"UBUNTU": "LE PERSONE DIVENTANO PERSONE ATTRAVERSO ALTRE PERSONE".

INDIVIDUO, SOCIETA’, E DEMOGRAFIA ITALIANA. DOPO ARISTOTELE, NON ABBIAMO ANCORA CAPITO E NON SAPPIAMO PIU’ COME SIAMO NATI E COME NASCONO I BAMBINI. E, alla fine, siamo diventati "una mostruosità demografica di cui non c’è l’eguale nel mondo"!!! Un "aggiornamento" di Edoardo Boncinelli e una nota di Roberto Volpi - a cura di Federico La Sala

domenica 28 settembre 2008.
 


-  Identità.
-  Aristotele definì l’uomo un «animale politico».
-  Oggi le neuroscienze spiegano perché si realizza pienamente solo nella collettività

-  Così la società cambia la struttura del cervello

-  Il rapporto con gli altri modifica materialmente gli individui

Le potenzialità genetiche degli analfabeti di diecimila anni fa sono analoghe a quelle degli individui alfabetizzati di oggi

di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 28.09.2008)

Nel cercare di definire e mettere a fuoco l’essenza della natura umana è opportuno, secondo me, distinguere fin dall’inizio la natura dell’individuo singolo da quella del collettivo umano, vale a dire di ciò che si è come parte di una società che possiede una cultura e una storia. In estrema sintesi: come singoli siamo animali - con caratteristiche tutt’affatto peculiari, ma sempre animali - prodotto di un’evoluzione biologica millenaria di natura fondamentalmente erratica; mentre il collettivo umano, e con lui l’individuo che vi appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale, longitudinale e trasversale al tempo, che non ha l’eguale in nessun’altra realtà.

Le moderne neuroscienze hanno, in particolare, definito sempre meglio le caratteristiche della nostra mente e del nostro comportamento come singoli e hanno fornito e stanno fornendo una lezione interessantissima e tutt’altro che da trascurare. Non possiamo però dilungarci qui su questi aspetti, che vanno dalla natura del nostro apparato percettivo a quella della nostra facoltà del linguaggio e della nostra razionalità. Ma l’uomo è caratterizzato soprattutto dalla sua dimensione collettiva. Nel collettivo l’uomo trova la sua cifra più vera e letteralmente unica. Nessuno da solo può raggiungere una qualsiasi conclusione che sia diversa da quanto gli fanno credere i suoi sensi, ma un collettivo sì. Le conclusioni dei singoli possono essere avallate, contraddette o corrette da un collettivo di uomini operanti in un sufficiente lasso di tempo. Da soli non avremmo una logica, che è una costruzione eminentemente collettiva, visto che nessuno di noi è perfettamente logico. Da soli non avremmo una scienza, prodotto di una continua interazione fra uomini e fra uomini e cose. Da soli non avremmo una storia né la capacità di conoscere fatti di terre lontane. Anche se ci impegnassimo allo spasimo, ciascuno di noi non vive abbastanza per raggiungere da solo tali obiettivi.

Aristotele definì a suo tempo l’uomo un «animale politico» cogliendo così allo stesso tempo l’aspetto della sua socialità e della sua interattività. L’uomo è in effetti un animale sociale, anche se meno perfetto dei membri di altre specie, come ad esempio gli insetti sociali, ma il punto è che l’uomo deve assolutamente essere sociale per essere uomo. Non tanto e non solo perché vivere in comunità è utile per condurre una vita migliore, ma perché è il vivere in un collettivo, almeno per un lungo periodo iniziale, che fa di un essere umano un essere umano. Si direbbe piuttosto un animale sociale obbligato o meglio ancora un animale culturale obbligato, animale della famiglia, del gruppo e della polis.

Se accettiamo la dicotomia, che è al tempo stesso anche una complementarietà, tra individui singoli e collettivo umano, sembra inevitabile una domanda: come può la dimensione culturale collettiva retroagire così profondamente sulla natura di ciascuno individuo da rendere tutti noi uomini quelle creature tanto uniche che siamo? Alla nascita nessuno di noi è un figlio del suo tempo e forse neppure un uomo come ci piace intenderlo. A tre anni è certamente un essere umano a pieno titolo e a cinque-sei è generalmente un figlio del suo tempo, anche se ha ancora tante cose da imparare. Che cosa è successo in questo periodo? È successo qualcosa di molto particolare e veramente unico. L’interazione continua con le persone che lo circondano e la comunicazione verbale e non verbale che ha animato il suo piccolo mondo hanno materialmente cambiato il suo cervello e contribuito giorno per giorno a proteggere e rinsaldare i risultati di tale cambiamento.

