Vignette

VIGNETTE O STEREOTIPI? LE RADICI DI UN CASO - selezione a cura del prof. Federico La Sala

domenica 19 febbraio 2006.
 

di Annamaria Rivera (Liberazione, 18 febbraio 2006)

Il lato più sconcertante dell’affaire delle vignette danesi è che tutti i protagonisti si siano comportati come lo sciocco che fissa il dito di chi gli sta indicando la luna.

Lo hanno fatto perfino giornali e giornalisti di sinistra, ripubblicando le vignette e contribuendo anch’essi a trasformare una vicenda minore in un’accesa controversia di dimensione internazionale e di portata esplosiva.

Mentre cresce la luna della guerra preventiva e dei suoi effetti devastanti, del dominio imperiale e dello sfruttamento globale, da noi si discetta intorno al dito, cioè intorno alla libertà di satira, come se davvero questo fosse il problema inerente alle “caricature” di Maometto. E altrove si assaltano ambasciate europee e si partecipa a manifestazioni e violenze di piazza - incoraggiate o ispirate dai regimi al potere oppure sanguinosamente represse, secondo i paesi - facendo spesso il gioco di dittature che hanno interesse a deviare da sé la rabbia popolare.

Per cercare di fare chiarezza è opportuna anzitutto qualche puntualizzazione lessicale. Cos’è una caricatura? Una rappresentazione - scrivono i dizionari - in cui i tratti caratteristici del soggetto rappresentato sono esagerati o distorti per produrre un effetto comico o grottesco. E cos’è la satira? Un’espressione letteraria o figurativa che, muovendo da un intento morale, mira a criticare, con l’arma del ridicolo, personaggi, costumi o istituzioni. Ora, cosa v’è di caricaturale o di satirico nel rappresentare il fondatore dell’islam con il capo coperto da un turbante-bomba con miccia accesa? Si può parlare d’intento morale allorché la finalità della “satira” è illustrare la tesi secondo cui l’islam sarebbe una religione intrinsecamente terrorista e il terrorismo sarebbe per essenza musulmano?

Ad argomenti e dubbi di tal genere si obietta che l’intangibile principio della libertà d’espressione non può essere sacrificato sull’altare del rispetto delle sensibilità religiose, si tratti pure di un miliardo e mezzo di fedeli. E ci si richiama a Voltaire (che peraltro fu poligenista convinto, fautore dell’antiebraismo, sostenitore e profittatore del sistema schiavistico) per sostenere che l’irrisione delle fedi religiose è parte intrinseca della libertà d’opinione e d’espressione. Altrimenti, si dice, si corre il rischio che siano proibiti i fumetti irriverenti di Cavanna, le caricature dei pontefici, la satira anticattolica, cose a cui nessuno spirito libero, men che mai chi scrive, vorrebbe rinunciare (in realtà, quando ridiamo delle “Avventure di Dio” è di noi stessi che ridiamo, non degli altri).

Non è necessario essere degli intellettuali raffinati per sapere che è il contesto a conferire senso al testo. Né occorre una particolare acutezza per intuire che il contesto è dato non solo dal quotidiano, il Jyllands Posten, che ha ospitato quelle vignette, ma anche dalla situazione storica presente, dalla sua temperie politica, dalla posizione occupata dagli attori in campo, dalla sedimentazione di memorie, culture, conflitti. Isolare la vicenda dalla temperie del dopo 11 settembre per iscriverla nella categoria, concepita come astratta e immutabile, della libertà d’espressione è un’operazione alquanto sospetta, tanto più se i difensori del principio assoluto della libertà “di satira” sono gli stessi che mai hanno nominato, a proposito di questa vicenda, la parola razzismo. Eppure è principalmente di questo che si tratta: di crudi stereotipi razzisti sui musulmani, rappresentati in blocco come potenziali terroristi.

