Globalizzazione. Canti di ’ndrangheta....

"MAMMASANTISSIMA" CALABRESE. LA CALABRIA SOTTO PRESSIONE DALL’INTERNO ... E DALL’ESTERO!!! Un’intervista a FRANCESCA VISCONE, sul significato e la portata del "successo" dei "canti di ’ndrangheta".

venerdì 22 dicembre 2006.
 

FRANCESCA VISCONE

CANTI DI ’NDRANGHETA

L’uscita di alcuni cd di canti della mafia calabrese, passata inosservata in Italia, ha suscitato grande curiosità all’estero, con successo di vendite e commenti su tutti i grandi quotidiani. Presentati come canti di rivolta di una regione da sempre oppressa esaltano un mondo brutale e violento, in cui i veri uomini sono solo quelli capaci di uccidere. Un fenomeno nato nelle periferie cittadine. Intervista a Francesca Viscone.

Francesca Viscone, giornalista e insegnante, ha pubblicato, tra l’altro, Le porte del silenzio, La Mongolfiera, 2000, e La globalizzazione delle cattive idee, Rubbettino, 2005 (con presentazione di Vito Teti e postfazione di Renate Siebert).

La pubblicazione all’estero di alcuni cd di canti di ‘ndrangheta ha avuto un’eco inattesa. Il primo cd ha venduto più di 150 mila copie nel mondo. Puoi raccontare?

Il primo cd di canti di ’ndrangheta, intitolato Il canto di malavita, è uscito nel 2000 in Germania, Svizzera e Austria. A questo cd hanno fatto seguito Omertà, onuri e sangu, nel 2002, e Le canzoni dell’onorata società, nel 2005.

Probabilmente noi in Calabria non ci saremmo mai resi conto della pubblicazione di questi cd all’estero se le grandi testate straniere - dal Times al New York Times, da Der Spiegel a Le Monde - non avessero dato grande risalto a tale avvenimento. Anche le televisioni straniere, ad esempio in Germania e in Olanda, hanno dato ampio spazio all’uscita dei cd. In un certo senso, quindi, lo abbiamo scoperto prima tramite la stampa straniera e poi attraverso alcuni giornali italiani che hanno ripreso le notizie pubblicate all’estero. In realtà, però, non si può parlare di una vera e propria scoperta perché eravamo al corrente dell’esistenza e della commercializzazione di queste cassette da almeno venti anni, se non da trenta.

Il punto è che in Calabria nessuno aveva mai dato grande importanza al fenomeno, nonostante fosse stato studiato e analizzato: i canti erano stati oggetto di una tesi di laurea di un etno-musicologo, Ettore Castagna, ed erano stati documentati in alcuni servizi della Rai regionale dall’antropologo Vito Teti. Ad ogni modo, queste testimonianze non avevano avuto una grande eco e, soprattutto, non avevano determinato un aumento delle vendite delle cassette. Ciò si deve al fatto che in Calabria, e penso anche nel resto d’Italia, i canti rappresentano un genere di musica marginale che non gode di una buona reputazione, non soltanto per i valori che veicola e per i messaggi che trasmette, ma anche perché si tratta effettivamente di pessima musica, realizzata con mezzi tecnici artigianali (quindi pessimo sonoro, pessima registrazione).

Per questa ragione era assolutamente impensabile che si potesse determinare un aumento delle vendite, cosa che invece è avvenuta, ad esempio, in Germania. Qui il fenomeno ha avuto un successo enorme e inaspettato. A differenza dell’Italia, ci sono stati concerti pubblici e tournee organizzate con la vendita di migliaia e migliaia di copie. Di conseguenza il cd è uscito anche in altri paesi europei -come l’Olanda, il Belgio e l’Inghilterra- e negli Stati Uniti, tanto che dal primo cd si è passati al secondo e poi al terzo, anche se il successo non ha più raggiunto i livelli de Il canto di malavita.

Quali sono, secondo la tua valutazione, le ragioni che possono aver determinato un tale successo?

A mio avviso questo successo non è stato determinato tanto dal fenomeno musicale in sé -almeno questa è la mia chiave di lettura- quanto dal caso che i giornalisti stranieri hanno creato attorno al fenomeno stesso. Le ragioni che possono spiegare un successo di tale portata si comprendono in gran parte leggendo gli articoli pubblicati dalla stampa internazionale.

