Per non aver detto la verità ai cittadini, il governo ha salvato l’Alitalia affidando a una cordata di industriali solo la parte buona della compagnia, e lasciando che gli italiani paghino debiti finanziari, prestito ponte, debiti con fornitori, ammortizzatori sociali, tutela degli azionisti. Secondo Carlo Scarpa e Tito Boeri la somma pagata dallo Stato dal contribuente oscilla fra 2,9 e 3 miliardi di euro (www.lavoce.info).
Wall Street Main Street
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 5/10/2008)
A una delle figlie del presidente del Consiglio è sfuggita qualche giorno fa una dichiarazione singolare e parecchio infelice: forte della sua esperienza di imprenditrice e militante politica, Marina Berlusconi ha vantato le virtù di un governo che finalmente fa quello che gli italiani chiedono, cioè decide, aggiungendo «che di governi che decidono non c’è mai stato tanto bisogno come adesso, con questo tsunami che sta scuotendo l’economia mondiale e la speculazione che ha messo nel mirino anche le nostre banche».
È a questo punto che stupefatta si è domandata: come mai, se così stanno le cose, l’opposizione invece di criticare questo o quel provvedimento «tira ancora in ballo il rischio di regime»? Il mondo è troppo burrascoso e vasto, per indugiare su questioni marginali. È come mettersi a spolverare un comodino, mentre le pareti ti cascano addosso. Come mai tanto spreco d’energia, tanta passione per l’irrilevante?
Molti ragionano come l’imprenditrice: in effetti certe lentezze della democrazia, certe sue puntigliose regole, son vissute come ostacoli alla decisione lesta che s’impone. John McCain, candidato alla presidenza Usa, voleva addirittura sospendere la democrazia e interrompere la competizione con Obama, a causa della frana finanziaria. Fare le due cose insieme salvare l’economia e preservare il conflitto che della vita democratica è il sale sembra impresa non solo difficile ma inopinata.
Dichiarazioni simili sono singolari perché del tutto prive di memoria: le crisi economiche, a cominciare dal grande crollo del 1929 e dal successivo decennio di depressione, hanno inaugurato epoche in cui le istituzioni liberali hanno più vacillato, in alcuni casi naufragando. Gli Stati veramente liberali non hanno mai cessato di funzionare, uscendone invece rafforzati. Non è dunque ozioso discutere sui rischi di regime, in presenza della scossa finanziaria, per il semplice fatto che gli esecutivi tendono a irrigidirsi, in queste circostanze.
Certe volte non si sa neppure bene cosa venga prima: se l’emergenza vera, o l’uso antidemocratico del discorso emergenziale. Il ricorso a vocaboli catastrofici come tsunami è significativo: l’inondazione è come un’orda che irrefrenabile avanza. S’apparenta alla guerra, e in guerra non c’è spazio per gli ingredienti liberali classici: separazione dei poteri, controllo dell’esecutivo e decentramento decisionale, indipendenza della giustizia, rispetto della Costituzione e della legalità, critica esercitata dai giornali.
L’esempio della repubblica di Weimar è tra i più istruttivi. Il governo di Franz von Papen restrinse le regole democratiche prima ancora che Hitler prendesse il potere, e nonostante i nazisti avessero già cominciato a calare nelle elezioni del novembre ’32.
L’invocata forza di causa maggiore era anche allora l’economia. In suo nome fu eliminata l’autonomia della Prussia, e fu annunciato (in un libro del pubblicista Walther Schotte con la prefazione di von Papen, nel ’32) un «Nuovo Stato» decisionista: riordinato in maniera autoritaria, capace di decidere perché affrancato dal ricatto dei partiti, con un Parlamento esautorato.
Nel settembre 1932, quattro mesi prima dell’ascesa di Hitler, furono abolite conquiste rilevanti dello stato sociale, introdotte da Weimar. Esistono poi esempi più recenti. A partire dall’11 settembre e dalla guerra in Iraq, la Casa Bianca ha svuotato la democrazia accampando l’emergenza bellica: ha aggirato la Costituzione e le convenzioni internazionali, ha accentrato i poteri dell’esecutivo, ha tolto poteri ai giudici, ha cercato di piegare la stampa.
Cheney alla vice presidenza teorizzò la «flessibilità» della Costituzione un argomento ripreso da Sarah Palin, candidata alla vice presidenza e facilitò la doppia deriva di Bush: la manipolazione della realtà che precipitò la guerra in Iraq, e l’impunità d’un esecutivo sottratto alle procedure di controlli e contrappesi (check and balance) che fondano il liberalismo politico. Gli tsunami siano essi naturali, militari, economici non inaugurano tempi in cui interrogarsi sulla democrazia diventa meno importante.
Diventa più che mai importante, e per questo la domanda di Marina Berlusconi oltre che immemore è infelice. Quando l’esecutivo non è disciplinato da altri poteri («Perché non ci sia abuso di potere, occorre che il potere arresti il potere», secondo Montesquieu) l’errore di decisione diventa più probabile, non meno. Il leader può avere il carisma del capo (il carisma «dell’azione e dell’esempio», dice Max Weber) ma può svegliare spettri che poi non controlla più, se non con misure illiberali estreme.
