Cultura

Dialogo di un cristiano e di un giovane musulmano - del prof. Giovanni Iaquinta

Saggio politico e culturale di un intellettuale testardo
mercoledì 17 agosto 2005.
 

C. La lezione di oggi a scuola ha toccato un argomento di grande attualità, che sta animando il dibattito internazionale, oltre che le coscienze individuali, le ansie e le paure delle persone nel mondo che temono la morte senza senso e amano la vita. Vogliono vivere.

M. È quello che bisognerebbe fare più spesso. La scuola deve concedere uno spazio maggiore anche all’attualità, agli argomenti che fanno opinione, uniscono o dividono la società, discutendo di storia contemporanea a pieno titolo, come in questo momento delicato, perché a rischio è l’affermazione del dialogo, il buon senso, la convivenza civile, che è l’humus necessario al trionfo della pace. Ma ora dimmi, di che si tratta?

C. Londra e la strage sul Mar Rosso. Ancora stragi. Terribili.

M. Dal tono si possono intuire le ragioni di una scelta.

C. Perché? Per caso l’aggettivo ha un’altra declinazione o è usato in modo improprio? O forse non si tratta dell’ennesimo atto terroristico di matrice musulmana?

M. La rivendicazione, è vero, non ammette perplessità. È stato così per le Twin Towers di New York e la sede del Pentagono di Arlington nel 2001 . A Madrid, nel 2004. Da poco, Londra, la terra di Blair. Ora, Sharm el Sheik. Il punto rimane un altro: si può liquidare la ‘questione musulmana’, la grande scommessa sulla pace che l’umanità ha davanti a sé per il terzo millennio, con l’equazione miserrima Islam = pericolo, musulmani = terroristi? È necessario riflettere, pensarci, convincersi e convincere in fretta che è sbagliato deresponsabilizzare a priori il più forte coperto di stelle e di strisce, pensando che non abbia mai torto, e responsabilizzando unicamente chi si ribella a una logica di invadenza prepotente in nome della pace, che ignora con arroganza la via maestra della diplomazia e all’ONU assegna lo stesso ruolo di una bella statuina. A volte si può far di tutto senza rispondere di niente. Che senso ha parlare dei kamikaze? Chi sono, in realtà? È sbagliato, lo so, ma vogliamo interrogarci criticamente sul perché ci sono?

C. Penso di aver intuito la natura e l’esortazione nascoste nel tuo ragionamento. Se cerco di risalire a quali possano essere gli strumenti per arrivare nell’immediato a una risoluzione definitiva, vedi, penso di essere inadeguato, troppo piccolo. Ho paura. Tante le difficoltà, interessi nascosti, mezzi impari e possibilità diverse che fanno da cerniera tra bene e male. Una nebulosa complicatissima rispetto alla quale nessuno può dire di essere fuori, di non c’entrare, un corpo estraneo e piccolo dentro una partita più grande. Le tue parole nascondono amarezza, il disagio sofferto di tutti quelli che la pensano come te, che sono un’altra cosa, non il crimine pianificato come risorsa e vendetta indiscriminata. Temo anch’io che questa escalation terroristica acuisca nei prossimi mesi e negli anni a venire una caccia aperta ai musulmani. Tuttavia, amico mio, mi piacerebbe conoscere il tuo parere.

M. Beh, nessuno ha il diritto di pontificare con disinvoltura su un tema così infuocato. È sbagliata, pericolosa la mistica su uno scontro di civiltà che sarebbe in atto. Chi lo fa deve sapere che rischia di diventare un apprendista stregone, innescando un meccanismo di mai superato manicheismo. In questi giorni, lo ha escluso pure Ratzinger, finora in silenzio su questo tema, che ha rilanciato la via del dialogo interreligioso da promuovere fra le religioni monoteiste. A proposito, la risposta più bella al tuo invito l’ho trovata in un libro di Mahmood Mandani, Musulmani buoni e cattivi. La guerra fredda e le origini del terrorismo (Laterza, 2005, pp. 330, Euro 16), che vedrei bene come oggetto di dibattito in classe. Dietro il titolo, già emblematico, l’autore - antropologo e politologo illuminato, direttore dell’Istituto di Studi Africani alla Columbia University - compie un attento giro di compasso al di là delle forzature massmediatiche, della vulgata penzolante a seconda degli interessi, che bypassano la natura reale di questa fase drammatica che investe l’intero pianeta. E lo fa ponendo al centro una grande contraddizione che assegna al musulmano comune l’etichetta di pericolo, mettendolo nelle condizioni coercitive di rendere conto, quasi vergognarsi, della sua appartenenza etnica e delle sue convinte e serenissime pratiche religiose. Per ricordare che si tratta di un procedimento mentale privo di fondamento, senza intenzioni di perversa par condicio, perché - si domanda - si parla troppo poco di Ira e di Eta, per non andare indietro nell’oscuro medioevo? Mamdani si sofferma sulla vera entità della controversia, che richiama la politica, le vicende politiche di fronte alle quali la religione è un oggetto volante tirato in ballo a piacimento, un vetro opaco pretestuoso. Lo ha capito anche Noam Chomsky, che su questa importante pubblicazione fortemente consigliata sotto l’ombrellone che, oltre all’indigestione di sole, tiene al riparo dalla comunicazione alterata, si esprime così: «Esistono musulmani buoni e cattivi? È possibile dividerli in queste due categorie in modo da poter accogliere i primi e scacciare i secondi? Secondo Mamdani è soltanto un modo semplicistico di affrontare la questione. Un po’ come chiedersi se esistono buoni e cattivi cristiani. Di più, è un modo per evitare il confronto e fare i conti con una realtà (il mondo musulmano) che il mondo non può ignorare. Questa inchiesta solleva domande serie e difficili. Ed è soprattutto un prezioso contributo alla comprensione di uno dei più importanti sviluppi dell’era contemporanea».

C. Come darti torto. La tua tesi nasce dal buon senso, mentre guardo all’allarme rosso nei controlli di frontiera, al fallimento strategico che deriva dalla erronea messa in discussione del Trattato di Schengen, una regressione in riferimento a un grande accordo politico, tassello importante all’interno della promozione del processo di pace nella dinamica multietnica di questi anni. Vedi, ho apprezzato molto la tua citazione bibliografica. Non posso non imitarti con una risposta democraticamente colta, e chiudere con l’epilogo di un vecchio ribelle laicamente mistico, Pietro Ingrao, nel libro di Antonio Galdo (Un compagno disarmato, 2004) dedicato al leader comunista: «Il mio Novecento è stato terribile, ma temo che il vostro secolo non sarà migliore del nostro: vedo un mondo dominato dall’arte collettiva dell’uccidere. E da vecchio dico ai giovani: questo non era mai successo. Per fortuna la politica non è morta. Ma per sconfiggere il nemico, la guerra preventiva e il terrorismo, bisogna attrezzarsi con una strategia concreta contro la violenza del tempo contemporaneo. Questo è il tema che riguarda tutti». Sono parole di un operaio permanente nella vigna della pace, che voglio regalarti per incoraggiarti e capire che niente è del tutto perso. La strada è lunga, la speranza non manca. È tanta.

M. Non saprei dirti il perché, il coraggio è accanto a me, a te, ci guarda da vicino. Non bisogna addormentarsi, la notte è ancora lunga. E io non accetto l’idea che un giorno, alzandomi all’alba, il sole non sorga più. Il confronto così lo impedirà. Insieme lo impediremo. Viva la vita!

Giovanni Iaquinta


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