I giornalisti stranieri hanno presentato l’uscita dei cd come se, in qualche modo, fossero stati loro ad aver scoperto per primi un fenomeno musicale che veniva mantenuto nascosto perché i canti rappresentavano una sorta di inno ad una specie di setta segreta di mafiosi, o di criminali. Hanno dichiarato che le cassette venivano vendute in maniera clandestina, quando tutte quante hanno il bollino della Siae, i cantanti sono registrati... La verità è che non si tratta di un fenomeno di musica underground, come emerge dalla loro analisi. Nei fatti, però, hanno presentato questo fenomeno come se fosse l’ultima musica popolare europea sconosciuta, quindi come se avessero portato alla luce un fenomeno musicale e popolare che rischiava di morire prima che qualcuno si potesse accorgere della sua esistenza. E poi hanno giocato moltissimo sul proibito: hanno scritto che in Italia la musica della ’ndrangheta è vietata, che chi canta queste canzoni rischia di essere denunciato, di finire in galera.

Qualcuno ha scritto addirittura che esiste un articolo della Costituzione italiana, l’articolo 21, che proibisce questi canti perché andrebbero contro il buoncostume. Ora, non è che i canti non vadano contro il buoncostume, è che effettivamente i cantanti potrebbero essere accusati di apologia di reato, che non è reato solamente in Italia, ma in tutti i paesi, Germania compresa.

Ciononostante, tutto questo è stato presentato come una limitazione della libertà di espressione, vale a dire come una forma di censura. Ma una censura di questo tipo non c’è mai stata dal momento che nessuno ha mai preso in considerazione le cassette da bancarella, nessuno ha mai attribuito loro un valore sociale, di massa, nessuno ha mai creduto che potessero rappresentare un pericolo. Tra le altre cose, più di un giornalista di testate straniere ha definito i canti come la musica dei ribelli, presentando quindi la mafia calabrese come un fenomeno di ribellione sociale. L’origine della mafia, secondo questa interpretazione, andrebbe ricercata quindi nel diritto all’autodeterminazione del popolo calabrese che nel corso della storia si è opposto alle varie occupazioni straniere (dai normanni ai greci, dai turchi ai piemontesi...), quindi come un fenomeno che dal Medio Evo prosegue fino ai giorni nostri.

Risulta evidente che una chiave di lettura di questo tipo ha necessariamente delle implicazioni sull’immaginario comune della Calabria, e non solo. In questo senso qual è l’immagine che ne deriva?

L’immagine della Calabria e dei calabresi che ne viene fuori è terribile: tutti mafiosi, tutti conniventi, tutti complici, un popolo chiuso e molto diffidente nei confronti degli stranieri... L’Aspromonte è stato dipinto come una terra di delinquenti, di latitanti, e alcuni giornalisti hanno persino invitato i propri lettori a non andarci. Altri si sono spinti sino al punto da realizzare interviste a latitanti, a boss, a persone che dichiaravano di aver ucciso e di aver fatto carriera nell’onorata società grazie al consistente numero di omicidi che erano riusciti a realizzare.

Io credo che l’immagine stereotipata del calabrese rozzo, crudele e brutale abbia avuto un grande successo anche perché, tutto sommato, conferma dei pregiudizi che esistono anche in Italia e che hanno un chiaro valore difensivo: in altre parole il fatto di identificare qualcuno come rozzo, violento o selvaggio significa automaticamente differenziarsi da lui, mettendo al sicuro la propria cultura, la propria società, la propria individualità da possibili contaminazioni con tutto ciò che si riversa addosso all’altro.

