale, dall’altro. E proprio in questo mese di ottobre cade il 350esimo anniversario della scrittura del Trattato sulle flussioni, uno dei suoi capolavori giovanili, in cui Newton riassunse i risultati matematici raggiunti nel suo annus mirabilis.
Fu Halley a spingere Newton a scrivere, vent’anni dopo, il suo capolavoro maturo: i Principi matematici della filosofia naturale, che cambiarono la storia della scienza e del mondo. Il giovane astronomo si sobbarcò il finanziamento e la cura dell’opera, compresa un’ode di prefazione in cui paragonava Newton a un novello Epicuro. E qualche anno dopo dimostrò di averla non solo curata, ma anche capita, usandone i metodi per calcolare l’orbita della cometa che ancor oggi annuncia il suo nome in tutto il Sistema Solare.
Il Sole anziano ’sposterà’ la vita oltre la Terra
La ’zona abitabile’ cambia quando le stelle invecchiano *
Quando il Sole inizierà a invecchiare e ingigantirsi, fra qualche miliardo di anni, Mercurio e Venere verranno ’divorati’ dalla nostra stella, la Terra diventerà il pianeta più vicino al Sole e sarà un mondo aridissimo, mentre la vita potrebbe svilupparsi più in là, nelle lune di Giove, Saturno e Nettuno. E’ l’ipotesi presentata dalla ricerca pubblicata sull’Astrophysical Journal, secondo la quale le stelle più anziane tendono a ’spostare’ progressivamente la cosiddetta zona abitabile, quella in cui è possibile trovare acqua allo stato liquido e, con essa, forme di vita.
Condotta dal gruppo di Ramses M. Ramirez e Lisa Kaltenegger, del Carl Sagan Institute, la ricerca si è concentrata sui pianeti più anziani finora individuati dal telescopio spaziale Kepler, della Nasa. Hanno circa 11 miliardi di anni e quando la loro stella ha cominciato a invecchiare e a ingigantisci, i pianeti che un tempo erano ghiacciati si sono ’riscaldati, diventando probabilmente ospitali per la vita come la Terra.
I ricercatori invitano quindi a cercare la vita sui pianeti che circondano le stelle di tutte le età, non solo le più giovani e simili al nostro Sole. Ramirez rileva quindi che ’’quando una stella invecchia e diventa più calda, la zona abitabile si sposta verso l’esterno" e che i corpi celesti che al momento si trovano nelle regioni più esterne del nostro sistema planetario sono coperti di ghiaccio.
E’ il caso di due mondi sotto la cui superficie potrebbe esserci un ambiente favorevole alla vita, come Europa, una delle lune di Giove, ed Encelado, una delle lune di Saturno. Per questo, concludono i ricercatori, anche quando il Sole diventerà gigantesco, nel nostro sistema planetario ’’ci saranno ancora regioni in cui la vita potrà prosperare’’
Un Natale nel nome di Isacco (Newton)
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 29.12.2013)
Lo scorso mercoledì una parte del mondo occidentale ha meditato sulle parole del Vangelo secondo Giovanni (I, 6-7): «Venne un uomo mandato da Dio», e «venne come testimone per rendere testimonianza alla luce». E ha festeggiato quell’uomo, che cambiò la storia dell’Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell’anno 0, bensì del 1642. Quell’uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì, Isacco, o meglio, Isaac.
In realtà, quell’uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nel resto d’Europa, si era ormai già al 4 gennaio 1643. Ciò nonostante, in Inghilterra il 25 dicembre continua a esser chiamato non solo Christmas, ma anche Newtonmas.
Perché è appunto di Newton che stiamo parlando: un uomo che “rese testimonianza alla luce” in un libro chiamato Ottica, nel quale spiegò al mondo che la luce bianca in realtà è un miscuglio di luci colorate, nelle quali si può decomporre facendola passare attraverso un prisma, e che si possono ricomporre facendole ripassare attraverso un prisma invertito. Solo la mela che ispirò allo stesso Newton la legge di gravitazione universale può competere con il suo prisma nell’immaginario scientifico collettivo, come simbolo del colpo di genio in grado di cambiare la storia del pensiero e dell’uomo.
È per questo che, quando Newton morì, Alexander Pope compose un epitaffio che paragonava la sua nascita non solo a quella di Cristo, ma addirittura alla creazione del mondo: «God said: Let Newton be, and all was light», ossia “Dio disse: Sia fatto Newton, e la luce fu”. Ed è per questo che il 25 dicembre molti si sono augurati, invece che un religioso Merry Christmas, un laico “Merry Newtonmas”!
Ma non è nella natura che si scopre il divino
di Gianni Vattimo (La Stampa, 05.07.2012)
Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo
. Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno.
Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo? Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno.
Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. E’ una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso).
E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico.
L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti.
L’intuizione di un ragazzo prodigio e quell’equivoco sull’Onnipotente di Giulio Giorello (Corriere della Sera, o5.07.20’12)
«Dimmi come ti muovi, e ti dirò chi sei», recita un vecchio adagio. Immaginate una sorta di oceano, ove le particelle che costituiscono il nostro universo, muovendosi contro corrente, sono ritardate alcune più di altre dal contatto con le acque: è per questo che le più «lente» ci appaiono di massa maggiore! Ma all’inizio erano tutte uguali, cioè tutte dotate di una «leggerezza» incredibile, proprio perché l’interazione con quel mare invisibile non era ancora incominciata. Ma è stato sufficiente che l’universo si raffreddasse per rompere la simmetria originaria.
Oggi la teoria detta «elettrodebole», perché tratta delle forze che si esercitano tra quelle leggerissime particelle che sono i neutrini, e incorpora la teoria elettromagnetica, contempla una famiglia di particelle composta dal fotone (cioè il quanto di luce descritto da Einstein nel 1905) che è rimasto di massa nulla e altre tre particelle che sono invece dotate di notevole massa. È un po’ come fossero delle biglie che cadono l’una in un bicchiere d’acqua e le altre in uno pieno di denso sciroppo: queste ultime appaiono di massa maggiore. La cosa è generalizzabile anche alle altre famiglie delle particelle «elementari». Tutta colpa di una ancor più elusiva particella, che genera quello «oceano» che i fisici chiamano «campo» (analogamente a come il fotone è responsabile del campo elettromagnetico).
Decenni fa era solo una congettura di vari fisici; e solo uno, il britannico Peter Higgs, aveva espresso (1964) la convinzione dell’esistenza di una «nuova particella». Sarebbe diventata nota come «bosone di Higgs», anche se questo non significava affatto l’accettazione da parte di tutta la comunità scientifica; per di più, presso il grande pubblico, doveva diventare celebre sotto il nome fuorviante di «particella Dio», trovato da Leon Lederman (1993), e poi storpiato in «particella di Dio», come se questa fosse stata lo strumento utilizzato dall’Onnipotente quando aveva cominciato a differenziare i vari tipi di materia e di forza!
Il vero responsabile era stato però il curatore del testo di Lederman, che interpretando i desiderata della casa editrice aveva attribuito al Signore (God in inglese) un interesse particolare per quella «particella maledetta»: goddamn particle, come aveva scritto inizialmente l’autore, alludendo alla difficoltà della sua individuazione. Higgs, che si definiva ateo, non aveva gradito l’intera faccenda, ritenendo che fisica e fede fossero «campi» che non dovessero sovrapporsi, e che ricorrere alla divinità per colmare le lacune della ricerca significasse «pronunciare invano il nome di Dio».
Le risposte andavano individuate non nelle pieghe della teologia, ma tramite i grandi apparati della sperimentazione. Oggi i responsabili del Cern (tra cui spiccano vari fisici italiani), darebbero sostanzialmente ragione all’audacia dell’ex ragazzo prodigio del Kings College di Londra: la tanto sospirata «osservazione» del bosone che porta il suo nome potrebbe aggiustare non pochi difetti della concezione corrente delle particelle elementari (il cosiddetto «Modello standard») e ci regalerà orizzonti conoscitivi «più ampi e sconfinati», per dirla con una delle locuzioni care al filosofo Karl Popper.
Isaac Newton. Un genio depresso
di Vittorio Pellegrini (il Fatto Saturno, 4.11.2011)
RICORDO LA MIA prima volta all’Università di Cambridge. Ricordo il refettorio del Trinity College, uno dei collegi più prestigiosi dell’Università, la mia stanza con un pavimento di legno antico e il letto a baldacchino. Ricordo soprattutto quel cartello davanti al prato verdissimo del Trinity che diceva: “Vietato calpestare l’erba se non accompagnati da un membro anziano del College”. Un’atmosfera sobria e stimolante. E fu proprio questo il luogo che accolse nel 1660 un giovane di origini modeste, un campagnolo con la capigliatura rossa proveniente da una fattoria del Lincolnshire; un ragazzino, dicevano, dalla mente straordinariamente acuta.
Isaac Newton varcò le soglie del Trinity nell’anno in cui Carlo II fu proclamato re d’Inghilterra. In pochi anni dimostrò qualità straordinarie diventando nel 1669 il secondo titolare della cattedra lucasiana di matematica (oggi occupata dal fisico matematico Stephen Hawkins) e in quelle mura identificò il vero scopo della sua vita.
