INDICE:
PREFAZIONE di RICCARDO POZZO
[...] Il lavoro che si presenta ha l’obiettivo di mostrare il valore euristico della filosofia di Kant per chiarire la problematica dell’illusione in quanto processo naturale e necessario nel quadro della filosofia della cultura di Freud. La Sala procede nel solco aperto da Jonathan Lear nel suo mirabile volume su Freud, che non a caso contiene un’analisi a tutto campo dell’impatto di Aristotele sulla psicoanalisi (1), che è di per sé una parte centrale della generale questione dell’impatto di Aristotele sulla filosofia moderna (2). La Sala contribuisce alla linea di ricerca aperta da Zelijko Loparic con la fondazione della Sociedade Brasileira de Psicánalise Winnicottiana e da Béatrice Dessain su Kant e Winnicot, che sta avendo degli sviluppi significativi da parte di Loris Notturni [...]
NOTA INTRODUTTIVA
ESSERE GIUSTI CON KANT - E CON FREUD.
PREMESSA
A FREUD, GLORIA ETERNA!!!
INTRODUZIONE
VIAGGIO DI “LAIO”, DEL “SANTO PADRE” A MALTA SULLE ORME DI PAOLO DI TARSO: 2010 d. C
CAP. 1
“L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA”.
CAP. 2
EICHMANN A GERUSALEMME NEL 1961: DOPO AUSCHWITZ, KANT "ALLA BERLINA". Hannah Arendt, Emil Fackenheim, e l’ "Imperativo Categorico del Terzo Reich".
CAP. 3
KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.
CAP. 4
KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
CAP. 5
FREUD, LA LEGGE DEL FARAONE-DIO, E LA LEGGE MORALE DI KANT. Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal “Super-Io” del Faraone.
CAP. 6
UNA ‘CONCLUSIONE’ DI KANT (1766): L’AUTOANALISI, E LA BILANCIA DELLA GIUSTIZIA (CON LA SPERANZA) RITROVATA. UNA PAGINA DALLA “CONCLUSIONE TEORETICA RICAVATA DAL COMPLESSO DELLE CONSIDERAZIONI DELLA PRIMA PARTE” DELLA INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI DI UN VISIONARIO SPIEGATI CON I SOGNI DELLA METAFISICA”
CULTURA E SOCIETÀ - CINEMA E PSICOANALISI...
di G. Jodice.
Recensione di Giorgio Mattei
Il legame tra psicoanalisi e poesia risale agli albori della disciplina che ha per oggetto lo studio dell’inconscio. A più riprese, Freud ha fatto riferimento alle opere di Shakespeare, Goethe e altri poeti per chiarire i concetti che andava scoprendo nella pratica clinica, e ha approfondito in un saggio “quella personalità ben strana che è il poeta” (Freud, 1908).
Pertanto, la visione de “Il cattivo poeta” si impone quasi come una necessità, anche perché narra gli ultimi anni di vita di uno dei massimi poeti italiani, Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un film splendido e necessario.
È splendido per molteplici ragioni, che risiedono nell’alchimia che origina dall’intreccio tra sceneggiatura, regia e interpretazione di tutto il cast di attrici e attori (notevole Sergio Castellitto nel ruolo del poeta). Ne risulta una narrazione per immagini avvincente, impreziosita dalle vedute del Lago di Garda, e dalle numerose scene girate dentro alla Prioria del Vittoriale degli Italiani, la monumentale residenza di Gardone in cui il poeta si ritirò a vivere nel 1921.
È un film anche necessario, come tutto ciò che riguarda i poeti e le loro vite, e come tutto quanto affronta quella ferita mai pienamente elaborata che è il fascismo.
L’unico limite è rappresentato da un atteggiamento eccessivamente indulgente nei confronti di D’Annunzio, che sembra mirare alla riabilitazione di una delle figure più controverse della nostra cultura, come se per fare da contrappeso a decenni in cui egli è stato spesso ridicolizzato e sminuito (in primis, per ragioni politiche) ci si dovesse ora sbilanciare nella direzione opposta. Ciò pare in linea con la nostra contemporaneità, pur non rappresentando una necessità storica: tutta la poesia italiana del Novecento testimonia della imprescindibilità di questo grande poeta.
A partire dalla visione del film si delinea un interessante parallelismo. Come ogni poeta non può evitare di confrontarsi (e al limite scontrarsi) con D’Annunzio, così un italiano non può evitare di fare i conti con quella ferita storica che è il fascismo. Un fenomeno sociopolitico tutto nostrano, una forma atroce e antesignana di “made in Italy”, poi esportata nel resto d’Europa. Ricordo che i miei anziani, che vivevano poveri in quella che allora era una piccola città emiliana, non temevano i tedeschi: temevano gli italiani. Forse la mancata elaborazione del fascismo come fatto storico e psicologico rappresenta uno degli aspetti, tra gli altri, che ha reso l’Italia un “paese mancato” (Crainz, 2003).
Tornando al film, il titolo, a prima vista, lascia spiazzati. Chi è “il cattivo poeta”? Forse si tratta di D’Annunzio, “cattivo poeta” nella misura in cui non appoggia l’Asse Roma-Berlino. Oppure di Mussolini, “cattivo poeta” che divora e dilania il linguaggio dannunziano, adulterandolo con la violenza squadrista. Ma anche Giovanni Comini (magistralmente interpretato da Francesco Patanè), appena promosso federale di Brescia e introdotto al Vittoriale come spia, diventerà, dopo l’incontro con D’Annunzio, un “cattivo poeta.”
Ho voluto richiamare l’attenzione solo su alcuni dei molteplici temi che si offrono alla riflessione, anche di tipo psicoanalitico, ma ce ne sono altri, tra i quali la psicologia delle masse e il complesso del padre (Freud, 1921; Zoja, 2000), oppure l’economia psichica alla base delle dipendenze, davvero molteplici nella vita del poeta (McDougall, 1995).
Un ulteriore elemento di fascinazione per il film, che mi preme di ricordare, è rappresentato dalla sua capacità di parlare al presente. In una scena, il camerata Giovanni Comini, rivolto alla donna che ama, afferma: “Mussolini è l’unico che ha il coraggio di dire le cose e la forza per realizzarle.” Più avanti, è il poeta abruzzese ad affermare: “Sono tempi dal cielo chiuso, senza nessun indizio di certezza.” Frasi, queste, che con minimi aggiustamenti potrebbero essere udite anche oggi.
Riferimenti bibliografici
Crainz G. (2003). Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta. Torino, Donzelli.
Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. OSF, 5. Torino, Boringhieri, 1989.
Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, Torino, Boringhieri, 1989.
McDougall, J. (1995). Eros. Le deviazioni del desiderio. Milano, Raffaello Cortina, 1997.
Zoja E. (2000). Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. Torino, Boringhieri.
* Società Psicoanalitica Italiana - SPIweb 26/10/21 (ripresa parziale - senza trailer).
NOTA:
PSICOANALISI E "PSICOLOGIA DI MASSA DEL FASCISMO" (Wilhelm Reich, 1933).
STORIA E MEMORIA: "D’Annunzio: The First Duce" (Michel Ledeen, 2001).
RICOMINCIARE A PENSARE DA CAPO!
FORSE è bene ricordare anche LA DEDICA DI FREUD A MUSSOLINI sul volumetto del Carteggio con Einstein, intitolato "Perché la guerra?" (!933) E IL LAVORO DI ELVIO FACHINELLI sulla" FRECCIA FERMA", sul nesso tra una SOCIETA’ ARCAICA, la NEVROSI OSSESSIVA, E il FASCISMO del 1979.
Federico La Sala
LE IDEE
La legge che zittirà i blogger
di JUAN CARLOS DE MARTIN* (La Stampa, 28/7/2010)
E’davvero singolare. Da circa 15 anni viviamo, grazie alla tecnologia, in un mondo che permette di realizzare - quasi perfettamente e con relativamente poco costo e fatica - un’aspirazione antica almeno quanto la Grecia classica. Un’aspirazione che con l’Illuminismo diventa diritto, diritto che, incastonato nelle costituzioni moderne, diventa quindi un pilastro delle nostre democrazie. Parlo della libertà di parola (e del suo diritto gemello, la libertà di informazione).