Allo stesso tempo non si può attribuire tutta la responsabilità di ciò che è successo all’estero ai giornalisti. Voglio dire, erano stranieri, erano ignoranti, si sono fidati dei propri informatori, ma l’immagine che è stata diffusa all’estero rispecchia quella che anche molti calabresi hanno della Calabria, e non mi riferisco solamente a quelli che sono andati via da questa regione, ma anche a persone che continuano a viverci e che la percepiscono in questo modo. Chiaramente non si tratta di un’immagine generale, però a mio avviso la prima responsabilità è nostra, di noi calabresi. I cantanti non hanno avuto alcun problema a dichiarare davanti alle telecamere delle televisioni straniere che la mafia è bella, riferendosi con ciò non alla criminalità organizzata di oggi, ma ad una vecchia mafia che probabilmente non è mai esistita in questi termini. Questo è un fenomeno che racconta molto bene l’immaginario collettivo mafioso e la mentalità mafiosa. Pochi mesi fa, tra l’altro, il produttore dei cd, Francesco Sbano, ha presentato un documentario dedicato agli uomini d’onore, in cui alcuni di questi raccontavano la loro storia con un certo romanticismo, mentre altri, studiosi o storici locali, giustificavano l’esistenza della mafia colpevolizzando esclusivamente lo Stato post-unitario e quello contemporaneo. Secondo questo documentario, insomma, i mafiosi sarebbero le vere vittime della storia.

Da questo punto di vista i canti sostengono un’immagine idealizzata di una cosiddetta vecchia mafia. Quali sono, secondo te, i messaggi che traspaiono dall’analisi dei testi?

I canti di ‘ndrangheta sono una sorta di vademecum, una specie di elenco di comandamenti, una guida, potremmo quasi dire, su come si entra e come ci si comporta nella ‘ndrangheta: quali sono i valori dell’uomo d’onore, cosa sono l’onore e l’omertà, perché è necessaria la vendetta... In questo senso i proverbi, i modi di dire e le canzoni, appunto, fanno parte di una sorta di corpus giuridico che indica cosa fare e cosa non fare. Si tratta di un corpus giuridico parallelo a quello dello Stato, caratterizzato da una forte rigidità. Questa rigidità, che emerge in modo molto chiaro nei canti, nega ogni possibilità ad un ritorno sui propri passi; è un nuovo “battesimo”: essere battezzati una seconda volta, cioè affiliarsi ufficialmente all’organizzazione, comporta una sorta di nuova nascita e significa entrare in un mondo parallelo, un mondo separato; in sintesi significa diventare uomo.

Questi canti hanno quindi una grande importanza dal punto di vista dell’ideologia della criminalità organizzata perché, ad esempio, giustificano l’omicidio per mafia. Da questo punto di vista, quindi, esiste un problema reale, perché si tratta di canti per i quali si potrebbe anche essere accusati di apologia di reato. Se vogliamo analizzare in profondità questi canti, però, occorre sottolineare che esiste una notevole differenza tra la criminalità organizzata di oggi, inserita in un contesto globalizzato, e la criminalità che viene celebrata nelle canzoni. Quella delle canzoni fa sempre riferimento a una cosiddetta vecchia mafia, rurale e arcaica, che nella realtà o non esiste o, se esiste, convive in ogni caso con la criminalità più evoluta. I canti esprimono e rappresentano in maniera molto fedele questa mentalità mafiosa e, in qualche modo, anche l’immaginario collettivo che le persone hanno della mafia, indipendentemente dalla loro prossimità al mondo mafioso. Nei canti, ad esempio, emerge il senso di appartenenza all’organizzazione, che viene intesa come una società segreta completamente separata dal resto della società. Questo comporta che solamente coloro che ne fanno parte possono essere considerati uomini e ciò non significa solamente che sono uomini d’onore, ma che sono uomini con il valore di uomini e con il valore di persone. Quindi chi non fa parte dell’organizzazione -e questo emerge in maniera molto chiara nelle canzoni- non è persona, cioè non ha il valore umano, e proprio per tale ragione può essere ucciso. Conta soltanto la vita degli affiliati: loro vengono esaltati nei canti come fossero eroi popolari e su di loro si scrivono ancora oggi degli inni, come quelli dedicati a Bellocco che sono stati scoperti dopo il suo arresto nella zona di Rosarno. La vita degli altri non vale niente e, di conseguenza, nei loro confronti i canti sono ricchissimi di minacce e di insulti. In sintesi quello che emerge è un mondo alla rovescia in cui gli onesti sono coloro che rispettano le regole dell’organizzazione -quindi l’omertà, il rispetto, l’onore e la capacità di farsi vendetta- e la criminalità vera e propria è quella di chi vive nel nostro mondo di persone normali che riconoscono l’autorità dello Stato e che, in questa ottica, vengono considerate incapaci di farsi giustizia da sé.

