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Il potere e le carceri - di Giulio Salierno - selezione a cura del prof. Federico La Sala

L’ultimo saggio di Giulio Salierno, morto improvvisamente lunedì
venerdì 3 marzo 2006.
 

L’ultimo saggio di Giulio Salierno, morto improvvisamente lunedì

IL POTERE E LE CARCERI.

Biografia del sistema carcerario, dal Medioevo alla società moderna. Il sistema feudale e la reclusione istituzionalizzata, il modello “panottico” (che tutto vede...) di Jeremy Bentham e il potere disciplinare di Michel Foucault, l’elettronica e la nuova era penale: come cambia l’organizzazione del controllo sociale

Questo che pubblichiamo è un articolo che Giulio Salierno ci ha inviato sabato, 24 ore prima della sua morte improvvisa. I funerali di Giulio si svolgono questa mattina alla 10, a Roma, a via Galilei 53 (associazione Esquilino).

di Giulio Salierno (Liberazione, 01.03.2006, pp. 1/3)

Secondo uno stereotipo culturale dominante, il carcere, inteso come istituzione internante in cui i “delinquenti” vengono relegati per scontare le pene, sarebbe sempre esistito (e sempre esisterà) perché la società non ne potrebbe fare a meno. Falso. Si tratta di un alibi giustificatorio che mira a perpetrare nel tempo l’esistenza di un’istituzione che, quanto a disumanizzazione totalizzante, non ha precedenti nella storia. L’equivoco nasce dall’errata identificazione di fenomeni assai diversi tra loro: il carcere, come edificio atto a custodire persone in attesa di altro destino, è stato falsamente identificato con la reclusione, intesa come pena istituzionalizzata. E’ solo con il secolo XVII che essa assume una rilevanza sociale, politica ed economica che prima non aveva mai avuto.

Nella società feudale la pena dell’internamento è riservata sostanzialmente ai debitori. A partire dal XVII secolo il radicale mutamento delle strutture economiche di base (e la nascita del capitalismo) determinò l’avvento di una nuova sovrastruttura: l’internamento istituzionalizzato. Ciò che muta non è il carcere in quanto tale ma la sua incidenza sociale. In tutta l’Europa nacquero molteplici istituti d’internamento. Dove confluivano ladri, truffatori, prostitute, giocolieri, sifilitici, malati di mente, debitori, fanciulle traviate, giovanotti che dilapidavano il patrimonio familiare, il cui unico filo rosso d’unione era il disordine e il peccato. La spinta principale per questo processo è data dalla gigantesca migrazione interna di contadini verso le città per andare a lavorare nei nascenti opifici, che non potevano assorbirli come mano d’opera con la stessa rapidità con cui si realizzava l’abbandono delle campagne. Molti di essi nei periodi di crisi restavano disoccupati e - come succede anche ora a non pochi immigrati - per sostentarsi si “arrangiavano” come potevano o sapevano.

Ed è così, per esigenze di controllo sociale, che l’espansione vertiginosa dell’istituzione internante acquisisce il suo volto autentico: un prodotto del capitalismo, ad esso funzionale. E il funzionamento delle case internanti segue (in modo non meccanico) l’andamento ciclico dell’economia capitalistica:

a) durante il periodo ciclico depressivo (congiuntura sfavorevole) l’internamento assolve un compito preventivo, assorbendo disoccupati, e repressivo, proteggendo la “società” da agitazioni e sommosse;

b) nella fase di salita e di discesa della curva ciclica assolve una funzione propulsiva o di freno bilanciando l’occupazione;

c) nella fase di pieno impiego e di alti salari (congiuntura favorevole) diventa produttrice di forza-lavoro a bassissimo costo ed agisce come elemento contenitore della spinta inflazionistica.

Le religioni protestanti come il calvinismo fornirono senz’altro, assai più che non la religione cattolica, quella complessiva visione del mondo e della vita, basata sull’etica del lavoro e sulla religione del capitale, che animerà di sé le prime istituzioni internanti. L’assetto di potere si garantisce così la possibilità di utilizzare l’internamento a suo piacimento rivestendolo di una sovrastruttura ideologica che conduce alla giustificazione totale e completa di qualsiasi fenomeno repressivo e poliziesco.