E’con la nascita del web, infatti, che diventa relativamente facile ed economico fare qualcosa che fino a quel momento aveva richiesto o grandi capitali o la possibilità - ardua - di trovare spazio nei mass media, cioè, far arrivare il proprio messaggio, qualunque esso sia, potenzialmente a chiunque. Il web, infatti, fin dalla nascita, a inizio anni 90, si presenta come un medium «leggi-scrivi», ovvero, bi-direzionale, che rende facile non solo consumare contenuti, ma anche produrne e condividerli potenzialmente con chiunque abbia accesso a Internet (1.8 miliardi di persone secondo le statistiche più recenti). Condivisione che con gli anni è diventata sempre più facile e intuitiva, grazie a innovazioni come i blog (commentari con gli interventi presentati in ordine cronologico inverso, ovvero i più recenti in cima - 130 milioni secondo i dati più recenti), i wiki (pagine web facilmente modificabili da chi le legge, come quelle dell’enciclopedia online Wikipedia) e le grandi piattaforme di aggregazione come YouTube o Vimeo per i video, Flickr per le fotografie e le reti sociali, che pubblicano ogni mese (anche se in genere a un pubblico ristretto ai loro utenti), miliardi di testi, foto e video.
Gli utenti della Rete hanno accolto entusiasticamente questa opportunità di esprimersi. A seconda, infatti, dei sondaggi (per esempio, quelli di Pew Research), dal 40 al 60% degli internauti pubblica contenuti di varia natura. Contenuti ovviamente molto eterogenei tra loro, ma ciascuno realizzazione tangibile di quell’antica aspirazione, ovvero, permettere a ciascun individuo di presentare il proprio punto di vista. Punto di vista che non raramente contribuisce al pubblico dibattito in vista di una deliberazione, realizzando quella che i greci chiamavano isegoria - il diritto di prendere la parola su questioni di interesse generale. Dire, quindi, che Internet rappresenta il più straordinario e ampio spazio pubblico della storia è semplicemente ricordare un dato di fatto. Tra l’altro uno spazio pubblico molto discreto, che non invade le case o le strade, che non ci assorda le orecchie e non ci occupa la visuale, se non quando noi, liberamente, scegliamo di consultarlo online.
Eppure, singolarmente, diversi politici italiani, anziché concentrare le loro energie su come estendere l’esercizio di questa libertà a tutti i cittadini (il «digital divide» italiano, infatti, riguarda ancora oltre metà della popolazione), o su come più efficacemente educare la popolazione ad un uso maturo e consapevole della Rete (non si impara, infatti, in un giorno a guidare una Ferrari se si è sempre solo andati in bicicletta), da circa due anni sembrano cercare il modo di rendere l’espressione del proprio pensiero online più difficile e gravosa. Dopo diversi tentativi, forse ci stanno finalmente per riuscire. Il comma 29 dell’articolo 1 del decreto sulle intercettazioni in discussione in questi giorni alla Camera, infatti, estende - nella sua forma attuale - a tutti i gestori di siti informatici l’obbligo di rettifica previsto dalla legge sulla stampa: qualora non si dia seguito entro 48 ore ad una richiesta di rettifica, si è soggetti a una sanzione fino a 12 mila e 500 euro. Indipendentemente dal fatto che dietro al sito ci sia una struttura professionale o un semplice individuo, ovvero, che si tratti del sito, per esempio, de «La Stampa» o del blog della signora Maria Rossi, del sito di una grande azienda o di quello di una scuola elementare.
La proposta è infondata nelle motivazioni e potenzialmente molto nociva negli effetti. La motivazione è che Internet non deve essere, secondo i proponenti, un territorio senza legge dove ognuno dice quello che vuole. Tuttavia, dire quello che si vuole è un diritto costituzionalmente garantito, anche se, come è ovvio, nei limiti previsti dalla legge (diffamazione, calunnia, eccetera). E la legge vale online esattamente come altrove - da sempre.
In merito agli effetti, l’eventuale approvazione di questa norma avrebbe un grave effetto sulla libertà di espressione e di informazione, dal momento che scoraggerebbe moltissime persone, aziende e istituzioni dall’esprimersi online. Quante persone, infatti - o anche piccole aziende, associazioni, scuole, università, eccetera - se la sentirebbero di correre il rischio di pubblicare qualcosa non potendo garantire, 356 giorni all’anno, di riuscire a intervenire tempestivamente in caso di richiesta di rettifica? E anche quei rari individui che se la sentissero di garantire una così assidua presenza alla tastiera, come potrebbero discriminare con efficacia tra le richieste di rettifica fondate e quelle infondate, se non addirittura apertamente censorie? I giornali hanno uffici legali abituati a vagliare questo tipo di richieste; un generico blogger certamente no. Non è, quindi, difficile ipotizzare che, nel dubbio, le richieste di rettifica verrebbero sempre accolte - con un grave impoverimento della libertà di parola e di informazione online del nostro Paese.
È, quindi, davvero singolare quanto sta accadendo in Parlamento. Oppure no, non lo è affatto. Il web ha, infatti, radicalmente decentralizzato la produzione di messaggi, col risultato che il controllo sulle informazioni che giungono ai cittadini si sta indebolendo ogni giorno di più. Ciò per alcuni è evidentemente un problema. Per tutti gli altri, però, è una conquista da migliorare ed estendere.
*docente del Politecnico di Torino
Il vuoto delle religioni
di Moni Ovadia (l’Unità, 24 luglio 2010)
I tempi di crisi, a senso di logica, dovrebbero sollecitare pensieri e riflessioni che consentano agli esseri umani di proiettarsi al di là dei semplici aspetti materiali dell’esistenza per interrogarsi sul senso profondo della vita. La religione dovrebbe essere l’ambito ideale per siffatte interrogazioni ma non è così.
La questione sia chiaro non è tanto quella dello scandalo pedofilia che ha di recente travolto la Chiesa cattolica, né quella di rabbini dei partiti religiosi dello schieramento politico israeliano che tengono in scacco la democrazia dello stato ebraico con la scusa della religione dietro alla quale si mascherano biechi interessi di potere. E neppure l’islamismo politico con le sue derive terroriste è il vero punctum dolens.
Il vero problema è che le istituzioni religiose non hanno saputo cogliere le preziose opportunità offerte dal formarsi di società democratiche e aperte per farsi maestre di una spiritualità laica fondata sull’etica del primato della coscienza, della libertà, dell’uguaglianza della giustizia sociale, dell’amore.
Hanno continuato a baloccarsi col potere per garantirsi le solite rendite di posizione, o si sono accaniti con furori normativi sui i presunti fondamenti naturali della sessualità, non solo manifestamente falsi ma persino ridicoli, hanno preteso di confinare la famiglia entro schemi storicamente frusti, la famiglia, una struttura sociale in evoluzione e in particolare negli ultimi lustri in impetuosa evoluzione. Da tempo non esiste un solo paradigma di famiglia ma molti modelli di famiglie.
Le istituzioni religiose si ostinano a pretendere il potere della verità assoluta su l’origine della vita, sul senso ultimo della morte e solo a parole accettano il confronto laico delle opinioni sui grandi temi della bioetica. Ossessionate dal monopolio della verità, le religioni hanno abbandonato l’uomo al culto di Mamona.
Le Beatitudini: Beati i puri di cuore
“Avere il cuore puro, è vedere l’altro
in quanto altro”
intervista a Jean-Luc Nancy,
a cura di Élodie Maurot
“La Croix”, 23 luglio 2010
traduzione: www.finesettimana.org
Come risuona per lei, di primo acchito, il testo delle Beatitudini?
Non è un testo che ho l’abitudine di frequentare. Diciamo che lo intendo innanzitutto come una promessa di felicità, ma che contiene sempre il rischio di essere una falsa promessa. È certamente il testo biblico per il quale mi pongo subito in una prospettiva critica e diffidente, perché le Beatitudini hanno tutte quelle caratteristiche della parola che dà sollievo, che smussa gli angoli, che cancella gli ostacoli. Concentrano, a mio avviso, quanto c’è di più difficile e di cui sospettare nel messaggio cristiano. Vi si reperisce troppo facilmente una “buona volontà”, piena di buone intenzioni, che resta lontano da ciò che con Kant si può definire una “volontà buona”. Le Beatitudini ci mettono sempre davanti ad un dilemma: o si tratta di un pacchetto di buone intenzioni dolciastre, addirittura sdolcinate, che cercano di sedurre i lettori e gli ascoltatori con una sorta di assopimento della loro vigilanza, come un oppio dei popoli particolarmente potente, oppure si tratta di qualcosa di radicalmente diverso...