Da questo punto di vista i giornalisti stranieri si sono prestati in maniera eccezionale a questo gioco avvalorando l’auto-rappresentazione della ’ndrangheta, il modo, cioè, in cui gli uomini dell’organizzazione si presentano alla gente. Questa auto-rappresentazione, però, non è solamente un mezzo per auto-giustificare la propria esistenza, ma è anche un mezzo per ottenere consenso. Lo scopo dei canti è anche, come qualcuno ha scritto, quello di trascorrere allegramente qualche serata, ma è soprattutto quello di veicolare l’immagine idealizzata che la ’ndrangheta ha di se stessa. Tutto questo avviene in maniera abbastanza pericolosa perché con la ripetizione della musica e delle parole si stabiliscono dei meccanismi, degli automatismi tali per cui ci si riscopre a canticchiare e a ripetere queste canzoni. A mio avviso questo può significare tante cose: da un lato, c’è indubbiamente un senso dell’ironia, del ridicolo -anche perché le parole sono davvero incredibili- ma, dall’altro, non si può sapere come questi messaggi vengano recepiti da certi strati della popolazione e, soprattutto, non si può sapere se il fatto che queste cassette abbiano un mercato -ed evidentemente ce l’hanno anche in Calabria- sottintenda una certa condivisione dei valori. Io credo che il fatto che la società consideri come normale un fenomeno del genere, che lo avverta come qualcosa che non deve essere combattuto, può significare due cose: o che è una società con degli anticorpi molto forti, o che è una società collusa. Personalmente non mi pare che la società calabrese abbia degli anticorpi molto forti o sia una società capace di difendere le proprie istanze di civiltà e di democrazia.

Se valutiamo queste cassette da un punto di vista puramente commerciale, verrebbe da chiedersi quale sia il target di pubblico a cui si rivolgono e, allo stesso tempo, che interesse abbiano le persone che le producono, anche perché stiamo parlando di un fenomeno, quello mafioso, che si basa proprio su una rigida segretezza.

A questa domanda è difficile dare una risposta, però questo discorso della segretezza, e della non segretezza, è molto interessante. Il fatto che l’organizzazione sia segreta risulta molto utile per diverse ragioni: innanzitutto per rafforzare il senso di appartenenza, quindi per creare coesione nel gruppo; in secondo luogo per creare una separazione netta tra chi è dentro e chi è fuori, quindi tra chi è uomo e chi non lo è; in terzo luogo per aumentare il prestigio degli affiliati e quello dell’organizzazione stessa, perché in fondo si tratta di una segretezza relativa nel senso che in realtà tutti sanno. Nello stesso tempo il fatto che tutti sappiano e nessuno parli, o che tutti sappiano ma nessuno lo sappia ufficialmente, aumenta il fascino dell’organizzazione, anche perché, evidentemente, non tutti possono farne parte. Occorrono dei riti, dei battesimi, si viene scelti da piccoli e seguiti.

E’ difficile dire perché queste canzoni vengano prodotte e che tipo di interessi abbia chi le canta. Indubbiamente c’è un mercato fiorente e quindi interessi commerciali da non sottovalutare. A volte si tratta di cantanti indifferenti al messaggio sociale, di persone che cantano queste canzoni così come ne cantano tante altre. Non credo, cioè, che ci sia sempre una condivisione dei valori e dei messaggi né da parte di chi canta queste canzoni, né da parte di chi le ascolta, ma non posso nemmeno escluderlo. Dalle interviste che i cantanti dei tre cd hanno rilasciato, emerge chiaramente il loro amore nei confronti del mito della vecchia mafia: una società arcaica, legata ad ambienti rurali, che nell’immaginario collettivo si ergeva a difensore delle donne e dei bambini. Peccato però che questa vecchia mafia non sia mai esistita: la mafia è sempre stata un’associazione criminale ed è storicamente insostenibile la tesi secondo cui l’efferatezza della criminalità organizzata si sia affermata a partire dagli anni Settanta.