Distruggere Descartes e la sua fredda meccanica della materia e scoprire, attraverso la filosofia della natura, l’armonia dell’universo creato da Dio. Come poi ripeteva in vecchiaia, uscito vittorioso dalla scontro a distanza con Descartes: «Se ho visto più lontano degli altri è perché sono salito sulle spalle dei giganti». Ma non si riferiva a Galilei o Keplero, bensì a Mosè e Gesù Cristo. Perché lui, Isaac Newton, era venuto al mondo con una missione divina: formulare un modello matematico dell’universo in pieno accordo con le osservazioni sperimentali come quelle raccolte dall’astronomo John Flamsteed nell’osservatorio di Greenwitch, fatto costruire proprio da Carlo II.
E Isaac Newton, la sua vita affascinante e contraddittoria, culminata con la stesura dei Principia e la spiegazione dei moti dei pianeti attraverso la legge della gravitazione universale, è il protagonista del romanzo La parrucca di Newton, scritto dall’astrofisico francese Jean-Pierre Luminet. Un romanzo che è innanzitutto bello, e che riesce a coinvolgere nella narrazione della storia di un uomo geniale ma allo stesso tempo ambizioso e invidioso, capace di dirigere con maestria la prestigiosa “Royal Society” e la zecca dello stato e allo stesso tempo preda di forti stati depressivi che lo portavano a isolarsi per mesi. Un uomo che è considerato il padre della scienza moderna, ma che passava gran parte del suo tempo a cercare di decifrare improbabili leggi nascoste nella Bibbia e a effettuare pericolosi esperimenti alchemici.
Ma ciò che trasforma il libro di Luminet in un prezioso manuale storico e di divulgazione scientifica è l’attenzione ai personaggi incontrati da Newton nel corso della sua vita. Dal “nemico” Robert Hooke, noto in particolare per la legge sull’elasticità, a Edmund Halley di cui si ricorda oggi la cometa che porta il suo nome. Fino a John Locke, filosofo empirista, padre del pensiero liberale, che fu uno dei pochissimi amici sinceri di Isaac Newton al quale offrì il terreno filosofico su cui collocare la grande costruzione matematica dei Principia.
Il libro di Luminet è il frutto di un serio lavoro di ricerca tradotto in una storia romanzata, avvincente e dai ritmi serrati. Avvincente quando Luminet ci porta dentro la casa del giovane Newton intento a risolvere la luce del sole nelle sue componenti fondamentali; interessante quando Luminet si sofferma sui dialoghi spigolosi tra Newton, Fatio, Halley e Hook durante le riunioni della “Royal Society” o su quelli a distanza con Leibniz sulla paternità del calcolo infinitesimale e inquietante quando Luminet ci descrive un Newton quasi folle nella convinzione di essere il migliore fra tutti. Rimane forte la tensione nel libro che culmina nell’immenso bagliore della legge della gravitazione universale: la mela che cade dall’albero. È emozione che si propaga al lettore fino alle ultime pagine, quando Luminet ci racconta il funerale di Isaac Newton e quando ci propone l’ultimo personaggio del suo libro, un giovanotto francese dalle idee un po’ strane, tale Voltaire. Jean-Pierre Luminet, La parrucca Di Newton, La Lepre, pagg. 384, • 24,00
FISICA
"Neutrini più veloci della luce"
Messo in discussione Einstein
Clamorosi risultati di uno studio del Cern e dell’Infn guidato da un fisico italiano: particelle sparate da Ginevra al Gran Sasso hanno infranto il muro considerato invalicabile dalla fisica. Margherita Hack: "Sarebbe una rivoluzione" *
ROMA - I risultati, se confermati, possono rimettere in discussione le regole della fisica cristallizzate dalle teorie di Albert Einstein, secondo le quali niente nell’universo può superare la velocità della luce. Un gruppo di ricercatori del Cern e dell’Infn guidato dall’italiano Antonio Ereditato ha registrato che i neutrini possono viaggiare oltre quel limite. Le particelle hanno coperto i 730 chilometri che separano i laboratori di Ginevra da quelli del Gran Sasso a una velocità più alta di quella della luce.
Il muro è stato infranto di appena 60 nanosecondi. Eppure, il risultato è talmente destabilizzante che il team di ricerca ha atteso ben tre anni di misurazioni per sottoporlo all’attenzione della comunità scientifica. "Siamo abbastanza sicuri dei nostri risultati, ma vogliamo che altri colleghi possano verificarli e confermarli", spiega Ereditato, che lavora presso il laboratorio di fisica delle particelle dell’organizzazione ginevrina.