Lei ha lavorato molto sul linguaggio. È sensibile alla forma di questo testo?
La grande caratteristica del Vangelo è di essere un libro religioso che non contiene molta dottrina. Un libro in cui la “dottrina” è interamente offerta con parole pronunciate in certe situazioni. Le Beatitudini portano questo paradosso al culmine. Siamo all’acme del racconto evangelico, nel momento in cui ci si potrebbe attendere uno sviluppo dottrinale, invece, appunto, la dottrina non arriva. E Cristo pronuncia le Beatitudini. Ciò mi fa pensare a Nietzsche che dice: “Se Cristo fosse vissuto più a lungo, avrebbe abolito la sua dottrina.” Nietzsche manifesta in questo la sua profonda comprensione del cristianesimo. Ha capito molto bene che il cuore del cristianesimo non consisteva in una dottrina, ma in una vita. Questo nocciolo duro, etico se si vuole (se questa parola non è troppo consumata), non si lascia assorbire dai montaggi teorici, teologici o ecclesiastici. È un nocciolo molto resistente, mentre la forma che assume è apparentemente fragile, narrativa, invece di essere dottrinale, e il suo contenuto si situa interamente nella dolcezza.
Questo permette di intendere in modo diverso questo testo, di cui lei sottolineava ora l’ambivalenza?
Le Beatitudini, tutte insieme, sono l’amore. E l’amore cristiano, è un paradosso completo. È l’impossibile per eccellenza e, al contempo, come dice Freud, è la sola risposta che sia all’altezza della violenza umana. Freud scrive questo subito dopo la Prima Guerra mondiale, quando la violenza si era scatenata sotto i suoi occhi. Lì sta tutto il paradosso: è una risposta impraticabile e, al contempo, solo quello resiste! Le Beatitudini pongono il problema dell’amore cristiano e l’amore pone subito il problema del suo carattere “felice”.
Come intende lei questo “beati”, “felici”, che scandisce le Beatitudini?
Il “felici” o “beati” del Vangelo risuona in una società in stato di profondo disorientamento. Il mondo nel quale nasce il cristianesimo è un mondo che crolla, che perde le sue sicurezze, che perde di senso, che viene messo di fronte ad una perdita generale dei suoi punti di riferimento. Uno storico dell’antichità, che Freud cita nel suo Mosè, scrive a proposito di quell’epoca: “Sembra che una gran malinconia si sia impossessata in tutti i popoli del Mediterraneo.” Questa frase, così sorprendente per uno storico, dice una grande verità. Il mondo politeista che scompare è infatti un mondo nel quale gli dei, anche quelli cattivi, anche quelli minacciosi, erano presenti dappertutto. Era un mondo nel quale ci si poteva ritrovare, orientare. Invece, il tempo della Roma imperiale è un tempo di grande angoscia e di grande abbandono. Lo stoicismo e l’epicureismo che si sviluppano a quell’epoca sono del resto dei tentativi di rispondere a quel disorientamento. Stoici ed epicurei sono dei tormentati che cercano di sviluppare tutta una serie di esercizi per preservarsi da quel disorientamento, pur rassegnandovisi.
Qual è la felicità proposta qui?
Il “beati” del Vangelo non vuole tanto dare felicità o soddisfazione, quanto indicare una via per uscire dall’angoscia. Le Beatitudini non designano felicità, ma un atteggiamento, una disposizione generale della vita umana che sfugge al contempo all’angoscia e alla rassegnazione.
Non è una risposta che assume la forma di consigli morali...
Infatti, è un pronunciamento, un po’ ritmico. È un’arringa, ma non solo. È piuttosto un’esclamazione e quindi una celebrazione. “Beato” significa qui “glorioso”, “in gloria”. È quasi come dire “santo”... Le Beatitudini “mettono in gloria” coloro ai quali esse sono rivolte. Sono una celebrazione di coloro che sono nelle disposizioni descritte. Non sono dei consigli o delle indicazioni di comportamento dedotte da principi, ma è l’affermazione che “è così”. È molto interessante che non si sia nell’ambito dell’esortazione morale. Cristo celebra qualche cosa e sta a colui che ascolta trarne profitto. Le Beatitudini non sono legate ad alcun processo, al alcun comportamento veramente prescritto. Dicono piuttosto: c’è “qualche cosa” in voi, “qualche cosa” che voi siete e che deve essere celebrato: questo “qualche cosa”, è il Regno, è l’uscita dalla concatenazione dei mezzi e dei fini, dei possessi e delle dominazioni. Come nella parabola dei gigli dei campi.
“Beati i puri di cuore” dice una delle Beatitudini: che cosa significa per lei?
Il termine greco, tradotto qui con “puro”, rinvia all’aggettivo “limpido”. Come si dice dell’acqua, che è pura o limpida. Mette l’accento sulla trasparenza. Il testo greco dice del resto non “i cuori puri”, ma “i puri di cuore”. Essere puri “di cuore” rinvia ad un altro modo di essere puri “di corpo”. Questa differenza colpisce immediatamente, sapendo l’importanza delle purificazioni e dei riti associati alla purezza nelle religioni antiche e nell’ebraismo. Bisogna collegare questa Beatitudine a tutta la tradizione profetica che critica i riti e considera che la purificazione dei corpi è insufficiente. Celebrare il “cuore puro” crea una differenza rispetto all’osservanza rituale.
Che legame vede tra essere un “cuore puro” e “vedere Dio”?
Nelle religioni antiche, la purificazione ha la funzione di liberare l’uomo dagli elementi profani per permettergli di accedere al sacro. È il primo gesto per fare un passo nello spazio sacro. Ora, qui, la possibilità di vedere Dio non è legata al permesso di accedere all’ordine del sacro, del separato, del proibito. Questa Beatitudine dice che Dio non è dell’ordine del sacro, non si situa “dall’altra parte” di un confine che bisognerebbe superare grazie al rito. Colui che ha il cuore puro è colui che può, grazie alla limpidezza del suo cuore, vedere Dio.
Come se Dio fosse già presente, ma non ancora riconosciuto?
Quando il cuore è purificato, vede Dio. Si potrebbe dire che la purificazione del cuore fa vedere, di per se stessa. Non fa vedere qualche cosa che era nascosto, ma qualcosa che prima non si vedeva. È molto diverso. Non siamo qui in uno sviluppo cultuale. La purificazione del cuore produce senso di per se stessa. Non è il mezzo per accedere ad altro, ma un modo per vedere in modo diverso. È un’apertura all’interno del “mondo”. Il cuore puro è forse “Dio” stesso.
In che cosa consiste secondo lei la purificazione?
Le Beatitudini fanno risuonare negativamente la grandezza, la potenza, la ricchezza, la violenza del mondo... La purificazione del cuore è la purificazione di tutte le pesantezze, di tutti i domini e, al limite, di tutti i significati del mondo... Il “cuore puro” è colui che si tiene a distanza da tutta la macchina del mondo, il che non significa che si tenga al “di fuori” del mondo. Neppure è attirato dalla ricompensa massima che potrebbe consistere in questo “vedere Dio”, come una forma di partecipazione al potere o al dominio legata al desiderio di essere ammessi presso Dio. Non si è “felici” per una ricompensa, il che resterebbe dell’ordine del “mondo”, ma si è “felici” di non essere rinchiusi “dentro”. Senza dubbio per comprendere che cos’è un “cuore puro” bisogna tornare all’amore, che consiste nel vedere l’altro come altro. Si tratta proprio di vedere, cioè di essere nel rapporto, senza nulla che si possa afferrare. Non si “vede” un oggetto, si “vede” un’apertura, un’evasione verso l’altro. Che cosa chiede l’amore se non una purificazione del cuore? Una purificazione delle mie attese affinché io possa vedere l’altro come altro. È veramente attraverso il cristianesimo che l’amore diventa questo riconoscimento dell’assolutezza integrale della persona. L’amore rinvia a ciò che noi non possiamo assolutamente afferrare. Forse è questo, “vedere Dio”. Non vedere un essere dietro gli altri esseri, ma vedere che ogni essere è assoluto, incommensurabile.