L’Italia auspicata ultimamente da Berlusconi (essendoci troppo conflitto si vieterà a giornalisti e magistrati l’uso delle intercettazioni; l’esecutivo deciderà sempre più con decreti ed eviterà contraddittori in tv) è un Paese dove per forza ci si chiederà: è un regime? È un Paese dove le crisi saranno meno governabili, perché informazioni e controlli son mancati? La crisi scoppia quando la realtà viene manipolata o occultata, e quando la decisione è magari veloce ma poggia su tale manipolazione o nascondimento: nascono così le bolle, i mondi paralleli che sembran veri senza esserlo. Nel 2005 avremmo ignorato i rischi economici che gli italiani correvano, se non fossimo stati informati sugli abusi di furbetti e Banca d’Italia. Ci saremmo trovati davanti a un male non curato in tempo, perché non visto.
La trasparenza delucida e può prevenire le crisi. Non le provoca, contrariamente a quel che sostiene Cheney quando evoca il Watergate. Parlare di tsunami finanziario in questi termini è proporre, ancora una volta, la logica emergenziale: una logica che mette in risalto i difetti della democrazia, che in essa non vede altro che clasa discutidora, classe chiacchierona, come nelle requisitorie ottocentesche di Donoso Cortés.
Una logica che favorisce la nascita del Führerprinzip, il principio di comando assoluto fatto proprio non solo da Hitler ma da von Papen. Che spinge i governi a chiudersi nell’illusione di fare da sé: anche per questo è cruciale il vertice finanziario che Sarkozy ha convocato ieri a Parigi per metter fine a autarchiche chimere. La politica della paura ha finito col generare l’economia della paura, e non a caso la crisi finanziaria è paragonata all’11 settembre. Anche in Italia è così: stessa economia della paura, stessa paura non solo dell’opposizione ma del diverso, dello straniero.
Berlusconi, il decisionista che vorrebbe rincuorare la nazione, accentua negli italiani le «tendenze alla chiusura autarchica e all’arroccamento sociale», e ha in realtà «poca memoria e pochissima speranza»: lo scrive con lucide parole don Vittorio Nozza sull’Osservatore Romano del 27 settembre.
Chi invoca l’emergenza dice che pensa a Main Street più che a Wall Street, al cittadino più che agli speculatori. Ma Main Street ha bisogno di una democrazia con poteri suddivisi e autonomi, ha bisogno di responsabilizzarsi sapendo come si è arrivati a questo punto e in seguito a quali menzogne. Se attorno a sé vedrà sprezzo delle leggi e magistrati inermi accetterà il caos per infine scoprire che sarà lei, comunque, a pagare. Lo si vede in America e in Italia.
Per non aver detto la verità ai cittadini, il governo ha salvato l’Alitalia affidando a una cordata di industriali solo la parte buona della compagnia, e lasciando che gli italiani paghino debiti finanziari, prestito ponte, debiti con fornitori, ammortizzatori sociali, tutela degli azionisti. Secondo Carlo Scarpa e Tito Boeri la somma pagata dallo Stato dal contribuente oscilla fra 2,9 e 3 miliardi di euro (www.lavoce.info).
Verità, separazione dei poteri, libera informazione: in tempi di tsunami, vigilare sulla società aperta e i suoi nemici interiori non è secondario, ma vitale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA DEMOCRAZIA E L’AVVELENAMENTO DEI POZZI, CON UN GRANDE MINESTRONE TOSSICO.
Marina nel cda, Berlusconi scala Mediobanca
di Rinaldo Gianola *
L’ingresso di Marina Berlusconi nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, atteso all’assemblea degli azionisti di domani, segna un passaggio importante negli assetti e negli equilibri del potere economico italiano. Sarebbe, infatti, un errore considerare la nomina della figlia del premier, che già ricopre importanti ruoli come la presidenza della Mondadori, come una semplice promozione ai vertici della maggior banca d’affari, da sempre stanza di compensazione del capitalismo tricolore. La novità, invece, segna la definitiva presa di Berlusconi sui gangli vitali della finanza e dell’economia, attraverso la presenza diretta della Fininvest nell’azionariato dell’Istituto e da domani anche con l’esordio della figlia in consiglio.
Un Berlusconi in Mediobanca è davvero una grossa novità, sia per la storia del gruppo Fininvest-Mediaset, sia perchè coincide con la svolta bonapartista imposta da Cesare Geronzi che ha ottenuto la cancellazione del sistema di governance duale (con la separazione tra azionisti e manager, solo un anno fa era soluzione presentata come una rivoluzione...) per tornare a quello tradizionale del solo consiglio di amministrazione di cui proprio Geronzi, «l’unico banchiere non di sinistra» secondo una definizione del premier, sarà presidente. Anche Berlusconi è cambiato. Vent’anni fa, all’epoca della privatizzazione di Mediobanca con la parziale uscita delle ex banche di interesse nazionale (Comit, Credit e Banca di Roma) il tycoon di Arcore rifiutò di partecipare: «Dovrei spendere 40 miliardi per non contare nulla...» disse, con il solito senso degli affari. Ma quelli erano altri tempi: Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi guidavano la banca con il loro ascetismo calvinista, Gianni Agnelli e Leopoldo Pirelli erano la faccia nobile del capitalismo. Il potere si esercitava in poche mani e i neofiti, come Berlusconi, venivano trattati con distacco dall’aristocrazia imprenditoriale. Ma i tempi cambiano e il premier-imprenditore comprende oggi l’importanza di stare in Mediobanca in prima fila, assieme agli amici Geronzi, Ennio Doris, Tarak Ben Ammar, Vincent Bollorè e Salvatore Ligresti (quest’ultimo rappresentato dalla figlia Jonella) con il quale divideva appalti e affari nell’indimenticabile Milano di Craxi. L’avanzata di Berlusconi e dei suoi alleati in Mediobanca è spedita, ben più forte del semplice possesso di azioni. Non ci sono più i vecchi leoni, De Benedetti addirittura è impegnato a scrivere libri per la Mondadori (Ingegnere, ma non poteva scegliere un’altra casa editrice?), non si trovano oppositori. Alessandro Profumo, capo di Unicredit, uno dei pochi che avrebbe potuto esercitare il suo ruolo di grande azionista e contrastare l’avanzata delle truppe berlusconiane, sconta errori e presunzione ed è costretto ad accettare le garanzie della Mediobanca di Geronzi per la ricapitalizzazione di 6 miliardi di euro della sua banca.