E le prime reazioni non tardano ad arrivare: secondo il Centre national de la recherche scientifique francese, le fosse confermata la scoperta sarebbe "clamorosa" e "totalmente inattesa" e aprirebbe "prospettive teoriche completamente nuove". Anche per l’astrofisica Margherita Hack si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione perché, osserva, "finora tutte le previsioni della teoria della relatività sono state confermate".
Secondo la teoria della relatività ristretta, elaborata da Einstein nel 1905, la velocità è una costante, tanto da essere parte della celeberrima equazione E=mc², dove E è l’energia, m la massa e c, appunto, la velocità della luce. La relatività, spiega ancora la Hack, "prevede che se un corpo viaggiasse ad una velocità superiore a quella della luce dovrebbe avere una massa infinitamente grande. Per questo la velocità della luce è stata finora considerata un punto di riferimento insuperabile".
Tra l’altro, la teoria della relatività implica l’impossibilità fisica delle traversate interstellari e dei viaggi nel tempo, finora inesorabilmente relegati alla fantascienza e ritenuti irrealizzabili dalla scienza. Ora tutto ciò potrebbe cadere. "Ma io non voglio pensare alle implicazioni", si affretta a precisare Ereditato. "Siamo scienziati e siamo abituati a lavorare con ciò che conosciamo".
La velocità delle particelle è stata misurata dal rivelatore Opera, dell’esperimento Cngs (Cern NeutrinoS to Gran Sasso), nel quale un fascio di neutrini viene lanciato dal Cern di Ginevra e raggiunge i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare.
* la Repubblica, 22 settembre 2011
L’eretico Newton allargò gli orizzonti del sapere umano
Dalla mela ai colori, un genio infinito
di Stefano Moriggi (Corriere della Sera, 30.03.2011)
«U n francese che giunga a Londra trova molti cambiamenti nella filosofia, come in tutto il resto» . Così avrebbe scritto Voltaire, esiliato in Inghilterra nel 1726. Si sentiva come chi, «lasciato il mondo pieno, lo trova vuoto» . Se infatti a Parigi- notava nelle Lettere filosofiche- «si vede l’Universo costituito da vortici di materia sottile; a Londra non si vede niente di tutto ciò» . Oltremanica una mela del Lincolnshire aveva cambiato tutto. Isaac Newton l’aveva vista staccarsi dal ramo e cadere a terra.
Da quel momento una serie di interrogativi e intuizioni lo avrebbe portato a capire che «la mela attrae la Terra come la Terra attrae la mela» . Questo avrebbe detto un anziano sir Isaac a William Stukeley - l’amico archeologo che così ricorda il loro incontro a Kensington, nel 1725: «Dopo pranzo andammo in giardino a bere il tè all’ombra di alcuni meli. Mi disse che si trovava in una situazione analoga quando, tempo addietro, aveva concepito l’idea della gravitazione» .
Alla formula definitiva, in realtà, sarebbe arrivato un ventennio dopo il leggendario episodio e la rese nota nei Principi matematici della filosofia naturale (1687). Complice anche l’aspra concorrenza con Robert Hooke il quale, negli anni Ottanta, aveva ipotizzato che le orbite ellittiche di Keplero si spiegassero con un’attrazione gravitazionale che diminuisce «in relazione quadrata alla distanza dal centro relativo» .
Era sulla buona strada, ma continuava a sfuggirgli ciò che neppure il ventiquattrenne Newton, al tempo della mela, aveva compreso: ossia, che la gravitazione era una forza di attrazione reciproca, e non solo relativa alla massa dell’oggetto attratto dalla Terra. Ma quando quella mela cascò, Isaac aveva da poco conseguito il baccalaureato al Trinity College di Cambridge. E, in fuga dalla peste- che nell’estate del 1665 già infuriava a Londra - si era rintanato per qualche mese nella casa di famiglia, a Woolsthorpe. Quel periodo lontano dall’accademia sarebbe stato intenso e proficuo. «Ero nel fiore della creatività - ebbe a ricordare Newton - e mi dedicavo alla matematica e alla filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito» .
E infatti, ben prima di succedere (1668) a Isaac Barrow sulla cattedra lucasiana di matematica, aveva già dimostrato il teorema del binomio e sviluppato quel metodo delle flussioni (oggi detto calcolo infinitesimale) - sul quale si sarebbe innescata la polemica con Leibniz per il primato della scoperta. Eppure, la comunità scientifica si sarebbe davvero accorta del suo genio solo nel 1671, quando Newton impressionò i membri della Royal Society con un telescopio a riflessione di sua costruzione.