L’eterno ritorno del cesarismo
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 18/7/2010)
Chi è il «Cesare» che compare nei discorsi dei faccendieri, degli affaristi e degli altri personaggi dell’ultimo scandalo politico? Secondo una prima dichiarazione dei carabinieri, si tratterebbe di Berlusconi. Quest’attribuzione è sembrata subito verosimile perché il nome di Cesare, con la sua reminiscenza di scuola, può esprimere anche una ingenua adulazione o una deferente ironia. Ora invece si dice che si riferisce a Previti. Ma trovo maldestro, anche da parte di dilettanti, mettere in circolazione un nome di persona reale. Poco importa. Quello che gli interessati non sospettano è che il riferimento a Cesare e il sostantivo che gli viene associato - cesarismo - hanno una lunga storia nell’interpretare un fenomeno politico che è antico ma che ritorna sempre. La domanda importante oggi quindi non è chi è il «Cesare» di cui si parla, ma se è in atto una forma di cesarismo politico e quali sono i suoi tratti caratterizzanti.
Il Giulio Cesare storico in questa storia conta, ma relativamente. Ciò che è davvero importante è il modello di comportamento che gli viene attribuito e che attraversa i secoli. Sinteticamente è il modello del «dittatore democratico». Cesare era amato dal popolo e affossatore di fatto, in suo nome, della antica repubblica che diceva di volere salvare. Ma i due termini «dittatore democratico» sono chiari soltanto in apparenza. Cambiano infatti profondamente di senso quando sono applicati al tempo della repubblica romana in via di transizione verso l’impero. O quando vengono ripresi sistematicamente nell’Ottocento in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e persino, di riflesso, al nostro Cavour.
Nessuno di questi politici è stato propriamente un dittatore. Neppure l’imperatore dei francesi, che a metà dell’Ottocento è stato oggetto di una letteratura politica sterminata che ha rilanciato alla grande il tema del cesarismo (nel suo caso interscambiabile con bonapartismo). I tre nomi citati sono di uomini politici di grande statura. Hanno subito naturalmente stroncature feroci - come quella di «Cesare il piccolo» affibbiata al Bonaparte da Victor Hugo. Ma di Cesari grandi e piccoli ce ne sono stati tanti. Anche al tempo delle dittature novecentesche: basti ricordare i busti di Mussolini fisiognomicamente confusi con il profilo idealizzato di Cesare. In realtà però ha poco senso parlare di cesarismo fascista, perché in esso si perde l’elemento essenziale: il riferimento alla democrazia, che Mussolini certamente non voleva.
Questo è il punto: il cesarismo è uno stile di governo (non un regime) che, insediato in un sistema democratico preesistente, tende a forzare o a rifunzionalizzare le istituzioni esistenti in senso autoritario ma senza negarle, anzi volendo creare la «vera democrazia». Lo strumento centrale è un rapporto nuovo e diretto con il «popolo». Non a caso il concetto associato al fenomeno cesaristico è anche populismo.
Nei primi due decenni del Novecento Max Weber, facendo un bilancio della fine della democrazia liberale e spingendo lo sguardo in avanti, parlava di «tendenza cesaristica della democrazia di massa». Cesarismo e democrazia di massa sono dunque strettamente legati. Poi Weber ha insistito (forse troppo) sugli aspetti personali carismatici eccezionali della leadership cesaristica. Noi oggi più realisticamente riteniamo che il cesarismo del nostro tempo conti di più sulla potenza della comunicazione di massa e dei mezzi mass-mediatici che non sulle (presunte) doti carismatiche personali del leader. Si tratta di un mutamento di prospettiva decisivo.
Rimane essenziale il rapporto con il popolo. Ma chi è il popolo del Cesare storico? È la plebs acclamante ma anche un gruppo consistente di amici, collaboratori, mediatori, clientes e senatores del regime precedente. Il popolo del Cesare contemporaneo è il popolo-degli-elettori che lo votano, è il popolo mediatico monitorato con strumenti demoscopici. Ma anche una solida rete di «amici di Cesare», insediati non solo nella politica ma soprattutto nella «società civile». In questo senso il cesarismo è davvero popolare.
«Gli amici di Cesare» (compresi i leader di altri partiti che gli sono «amici» prima ancora che «alleati») surrogano di fatto il partito tradizionale. Il «partito del popolo» infatti ha la funzione esclusiva di mettergli a disposizione consenso e risorse. Offre personale esecutore, realizzatore, implementatore delle idee del leader. Non deve sollevare problemi, tanto meno competizioni o alternative interne. Il partito del leader cesaristico è, o meglio deve essere, assolutamente unitario. Deve attendere e sostenere le soluzioni dei problemi ipotizzate dal leader. Se queste non si realizzano la colpa è delle opposizioni che le ostacolano o degli ambiziosi disturbatori interni al partito che non sono più «amici». Ma soprattutto la colpa è del sistema istituzionale - in particolare giudiziario - che frena e boicotta. Da qui l’inderogabile necessità della riforma delle istituzioni che non si presenta come sovversiva (anche se retoricamente si sente «rivoluzionaria») ma come loro sistematica forzatura sempre al limite della legalità costituzionale.
Mentre scriviamo questo sistema sta entrando in una fase di turbolenza inedita. C’è chi da mesi ne prevede la fine. Personalmente - come analista - sarei cauto
Nel Santuario la ’ndrangheta
consacra il suo nuovo capo
Alcuni filmati registrati dai carabinieri nel corso delle indagini mostrano per la prima volta le immagini dei capi delle cosche che si riuniscono, in pubblico e in un luogo sacro calabrese, stretti attorno al nuovo capo. Che dà le sue regole e i suoi codici d’onore
di PIERO COLAPRICO *
La Madonna dei Polsi ha due devozioni: una popolare e cattolica, e un’altra elitaria e da setta, ed è quella della ’ndrangheta. Il filmato che è stato ripreso all’ombra del santuario mostra quel mix di simbologia sacra e di potere nero, occulto, invasivo, che ha reso i clan calabresi tra i più forti e temuti del mondo. Votare, dirsi chi è Il Crimine, e cioè il boss dei boss, mentre intorno si accendono candele sacre da parte dei fedeli serve a sgarristi e picciotti anche a sentirsi "parte di una comunità" più estesa, più vasta. Il rito pagano di mischia al rito religioso e c’è la sensazione, e la tentazione, di avvertire come "divino" un potere che ha a che fare con omicidi, con estorsioni, con sequestri di persona, con il traffico della droga, con l’ecomafia che avvelena la terra dove cammineranno anche i loro figli.
Nemmeno Francis Ford Coppola avrebbe potuto concepire per il suo "Padrino" la verità che emerge da queste riprese, fatte da un tecnico che ha lavorato insieme con i detective. Come ai "Polsi" si decidono i destini degli uomini, le carriere, chi è bravo e chi deve modificare il suo atteggiamento (la pena per chi esagera con l’indipendenza è la morte), così a Milano, nel circolo intitolato a Falcone e Borsellino, si sono visti i boss votare il loro Capo, quello che incarna per tutti al Nord il volere della ’ndrangheta. Quella che sembrava un gruppo di famiglie scollegate una dall’altra, dopo quest’inchiesta, è diventata qualcosa d’altro. I pm vogliono che la Cassazione riconosca che anche i clan calabresi hanno una cupola, che esiste un Totò Riina della ’ndrangheta, e che nessuno estraneo, prima della retata di lunedì notte, lo sapeva.
* la Repubblica, 14.07.2010
Il vescovo scrive ai boss: “Non profanate i nostri santuari”
di Pierangelo Sapegno (La Stampa, 19 luglio 2010)
Il vecchio boss lo diceva come se fosse in preghiera, sotto la Madonna: «Il crimine non è di nessuno. E’ di tutti». Magari dopo andavano a pregare davvero, lui e i suoi uomini, con le loro divise da lavoratori della terra, le giacchette celesti, i pantaloni a campana, le mani grosse e ruvide, quelle loro facce da niente che gestiscono miliardi e potere: il giorno della processione c’erano sempre tutti, in coda, dietro alla statua oscillante sopra le spalle dei fedeli, fra le mani protese, le lacrime e i segni della croce.