Per quanto riguarda il tipo di pubblico, invece, io dividerei innanzitutto l’Italia dall’estero. La presentazione che è stata data di questa musica all’estero -quindi come la musica di un popolo che si ribella per motivi nobili, che non accetta di sottomettersi alla dominazione dei piemontesi, che non vuole essere influenzato dall’esterno, che lotta contro uno Stato ingiusto che non dà ma prende- ha attirato l’attenzione di un pubblico “alternativ”, come viene chiamato in Germania, cioè un pubblico di cultura genericamente e superficialmente di sinistra, composto da appassionati di musica etnica che hanno creduto probabilmente che queste canzoni fossero qualcosa di simile a quelle dei ribelli dell’America Latina. Sicuramente, quindi, si tratta di un pubblico abbastanza curioso rispetto a culture diverse dalla propria, e soprattutto attratto dal gusto del proibito. Io ho visto diversi documentari realizzati dalle televisioni straniere e ho notato che la prima cosa che dicevano era che questa musica era proibita, era vietata, quindi che in un certo senso era la musica della trasgressione.

In Calabria il discorso è certamente diverso. Ci sono tante persone, e tra queste ci sono anch’io, che ogni tanto comprano le cassette per curiosità. So che ci sono carabinieri e dirigenti di Questura che ne fanno collezione, che le ascoltano e ridono, anche perché i canti utilizzano un linguaggio e una terminologia così arcaici, ma anche così brutali, che nella vita quotidiana nessuno oserebbe mai utilizzare. E’ un linguaggio che facilmente ti dà il senso del paradosso, del ridicolo; purtroppo, a mio avviso, non lo si prende molto sul serio, nel senso che si fa l’errore di non considerarlo espressione di mentalità. E poi, come dicevo prima, c’è anche un pubblico che, evidentemente, ascolta questa musica condividendone i messaggi ed i valori.

Qual è il rapporto tra i canti di ‘ndrangheta e la tradizione popolare calabrese? I confini tra l’una e l’altra sfera sembrano abbastanza sfumati...

Il discorso sul rapporto tra la musica della mafia e la tradizione popolare non è semplice, e non è neppure molto scontato. Io credo che i giornalisti stranieri e i produttori dei cd abbiano utilizzato questa eguaglianza, o presunta eguaglianza, tra musica popolare e musica mafiosa proprio per nobilitare quest’ultima. Quando si parla di cultura popolare si parla di una cultura millenaria, e soprattutto di una cultura estremamente condivisa. La musica della mafia non può essere più vecchia della mafia stessa, per cui parliamo di un fenomeno presente da un secolo e mezzo, due secoli al massimo. Se si parla di mercato musicale, le prime cassette risalgono agli anni Settanta, mentre se consideriamo le cosiddette canzoni di carcerato, andiamo ancora più indietro nel tempo, alla fine dell’Ottocento, o all’inizio del Novecento. A ogni modo i canti di carcerato erano una cosa completamente diversa dalla musica della mafia, anche se c’è qualcuno che sostiene invece che i canti di mafia sarebbero una ulteriore evoluzione dei canti di carcerato.

In realtà la differenza è sostanziale, ad esempio nei toni: i vecchi canti di carcerato sono malinconici, non c’è crudeltà, non c’è desiderio di vendetta, ma piuttosto il ricordo malinconico dei propri cari, della madre o della donna amata. Non ci sono quelle minacce terribili e cruente che troviamo invece nei canti di ‘ndrangheta, dove, a proposito degli infami, cioè di coloro che tradiscono, si dice che verrà loro spaccato il cuore, mangiato il fegato, oppure che finiranno murati nel cemento. I canti di ‘ndrangheta non possono essere considerati cultura popolare anche perché non sono condivisi a livello regionale, ma nascono in una zona estremamente limitata della Calabria che non è, come qualcuno potrebbe pensare, l’Aspromonte, ma la periferia urbana di Reggio Calabria e Cosenza. Sono, cioè, un fenomeno urbano, e di conseguenza moderno. Non hanno niente a che vedere con le campagne o con le montagne dell’Aspromonte, e neppure con i canti sui briganti. Io credo che ci sia una ragione che favorisce questa ambiguità, questo accostamento tra canti di ‘ndrangheta e cultura popolare, ed è il fatto che i canti di ‘ndrangheta si innestano su musiche popolari, ad esempio la tarantella, che, ad ogni modo, vengono utilizzate semplicemente come basi musicali. E poi ci sono differenze sostanziali: ad esempio il fatto che la musica popolare calabrese utilizza la chitarra battente, mentre i musicisti dei canti di ‘ndrangheta suonano la chitarra francese, quella con le corde in nylon. La differenza si percepisce anche a partire dalla voce: molto spesso i cantanti di musica popolare avevano una voce poco curata, a volte erano stonati, ma proprio perché a loro non interessava avere un canto puro, pulito nel modo in cui lo intende la musica colta; nei cd di canti di ‘ndrangheta, invece, tutto è estremamente nitido, la voce è impostata... Questo chiaramente non parla a favore dell’appartenenza di questa musica alla cultura popolare.