Facile immaginare, dunque, che non solo dal governo ma anche dal santuario di piazzetta Cuccia, Berlusconi eserciterà la sua moral suasion sulle imprese. Da Mediobanca si domina sulle Generali, su Telecom, sul Corriere della Sera e mille altre province. La signora Marina, c’è da scommetterci, farà bene il suo lavoro. Negli ultimi tempi non si è accontentata di apparire nella classifica di Forbes delle imprenditrici più potenti. Ha attaccato Veltroni in un’intervista sul Corriere della Sera e ha polemizzato con Barbara Spinelli che aveva osato criticare il papà sulla Stampa. Inizia una nuova epoca: piccoli Berlusconi crescono, si moltiplicano e comandano.
* l’Unità, Pubblicato il: 27.10.08, Modificato il: 27.10.08 alle ore 8.57
Nè panico nè populismo
VITTORIO EMANUELE PARISI (La Stampa, 11/10/2008)
In questi giorni si è molto, e giustamente, parlato del pericolo che la crisi finanziaria mondiale finisca con l’alimentare un’ondata di panico irrazionale, la sola che sarebbe davvero in grado di mettere in ginocchio l’economia globale. Il monito appare sacrosanto, ma val la pena segnalare come, nella Penisola, insieme con il panico ciò che rischia di venire risvegliato e alimentato è quella miscela di populismo e anticapitalismo che troppe volte ha impedito che l’Italia potesse diventare quel Paese normale, o semplicemente moderno, in cui vorremmo vivere. Non c’è dubbio che i mercati finanziari, soprattutto quei segmenti che trattano i prodotti più innovativi e sperimentali, altamente redditizi e parimenti volatili, necessitino di una regolamentazione maggiore e più efficace. Il «mercato», d’altro canto, è un’istituzione, al pari dello Stato, e solo una visione ideologizzata dello Stato e del mercato hanno potuto lasciare intendere che l’uno potesse crescere e fortificarsi mentre l’altro andava in malora. In fondo, il caso italiano è paradigmatico (al negativo) di questa relazione. Le regole sono quindi necessarie e benvenute proprio laddove si scambiano valori finanziari, perché senza regole non ci può essere fiducia e qualunque anticipazione sul futuro rischia di tramutarsi in azzardo.
E alla politica spetta di dettare le regole e di farle applicare. Questo, insieme al rigore nel fornire informazioni non allarmistiche e alla garanzia che le istituzioni non saranno passive spettatrici di quanto sta avvenendo, va nella direzione di rassicurare l’opinione pubblica e di combattere il panico. Il messaggio appropriato è quello di spiegare che la politica può fornire nel breve periodo quei correttivi che consentano al mercato di ritrovare il suo autoequilibrio nel lungo periodo. Evidentemente, prospettare la necessità della temporanea chiusura dei mercati (anche se poi smentendo) o arrivare a «consigliare» quali titoli acquistare, come inopportunamente ha fatto il presidente del Consiglio, non solo travalica tale limite, ma finisce anche col sortire l’effetto opposto: alimentando la sfiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato in un momento e in un Paese in cui essa è già molto bassa.
Questa è la stagione ideale per alimentare le culture politiche che guardano con sospetto all’economia di mercato, al capitalismo e al profitto. Non occorrerà ricordare che la «grande crisi» alimentò il successo dei movimenti populisti e fascisti che dilagarono per l’Europa negli Anni 30 e il sospetto e il rancore verso le lobby finanziarie internazionali furono combustibile per l’ipernazionalismo e l’antisemitismo che questi movimenti rinfocolarono. Anche grazie all’Unione, oggi è più difficile che una simile deriva sia compiutamente possibile. In Italia, poi, è paradossale che il «rischio di un regime» sia il tormentone preferito di un leader populista quant’altri mai. Ma, se è significativo che i movimenti e partiti populisti, compresi quelli che non si collocano a destra, siano assai polemici verso l’Europa, è preoccupante che per questa via trovino spesso il varco per raggiungere i cuori dell’elettorato. La timidezza delle istituzioni europee, e la volontà dei governi di non andare oltre il coordinamento delle singole politiche nazionali nell’affrontare la presente crisi, rischia così di fornire legna al fuoco della polemica antieuropea e sostegno a chi se ne fa paladino. Troppo a lungo, infatti, si è argomentato che la realizzazione dell’Unione (e della moneta unica) fosse un frangiflutti contro i marosi della globalizzazione, per illudersi che essa possa uscire indenne da una eventuale crisi prolungata. Se alle istituzioni europee non sarà consentito di giocare un ruolo maggiore, è fin troppo facile prevedere che alle prossime elezioni i partiti populisti aumenteranno e di molto il loro consenso. Nel caso dell’Italia, poi, il rischio è che al danno dovuto alla crisi finanziaria globale si aggiunga la beffa della chiusura della timida stagione di liberalizzazione e deregolamentazione dell’economia (reale e non).