Ma a fare l’organigramma della ‘ndrangheta, poi, si trovavano ogni volta qua sotto, al Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, come devoti e padroni. Dispensavano morte e preghiera. «Facciamo le cariche per la Madonna», diceva il capo dei capi, Domenico Oppedisano, 80 anni portati assieme al potere, con i suoi capelli bianchi e le mani piene di calli. E’ per questo che il vescovo di Locri, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, ha scritto una lettera aperta a tutti i gregari e i comandanti della ‘ndrangheta per gridare il suo scandalo: «Perché dovete umiliare la nostra fede e la nostra religione?».
In tutto questo, alla fine, però, c’è qualcosa che stride. Non è la prima volta che un vescovo o un uomo di Chiesa si rivolge con durezza in Calabria agli uomini della ‘ndrangheta. Ma dall’altra parte, c’è anche - innegabile - questo abbraccio antico di un’organizzazione criminale che mostra ed esalta la sua fede come un paravento. Non deve stupire che gli uomini della ‘ndrangheta si riuniscano nel cuore di un santuario per disegnare strategie prendere decisioni. «Quello che abbiamo noi qua, se non era per me, non ci sarebbe stato», dice Oppedisano. Gli altri gli stanno attorno in religioso silenzio, come in preghiera, vestiti tutti come lui, con le stesse facce, la stessa durezza: sembrano braccianti che gestiscono miliardi, un’infinità di miliardi. Loro non hanno bisogno di sfoggiare ricchezza e potere.
Così, al confronto di questa immagine, suonano quasi ingenue le parole accorate di monsignor Morosini: «Il Vangelo di cui voi parlate non può essere il Vangelo di Gesù, che parla di amore, di perdono e di riconciliazione, di rispetto della persona e della legge, anche quella degli uomini. Che senso possono avere questi incontri all’ombra del Santuario della Madonna, dove, mentre i fedeli pregano e si riconciliano con Dio, voi decidete strutture e attività, che Dio e la Vergine Maria non possono benedire? Siamo profondamente rammaricati che ciò avvenga trasformando il Santuario di Polsi da luogo di fede in luogo di illegalità. A Polsi la gente viene per trovare nella fede e nella devozione alla Madonna motivi per vivere; i vostri incontri non sono affatto su questa linea, anzi spesso parlano di morte. La fede della gente va rispettata e non derisa e umiliata... Perché si deve ridere di noi, delle nostre tradizioni e delle nostre celebrazioni, quando poi le si vedono unite a questi incontri, i cui contenuti sono contro i valori della religione, che voi dite di professare?».
La realtà poi è un po’ diversa. Lo sanno benissimo i carabinieri che devono pedinare il nuovo capo. Domenico Oppedisano è di Rosarno, è il boss che ha voluto la cacciata dei lavoratori di colore, ed è diventato potente il 19 agosto del 2009 quando viene investito dello scettro di capocrimine al matrimonio di Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro. La sua nomina però avviene in un santuario. E per seguirlo i militari devono andare a tutte le feste religiose di cui lui è devotissimo. Poi incontra i suoi, dopo le preghiere, tutti con le loro camicie da contadini, i calzoni larghi un po’ strascicati sulle scarpe, tutti in cerchio attorno a lui, con i capelli bianchi, il volto solcato da rughe profonde come le orme della terra e la voce dura, un po’ impastata, che ripete allargando le mani sotto la statua della Madonna: «tutto quello che avete lo dovete a me».
La camicia sgargiante con le punte del colletto così larghe che arrivano fin sulle spalle è la stessa che porta il giorno che i carabinieri lo portano via dietro a un cancello e davanti alle telecamere. Nessuno sapeva ancora il suo nome. Sapevano solo che era il Capo dei capi. Si chiama «Vangelo».
La madonna pentita della ’ndrangheta
di Mimmo Gangemi * (La Stampa, 3 settembre 2010)
La donna è un’attempata popolana, con baffetti che non osa rasare per la maggiore vergogna a mostrarsi senza, capelli intrecciati a corona sulla nuca, faccia segnata dalle rughe. La grazia - già spuntata o su cui forzare la Vergine - dev’essere di quelle complicate, se la poveretta s’è calata in ginocchio all’ingresso della chiesa e messa a strusciare la lingua sul pavimento, direzione la statua sull’altare. Si batte il petto e prega nel leccare, mentre una comare caritatevole le spazzola davanti. Traccia una scia simile a quella di un limbaccio. Mi sussurrano un nome - lo taccio per motivi di salute - e che sta esaudendo un voto: ringrazia la Vergine dell’innocenza ottenuta dal figlio in un processo per omicidio di cui anche le galline lo sanno colpevole.
Una penitente percorre sulle ginocchia le pietre del selciato, snodando la corona del Rosario, entra in chiesa, arriva davanti alla statua, piange lacrime silenti. Chiede vita per il bimbo malato. Le ginocchia sono un grumo sanguinolente. Altre hanno i piedi piagati, per aver fatto scalze l’intero percorso fin dal paese. Un giovane arriva sotto una campana di spine; il torso e la schiena, nudi, sono puntellati di sangue.
Scene antiche, già scolpite nei miei ricordi di mezzo secolo fa e che non avrei creduto di poter rivedere il primo di settembre del terzo millennio, vigilia del clou dei festeggiamenti iniziati il 24 agosto con la novena.
Nel piazzale davanti, uomini si passano un otre di terracotta, di quelli a ugello. Contiene vino. Prima di bere, schizzano via le poche gocce che creanza pretende, lo rivoltano dal manico sul dorso della mano e si fanno calare uno spruzzo a ombrello, come gli zappatori per levarsi di bocca l’acre sapore della terra.
Poco più in là, la tarantella è di quelle serie, dove non si può sgarrare. Il mastro da ballo è il più alto in grado, tra i presenti, nell’onorata società. Invita il compagno di danza dal folto cerchio di soli uomini che delimitano lo spazio. Passi e mosse al ritmo di tamburelli, organetto e cerameje (una specie di cornamusa): simulano il duello al coltello. È ‘ndrangheta, di quella antica. Giocano alla ‘ndrangheta - ma non è detto non ci scappi il sangue. Quanti contano davvero se le sono scrollate certe esibizioni, coniano moneta, loro, in qualsiasi modo, sempre illecito. Un giovane fende il cerchio. Gagliardo, occhi per nessuno, induriti, labbra a broncio. Si solleva un brusio. Il mastro da ballo gli cede il posto con un inchino. L’altro ne assume il ruolo. Non più di dieci minuti e s’allontana in direzione dei monti. Un sussurro giunge anche alle mie orecchie: «di razza nobile». E il nome, ben noto. Che taccio, di nuovo per non dovermi ammalare.
Altre tarantelle, sparse qua e là, sono invece senza rigidità: anche donne vi saltellano i passi, si ride e si scherza, non c’è gerarchia, né regola sociale. Così fino a tarda sera. E nella notte. Si dorme poche ore nelle casette, sulla paglia. Il riposo serve, al risveglio sarà il gran giorno. Siamo a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, territorio di San Luca, patria di Corrado Alvaro. La Vergine è la Madonna della Montagna, ingiustamente nota come la Madonna della ’ndrangheta.
Convergono a migliaia qui, da tutti i paesi della provincia, devoti, curiosi, e ’ndranghetisti. Polsi è, per un calabrese, come La Mecca per un musulmano. È quella valle in fondo, incassata ai piedi di una corona di monti, sul versante ionico del reggino. Una volta ci si arrivava a piedi o a dorso di mulo, d’asino. Mi assale malinconico un altro tempo, immagini ingiallite. Un sentiero, allora.
Una striscia serpeggiante di nuda terra tra il disordine delle erbe. Puntava, contorto e ripido, i faggi della dorsale. Sulla destra, un dirupo da cui scansare lo sguardo, una caduta interminabile fino all’alveo della fiumara. Sulla sinistra, alberi, ombre più scure dentro il buio della notte. All’inizio gli ulivi, alti e ingombranti, poi i panciuti castagni ingioiellati dai ricci ancora chiusi, quindi bassi pini marittimi, la faggeta infine, con tronchi di una pallida luminescenza. Appena alla cresta, un taglio netto: non più il verde lussureggiante, ma una terra brulla, arsa e rinsecchita, con radi arbusti, frane, pietre in precario equilibrio sui costoni. La pista scendeva zigzagando, tornante dopo tornante, fino a una fiumara, poco più d’uno spruzzo d’acqua. Oltre, Polsi.
