IL CAPOVOLGIMENTO DI TUTTI I VALORI E L’AGONIA DELL’ITALIA ....

GIORGIO AMBROSOLI, L’ULTIMA TRAMA DI SINDONA, E L’ETICA PUBBLICA PERDUTA. Note sul tema di Lorenzo Marzano, Corrado Augias, Simonetta Fiori, e Stefano Rodotà - a cura di Federico La Sala

domenica 12 luglio 2009.
 

[...] La storia di Ambrosoli la conosco tramite il bel libro di Stajano "Un eroe borghese" oltre che per qualche ’vista dall’interno’, per esempio mi parlò di lui l’autista di Paolo Baffi, che lo accompagnò ai funerali (notoriamente in assenza di altri rappresentanti dello Stato) e in seguito venne trasferito al Servizio informatico dove anch’io lavoravo [...]

[...] Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici".

Registro due fatti. Il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo dell’esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E’ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro.

Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l’annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti! [...]


GIORGIO AMBROSOLI (Wikipedia)

Quell’eroe borghese ucciso 30 anni fa

risponde Corrado Augias (la Repubblica, 10.07.2009)

Caro Augias,

sono un pensionato della Banca d’Italia. So che lei di recente ha presentato a palazzo Koch, il libro di Umberto Ambrosoli dedicato alla figura di suo padre Giorgio fatto assassinare da Michele Sindona trent’anni fa. La storia di Ambrosoli la conosco tramite il bel libro di Stajano "Un eroe borghese" oltre che per qualche ’vista dall’interno’, per esempio mi parlò di lui l’autista di Paolo Baffi, che lo accompagnò ai funerali (notoriamente in assenza di altri rappresentanti dello Stato) e in seguito venne trasferito al Servizio informatico dove anch’io lavoravo.

Seguo la sua rubrica, mi farebbe piacere se volesse ricordare anche qui la figura dell’avvocato Ambrosoli, che nel bieco contesto di quell’anno spicca come esemplare servitore dello Stato. Ricordo che il 1979 fu anche l’anno della triste vicenda Baffi-Sarcinelli vilmente accusati e costretti alle dimissioni.

Lorenzo Marzano lormar2@gmail.com

L’ 11 luglio 1979 l’avvocato Giorgio Ambrosoli veniva assassinato. La Banca d’Italia lo aveva incaricato di liquidare la Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ambrosoli poteva truccare le carte ed escludere le responsabilità del finanziere siciliano. In questo caso le spese della bancarotta le avrebbero pagate i cittadini italiani. Oppure poteva sostenere la verità, rendere cioè manifeste le responsabilità di Sindona.

Le pressioni perché sostenesse la prima versione furono innumerevoli e pesanti. Vennero anche da palazzo Chigi dove all’epoca Giulio Andreotti era presidente del Consiglio. Con le pressioni, le minacce. Telefonate a casa, in ore notturne. Nel libro dedicato a suo padre ("Qualunque cosa succeda" - Sironi editore) Umberto Ambrosoli ne riporta alcune agghiaccianti trascrizioni.

Erano anni terribili, forse peggiori di quelli che stiamo vivendo. Lo Stato era profondamente inquinato da un intreccio di corruzione, criminalità, loggia P2.

L’avvocato Ambrosoli ne era consapevole ma continuò con scrupolo e immenso coraggio il suo lavoro. Questo conservatore si dimostrò un liberale di vecchio stampo e in una commovente lettera a sua moglie spiegò che riteneva l’incarico "un’occasione unica per fare qualcosa per il paese".

Sindona assoldò un omicida della mafia italo-americana e lo fece uccidere. Ai suoi funerali, come ricorda anche il signor Marzano, non partecipò nessun rappresentante dello Stato. Unica eccezione il governatore di Bankitalia Paolo Baffi che di lì a poco, ingiustamente accusato insieme al vicedirettore Mario Sarcinelli, si sarebbe dimesso dall’incarico. Ambrosoli ’eroe borghese’, insieme a lui i suoi collaboratori, il ministro Ugo La Malfa, e poi i carabinieri, i magistrati, i poliziotti, perfino qualche giornalista, tutti quelli che furono capaci di resistere.