Un refrain in voga nelle ultime settimane è quello di un ritorno a un capitalismo più regolato, dopo gli anni di sbornia liberista, d’iperfinanza e di deregolamentazione selvaggia. Tutto molto giusto e condivisibile. Peccato che reaganismo e thatcherismo, qui da noi, abbiano imperato più nei dibattiti accademici e giornalistici che nella realtà. La nostra economia, quella reale in particolare, ma anche quella finanziaria, soffrono semmai di un eccesso di regolamentazione (per lo più cattiva) al punto che il mercato ne risulta asfittico e irrigidito. Guai se, sull’onda della giusta richiesta di una migliore e più efficace regolamentazione dei mercati per i prodotti finanziari più innovativi, prendesse corpo quella tendenza italiana al consociativismo e all’ipertrofia regolatoria che ben conosciamo e contro la quale lottano quotidianamente imprenditori e lavoratori. Quella che ci aspetta è quindi una lotta su due fronti. Contro gli effetti dell’iperfinanza globale che distrugge quella ricchezza che non crea, e contro chi non crede nella «distruzione creatrice» del capitalismo e nella virtù del mercato. Questo, signor Presidente, è il miglior modo «per evitare il panico e per ridare serenità agli italiani».
Piazze e piazzisti
di Pietro Spataro *
Laggiù si urla «governo sfascista ti abbatteremo a vista», qui si ritma «premier infame per te ci son le lame». Dietro il palco domina la scritta «contro il regime per la libertà». In lontananza una bara con la foto del presidente del Consiglio s’avvia mesta in corteo. No, non è la cronaca di una manifestazione annunciata. Non è un flash anticipato dal corteo che oggi porterà in piazza a Roma la sinistra radicale. E nemmeno una scena fantastica di quello del Pd del 25 ottobre. Quegli slogan sono stati già urlati. Quella parola d’ordine sul palco è già stata esposta. Quella bara ha già sfilato. Era sabato 2 dicembre 2006. Roma, Piazza San Giovanni: il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi si scagliò con parole dure e battute pesanti contro il premier Romano Prodi. Disse che la sinistra aveva fatto i brogli e che il popolo aspettava una guerra di secessione per riconquistare la libertà. È tutto scritto sui giornali di allora, basta controllare.
Oggi però, a parti invertite, Berlusconi ritiene che scendere in piazza sia un’offesa, un pericolo, un attentato. Dice che con chi sfila nei cortei non si dialoga, figurarsi. Aggiunge che non si lascerà prendere in giro. La piazza diventa quindi un luogo di perdizione e di maledizione. Il posto degli istinti animali. Grande elemento di disturbo per chi invece “deve lavorare” e “deve fare” e non può perdersi in chiacchiere.
Se non fosse preoccupante nemmeno varrebbe la pena perderci tempo. In questi lunghi quindici anni di berlusconismo abbiamo assistito a tanti di quegli strappi che rischiamo quasi quasi di farci il callo. Ma il punto è delicato e riguarda la corretta vita democratica del Paese.
Ci sono, infatti, due parole del dizionario democratico che vanno storte al Berlusconi Capo del Governo: Parlamento e Opposizione. Abbiamo già visto in questi mesi quale idea abbia di Camera e Senato. Bei palazzi nel centro di Roma nei quali si aggirano strani signori che pretendono di fare le leggi, discutere proposte, magari votare anche ed emendare. Addirittura esercitare il potere loro conferito dagli elettori. Così Berlusconi ha deciso che si deve perdere tempo e che si governa per decreto, si va avanti con i voti di fiducia trasformando il luogo simbolo della democrazia in una specie di grande pulsantiera. Al presidente della Repubblica che lo avverte e gli dice vigilerò risponde: sissignore. Poi però sforna altri decreti. Aleggia addirittura in queste ore (nonostante la smentita del ministro Alfano nell’intervista rilasciata ieri al direttore di questo giornale) un maxidecreto sulla giustizia.
Siamo visionari? Non pare, se è vero che su questo tema il Quirinale tiene gli occhi bene aperti. E se anche ieri Napolitano ha sentito il bisogno di ricordare che la nostra è una Repubblica Parlamentare e che allontanarsi da questa via può «condurre veramente fuori strada e in vicoli ciechi».
L’altro caposaldo delle moderne democrazie è l’opposizione. Proprio perché siamo in democrazia nessun governo ha il potere assoluto, ma le sue prerogative vengono compensate da una serie di contrappesi. L’opposizione è uno dei più importanti. Certo, è una cosa ovvia. Ma per il nostro premier non sembra sia così. Chi non adora, nel suo caso, non ha diritti, è un nemico e spesso un comunista. La sua è una idea di democrazia senza contestazioni, nella quale la scena è tutta e solo degli yesmen. Preoccupante? Abbastanza preoccupante.
L’opposizione, come si sa, può esercitare il suo ruolo dentro e fuori il Parlamento. Nelle aule e nelle piazze. E la esercita con più o meno durezza ma con spirito democratico e con senso dello Stato. È stato così quando c’era il Pci. Lo è ancora oggi che non c’è più.