Altri tempi. Quel sentiero è ora una strada carrabile, tagliata a mezza costa. Lo strapiombo è sempre lì, come è lì la fiumara. Anche gli alberi sono gli stessi, ingrigiti da cinquanta cerchi in più, gli stessi cerchi che ho aggiunto io ai miei anni.
Trascinano un bue dentro la chiesa. A forza, perché resiste, sembra avere remore a entrarci sacrilego. Scopro che i buoi ne hanno diritto. Perché tutto cominciò da un bue: a metà dell’XI secolo, un pastorello di nome Italiano, di Santa Cristina d’Aspromonte, trovò il bue smarrito intento a scavare in terra con gli zoccoli, finché emerse una Croce greca, e lo vide inginocchiarsi. Al pastorello apparve la Madonna e gli chiese un santuario in quel luogo, dove già esistevano un rifugio costruito nel III secolo da cristiani che scappavano dalle persecuzioni degli imperatori romani e un insediamento, databile IX-X secolo, dei monaci basiliani provenienti dai paesi conquistati dagli arabi. La leggenda racconta che i monaci usassero mettere un confratello in posti dove poter soccorrere i viandanti, per non perdersi; uno di questi, di nome Toppa, morì assiderato in una notte di gelo, mentre cercava legna con cui ravvivare il fuoco. Apposta tradizione vuole che il pellegrino, nel suo primo viaggio, depositi un ramo davanti alla Croce di Toppa. Nessuno oggi sa dove essa sia. Fino a qualche tempo fa, per ogni strada che conduceva a Polsi, c’era un posto chiamato «Croce di Toppa».
Il santuario splendette fino al 1481, anno in cui i monaci basiliani lo abbandonarono, per ritirarsi a Grottaferrata. I secoli successivi furono di decadenza. Risorse - e ricominciò la frequentazione in massa dei fedeli - solo dopo la prima metà del XVII secolo, quando il santuario passò sotto la giurisdizione del Vescovo di Gerace.
Con il tempo, Polsi, pur restando luogo di devozione e di culto, è diventato punto di raccolta della ’ndrangheta, un porto franco dove, fino agli anni ’60, era tollerato che si portassero armi e che si celebrasse l’uscita della statua della Madonna a colpi di fucile esplosi per aria - talvolta addosso a qualcuno che, allo snodarsi della processione, restava macchia a intristire lo spiazzo - e dove le acque della fiumara si tingevano del sangue delle capre scannate per santificare la festa con una scialata di carne. La ’ndrangheta lì assumeva decisioni, dirimeva controversie, sentenziava morte, creava alleanze. E «battezzava» i nuovi adepti, sotto l’albero della scienza, il grosso castagno nel cui incavo comare Rosina depositava le armi dei ’ndranghetisti - che avevano l’obbligo di presentarsi disarmati alla riunione - annotando l’appartenenza come si fa oggi per i cappotti in un locale pubblico. La Madonna non pare contenta di questo - e neppure dei tanti gesti di paganesimo e d’idolatria. Non vorrebbe ’ndranghetisti su cui stendere il manto di misericordia. Lo rivelano i suoi occhi incerti e spauriti: ne ha viste troppe. Avesse saputo che finiva così, se la sarebbe risparmiata l’apparizione. Se rimane, è per la marea di fedeli che accorrono sinceri di fede.
A Polsi si vive una sensazione d’immutabilità, con il tempo che scorre più lento che altrove. Qui, ’ndrangheta vecchia e nuova camminano a braccetto, ed è la vecchia a sorreggere la nuova. Solo quando alla nuova mancherà quel sostegno, apparirà qual è: cruda e assassina. E sarà la sua fine.
* Scrittore calabrese, autore del romanzo «Il giudice meschino» (Einaudi)
’NDRANGHETA. SIGNIFICATO DELLA PAROLA
Polsi: nessuno vuole mancare
alla processione della ’ndrangheta
Nonostante i 300 arresti di luglio. Il vescovo di Locri: «Qui ci divide il cammino con chi ha scelto l’illegalità» *
POLSI (Reggio Calabria) - Lui sa che lo stanno ascoltando, che le «famiglie» di San Luca, Africo, Platì, sono venute anche quest’anno, malgrado la decimazione (300 arresti) dell’operazione Crimine di luglio. Addirittura i giovani del San Luca calcio, quelli che l’anno scorso scesero in campo col lutto al braccio dopo la morte del boss ‘Ntoni Gambazza, hanno preteso di portare loro la Croce in processione. Per farsi vedere da tutti. Perché questa da sempre è anche una storia di simboli.
VESCOVO - Il vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini, sa che i figli della faida sono di nuovo lì davanti a lui come ogni anno, come ogni 2 settembre mischiati alla folla di Polsi, che batte le mani e canta «Evviva Maria» dietro alla statua della Madonna della Montagna. Perciò è a loro che ora parla direttamente: «Cari fratelli che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le vostre ricchezze, il vostro potere, il vostro onore, non c’è nulla che possiamo condividere. I nostri cammini non si congiungono a Polsi, se mai si dividono ancora di più». Così li mette davanti a un bivio: «Convertitevi o andatevene». Il vescovo è duro: «Non possiamo chiudere gli occhi sulla realtà calabrese», ammonisce. «Usura, droga, intimidazioni, sopraffazioni, violenza e non sarà Roma a risolvere i nostri problemi se non saremo noi a rialzare la testa...».
PAROLA MANCANTE - Ma l’omelia è incompleta, c’è una parola che manca sempre: ‘ndrangheta. Il monsignore non la pronuncerà mai. Il 2 settembre dell’anno scorso, proprio qui a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, mentre si svolgeva la festa solenne al suono dei tamburelli, degli organetti e delle zampogne, in mezzo alle salsicce arrostite e ai banchi di souvenir coi cd della ‘ndrangheta e le canzoni delle «tarantelle malandrine», i boss delle famiglie nominarono il loro «capo crimine», Domenico Oppedisano, lo elessero a presidente del cda delle cosche calabresi. Ma c’erano pure i carabinieri del Ros, quel giorno, con le loro telecamere e i microfoni nascosti sul piazzale. Gli uomini del colonnello Valerio Giardina ascoltarono tutto, filmarono tutto e il 13 luglio scorso è scattato il blitz. Operazione Crimine, l’hanno chiamata. Tra qualche settimana, dopo aver visionato i nuovi filmati girati giovedì, gli investigatori potranno dire se anche questa volta in fondo alla conca brulla s’è svolto un summit di mafia.
RIPARTIRE - «Polsi luogo di pietà semplice e devota», chiosa il vescovo Morosini nell’omelia. «Polsi diventato luogo violato e profanato da conterranei e fratelli di fede che hanno tradito la fede vera, pretendendo assurdamente di ricevere dalla Vergine Maria la benedizione sui loro patti illegali, sulla spartizione di un potere ingiusto. Ma ora tutti insieme dobbiamo ripartire». Ripartire da Polsi. «Il prossimo 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, il nostro patrono, faremo qui la festa della Polizia», annuncia il questore di Reggio, Carmelo Casabona. Poiché questa da sempre è anche una storia di simboli.
Fabrizio Caccia
* Corriere della Sera, 02 settembre 2010(ultima modifica: 03 settembre 2010)
KANT CON SADE: "Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti" . Così inizia il testo di J. Lacan, Kant con Sade (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762). Sulla "sadizzazione" di Kant da parte di Lacan ("Sade diventa kantiano nell stessa misura in cui Kant diventa sadico - Lacan non sfugge a questa conclusione”), cfr.: E, Fachinelli, "Lacan e la Cosa", La Mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; F. La Sala, CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI; F. La Sala, "Perversioni" di Sergio Benvenuto. Un coraggioso passo al di là dell’edipo).
Federico La Sala
“Gerusalemme, un laboratorio della biodiversità umana”
colloquio di Jean-Yves Leloup e Elias Sanbar,
a cura di Josyane Savigneau
in “Le Monde” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Un prete ortodosso, Jean-Yves Leloup, e un saggista palestinese, Elias Sanbar, sono gli autori di due dictionnaires amoureux. Uno su Gerusalemme, l’altro sulla Palestina. Hanno accettato di dialogare.
Jean-Yves Leloup, lei ha scritto un “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” (Plon, p. 960, € 27) e lei, Elias Sanbar, un “Dictionnaire amoureux de la Palestine” (Plon, p. 496, € 24,50). Avrebbe accettato questo dialogo se l’autore del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” fosse stato un ebreo israeliano?