L’ultima trama di Sindona

-  L’11 luglio di 30 anni fa un killer sparò ad Ambrosoli -Il libro del giudice dell’inchiesta Turone (scritto con Simoni) ricostruisce quegli anni
-  Il bancarottiere si uccise: voleva che fosse una morte strana per offuscare la memoria del commissario liquidatore

di Simonetta Fiori (la Repubblica, 11.07.2009)

Potrebbe apparire una storia d’altri tempi l’avventura tra politica, Vaticano e mafia di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano morto oltre vent’anni fa per un caffè al cianuro. E’ un grande romanzo criminale quello appena licenziato non da giallisti esperti, come si potrebbe ricavare dal passo narrativo, ma dai due magistrati che indagarono meticolosamente i crimini nazionali e internazionali di un finanziere-assassino dotato di un inusuale talento istrionico, nella vita come nella morte. Giuliano Turone era il giudice istruttore che condusse con Gherardo Colombo l’inchiesta giudiziaria sull’omicidio di Ambrosoli, ucciso da un killer americano assoldato da Sindona. Gianni Simoni era il magistrato che investigò sulla misteriosa morte del detenuto eccellente nel carcere di Voghera. Insieme hanno scritto un libro di duecento pagine che sulla base di innumerevoli atti giudiziari, sparsi in altrettanti processi, ricostruisce esemplarmente un pezzo di storia italiana fondata sull’intreccio tra potere politico, potere finanziario e potere criminale (Il caffè di Sindona, Garzanti, euro 16).

Intrighi di un’Italia scomparsa? «Non del tutto», risponde Turone. «E’ di pochi giorni fa l’intervento del procuratore generale della Corte dei Conti sulla larga diffusione della corruzione in Italia. Siamo tra i primi in Europa per trame oscure e strapotere di mafie e camorre. Sembra difficile raddrizzare certe storiche storture nazionali. Da quelle vicende sono trascorsi molti anni, ma siamo ancora in mezzo al guado».

L’urgenza civile che muove il racconto è anche quella di onorare la memoria di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, assassinato l’11 luglio di trent’anni fa su ordine di Sindona. Il risarcimento dell’«eroe borghese» - dal titolo del bellissimo libro di Corrado Stajano - passa anche attraverso la soluzione di un enigma rimasto irrisolto nell’opinione pubblica, ma non nelle (poco conosciute) carte processuali. Il mistero riguarda il cianuro inghiottito dal bancarottiere nel carcere di Voghera.

Omicidio o suicidio? Se nell’immaginario comune è radicata la tesi più spettacolare dell’assassinio, i due magistrati non hanno dubbi sull’uscita di scena volontaria: si trattò dell’ultima straordinaria beffa di Sindona, simulatore beffardo e talentuoso, che scelse di ingoiare il veleno, ma mettendo in scena un omicidio del tutto verosimile.

L’ultima sceneggiata di un criminale fantasioso, «autentico Fregoli dei trasformismi malandrineschi», che morendo da vittima di poteri oscuri voleva dare nuova dignità a sé e alla sua famiglia, intossicando il lavoro di chi si era adoperato per scoprire i suoi delitti. «Nel progetto freddamente coltivato da Sindona», dice Turone, «il suo omicidio, destinato a rimanere senza responsabili, avrebbe fatalmente indebolito le diverse inchieste condotte su di lui. Ma come, avete scoperto tutte le sue malefatte e non sapete chi l’ha ucciso? Anche il coraggioso lavoro di Ambrosoli rischiava di essere offuscato da quest’ultima beffa».

I capitoli più avvincenti riguardano la romanzesca uscita di scena di Sindona, ricostruita nelle motivazioni più profonde - l’ossessione per la morte di un ex potente abbandonato da tutti - e nei dettagli più inaspettati, dalle bustine di zucchero fatte sparire dal suicida alla sorveglianza blindata ad opera di giovani agenti di Monastir.

A sostegno del suicidio, la prova più convincente consiste nella particolare qualità del cianuro, sostanza dotata di un odore e un sapore così ripugnanti da indurre qualsiasi persona a fermarsi disgustata al primo sorso di caffè (ricordiamo che Sindona bevve il caffè chiuso in gabinetto, senza lasciarne neppure una goccia nel bicchiere). Per gli appassionati del genere «caffè al veleno», va aggiunto che Pisciotta fu assassinato con la stricnina, che ha altre caratteristiche.

Come Sindona si procurò il cianuro? Non gli era difficile - sostengono i magistrati - riceverne una dose nel corso delle udienze che lo videro incriminato per il delitto Ambrosoli. Il suo biografo tedesco Nick Tosches ha raccontato che al termine del loro primo incontro, nella cella di Voghera, gli aveva domandato "quale vago raggio di speranza lo sostenesse". E lui, col sorriso luciferino: «Morire».

Ma le pagine più impressionanti investono direttamente la storia d’Italia, i suoi palazzi del potere, gli intrecci tra la politica, la finanza, i poteri criminali, il Vaticano. Sindona era un finanziere potentissimo, uomo di fiducia dello Ior, celebrato nel 1973 da Giulio Andreotti come il «salvatore della lira».