Rimanendo nell’ottica di questa relazione con la tradizione popolare, è interessante analizzare l’immagine che i produttori dei cd hanno scelto di mettere sulla copertina de Il canto di malavita: si tratta della statua di una Madonna portata in processione e seguita dalla gente e da due carabinieri. Chiaramente parliamo di un’immagine estremamente ambigua, soprattutto agli occhi di un pubblico straniero. Sinceramente credo che nessuno si sia chiesto perché ci fosse la fotografia di una statua della Madonna sulla copertina di un cd di canti di ‘ndrangheta. Un giornalista ha addirittura scambiato quella foto che ritraeva una processione per la foto di un funerale... Dico questo perché penso che nel centro e nel nord Europa sia assolutamente incomprensibile il legame tra la pietà popolare, la fede popolare, e la ‘ndrangheta. Si tratta di un legame che nella realtà non esiste, ma non è che questo rappresenti una forzatura in sé.

Il fatto centrale è che la signoria territoriale che le mafie esercitano nelle zone in cui sono presenti è tale per cui stabilisce un controllo su qualsiasi ambito: non ci sono settori della vita pubblica, o della vita della comunità, che possano sfuggire a questo controllo. Per tale ragione in alcune zone è diventato un elemento di prestigio il fatto che il mafioso del paese porti a spalla le statue dei santi durante le processioni.

Ora, questo accostamento tra religione e ‘ndrangheta, assieme alla presenza dei carabinieri, lascia degli ampi spazi di interpretazione, quasi come se manifestasse un consenso generale alla presenza della mafia sul territorio. Questa analisi, però, implicava la conoscenza del fenomeno e, soprattutto, la capacità di decodificare la simbologia e il linguaggio. Una delle peculiarità delle canzoni, infatti, è che utilizzano un linguaggio molto forte, non soltanto perché ricco di minacce, ma anche perché la simbologia presente in esso fa riferimento a una realtà arcaica che non può essere compresa immediatamente. Quindi l’accostamento tra musica mafiosa e cultura popolare che hanno fatto i cronisti stranieri dimostra certamente una evidente ignoranza. D’altra parte, è innegabile che sia in atto un vero e proprio tentativo di appropriazione della cultura popolare da parte di quella mafiosa, e questo lo vediamo, appunto, nelle processioni.

Io ho deciso di concludere il mio saggio con un reportage da Polsi, un santuario che si trova nel cuore dell’Aspromonte, in una zona in cui ci sono diversi paesini noti per la presenza del fenomeno mafioso. Polsi è il luogo della pietà popolare più rappresentativo della cultura calabrese, un luogo in cui il 2 settembre di ogni anno convergono migliaia di persone, tra cui molti calabresi emigrati che ritornano appositamente per la festa, e dove si celebra questo rito di adorazione di una statua della Madonna ricavata da una pietra pesantissima. Si tratta di un luogo dove si esprime una cultura religiosa millenaria, in cui ci sono tracce del culto delle pietre, del culto del sole, quindi di culti praticati da uomini che appartenevano ad una realtà arcaica.

Ora, nessuno può sostenere che questo luogo, dove andavano a pregare anche i mafiosi, dove si cantavano tante canzoni popolari, ma anche i canti di mafia, sia un luogo di mafia e basta, o sia un luogo in cui si esprime una religiosità intesa come espressione di una mentalità mafiosa. Ci sono tracce di una cultura antichissima su cui si sono sovrapposte tracce di una cultura moderna, quella mafiosa, che è arrivata successivamente.

Io credo che sia molto importante che si ponga l’accento sul fatto che i canti di natura mafiosa non siano eterni, non durino da un millennio, ma da un secolo e mezzo o due, perché dire questo, dire cioè che la cultura e la mentalità mafiosa hanno avuto un inizio, significa anche dire che avranno una fine.

* UNA CITTÀ, n. 143 / novembre 2006


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  ’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA...

-  "TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!


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