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Ogni ordine trova stabilità e geometria in una serie di pilastri; nel sistema carcerario uno dei più importanti è costituito dal carcere stesso, considerato dal punto di vista edilizio e ambientale. Come si è detto, le esigenze economiche di base modellano la reclusione. La deportazione, usata dall’Inghilterra per popolare continenti, quali l’America e l’Australia, corrispondeva ad una precisa necessità politico-economica della Gran Bretagna. I sistemi penitenziari panottici di Filadelfia (1790) e di Auburn (1825), su cui sono modellate molte carceri attuali, sono l’espressione tipica delle esigenze strutturali dell’economia capitalistica. Nel sistema di Filadelfia, o dell’isolamento assoluto, i reclusi, alloggiati in celle rigorosamente individuali, lavoravano all’interno della cella e vivevano nell’isolamento assoluto.

E’ evidente la trasposizione della concezione artigianale del lavoro; così come in quello di Auburn, in cui i detenuti erano isolati durante la notte e lavoravano in gruppo, durante il giorno, nelle officine dello stabilimento, è riscontrabile l’influenza dei metodi di gestione industriali privati. Lo schema filadelfiano è presente, nel nostro paese, a livello di caratteristiche edili, nelle grosse carceri giudiziarie tipo Regina Coeli, San Vittore, eccetera; quello auburniano nelle case penali cunicolari (Alessandria, Firenze, eccetera).

Il modello panottico, elaborato dal filantropo inglese Jeremy Bentham nel 1791 (le “anime belle” hanno fatto sempre disastri), base, spunto del sistema penitenziario moderno (attualmente la situazione è in via di cambiamento), consiste in una costruzione ad anello, con al centro una torre, circondata da una galleria, da cui partono i bracci con le celle, dotate di finestra verso l’esterno, coperta da gelosia, e altro finestrino-spioncino sulla porta. Il sorvegliante, dalla torre, può guardare, senza essere visto, le celle e cosa vi avviene dentro. Una prigione a perfezione ideale, dove ogni recluso è, in ogni istante, spiato. Il perfezionarsi dell’opera architettonica di Bentham si traduce in ulteriori, cervellotici accorgimenti, quali l’applicazione di piccole lampade riflettenti, situate sulla torre (in modo da illuminare le celle), piccoli tubi di ferro bianco dalla torre alle celle (per consentire al sorvegliante di parlare con i detenuti senza essere visto), eccetera, ec cetera. E il nostro filantropo voleva applicare questo schema organizzativo in ogni campo della vita sociale dove fosse necessario controllare un elevato numero di persone con poca spesa: scuole, ospedali, fabbriche, caserme, eccetera.

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Il rapporto di fondo tra sistema internante e mercato del lavoro (rilevato, tra l’altro, da Marx) si “arricchisce” così di meccanismi culturali e ideologici analizzati, in particolare, da Michel Foucault. Per il filosofo francese, il carcere è l’emblema del modello di organizzazione del potere disciplinare esercitato nel contesto sociale da chi detiene il potere stesso che, per preservare se stesso, sorveglia tutto ciò che non considera “normale”, ricorrendo alla carcerazione di chi viola la legge, come estremo tentativo non tanto di socializzare-risocializzare costoro, quanto chi tende, con più o meno coscienza politica, a contrapporsi alle norme precostituite. Foucault, inoltre, mette in rilievo l’equivoco di fondo di cui patisce l’istituzione carceraria dall’atto della sua nascita in età moderna: lo sviluppo, attorno a essa, di una complessa ideologia del recupero, della rieducazione e del trattamento, secondo la quale, la prigione più che punire dovrebbe redimere, rieduca re, trasformare in “positivo” la personalità del recluso.