Nominato membro della prestigiosa istituzione, si convinse così di rendere pubblica la sua Nuova teoria sulla luce e sui colori: la luce solare non è pura e semplice, ma «consiste di raggi che differiscono per gradi indefiniti di rifrangibilità» , ciascuno dei quali è un colore. Quella che lui stesso definì «la più straordinaria, se non la più considerevole, rivelazione che sia stata compiuta finora nelle operazioni della natura» , gli assicurò inimicizie e livori, a partire da quel Robert Hooke che lo avrebbe poi costretto a rimettere mano ai suoi calcoli su mele e corpi celesti. Pur di non concedergli repliche, Newton decise di pubblicare l’Ottica solo dopo la morte del rivale, nel 1704.
Nel frattempo si isolò a Cambridge, dove più che di orbite e corpuscoli luminosi, si sarebbe occupato di alchimia e in segreto di teologia. Era seguace di Ario, e il fatto di negare la Santissima Trinità non sarebbe stato gradito al Trinity College... Negli ultimi vent’anni di vita ricoprì cariche di rilievo: fu presidente della Royal Society, parlamentare e soprattutto, dal 1699, severo direttore della Zecca di Londra. Nel marzo del 1727, anche Voltaire era a Westminster Abbey per rendere omaggio al «grande distruttore del sistema cartesiano» che veniva «seppellito come un re che avesse fatto del bene ai suoi sudditi» .
SPAZIO
Quel pianeta ci somiglia
"Potrebbe ospitare la vita"
Scoperto il pianeta extrasolare più simile alla Terra. Si chiama Gliese 581g e si trova a venti anni luce da noi. I ricercatori sono sicuri: "Possono esserci esseri viventi"
di LUIGI BIGNAMI *
IL NOME, al momento, non è tra i più accattivanti per quello che potrebbe nascondere: si chiama Gliese 581g ed è il pianeta extrasolare più simile alla Terra tra quelli finora scoperti, il primo sul quale potrebbero essersi create le condizioni per la vita.
Il pianeta si trova a venti anni luce da noi e, come si può capire dal suo nome, orbita intorno alla stella Gliese. Ciò che lo rende più interessante rispetto a tutti gli altri pianeti extrasolari è proprio la distanza dal suo sole: l’energia che lo raggiunge renderebbe possibile la vita sulla sua superficie. La scoperta, pubblicata sulla rivista Astrophysical Journal, è stata realizzata da ricercatori dell’Università della California a Santa Cruz e della Carnegie Institution di Washington, che hanno individuato Gliese 581g attravero l’osservatorio astronomico Keck delle Hawaii. Il pianeta è venuto alla luce grazie allo studio, durato una decina d’anni, che ha considerato le più piccole variazioni di orbita della stella madre, variazioni imputabili ai pianeti che le ruotano attorno.
Ad oggi sono stati scoperti 490 pianeti al di fuori del nostro sistema solare che orbitano attorno a circa 420 stelle, ma nessuno finora aveva caratteristiche idonee a sostenere la vita. Molti di essi infatti, sono gassosi e giganteschi, altri troppo vicini o troppo lontani dalla stella madre perché l’acqua, elemento fondamentale per la vita così come la conosciamo, possa scorrere liquida. Gliese 581g invece, si trova alla distanza giusta e possiede una massa tra 3,1 e 4,3 volte quella della Terra e un diametro tra 1,2 e 1,5 diametri terrestri. Inoltre potrebbe essere roccioso e avere acqua liquida sotto un piccolo strato di ghiaccio superficiale e un’atmosfera in grado di proteggere la vita, se mai è sbocciata. "Personalmente viste le potenzialità di quel mondo, sarei propenso ad affermare che le probabilità di trovare vita su di esso sono del 100%", ha detto Steven Vogt, astronomo dell’Università della California, durante la presentazione della scoperta
Il pianeta ruota attorno alla sua stella in 36,6 giorni e le sue temperature medie di superficie sono comprese fra -31 gradi e -12 gradi. Sembra che esso rivolga sempre la stessa faccia all’astro e questo lo porterebbe ad avere una faccia molto più calda dell’altra. Gliese è una nana rossa, una stella che è circa 50 volte più debole del nostro Sole. Poiché essa è anche più fredda i pianeti papabili di avere vita possono ruotarle attorno a distanza anche molto ravvicinate. Gliese 581g infatti, gli ruota a 0,15 Unità Astronomiche (una Unità astronomica corrisponde a 150 milioni di chilometri ossia la distanza Terra-Sole). Cliese 581g è stato scoperto insieme a un altro pianeta, troppo lontano dalla stella madre per poter ipotizzare una qualche forma di vita.