Andare in piazza il 25 ottobre per il Pd (così come sarà oggi per la sinistra radicale ed è stato ieri per gli studenti) è un modo forte per far sentire la propria voce e dare voce alla propria gente. Per essere, certo, contro il governo ma con l’obiettivo di risolvere i problemi del Paese in un momento delicato e difficile. Insomma per gridare le proprie critiche e poter dire dei “no” e dei “basta”. È tutto a posto, tutto naturale. Legittimo. Succede qui e succede in tutte le democrazie del mondo. Non succede nei posti dove comanda uno solo che pensa, propone, vota, decide, accoglie e respinge. Sono posti, quelli, che non ci piacciono. Per questo quel refolo di dubbio (che Franceschini ridimensiona nell’intervista a Eduardo Di Blasi a pagina 8) che abbiamo visto serpeggiare dentro il Pd sul tema andare in piazza o no, andarci per criticare o per appoggiare, ci è sembrato alquanto disorientante.
Non bisogna offrire alcun alibi al decisionismo berlusconiano. La piazza non fa paura, non deve far paura. La piazza è il luogo delle idee, dell’incontro e della partecipazione. È un luogo della democrazia. Non bisogna diffidarne. Meglio diffidare, invece, di quei piazzisti che preferiscono il Billionaire o il Bagaglino per raccontare barzellette e farsi piacere. E poi decidono sempre tutto da soli.
pspataro@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 11.10.08, Modificato il: 11.10.08 alle ore 8.36
«Ipotesi sospensione Borse? Per ora non c’è nulla»
Crisi, Berlusconi: «Resistete al panico.
E comprate le azioni di Eni e Enel»
Il premier a Napoli: «Non siamo in recessione». E annuncia: «Domenica vertice Ue a Parigi»
NAPOLI - «È il momento di comprare Eni e Enel, perché le azioni con quei rendimenti dovranno ritornare al loro vero valore». Il suggerimento è di Silvio Berlusconi, che ha parlato anche dell’ipotesi della sospensione a tempo indeterminato di tutti i mercati azionari del mondo. Nel corso di una conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri a Napoli, il premier ha rassicurato sulla attuale crisi dei mercati («Non siamo in un momento di grande sviluppo, ma non siamo nemmeno in recessione») annunciando che con molta probabilità di svolgerà «domenica a Parigi una riunione dei leader dell’Unione europea» per fare il punto sulla crisi dei mercati internazionali. Berlusconi ha tra le altre cose ribadito che «non si esclude una riunione del G8 nei prossimi giorni».
«MI ACCUSERANNO DI FARE IL VENDITORE» - «Dobbiamo essere più forti del panico e della follia» è il punto di vista del Cavaliere, che torna a suggerire: «Se si hanno delle azioni non bisogna assolutamente venderle, se invece si hanno soldi liquidi io consiglio di comprare quelle azioni che valevano 10 un anno fa e che adesso valgono 2-3-4». Le azioni di Eni e Enel, ha spiegato ancora il presidente del Consiglio, «ora sono sottovalutate» visto che sono «aziende che continuano a fare utili». Berlusconi ha detto che ad esempio Eni, quest’anno, «avrà un utile straordinario. Sarò accusato di fare il venditore - ha aggiunto Berlusconi - ma io credo di fare il mio dovere di presidente del Consiglio per evitare il panico e per dare serenità agli italiani».
CHIUSURA MERCATI - «La crisi è globale e serve una risposta globale. Si parla di una nuova Bretton Woods per scrivere nuove regole e di sospendere i mercati per il tempo necessario per formulare queste nuove regole», ha detto Berlusconi. «Tra le varie ipotesi avanzate c’è anche questa, ma per ora non c’è nulla di concreto. Certamente la soluzione non può essere né nazionale né europea, ma globale. Va presa nelle istituzioni mondiali».
BANCHE - Berlusconi ha aggiunto che, oltre a UniCredit, altre banche italiane probabilmente avranno necessità di ricapitalizzare: «Qualche banca che appare con un patrimonio inferiore è stata richiamata dalla Banca d’Italia, per esempio Unicredit che in pochi giorni ha trovato 6,6 miliardi. Su altre banche si sta vedendo, ma sono cifre minori».
NAPOLITANO - Sulla crisi finanziaria era intervenuto anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Tutti devono avvertire la responsabilità di non alimentare l’allarmismo», aveva detto il capo dello Stato, parlando al Quirinale per la Giornata dell’informazione e richiamando anche il dovere degli operatori dell’informazione a rappresentare con senso di misura una situazione «pesante che presenta rischi per tutti, anche per l’Italia». In un’intervista rilasciata all’Osservatore Romano, a Radio Vaticana e al Centro televisivo vaticano, l’inquilino del Colle ha anche sottolineato che «si devono stabilire regole di comportamento, anche etico, all’interno delle istituzioni di governo dell’economia. Pensiamo alle banche, al sistema creditizio», ha spegato il presidente della Repubblica.
* Corriere della Sera, 10 ottobre 2008
700 miliardi per camuffare la storia *
Durante la settimana finanziaria che va dal 15 al 19 settembre, la globalizzazione finanziaria aveva dimostrato di essere definitivamente morta. Ma prima che il crollo di Wall Street coinvolgesse Main Street (l’economia reale), il Governo americano ha preso una decisione senza precedenti: la costituzione di un ente federale con a disposizione 700 miliardi di dollari da destinare al riacquisto dei valori finanziari tossici che sono all’origine del perpetuarsi del crollo dei listini finanziari mondiali.