Quest’ottica, in contrasto insanabile con le esigenze di colpire-contrastare il delitto e con le modalità di funzionamento della reclusione, del tutto indifferenti alla colpa o all’innocenza dei ristretti, costituisce la malattia mortale, il cancro dei penitenziari. Ne è la mistificante terapia impossibile. Anzi, per Foucault, la prigione è riuscita e riesce assai bene a produrre la delinquenza, tipo specifico, forma politicamente e/o economicamente meno pericolosa - al limite utilizzabile - di illegalismo; a produrre i delinquenti in ambiente apparentemente marginalizzato, ma controllato dal centro; a produrre il delinquente come soggetto patologizzato. In altri termini, i problemi del carcere sono, storicamente (considerando, cioè, le ristrutturazioni del recinto internante seguite alla divisione del lavoro e alle modifiche dell’apparato produttivo della società), di fatto, sempre gli stessi. E si ripresentano puntualmente, nel tempo, a bussare alle nostre porte.

Le prigioni erano e sono - come lucidamente definite da Erving Goffman - istituzioni totali. Cioè, luoghi di lavoro e di residenza di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Luoghi in cui il potere inglobante o totale è simbolizzato e/o, di norma, concretizzato dal divieto di scambio sociale e di uscita verso il mondo esterno. Luoghi in cui, inoltre, è rotta la barriera che abitualmente separa le tre sfere principali di vita degli uomini liberi: dormire, divertirsi e lavorare in posti diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità e senza alcuno schema razionale obbligatorio di carattere globale. Ne consegue che è illusorio sognare di costruire nuove prigioni a misura di uomo; anche trasformando le carceri in un Grand Hotel dopo un po’ diventerebbero ugualmente un inferno. Ma la razionalità scientifica è estranea alle “anime belle” che, per contrastare le caratteristiche terroristiche del carcere, con candida fiducia nelle possibilità di riforma delle prigioni, negli ultimi decenni, ne hanno promosso l’ “ammodernamento”. Risultato: siamo entrati - come ha osservato Stanley Cohen - in un’era della politica penale, nella quale il problema non è più rappresentato dai condannati a pene brevi, i patetici personaggi che entrano ed escono dalle nostre sovraffollate prigioni, bensì da un numero sempre maggiore di condannati a lunghi periodi di detenzione, uomini “pericolosi” che pongono difficoltà completamente diverse di disciplina, controllo e sicurezza (per l’Italia, carceri speciali e art. 41 bis). E il paradosso consiste proprio nel fatto che, a causa del successo ottenuto dai “liberali”, le cui spinte riformatrici - secondo Cohen - non hanno prodotto altro che la depenalizzazione dei reati minori e rafforzato le caratteristiche escludenti del carcere, questi grup pi sono definiti in termini ancor più negativi e distruttivi. Sono i “duri”, la feccia, i boss mafiosi, i recalcitranti, gli incorreggibili, i terroristi irriducibili: quelli per cui non si può far niente, se non isolarli in prigioni speciali o in bracci di sicurezza.

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Nell’era attuale, quella cioè post-industriale o a capitalismo cognitivo stiamo assistendo a un processo per molti versi simile a quello della prima industrializzazione. Milioni di uomini del Terzo mondo (che brutta espressione!), in fuga dalla fame e dalle guerre, per sopravvivere, arrivano, rischiando la vita, in cerca di lavoro, nero o pagato poco che sia, nei nostri paesi, andando a occupare quei posti, quelle attività ormai troppo faticose o economicamente insopportabili per noi. Anche essi, come nel XVII secolo capitò ai nostri contadini, non sempre trovano occupazione o, nei momenti di crisi, la perdono. A questa questione vanno sommate quelle della trasformazione della nostra manodopera (nascita dei non-garantiti, degli operai sociali, degli ingegneri-salariati, eccetera), della riduzione dell’orario di lavoro, della colonizzazione del tempo libero, dell’ingresso, a pieno titolo, della cocaina o dei Bronzi di Riace nell’economia politica, della nascita delle neomerci, eccetera. Insomma, con la ristrutturazione e l’ingresso dell’elettronica nella produzione e in tutti i campi della vita umana non si modificano solo le classi, e le organizzazioni delle stesse, ma ben altro: la stessa produzione di regole. Ciò - come ovvio - per la complessità del mondo in cui viviamo, si riflette in tutti i campi. Dalla famiglia, alla scuola, alla catena di montaggio, sino al penale e al penitenziario. E, da un lato, fa acquisire rilevanza sociale, finalizzata al controllo, a discipline come la criminologia, la sociologia, la psicoanalisi o la psichiatria, la linguistica, l’antropologia, e a istituti esterni al carcere, e, dall’altro, determina conflitti tra la cultura acquisita da tempo dai ceti subordinati (o quella d’origine degli immigrati) e i nuovi valori che a essi vengono imposti o si tenta d’imporre. Conflitti esasperati dalle eccessive pretese di razionalizzazione della tecnologia moderna.