* la Repubblica, 30 settembre 2010
Donne-madonne, donne-maddalene (di Nicla Vassallo) *
[...] Non sappiamo se si sia chiusa una società moderna e ne sia iniziata una postmoderna, anche perché il significato del termine “postmoderno” non ci pare affatto chiaro. Sappiamo però che la nostra società mostra un reale bisogno di civiltà, ovvero di conoscenza e cultura, strumenti di emancipazione per ogni essere umano, di una conoscenza e di una cultura in cui le donne cessino di risultare strumenti utili, beni di consumo e di scambio, di natura angelica o tentatrice: abbiamo bisogno di avanguardie, di buone argomentazioni, di dialoghi ragionati, e di conseguenza, se proprio agli stereotipi s’intende ricorrere, di donne-Ipazia.
In una società capace di offrire a ognuno di noi la possibilità di esplorare se stesso/a grazie alla propria etica della convinzione e a politiche appropriate, non dettate né da miasmi cattolici né da etiche della convenzione e della convenienza, il corpo finirebbe con l’ossessionarci in misura minore, vedremmo molti corpi, tanti quanti sono gli esseri umani, e cesseremmo di crocefiggerli con i chiodi dei cliché.
Fin quando, invece, le donne si troveranno a costrette ad adeguarsi alla donna-madonna e alla donna-maddalena, fin quando vigerà il dogma della differenza sessuale, non si darà alcuno spazio adeguato per conoscere il proprio corpo, in sessualità espressive, disancorate dal determinismo biologico, né per ricordare che cultura, criticità, onestà hanno risvolti mentali non da poco sulla fisicità.
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L’ultimo libro di Frank Close, professore ad Oxford, racconta l’infinitamente piccolo e le origini dell’universo
Misteri, segreti e bellezza della metafisica delle particelle
Siamo nati da una Grande Distruzione. Quella che creò il nostro mondo
I testi di scienza, non solo quelli divulgativi, sono appassionanti come romanzi
di Pietro Citati (la Repubblica, 28.09.2010)
Temo che, in Italia, gli amatori di romanzi e di poesia non leggano volentieri i libri di fisica teorica. Mi sembra doloroso e penoso: non solo perché i nostri letterati rinunciano a conoscere importantissime leggi di fisica, con le loro affermazioni, contraddizioni, scandali, strani contrasti con l’esperienza e la ricerca. C’è qualcosa di più grave. La passione metafisica, il gioco puro delle idee - tutto quanto, una volta, eravamo abituati a trovare nei libri di filosofia - , lo ritroviamo, oggi, nei libri di fisica teorica. Se leggiamo Einstein, o Heisenberg, od Hawking, - vi respiriamo quell’atmosfera di assoluto, quella luce di indimostrabile e incontrovertibile, che, alle origini della cultura europea, abbiamo conosciuto in Parmenide, Platone e, poi, in Plotino. Di questo respiro di assoluto noi abbiamo bisogno.
Nei libri di fisica teorica, la mente insegue il doppio infinito: oscilla tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La passione per l’infinitamente grande risale a Pascal e a Leopardi:
«e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle
Ch’a noi paion qual nebbia...».
Oggi siamo abituati all’immensamente vasto: ciò che ci affascina è soprattutto l’infinitamente piccolo. I libri ci parlano, per esempio, del nanosecondo: vale a dire di un miliardesimo di secondo; tempo in cui la luce velocissima percorre trentatre centimetri e trentatre millimetri - niente.
Contro i libri di fisica moderna, i cultori di letteratura obiettano, di solito, che sono difficili: quel guazzabuglio di frasi e di numeri è incomprensibile. Non è vero. Tra i libri di fisica che oggi vengono pubblicati, sia tra quelli creativi sia tra quelli divulgativi, moltissimi sono estremamente facili: si leggono con un piacere quasi romanzesco, saltando di teoria in teoria, partecipando con passione alle discussioni tra grandi scienziati, insinuandoci come formiche tra gli enigmi. Vorremmo conoscere Dirac, o Touscheck o Ernest Rutherford, o il misteriosissimo Majorana, che ha lasciato il suo nome ai neutrini di Majorana; e ascoltarli discutere nel silenzio dell’universo. In questi giorni, per esempio, la casa editrice Einaudi pubblica un lucidissimo libro di Frank Close, professore ad Oxford: Antimateria (traduzione di Giorgio P. Panini, pagg. 204, euro 24), al quale auguro molti lettori felici. *** Quattordici miliardi di anni fa, avvenne