La trama dei loro rapporti è documentata da una fitta mole di carte giudiziarie, oltre che da atti politici e nomine di banchieri - come quella di Mario Barone al Banco di Roma - che negli anni Settanta tentarono di favorire i traffici di Sindona.

Nel prosieguo della lettura, ci si imbatte in trame occulte, ricatti, mascalzonate - non ultima l’incriminazione di Mario Sarcinelli e Paolo Baffi - tutti rigorosamente certificati nelle note a piè di pagine.

Tra i protagonisti figura anche Licio Gelli, il capo di quella loggia P2 di cui Sindona insieme a molti altri era un affiliato. Fu indagando sulla morte di Ambrosoli che i magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono il 17 marzo del 1981 gli elenchi della loggia segreta e successivamente il piano di Rinascita nazionale. Quello stesso piano di Rinascita nazionale recentemente rivendicato con orgoglio da Gelli, risuscitato in una televisione locale. «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti», ha detto Gelli in conferenza stampa. «Tutti ne hanno preso spunto. L’unico che può andare avanti è Silvio Berlusconi, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo».

Che sentimenti prova oggi l’ex magistrato Turone di fronte a questa Italia? «Una grande malinconia», dice sottovoce. «Si prende atto con amarezza che i tentativi che sono stati fatti per combattere le mafie, tutte le mafie, sono per larga parte falliti. Cosa proverebbe oggi uno come Giorgio Ambrosoli davanti allo spettacolo della finanza corrotta? In Italia manca una religione civile, capace di legare responsabilmente l’individuo alla società».

Al pari di altri suoi colleghi autorevoli, Giuliano Turone ha lasciato la magistratura prima del tempo. Oggi si dedica agli studi giuridici e al teatro. Gli piace recitare soprattutto Shakesperare e Kafka.


L’etica pubblica perduta

-  Tutto comincia con la pretesa dell’impunità che va ben oltre il lodo Alfano
-  Quando qualcuno dice che il re è nudo lui si infuria: sostiene si tratti di lesa maestà

di Stefano Rodotà (la Repubblica, 10.07.2009)

Etica pubblica. Parole perdute, e al loro posto un deserto, dove scompare la responsabilità della politica, privacy vuol dire fare il comodo proprio, il senso dello Stato è ormai un’anticaglia. Ogni giorno, più che una nuova pena, porta una mortificazione continua del vivere civile, con un circuito di imbarazzanti ospitalità, che vanno da quella generosamente offerta a schiere di ragazze dal Presidente del Consiglio fino a quella elargita con altrettanta generosità allo stesso Presidente da giudici costituzionali.

Registrare questi fatti vuol dire moralismo, eccesso di voyeurismo, ultima spiaggia di una opposizione senza idee, antiberlusconismo da abbandonare? O siamo di fronte ai segni di un processo di decomposizione di cui i protagonisti non sembrano neppure consapevoli, tanto sono sgangherate le difese loro e dei loro sostenitori, affidate alla disinvoltura del mentire e del contraddirsi senza pudore, a censure televisive, a lettere imbarazzanti e più rivelatrici d’una confessione?

Il catalogo è questo, ed è lungo. Tutto comincia con la pretesa dell’impunità, ma una impunità totale, che non si concentra solo nel lodo Alfano e dintorni, ma si estende in ogni direzione, diventa diritto assoluto di stabilire che cosa possa essere considerato lecito e che cosa (poco, assai poco) illecito, che cosa sia pubblico e che cosa debba rimanere privato. Il voto popolare diventa un lavacro e una unzione.

Ancora oggi, quando si parla di conflitto d’interessi, spunta una schiera di avvocati difensori che esibisce un argomento in cui si mescolano arroganza e disprezzo d’ogni regola: "Di conflitto d’interesse si è parlato mille volte, i cittadini lo sanno e il loro voto a Berlusconi, quindi, respinge nell’irrilevanza politica e giuridica quel conflitto". Non si potrebbe trovare una mortificazione della democrazia e della sovranità popolare più eloquente di questa. Il voto dei cittadini è degradato a scappatoia per sottrarsi alle regole e alla decenza etica. E, quando, finalmente qualcuno dice che il re è nudo (ahimè, in tutti i significati possibili), il re s’infuria, si comporta come se chiedere spiegazioni fosse un delitto di lesa maestà.

Improvvisamente lo spazio pubblico gli sembra insopportabile, proprio quello spazio che aveva voluto costruire a propria immagine e somiglianza, e nel quale si radica non piccola parte del suo consenso. Alla vigilia di una tornata elettorale di qualche anno fa, milioni di italiani ricevettero un colorito libretto dove Silvio Berlusconi esibiva e rivelava infiniti dettagli della propria vita privata, compresi il nome del suo camiciaio e quello del fornitore di cravatte.