Secondo gli analisti il piano Paulson sarebbe quantitativamente dieci volte superiore al piano Marshall con cui si ricostruì l’Europa post-bellica e superiore al costo della guerra del Vietnam. Si consideri poi che la Cina, detenendo metà del debito estero Usa, detiene un importo di 500 miliardi di dollari in titoli statunitensi. L’immissione di 700 miliardi di dollari da parte del Tesoro, rappresenta di fatto una importante svalutazione del loro debito verso la Cina. Quanto potranno sopportare ancora la Cina, e gli altri detentori di titoli del debito Usa, un tal genere di furto? Il modello di fatto imperiale, spacciato col nome altisonante di globalizzazione, è in rianimazione ma con certezza di morte. Anzi, il piano Paulson non farà altro che prolungare l’agonia del malato. Questo perché quel credito di 700 miliardi non è strategicamente vincolato a risollevare l’ansimante economia reale, quanto piuttosto volto a riversare direttamente sui cittadini americani, ed indirettamente sulla popolazione mondiale, il disastro prodotto dall’immissione nel sistema della finanza di titoli puramente speculativi.
Ciò su cui non si può discutere, è invece il definitivo fallimento del modello liberista. Il blocco delle vendite allo scoperto ed il paracadute offerto ai mercati con i soldi dei cittadini, sono decisioni dirigistiche ed antimercatiste che dovrebbero segnare pure per gli irriducibili liberisti, il definitivo fallimento della deregulation , dell’idea per cui i mercati abbandonati a sé stessi raggiungerebbero l’equilibrio ottimale in favore della ricchezza. Se si fossero abbandonati i mercati ai loro destini, le famiglie più importanti del pianeta, dai Morgan ai Mellon ai Du Pont ai Rothschild, sarebbero probabilmente alle cronache come storico caso di "eccellente suicidio di massa", produzioni e commerci sarebbero fermi, intere nazioni sarebbero nel più completo caos.
In tutta questa storia c’è anche un altro dato interessante che emerge e che è bene che i politici tengano presente già nell’immediato futuro, visti i sacrifici che esso è costato alle popolazioni da loro amministrate. Gli illuminati osservatori economici del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, dell’Ocse, e delle agenzie di rating private (S & P, Moody’s, Fitch) che finora hanno giudicato sulla bontà delle scelte economiche fatte da stati sovrani ed aziende, da oggi, che genere di mestiere potranno fare? La risposta è che l’economia mondiale, nella sua facciata reale, necessita di braccia per la ricostruzione e l’arricchimento tecnologico delle sue infrastrutture e delle sue produzioni, di modo che i popoli del pianeta, dopo un quarantennio di politiche liberiste a cui sono stati via via sottoposti, possano tornare a vedere il sereno offerto da un’economia che migliori i loro tenori di vita piuttosto che distruggerli.
Ora, dovrebbe essere ovvio anche a Paulson - forse non a Bush - che quel credito di 700 miliardi, corrisponde ad una nuova immissione di liquidità nel sistema, che al pari dei circa 2-3 miliardi che ogni giorno dal luglio-agosto 2007 fino alla scorsa settimana, le banche centrali avevano cominciato ad iniettare nel mercato per sorreggere la maturanda crisi, rifluirà sui prodotti finanziari speculativi che abbiano come sottostante oro, petrolio, materie prime, generi alimentari. Ciò comporterà a breve una nuova ondata iperinflazionistica sui beni di prima necessità. In sostanza, quei 700 miliardi non serviranno altro che ad alimentare la fase d’iperinflazione globale, con un botto ancor più violento sui mercati finanziari e impensabili ripercussioni nell’economia reale. Chi cerca di dare una giustificazione "razionale" alla decisione del Tesoro, cerca di far passare come meritorio il salvataggio poiché "in fondo dietro ai titoli tossici detenuti dal sistema finanziario, vi sarebbero degli immobili" (come a dire che così tossici non sarebbero). Ma questa considerazione, oltre a non essere avvalorata dai mercati (tanta è la crisi di fiducia creatasi tra gli operatori) non è avvalorata neanche dalla ragione. La garanzia offerta ai valori finanziari da parte del relativo sottostante reale immobiliare, infatti, può garantire un equivalente valore finanziario, non una piramide di carta molte volte superiore al valore degli immobili stessi.
Ma perché Paulson, ha proceduto in un salvataggio che evidentemente non farà altro che procrastinare il crollo dei mercati piuttosto che evitarlo? In sostanza Paulson-Bush stanno solo prendendo tempo. Ma per quale motivo? Tempo per cosa? Riflettiamo sul primo crollo finanziario del nuovo millennio, quello che va dal marzo 2000 all’ottobre 2002. Nell’immaginario collettivo il primo crollo dei mercati del nuovo millennio avvenne in seguito alla distruzione delle Twin Towers nel settembre del 2001. Esso cominciò invece nel marzo del 2000 e fino al 10 settembre 2001 le borse mondiali avevano perso circa il 30% del loro valore. Dall’11 settembre fino ai minimi dell’ottobre 2002 gli indici persero un ulteriore 30%.