il cosiddetto Big Bang, prima del quale niente esisteva: un improvviso, violentissimo scoppio d’energia, di cui ignoriamo la fonte. Come dice la Genesi: «Sia la luce. E la luce fu». Le ricerche moderne e modernissime riescono a risalire a un attimo dopo lo scoppio: un miliardesimo di secondo. Allora si rivelò quale è il numero, e il ritmo fondamentale, dell’universo. Non l’Uno della filosofia platonica, e della religione cristiana ed islamica, ma il Due. Di qua la materia, di là il suo opposto, l’antimateria: di qua l’elettrone, con cariche elettriche negative, di là il suo opposto, il positrone, con cariche elettriche positive, lo specchio rovesciato del primo. Per un tempo esilissimo, le due forze si equilibrarono e si bilanciarono. E, per un istante, l’osservatore (se fosse esistito un occhio nel fuoco e nella tenebra) non avrebbe saputo prevedere il futuro dell’universo. Siamo diventati materia, e ne sopportiamo il peso: ma forse avremmo potuto diventare antimateria, la forza che domina nel cuore della nostra Galassia
La fantasia del lettore moderno ritorna, senza fine, a quel miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, che gli scienziati hanno fatto rinascere negli anelli cavi del Cern di Ginevra. Di alcune cose siamo certi. Sappiamo che l’energia originaria si convertì, nel giovanissimo universo, in primordiali frammenti di materia (elettroni), da cui siamo discesi. E sappiamo che, di fronte alla materia, si estendeva una quantità quasi eguale di antimateria (positroni), la quale, forse, non era soggetta alla forza di gravitazione, e quindi si levava verso l’alto. Tra materia e antimateria (dotata di un immenso potere distruttivo), avvenivano collisioni frequentissime: elettroni e positroni si annichilivano in un lampo di luce; e gli oggetti appena nati duravano pochissimo. Se questa condizione di equilibrio e di simmetria tra i due poli fosse continuata, la vita non sarebbe mai apparsa nel mondo.
Se noi oggi viviamo, ciò dipende da due cause. La prima, l’ho già detta: nell’universo esistevano due forze, che lottavano l’una contro l’altra; non una sola forza, incapace di movimento. La seconda causa è probabile: allora esisteva un leggero squilibrio a favore della materia; uno squilibrio forse lievissimo, qualcosa di minimo e quasi inesistente come un nanosecondo, ma che bastò a produrre quella che viene chiamata la Grande Annichilazione. Nell’universo, il minimo genera, o può generare, l’immenso. Almeno nel nostro mondo, l’antimateria scomparve, come una furtiva ombra spettrale. E la materia cominciò a costruire i suoi innumerevoli edifici: tanto che oggi, per molte centinaia di milioni di anni-luce attorno a noi, tutte le cose sono costituite esclusivamente da materia.
Dove si è nascosta quell’immensa quantità di positroni, che esisteva dopo il Big Bang? Per loro, il mondo che noi abitiamo è alieno ed ostile, e li distrugge rapidamente. Ma, circa centomila anni fa, nel cuore del sole si formarono nubi di positroni, che sono stati quasi subito annichiliti, emettendo raggi gamma. Questi raggi tentarono di fuggire alla velocità della luce, ma vennero ostacolati da una folla di elettroni e protoni, che formano la massa ribollente del sole. Dopo un certo periodo di tempo, sebbene respinti in una direzione o un’altra, assorbiti e riemersi, riuscirono a raggiungere la superficie dell’astro; persero energia, cambiarono frequenza e lunghezza d’onda, diventarono prima raggi X, poi raggi ultravioletti, e percorsero tutti i colori dell’arcobaleno. La luce del sole, che ogni mattina appare ai nostri occhi, condivide dunque in piccola parte l’energia distruttiva dei positroni originari.
Con ogni probabilità, i positroni hanno trionfato altrove, lontanissimi dal sistema solare. Nel centro della nostra Galassia, esistono nubi di positroni: essi si trovano presso stelle binarie che emettono raggi X, e vengono attratte da stelle che producono neutrini e da buchi neri. Ma conosciamo positroni molto più prossimi a noi: quelli che hanno creato in laboratorio, per decenni, gli scienziati che lavorano al Cern presso Ginevra. I fisici del Cern hanno disposto un’immensa macchina, il Lep (Large Electron Positron collider) a una cinquantina di metri di profondità nel sottosuolo, in una galleria di 27 km, lunga come la Circle Line della metropolitana di Londra.