Campagna all’americana si disse, ovviamente. Ma l’America è un’altra cosa, è il paese dove la Corte Suprema fin dal 1973 ha stabilito che gli uomini pubblici hanno una minore "aspettativa di privacy", dove proprio in questi giorni, sull’onda di uno scandalo che rischia di spegnere le ambizioni del governatore della Carolina del Sud, si sono unanimemente ribaditi due capisaldi dell’etica pubblica: un uomo politico non può mentire; deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e i comportamenti tenuti. Niente doppia morale, niente vizi privati e pubbliche virtù per chi riveste funzioni pubbliche, alle quali è giunto per scelta e non per obbligo, e del cui esercizio deve in ogni momento rendere conto alla pubblica opinione. Ma il contagio berlusconiano si è diffuso, come dimostra l’imbarazzante vicenda che ha visto protagonisti due giudici costituzionali.

"A casa mia faccio quello che mi pare", diceva il Presidente. "A casa mia invito chi mi pare" (con contorno di assicurazioni sulla riservatezza della fedele domestica), viene di rincalzo il giudice. E chi non accetta queste sbrigative forme di autoassoluzione viene bollato come gossipparo, guardone dal buco della serratura, spione, nostalgico dell’Inquisizione, fautore della società della sorveglianza... Ma le cose non stanno così, e basta un’occhiata alle regole della tanto invocata privacy per confermarlo. Certo, anche le "figure pubbliche" hanno diritto a un loro spazio di intimità, ma questa tutela è garantita solo se le informazioni non hanno "alcun rilievo" per definire il ruolo nella vita pubblica della persona interessata (articolo 6 del codice deontologico sull’attività giornalistica in tema di privacy).

Proprio così’: "alcun rilievo". Non solo questa formula è netta, senza equivoci, ma proprio l’attenzione della stampa internazionale è prova evidente dell’esistenza di un interesse forte a conoscere, così come è clamoroso il fatto che vi sia stata una cena "privata" tra il Presidente del Consiglio, il ministro della Giustizia che ha dato il nome al famoso "lodo" e due tra i giudici che dovranno valutare la costituzionalità della più personale tra le leggi ad personam. Non si può invocare la privacy per interrompere il circuito del controllo democratico.

Proviamo di nuovo a dare un’occhiata alle regole, alle odiatissime regole. Qui troviamo un’altra formula eloquente: "commensale abituale". Dobbiamo ritenere che questa sia la condizione del Presidente del Consiglio, visto che il giudice costituzionale invitante ha detto che quella cena non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli implicati in questa vicenda protestano, dicendo che quella situazione, che obbliga ogni altro magistrato ad astenersi quando abbia frequentazioni della persona che deve giudicare, non è prevista per i giudici costituzionali. Ma questo non vuol dire che i giudici della Consulta possano fare i loro comodi. Proprio perché la loro funzione richiede indipendenza assoluta da tutto e da tutti, sì che giustamente il Presidente della Repubblica ha escluso la possibilità di un suo intervento, massimo deve essere il rigore del loro comportamento. Non un meno, ma un più, rispetto agli altri giudici.

Moralismo, o grado minimo della deontologia professionale e dell’etica pubblica? Proprio questi riferimenti sembrano scomparsi. Mentre la quotidiana attività legislativa smantella pezzo a pezzo lo Stato costituzionale di diritto, negando diritti fondamentali agli immigrati o dando in outsourcing a ronde private l’essenziale compito della sicurezza pubblica (qui s’incontrano le pulsioni della Lega e la concezione aziendalistica del Presidente del Consiglio), è quasi fatale che il senso dello Stato venga relegato in un angolo, considerato un inciampo dal quale liberarsi.

Interviene qui la questione del moralismo, del quale in altri tempi ho scritto un pubblico elogio e del quale torno a dichiararmi un fedele. Non voglio nobilitare le miserie di questi tempi invocando la lettura di quelli che, giustamente, vengono detti "moralisti classici".

Registro due fatti. Il primo riguarda l’uso italiano e inverecondo dell’esecrare il moralismo per liberarsi della moralità. E’ una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro.

Il secondo lascia aperto uno spiraglio alla speranza. Proprio una rivolta in nome della moralità politica e dell’etica pubblica ha scosso le fondamenta d’un potere che sembrava saldissimo e che i vecchi riti della politica d’opposizione non riuscivano a scalfire. Lo conferma l’annuncio che il Presidente del Consiglio vorrebbe compiere una "svolta personale". Ancora uno sforzo, moralisti!


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