Dunque il primo crack dei mercati nel nuovo millennio avvenne ben prima dell’11 settembre e corrispose sostanzialmente allo scoppio della bolla dei titoli della new economy (telecom, media and tech), ma per la popolazione mondiale esso avvenne a causa di Osama Bin Laden. In seguito i mercati mondiali si ripresero sostituendo la mega bolla new economy con una nuova bolla speculativa, quella del settore immobiliare. Mentre scrivo le agenzie di stampa rendono conto dell’ultimo discorso di G. W. Bush alle Nazioni Unite, in cui afferma che "Siria ed Iran continuano a sponsorizzare il terrorismo" (mentre in Iraq ci dovevano essere armi di distruzione di massa!). Per l’opinione pubblica occidentale, che nella maggioranza dei casi non ha mai letto alcun discorso di Ahmadinejad, quell’iraniano è colui che vuole sterminare Israele, visto che così i media hanno riferito (sic).
Nel corso dell’ultima settimana si sono verificati vari attentati di presunta matrice terroristica da Islamabad a Gerusalemme allo Yemen ai Paesi Baschi (tralasciando quelli del casertano). In breve, mentre la globalizzazione, grazie al piano Paulson, rimanda la sua dichiarazione di decesso, varie "operazioni caos" si scatenano con ritmo accelerato a giro per il pianeta. Se scoppiasse una nuova importante guerra, la storia ufficiale di questi giorni diverrebbe: «La guerra contro il terrorismo fece crollare i mercati finanziari e l’economia mondiale.»
A cospetto di un sistema fallito, l’unico modo per salvare i creditori privilegiati, ossia la popolazione mondiale unitariamente intesa, è seguire il "piano LaRouche": organizzare il fallimento del sistema e non attendere che esso si verifichi per forza d’inerzia, distinguere tra quelli che sono crediti esigibili (stipendi, pensioni, liquidità per il funzionamento dello stato e del welfare) e quelli che non sono esigibili perché frutto di mere speculazioni. Ricreare un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale sul modello rooseveltiano di Bretton Woods. Da qui lanciare linee di credito a livello globale con cui finanziare nuovi progetti infrastrutturali e le imprese private. Per fare ciò è necessario che alla disponibilità di Russia, Cina e India si aggiunga quella degli Stati Uniti. Gli altri si allineerebbero di conseguenza.
Claudio Giudici
Movimento Internazionale per i diritti civili - Solidarietà
Fonte: www.movisol.org
L’ANALISI / Negli Usa intanto crescono i dubbi
sulla efficacia del piano Paulson da 700 miliardi
Le fragili difese dell’Europa
alla prova dello tsunami globale
di FEDERICO RAMPINI *
"Vogliamo che da questa crisi esca un mondo nuovo". L’ambizioso proclama di Sarkozy al G4 da oggi affronta il test severo del mondo reale: tra nuovi salvataggi bancari, la recessione, e presto un summit mondiale sull’emergenza economica.
Il calendario offre a Sarkozy e ai suoi colleghi Merkel, Brown e Berlusconi l’opportunità di cimentarsi subito con quella sfida: "Ricostruire le fondamenta del sistema finanziario internazionale". L’audacia verbale del presidente francese si è spinta fino a prefigurare una nuova Bretton Woods, la conferenza internazionale che durante la seconda guerra mondiale (1944) disegnò l’architettura dell’ordine economico post-bellico sotto la leadership di Franklin Roosevelt e l’ispirazione teorica di Keynes.
Stavolta, è il messaggio venuto da Parigi, tocca all’Europa segnare la strada anziché agli Stati Uniti, principali responsabili dell’attuale disastro. L’idea è che il capitalismo finanziario - un mostro generato dall’America - vada castigato per ridare la priorità all’industria, all’economia reale, alla creazione di una ricchezza non fasulla. Ma il summit di Parigi è stato avaro di proposte concrete su come arrivare da qui a là: con quali nuove regole, e con quale consenso politico.
La sfida lanciata dal G4 fin da oggi farà i conti con il problema del consenso su scala europea: il vertice dei 27 ministri economici dell’Eurogruppo dovrà dare il via libera alla "interpretazione flessibile" del Patto di stabilità, e ufficializzare una maggiore indulgenza dell’Unione verso gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà.
Poi si apre il summit del Fondo monetario internazionale a Washington, a metà settimana: per la prima volta da quando la crisi è entrata nella sua fase più acuta, l’Occidente potrà confrontarsi con le potenze emergenti Cina, India, Russia. Se l’Europa ha in tasca un disegno per riformare le regole del capitalismo e inaugurare una nuova governance globale, quella sarà la sede ideale per conquistare appoggi. Ammesso che in questi giorni i governi europei non siano troppo affannati a rincorrere altri focolai di crisi: come l’improvvisa débacle del piano di salvataggio di Hypo Real Estate, il colosso tedesco dei mutui (400 miliardi di euro di esposizione, quasi le dimensioni del piano Paulson).
Angela Merkel interpreta i sentimenti dei tedeschi opponendosi a un maxifondo "salvabanche" su scala europea, copiato dal piano americano. Popolo di risparmiatori, i tedeschi guardano con diffidenza al "capitalismo dei debiti" made in Usa; stigmatizzano quei loro finanzieri che si sono fatti ipnotizzare dal modello americano e hanno zavorrato i bilanci delle banche tedesche con i titoli tossici. Ma più che al rigore morale della Merkel, figlia di un pastore luterano, la mancata approvazione di un piano europeo si deve a ragioni concrete evocate dal presidente della Banca centrale europea.