Il Lep è un anello cavo, dove viene fatto il vuoto. Una fitta serie di elettromagneti, disposti lungo la circonferenza del cavo, guida fasci di elettroni e di positroni, facendoli girare per settimane e settimane, a una velocità prossima a quella della luce. Le particelle rapidissime attraversano il confine tra Svizzera e Francia undicimila volte al secondo, passano sotto la statua di Voltaire a Ferney, sotto campi coltivati, villaggi ai piedi del Giura, dove un tempo Rousseau passeggiava ed erborizzava. I percorsi degli elettroni e dei positroni sono mantenuti a lieve distanza gli uni dagli altri: ma in quattro punti della grande circonferenza il loro cammino si incrocia. Qualche volta si verifica la collisione di un elettrone e di un positrone; ed entrambi si annichilano in un lampo incandescente di energia. Questo evento minimissimo nel sottosuolo di Ginevra riproduce quello che accadde, un istante dopo il Big Bang. Noi siamo vivi e attivi: cresciamo, abbiamo un corpo, mangiamo, parliamo, pensiamo, camminiamo, generiamo altra materia, che genererà altra materia; eppure siamo nati dalla Grande Distruzione che creò il nostro mondo.
il caso
Goethe, da duecent’anni alfiere della lotta allo scientismo
Usciva nel 1810 il saggio sui colori, nel quale attaccava Newton
Lo scrittore non accettava un sapere appiattito sulla matematica
DI VITO PUNZI (Avvenire, 29. 09.2010)
Johann Wolfgang Goethe s’è interessato dei fenomeni naturali quasi per l’intera sua esistenza e il suo scritto Sulla dottrina dei colori, pubblicato per la prima volta duecento anni fa, da questo punto di vista può essere inteso come contrappunto alla composizione del Faust , cui Goethe lavorò per più di sessant’anni. Si trattava di un’idea con contenuti di grande modernità: Goethe voleva raccogliere intorno a sé le migliori intelligenze del suo tempo.
Tuttavia il suo amico Johann Georg Schlosser lo mise subito di fronte alla difficoltà anche solo d’interessare altri su di un simile progetto. Dopo cinque anni Goethe dovette prendere atto dell’impossibilità di trovare dei collaboratori all’ambizioso progetto. In una lettera a Friedrich Schiller del 1798 riferisce essere rimasti al mondo due soli uomini con cui poter discutere dei suoi lavori sulla dottrina dei colori. In realtà continuò a lavorarci da solo, finché dodici anni dopo, nel 1810, pubblicò quella che sarebbe rimasta l’opera sua più poderosa, più discussa e più coraggiosa.
Ci voleva infatti coraggio, allora, ad intavolare una disputa con Isaac Newton, il fondatore della meccanica classica e delle moderne scienze naturali, che Goethe accusò di aver «ostacolato fortemente una libera visione delle manifestazioni dei colori».
Newton aveva spiegato che i colori «s’insinuano nella luce», e i seguaci dell’inglese, a proposito della formazione del colore, dimostrarono di perseguire modelli esplicativi astratti allorquando ne individuarono l’origine nella rifrazione della luce.
Goethe procedette diversamente, battendosi contro l’idea che il mondo sensibile soggiaccia a leggi calcolabili. Il nocciolo dell’obiezione goethiana ad avversare la pretesa di potere di una scienza naturale che, rappresentando tutti i suoi fenomeni come calcolabili e dunque spiegabili, aveva iniziato a piegare il mondo a sé.
Carl Friedrich von Weizsäcker, nel 1960, per spiegare il motivo per cui il poeta per quarant’anni aveva frainteso alcuni punti nodali della dottrina newtoniana, non trovò altro motivo che questo: «Si sbagliò perché voleva sbagliare». Sotto questa stessa ottica va letta una frase del 1826, dunque del vecchio Goethe: «Stimo la matematica in quanto essa è la scienza più eccelsa e più utile, almeno finché la si impiega lì dove essa è al proprio posto; solo, non posso lodare il fatto che se ne abusi per cose che non appartengono al suo ambito, così da far apparire la nobile scienza una follia. Come se tutto possa esistere solo se dimostrabile matematicamente ».
L’accusa di argomentare in forma non scientifica cadeva nel vuoto, poiché lui si concepiva come fondatore di una forma più elevata di scienza. Del resto la riscoperta che del suo saggio fecero nel primo Novecento artisti come Kandinskij e Klee o mistici come Florenskij avvenne in quanto essa di rivelava utile a comprendere i «fondamenti psicologici del simbolismo dei colori, perché naturalmente un certo colore diventa per noi simbolo di questa o quella idea per il fatto che suscita in noi quasi il presentimento di questa idea, ci inclina a questa idea» (così Florenskij in La colonna e il fondamento della verità, San Paolo 2010).
Il genio francofortese non si contrappose alle opinioni dominanti del tempo solo nell’ambito della matematica e della fisica. Prese posizione contro un altro grande scienziato della natura, il botanico Linneo, il cui sistema si era imposto per la determinazione delle piante. Linneo studiò le caratteristiche singole delle piante, così da poterle distinguere le une dalle altre: lui voleva identificare e classificare le piante, mentre Goethe voleva comprenderle. Una pretesa che appare ancor oggi più modesta, più umana, ma nello stesso tempo anche più radicale.