Sanbar: Se si trattasse di attaccamento personale, non di un qualsiasi diritto esclusivo sulla città basato sulla religione, sì, sinceramente.
Simbolicamente, l’editore ha pubblicato questi due libri contemporaneamente, ma uno è fatto da un palestinese, quindi dall’interno, l’altro da un cristiano francese.
Leloup: Un cristiano aperto ai palestinesi, agli ebrei e a tutte le tradizioni che sono vive a Gerusalemme.
Jean-Yves Leloup, che cosa pensa dell’affermazione di Elias Sanbar su Gerusalemme, una città che deve essere concepita in funzione della condivisione, “una capitale per due Stati”?
Leloup: È forse una cosa possibile, conoscendo l’attaccamento degli uni e degli altri a questa terra e a questa città, e la confusione che vi regna tra il politico e il religioso?
Sanbar: Io ci credo. Bisognerà arrivare a questo, perché non c’è altra soluzione. La grande difficoltà, ancor prima che inizino i negoziati, è la confusione permanente tra lo strato spirituale, simbolico della città, ciò che costituisce la sua universalità, e il problema della sovranità. Per il momento, i negoziati e i discorsi trattano la città come un luogo di disputa tra due sovranità divine: vale a dire, quale dio sarebbe più sovrano? E la cosa è tanto più complicata per il fatto che è lo stesso dio per i tre monoteismi! Bisogna riconoscere alla città la sua importanza spirituale e, su questo piano, essa appartiene all’umanità. Ma bisogna anche trattarla come una città, semplicemente, non diversa da altre città del paese, senza tuttavia rinnegare la sua dimensione di futura capitale della Palestina. Come avrete capito, parlo di Gerusalemme est. Solo a quel punto, si potrà negoziare.
Leloup: Ogni realtà è una realtà “costruita” o immaginaria. Particolarmente a Gerusalemme dove ciascuno investe talmente tanti sentimenti e così tante memorie sulle sue pietre... Come ritrovare la terra che vi è sotto?
Sanbar: I palestinesi hanno il vantaggio di non dover fare nulla per considerarla anche come una città reale. Noi ci stiamo. Sentiamo così tanti discorsi deliranti, sulla Terra santa, i Luoghi santi, ma per noi è anche la nostra terra, banalmente. Abbiamo pagato caro il prezzo di questi immaginari. L’imposizione dell’aspetto mitico sui luoghi è stata origine di morte e non di vita. Senza rinnegare la sua dimensione universale, se non ci si rende conto anche che questo paese esiste, non si troverà la soluzione.
Che cosa significa per voi due l’idea di “città santa”?
Leloup: La santità è l’alterità. Una città santa è il luogo di incontro delle alterità. Gerusalemme è una sorta di laboratorio della biodiversità umana. Non far entrare in relazione queste alterità rende la vita impossibile all’umanità.
Elias Sanbar, nel suo dizionario, alla voce “Fondamentalismo” lei scrive: “È una malattia che colpisce i tre monoteismi.”
Leloup: Lo penso anch’io, è una patologia che vuol ridurre l’altro a sé: fare di Gerusalemme una città ebraica, una città musulmana o una città cristiana. Gerusalemme all’origine è una sorgente in un deserto, un pozzo; bisogna avere cura del pozzo, non solo per sé, ma anche per i cammelli dell’altro.
Elias Sanbar, che cosa ha pensato della voce “Palestina” del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem”?
Sanbar: È una breve voce storica. Io torno allo spazio reale e alla terra familiare, cosa complicata per i nativi di questa terra, perché alla loro familiarità dei luoghi viene sempre opposta l’immensità del sacro. Ma essa è anche terra familiare. L’identità della Palestina è spesso a torto analizzata col metro della vicinanza di comunità del vicino Libano. In Palestina, non si è nelle terre vicine. Ma in una realtà forgiata nella durata, che fa sì che le persone del luogo, pur appartenendo ciascuna ad una religione, si ritengono depositari, attraverso il luogo, di tutto ciò che vi è accaduto. Si parla molto di questa pluralità della Palestina, oggi minacciata, poiché sia il sionismo che il fondamentalismo musulmano cercano di darle un solo colore. Anche le crociate, un tempo, hanno cercato di darle un colore, allora esclusivamente cristiano. Nella seconda metà del XIX secolo, ci sono stati degli scontri “comunitari” sanguinosi nei paesi vicini, Libano e Siria, dovuti fondamentalmente all’arrivo della modernità industriale, che sconvolgeva le strutture tradizionali. In Siria, ad esempio, abbiamo assistito ad un’alleanza della comunità ebraica e di quella musulmana contro la comunità cristiana. In Libano, ci sono stati degli scontri tra drusi e maroniti. Da noi, questo non è avvenuto. Certi parlano di una sorta di “attitudine democratica” precoce nei palestinesi: è ridicolo. Semplicemente si tratta del sentimento dei palestinesi di essere i depositari di tutto ciò che era accaduto nella loro terra. È ciò che chiamerei la loro pluralità. Del resto oggi minacciata, e questo per la prima volta nella loro storia.
Jean-Yves Leloup, la sua voce “Terrorismo” è molto breve. Perché ha affrontato il tema? In un “Dictionnaire amoureux”, si è totalmente liberi di scegliere le voci.
Leloup: I terroristi si presentano purtroppo anche come innamorati della legge, della religione, della terra. Uccidono in nome del loro amore. Di quale amore parlano, di quale dio parlano? Per quanto mi riguarda, dico con Albert Camus: “Quale che sia la causa che si difende, essa resterà sempre disonorata dal cieco massacro della folla innocente.”
Jean-Yves Leloup, lei ha sviluppato molto le voci “Resistenti”, “Commando-suicidi”...
Sanbar: Ho affrontato non il terrorismo, ma il problema che mi sembra inglobare tutto ciò, nella voce “Vivere e morire”. Ciò che è molto preoccupante oggi, è che sia la morte e non la libertà a diventare la finalità della lotta. Capisco la metafora usata da Jean-Yves Leloup su terrorismo e amore. Ma essa non esprime la terribile realtà, quella realtà nuova che fa dire a dei giovani: “Io mi batto per morire.” Le generazioni precedenti hanno certo rischiato e spesso perso la vita, ma si battevano per vivere, la finalità della loro lotta era la libertà: vivere liberi, a rischio, e non con lo scopo, di morire per questo.
Il suo “Dictionnaire amoureux”, Elias Sanbar, è quello di un esiliato.
Sanbar: Sì, ma ho anche voluto presentare la Palestina reale. Noi siamo vivi e c’è un modo di ridere palestinese, di autoderisione, che si esprime bene nei nostri film e nella nostra letteratura. È una forma superiore di resistenza, perché esprime la fede nella vita che abita, malgrado tutto, questa terra semplice, schiacciata in un conflitto interminabile.
A Gerusalemme più che altrove, secondo lei, Jean-Yves Leloup, ci si può interrogare sull’idea di un’etica universale.
Leloup: Ritrovare la realtà di Gerusalemme significa ritrovare il senso dell’altro, del volto unico di ciascuno. Non è forse lì l’inizio dell’etica che può liberarti da ogni idolatria, cioè da ogni forma di appropriazione esclusiva?
Lei dice anche di essere partito dall’idea di un dizionario di una certa leggerezza amorosa e di essere sfociato ad una certa gravità.
Leloup: Non si può essere leggeri né con la Shoah, né con l’esilio dei palestinesi, né con l’emigrazione dei cristiani. Ma, malgrado tutto, tante volte distrutta e tante volte ricostruita, Gerusalemme testimonia una vita più forte della morte.
L’indagine clinica sui meccanismi della nostra mente e quella religiosa sulla sua tensione verso Dio non sono necessariamente contrapposte, anzi: rinunciando a facili schematismi ideologici, la collaborazione può essere proficua per entrambi i filoni Due esperti a confronto *
Anima, le ali della psiche
Lo psichiatra Smeraldi: «Fede al vertice dell’attività cerebrale»
«C’è una scala di attività mentali superiori: pensiero concettuale, creatività artistica, riflessione filosofica ed esperienza religiosa»
DI ENRICO SMERALDI (Avvenire, 06.07.2010)
Chi pensasse che la ’scienza della mente’ e la ’scienza dell’anima’ irreconciliabili opposti, quasi due nemici che, nel migliore dei casi si ignorano, nel peggiore si combattono, probabilmente ha una visione stereotipata e riduttiva della realtà. L’idea di un contraddittorio tra psichiatra e teologia non è del tutto nuova: nel 1933 Adler, figura di spicco della nascente psichiatria dinamica, aveva scritto un libro su questo tema con il pastore luterano Jahn, libro che venne subito distrutto dal potere nazista.