Non conosciamo tutti i dettagli dei processi che hanno luogo in ciascuno di noi durante questo periodo, ma sappiamo che alla nascita il cervello dell’essere umano non è ancora completamente sviluppato. Noi nasciamo con un cervello ancora piuttosto piccolo, rispetto a quello che sarà poi, e che ha bisogno di anni per raggiungere il suo pieno sviluppo. Come conseguenza di questa nostra particolarità, il nostro cervello finisce di svilupparsi mentre si trova già in contatto con il mondo esterno tramite gli occhi, gli orecchi, l’epidermide e tutti i terminali sensoriali.

Quanto è potente quest’azione? E soprattutto che tipo di realtà instaura, che non ha l’eguale in nessun’altra? La trasformazione dell’animale uomo in un essere fondamentalmente culturale non è un prodotto diretto dei suoi geni, ma accade per ogni essere umano dalla notte dei tempi. È un evento necessario ma non geneticamente codificato e con uno sbocco necessariamente un po’ diverso da epoca a epoca, da luogo a luogo, da individuo a individuo. Ha tutta l’aria di un corto circuito che s’innesca ogni volta partendo da zero e non lascia traccia.

Un fenomeno nuovo, non facile da inquadrare, ma non impossibile da immaginare. Si consideri la scrittura. Diecimila anni fa nessuno scriveva e anche oggi c’è gente che non sa né leggere né scrivere. Le potenzialità genetiche sono le stesse negli analfabeti di ieri e di oggi come in chi al presente legge e scrive quotidianamente. La differenza è fatta dall’ambiente umano nel quale ci si trova a crescere e poi a vivere. Quando nessuno sapeva scrivere era normale vivere una vita che prescindesse da tale attività. Tutto era organizzato in modo da funzionare anche senza la notazione scritta.

Nelle regioni dov’è stata inventata la scrittura, però, è cominciata un’opera d’informazione e di formazione che ha portato i ragazzi ad apprendere molto presto gli elementi del leggere e dello scrivere. Questa pratica, che coinvolge tanto un apprendimento cognitivo esplicito quanto uno procedurale e irriflesso, si è così diffusa, mantenuta e propagata. Una volta inventata, la scrittura ha interessato e interessa un numero enorme di persone perché queste sono state precocemente immerse in un flusso di informazione che non si arresta. È utile che uno sappia scrivere, ma non è tuttavia necessario, né biologicamente né a volte purtroppo socialmente. C’è bisogno, per così dire, di un «innesco»; mentre una volta innescato, il processo si mantiene da solo, anche se a costo di un notevole sforzo organizzativo collettivo. Potrebbe anche darsi che pure il linguaggio parlato sia stato un processo che ha avuto bisogno originariamente di un innesco e che si mantenga attraverso il suo uso continuato.

Ogni individuo di ogni generazione diviene quindi un individuo umano grazie alla sua precoce immersione in un ambiente di esseri umani che, nonostante le loro peculiarità e le loro tradizioni, condividono alcuni tratti cognitivi e comportamentali comuni inconfondibilmente umani. Quest’immersione ha luogo quando ancora il cervello di ogni individuo è immaturo e capace di andare incontro ad un complesso di micromodificazioni di un certo tipo piuttosto che a quelle di un altro. Il mondo umano circostante si stampa in sostanza nel corpo e nel cervello di ciascuno di noi.



Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:

-  CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)

-  SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
-  La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini") e una nota di Federico La Sala

-  L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE".
-  L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
-  E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!

-  SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE.
-  DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!!
-  IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.