Soffermiamoci sulla polivalenza dello stereotipo. Se raffiguro i napoletani come mangiatori di spaghetti e suonatori di mandolino, sto usando sì uno stereotipo, ma tanto sciocco quanto veniale. Al contrario, se rappresento gli ebrei come deicidi, avidi di denaro, occulti responsabili di complotti, sto facendo dell’antisemitismo bello e buono. I napoletani, infatti, non sono mai stati vittime di pogrom e di stermini in quanto reputati mangiatori di spaghetti e suonatori di mandolino. Alla stessa maniera, se raffiguro Maometto come l’archetipo del terrorista faccio del razzismo poiché rappresento l’islam come una religione per essenza malvagia e violenta, in un momento storico in cui i musulmani, veri o presunti, sono oggetto di disprezzo e di ostilità, ed alcune popolazioni musulmane sono vittime di occupazioni militari, torture, saccheggi, bombardamenti, stragi.

In secondo luogo, conviene analizzare gli attori in campo e la posizione che essi occupano in termini di potere. Il Jyllands Posten non è un qualsiasi giornale scandalistico o conservatore; è invece l’espressione di un partito di governo e del suo orientamento anti-immigrazione e anti-musulmano. Orientamento a sua volta condiviso dalla regina di Danimarca, che è anche la suprema autorità della chiesa luterana, cui fa riferimento l’85% della popolazione danese, mentre i musulmani non superano il 3%. Ancora una considerazione: quando cittadini bianchi di paesi europei di tradizione cristiana prendono in giro la chiesa cattolica e il Vaticano - del cui potere è difficile dubitare - la cosa può risultare più o meno di buon gusto ma certo è del tutto legittima; come legittimo ed auspicabile sarebbe che i cittadini di paesi a maggioranza musulmana conquistassero il diritto di criticare e perfino ridicolizzare non solo l’islamismo ma anche i confessionalismi musulmani e le loro stru tture. Ciò equivale ad affermare che il diritto di critica e di satira può esercitarsi soltanto nell’ambito della propria tradizione religiosa? No di certo: si vuol dire, invece, che il segno e il senso mutano a seconda dei contesti e dei rapporti di forza.

Inoltre, ben pochi hanno osservato che alcune fra le vignette in questione ricalcano stilemi propri dell’iconografia antisemita. Pochissimi rilevano, d’altra parte, che gli enunciati e gli atti antimusulmani compiuti dalla Lega Nord, per fare un esempio a caso, presentano un’inquietante analogia con i cliché e la semantica dell’antisemitismo (basta pensare alla tristemente famosa “profanazione” con orina di maiale di un terreno destinato alla costruzione di una moschea); e che la stessa “aria di famiglia” circola nei pamphlet della pluripremiata Fallaci, ove gli immigrati sono subumani che “orinano nei battisteri” e “si moltiplicano come topi”.

Non c’è da stare allegri neppure se si guarda all’altro versante. In alcuni fra i più “moderati” regimi arabi - si pensi all’Egitto - circolano i Protocolli dei Savi Anziani di Sion ed altra simile robaccia antiebraica, fra cui vignette improntate alla classica iconografia nazista dell’ebreo: barba, kippà, naso adunco, aspetto ripugnante, avido e sanguinario. Per non parlare della delirante proposta di un concorso a premi per vignette sull’Olocausto, lanciata dal quotidiano iraniano Hamshahri come “reazione” alle vignette danesi.

In verità l’intera vicenda reca il marchio dell’insensatezza. E’ stupefacente che chi, con quelle vignette, ha incitato, e con tanta leggerezza, all’odio razzista e all’islamofobia già dilaganti non avesse previsto reazioni popolari spropositate e campagne strumentali da parte dei regimi di paesi a maggioranza musulmana.

Ancora più sorprendente è che i giornali democratici che le hanno ripubblicate - per rivendicare il diritto alla libera espressione, sostengono - abbiano sottovalutato gli effetti esplosivi della loro scelta. E’ amaro constatare che le conseguenze di tanta irresponsabilità sono centinaia di persone arrestate e decine di persone uccise nel corso delle manifestazioni di protesta. Infine, ad uscire rafforzata da questa vicenda non è la libertà d’espressione, bensì il risentimento e l’ostilità reciproca, a tutto vantaggio di chi, nell’uno e nell’altro versante, ha interesse ad inverare la nefasta profezia dello “scontro di civiltà”. 18 febbraio 2006


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