L’elettronica, nella sua veste post-industriale, sta producendo una nuova era della politica penale. La reclusione si avvia al tramonto. Paradossalmente assistiamo, in tutto il mondo occidentale, a un aumento del numero dei detenuti proprio mentre la pena della reclusione, superata storicamente, resta soprattutto deputata a gestire, come estrema ratio, la devianza degli strati giovanili non-garantiti e, come prima ratio, l’anomia degli immigrati del terzo e quarto mondo e i corti circuiti sociali determinati dalle nuove tecnologie vengono sempre più gestiti attraverso sofisticati, non predeterminati apparati di controllo: medicalizzazione, spettacolarizzazione, eccetera.

E di ciò i ceti egemoni sono, con più o meno coscienza del problema, consapevoli. Nello specifico del sistema penale è da tempo che il potere sa che la prigione e la pena di morte sono entrate in una crisi priva di prospettive. Continua, sostanzialmente, nell’area occidentale, e solo negli Stati Uniti, per motivi di consenso politico, a praticare la pena di morte, ma occultando le esecuzioni nei retrobottega dell’apparato repressivo (pochi testimoni, divieto di ripresa in diretta tv, ridicolo, ipocrita tentativo di “addolcire” la fine del condannato). Uccide, ma si vergogna di farlo vedere. Sa, dunque, oltretutto che impiccare o fucilare, oppure “friggere” sulla sedia elettrica, pubblicamente i condannati non è uno spettacolo che possa trattenere alcuno dal violare le leggi. E’ anche persuaso che la prigione non sia un’alternativa credibile alla morte o al supplizio. Ha scoperto che la reclusione è un’arma debole contro chi intende uscire fuori dalla normativa esistente e che , per di più, è essa stessa fonte primaria di devianza, anzi di istituzionalizzazione della devianza. E di fronte a ciò - non potendo intervenire sulle cause strutturali e sovrastrutturali del crimine - è costretto a raffinare gli strumenti di controllo sociale, praticare alternative alla prigione (esempio: i Centri di permanenza temporanea o Guantamano per i talebani), dare vita a forme di libertà condizionata (braccialetti elettronici, affidamento in prova) o, al contrario, trasformare la pena della reclusione in ergastolo per i plurirecidivi (“tre condane e finisci relegato a vita”), sperimentare a privatizzare il carcere (Usa, Gran Bretagna), o trasformare le comunità terapeutiche in prigioni per i tossicodipendenti (anche in Italia).

Non rinuncia, però, a rendere sempre più dura e distruttiva la pena della reclusione.

Le cosiddette carceri speciali (ora, in Italia, in regresso) si iscrivono in questo processo. Ma l’assetto di potere sa che indurire certe forme di detenzione non gli è e non gli può essere ancora sufficiente. E allora pensa, sperimenta, studia di trovare altri meccanismi (Cayenna, punizioni corporali, annientamento psicofisico in ambienti gelidamente impermeabili anche ai suoni) che diano, anzi restituiscano alla sofferenza il tragico privilegio di apparire un convincente sostituto penale al carcere e alla morte.


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