Anche Pierre Janet aveva progettato un testo sulla psicologia della religione, purtroppo mai realizzato. Questo testimonia la presenza di aree di competenza comune, anche se - ed è proprio questo ad essere interessante - le soluzioni offerte ai quesiti sono molteplici e per il versante psichiatrico anche in relazione a significati e riflessioni generate dalla evoluzione scientifica. D’altra parte, il presente tentativo nasce in un ambito di clinica psichiatrica più che di psicologia.
Personalmente, oltre alla possibile collaborazione, vedo più di un punto di contatto tra teologia e psichiatria. Vorrei iniziare sottolineandone due. Il primo è rappresentato dalle domande di fondo che entrambe si pongono. Il mondo della religione, o della teologia, quando entra in comunicazione con gli uomini, parte da alcune domande alle quali si propone di dare una risposta. Sono le domande essenziali per ogni vita umana: chi siamo, che senso ha la nostra vita, quali sono i valori sui quali si basa la nostra esistenza, qual è il destino che ci aspetta.
Ebbene, queste stesse domande sono anche il punto di partenza della psichiatria. Poiché è difficile parlare con un malato che si pone problemi esistenziali - e i malati psichici se li pongono - senza confrontarsi con questi interrogativi fondamentali. Infatti solo gradatamente e lentamente la spiritualità viene distinguendosi da ciò che è semplicemente psichico, come in una sorta di scala di attività mentali superiori: pensiero concettuale, volere deliberato, creatività artistica, riflessione filosofica e, in ultimo, esperienza religiosa.
Vi è poi un altro forte punto di contatto tra psichiatria e teologia, che definirei ’della costruzione’. Intendo dire che i malati (ma l’affermazione riguarda anche tutti noi) costruiscono psicologicamente la religiosità, intesa come continua propensione verso la sfera divina e soprannaturale. In questa accezione, l’oggetto non è quindi la religione in sé, ma l’intreccio di strutture e processi psichici attraverso i quali il soggetto, durante il percorso di costruzione della propria identità personale, si relaziona con il divino e la religione che incontra nel suo ambiente sociale e culturale. Sia l’adesione di fede sia il rifiuto ateo può essere studiato e capito in psicologia come funzione della persona, dei suoi dinamismi intrapsichici e delle loro risoluzioni. In termini psicologici puri, anche una scelta di ateismo è una forma di religiosità.
Di là a quello che può essere il proprio credo personale, tutti si pongono il problema del divino, tutti cercano qualcosa che sfugge al controllo, che ha regole diverse dalla razionalità pura e semplice. Non amo la scelta in negativo che spesso gli psichiatri fanno, eliminando la questione: anche se non se ne parla il problema esiste, quanto è innegabile che esiste un’esperienza religiosa. E i malati psichici quell’esperienza la vivono e, quando possibile, ne parlano.
Nella loro prospettiva la prassi psichiatrica proposta può, quindi risultare appiattita e impoverita rispetto a dalle esigenze che, al contrario, sono spesso amplificate dai contenuti patologici. Così accade che quando uno psichiatra ha una sua fede religiosa molti colleghi lo considerano strano e gli chiedono come fa a conciliarla con la psichiatria, mentire i pazienti che ne sono consapevoli lo trovano del tutto naturale.
Il teologo Coda: «Convergere verso il bene dell’uomo»
Psichiatra e teologo contribuiscono alla piena realizzazione della persona umana, offrendo riflessioni e suggerimenti per raggiungere la pace interiore
DI PIERO CODA (Avvenire, 06.07.2010)
Quando si parla dell’anima e della mente, del loro significato essenziale e della loro interazione, credo si possa aprire un vasto e proficuo spazio di dialogo, tra il teologo e lo psichiatra. Ovviamente, se e in quanto questi due concetti vengono riferiti - almeno in una prima approssimazione, bisognosa poi di essere adeguatamente precisata e approfondita - a due ’oggetti’ di esperienze e di intelligenza certo diversi l’uno dall’altro e tra loro distinti, ma di cui al tempo stesso è necessario cogliere e studiare la correlazione.
Io, ad esempio, intendo per anima, nel senso della filosofia classica e più precisamente, della tradizione religiosa cristiana, quella dimensione dell’essere umano che conferisce a esso unità e identità in virtù della sua sporgenza eccentrica, rispetto al mondo, sul mistero di Dio. Mentre, guardando alla psicologia nel senso moderno del termine e alle neuroscienze, intendo per mente quel territorio del nostro esistere in cui interagiscono la sostanza materiale e biologica con quella psichica e cognitiva. Quando i due concetti sono intesi in questa prospettiva - pur in una varietà di approcci e di comprensioni che può essere molto diversificata - tra il teologo e lo psichiatra si stabilisce un comune terreno d’interesse di ricerca e di dialogo.
E ciò - lo esprimo dal mio punto di vista - innanzitutto perché il teologo si occupa di una tradizione di origine religiosa e di natura religiosa che ha una finalità precisa: quella di essere al servizio della maturazione e della realizzazione integrale della persona, guardando alla decisività del suo rapporto con Dio e, in Dio, con tutto il resto. Il che - per quanto concerne la sanità e lo sviluppo armonico del sé - è anche lo scopo della psichiatria.
Il teologo cristiano in realtà muove dall’esperienza di fede in un evento che è, allo stesso tempo, per lui inaudito, e umanissimo: il farsi uomo del figlio di Dio, Parola del Padre rivolta definitivamente al mondo, che dischiude all’uomo l’orizzonte realistico e integrale della sua straordinaria vocazione. Di conseguenza, tutto ciò che vi è di autenticamente umano, ha per il teologo un significato immensamente importante: proprio perché Gesù, in esso si apre e si compie nella relazione al divino, che come tale lo rispetta e lo introduce in una attuazione di sé che colma le sue aspirazioni più originarie e radicali.
D’altra parte, il teologo vede con grande interesse quel profilo nuovo e specifico di lettura dell’esperienza antropologica che la tradizione psicoanalitica e psichiatrica hanno rinvenuto, e di cui diventa importante e prezioso avvalersi per approfondire la conoscenza di quel mistero che l’uomo è a se stesso, e delle dinamiche della sua avventura.
Una teologia che sia autenticamente teologia, se non altro per i due motivi non appena enunciati, deve quindi essere positivamente attenta all’apporto che viene dalla ricerca e dalle acquisizioni dello psicoanalista o dello psichiatra. Essendo al tempo stesso consapevole dell’apporto originale e indispensabile che essa è chiamata in prima persona a offrire nella decifrazione del mistero dell’uomo.
Un apporto che, a ben vedere, si indirizza in una duplice direzione. Da un lato, di incontra con un approccio filosofico e metafisico all’esistenza umana che lo vede irriducibile ai dinamismi materiali, psichici e sociali in cui si incarna: perché fondata da e aperta a un’esperienza del trascendente. E, dall’altro, si sviluppa secondo una modalità specifica in quando nasce dall’intelligenza di ciò che rappresenta per l’esistenza umana l’esperienza inedita che ha fatto irruzione nella storia con l’evento di Gesù Cristo, esperienza che continua a vivere e a dare frutti nella pratica di coloro che condividono come Chiesa la sequela di Gesù.
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IL LIBRO
Il medico dell’anima e il medico della mente
Anticipiamo in queste colonne due stralci delle riflessioni proposte da Piero Coda ed Enrico Smeraldi nel loro ’Anima e mente. Un tema a due voci’ (San Raffaele, pagine 172, euro 16,00).
Teologia e psichiatria si confrontano nel rispetto delle reciproche competenze, scavando a fondo nei molti aspetti affrontati: la ’nascita’ dell’anima nell’essere umano, il ruolo del ’medico dell’anima’ e del ’medico della mente’, i recenti studi scientifici sulla psiche e il rapporto tra scienza e fede.