-  UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
-  AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO".
-  SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
-  In memoria di Kurt H. Wolff
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Demografia: il mostro italiano

di Roberto Volpi (l’Unità, 28.09.2008)

Il dato è questo: in Italia bambini, ragazzi e adolescenti fino a 18 anni d’età rappresentano un misero 17% della popolazione, una persona su sei. In compenso gli anziani con 65 e più anni hanno superato quota 20%, una persona su cinque.

Siamo il paese che detiene i seguenti primati planetari:
-  (a) la più bassa proporzione di bambini e giovani non ancora maggiorenni nella popolazione
-  (b) il maggiore indice di vecchiaia, dato dal rapporto tra anziani di 65 e più anni e bambini e ragazzi fino a 14 anni d’età: 142 dei primi ogni 100 dei secondi. Bel numero. Siamo una mostruosità demografica di cui non c’è l’eguale nel mondo. Nel complesso dei 27 paesi dell’Unione Europea la proporzione di minorenni nella popolazione è del 20,5% e il rapporto di vecchiaia è attorno a 100. Per avere la stessa proporzione di minorenni che si riscontra in Europa, peraltro l’area del mondo dove questa proporzione è più bassa, l’Italia dovrebbe avere non i dieci milioni scarsi di minorenni che ha ma oltre dodici milioni. E tutto è in peggioramento: si viaggia cioè verso sempre minori contingenti di giovani e maggiori contingenti di anziani.

Le previsioni demografiche sono pessime. Tanto che nessuno capisce chi e come terrà in piedi il nostro paese (il primo della lista dei paesi a rischio demografico) di qui a 40-50 anni. E ciò nonostante che forti contingenti d’immigrati, giovani nel pieno degli anni e che mettono al mondo mediamente il doppio dei figli degli italiani, siano arrivati e continuino ad arrivare a darci man forte su questo terreno che si presenta per noi con caratteristiche di drammaticità. Ma una drammaticità non avvertita come tale: non dai governi, che non sono arrivati neppure a sfiorare il problema, non dalla cultura italiana, che invece l’ha ignorato e continua a farlo convinta com’è, almeno nella sua maggioranza, che non ci sia al riguardo problema di sorta.

A proposito di cultura, al contrario, appaiono sempre più di frequente saggi che non solo pretendono di dare dignità alla scelta di non fare figli - e fin qui poco da eccepire, ciascuno la pensa come crede - ma di far passare questa scelta come l’unica razionale in una duplice direzione: per consentire alla donna di portare a compimento il processo della sua piena emancipazione e per contrastare il problema su scala planetaria della sovrappopolazione. Sul primo aspetto: è in atto da un po’ d’anni in tutta l’Europa del Nord e continentale una ripresa della fecondità e non risulta che questo vada a scapito della posizione delle donne di quei Paesi. Semmai, il contrario.

Quanto alla sovrappopolazione: cinquant’anni fa l’Europa aveva gli stessi abitanti che ha oggi. Se si tolgono gli immigrati, anzi, un bel po’ di meno. L’Africa, per dire, è passata nel frattempo da 200 a 800milioni di abitanti. Dunque, c’entriamo qualcosa noi italiani ed europei con la sovrappopolazione? Non bastasse, ecco scienziati, medici genetisti biologi, straparlare di vite che possono arrivare fino a 120 anni, come se tutto questo avvenisse o potesse avvenire in una sorta di vuoto pneumatico dove puoi ficcare di tutto, anche vite spostate indifferentemente più in là di decenni e decenni.

Forse sarebbe il caso che medici biologi e genetisti si interrogassero sui riflessi catastrofici che avrebbe la realizzazione di una tale prospettiva, a maggior ragione in società come quella italiana dove il numero medio dei figli per donna è così scarso da trent’anni a questa parte da portare di per sé, se pure si fosse in presenza di una vita media stazionaria, e nient’affatto crescente com’è invece oggi, a un invecchiamento insopportabile della popolazione.

Ma forse non c’è da prestare troppa attenzione ai proclami di tutti costoro: sull’aumento della vita media verificatosi fino ad oggi, e sono le statistiche di mortalità di lungo periodo a parlare un linguaggio inequivocabile, per chi intenda stare ad ascoltarlo, il contributo di medici genetisti e biologi è stato modesto, tanto modesto da sfiorare se non proprio l’inconsistenza certamente la più assoluta marginalità.


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