"Noi non abbiamo un bilancio federale - ha detto Trichet - per cui l’idea di replicare ciò che si sta facendo sull’altra riva dell’Atlantico è incompatibile con la struttura politica dell’Europa". È qui che i proclami di Sarkozy ("rifare il capitalismo mondiale") si scontrano con i ritardi della politica. Dopo aver costruito la moneta unica, dopo avere spinto le banche europee a diventare dei giganti transnazionali a furia di fusioni e acquisizioni, fino a perdere capacità di controllo sulle loro attività, le nazioni europee contemplano le conseguenze della loro mancata integrazione politica.
La guerricciola dei depositi tra Inghilterra e Irlanda - i risparmiatori britannici in fuga verso le banche di Dublino che da pochi giorni offrono una garanzia statale illimitata sui depositi - secondo Willem Buiter della London School of Economics "è l’equivalente delle reazioni medievali durante le epidemie di peste bubbonica, quando le armate lanciavano i cadaveri infetti dentro le mura delle città nemiche".
Anche se passa una moratoria del rigore di bilancio, per consentire temporanei sforamenti dei deficit pubblici e contrastare la recessione, questo potrà avere effetti di ulteriore divaricazione dentro l’Europa. Paesi come la Germania arrivano alla crisi con finanze pubbliche più solide, e potranno usare i margini di elasticità per politiche di sostegno alla domanda.
Nazioni come l’Italia sono afflitte da un debito pubblico il cui rifinanziamento è diventato ancora più pesante (la crisi ha allargato la forbice dei tassi fra i nostri Bot e i Bund tedeschi). Come ha detto il numero uno dell’Ocse: "Quando c’è il sole bisogna risparmiare per i giorni di pioggia. Ora diluvia ma alcuni paesi hanno ombrelli molto piccoli". I quattro leader europei riuniti a Parigi non sono riusciti ad annunciare una vera vigilanza bancaria su scala europea, né regole comuni per prevenire futuri disastri finanziari. Neppure un unico livello per la garanzia statale sui depositi in caso di fallimento di una banca nel territorio dell’Unione.
Sono d’accordo per tagliare le liquidazioni ai banchieri incompetenti - doverosa sanzione - ma al tempo stesso promettono regole più "elastiche" sulla contabilità, che consentiranno alle banche di rinviare l’operazione-verità sulle perdite.
La fragilità della diga europea contro lo tsunami finanziario accentua i timori sul contagio americano. C’è poca speranza che l’America abbia finito di esportare danni. La sua economia reale perde colpi su tutti i fronti: sale la disoccupazione, scendono i consumi e gli investimenti, diminuiscono perfino le spese sociali degli Stati (alcuni dei quali rischiano la bancarotta, come la California), cioè lo "stabilizzatore" automatico che Keynes inventò contro la depressione degli anni Trenta. E col passare dei giorni i dubbi sull’efficacia del piano Paulson aumentano.
Non giova il fatto che il ministro del Tesoro, già numero uno della Goldman Sachs, stia assumendo proprio dalla sua ex banca d’affari gli "esperti" che dovranno spendere 700 miliardi di dollari per comprare dagli istituti di credito i titoli-spazzatura. Il groviglio di conflitti d’interessi che da anni ha minato la solidità del sistema finanziario americano, rischia di riprodursi nella gestione di quel fondo. Un’improvvisa fame ha scatenato alcuni colossi (Bank of America, Citigroup, JP Morgan Chase) in cerca di banche decotte da acquistare.
È perfino scoppiata una guerra giudiziaria tra Citigroup e Wells Fargo su chi si prenderà il "cadavere" della banca Wachovia. Tanto ardore alimenta un sospetto: i banchieri considerano che il fondo Paulson sarà una cuccagna per loro. Anziché lasciar fallire le mele marce, ne accaparrano il maggior numero possibile, per rivenderle a caro prezzo ai contribuenti americani. Il nuovo presidente Usa non assumerà i poteri fino a gennaio, in tre mesi tutto è possibile. Sarebbe questo il momento per riempire il vuoto di leadership americana con una iniziativa europea. Che unisca sostanza, contenuti, e tempi rapidi, oltre alle "visioni" di Sarkozy.
* la Repubblica, 6 ottobre 2008
Il vero bersaglio
di MARINA BERLUSCONI (La Stampa, 6/10/2008)
Gentile Direttore,
nell’editoriale di ieri sulla Stampa, «Wall Street, Main Street», Barbara Spinelli avanza critiche severe nei miei confronti in relazione a una recente intervista. Per evitare equivoci, premetto innanzitutto l’ovvio: le critiche non solo sono legittime, ma vanno sempre tenute in considerazione, a maggior ragione se provengono da firme tanto illustri. Il problema è che Barbara Spinelli mi attribuisce cose che non ho mai detto e che soprattutto non ho mai pensato.
Sostenere, come ho fatto nell’intervista, che i governi hanno il diritto-dovere di decidere, tanto più di fronte a una crisi finanziaria di dimensioni epocali, non mi pare affermazione né particolarmente «singolare» né da «militante politica», quale non sono. Ma soprattutto non significa affatto, come invece mi contesta Barbara Spinelli, pensare che l’emergenza autorizzi decisioni che mettano da parte le regole democratiche. Grazie ai valori ai quali sono stata educata, non ho mai dubitato sul fatto che non ci sia alcuna incompatibilità - ci mancherebbe - tra responsabilità decisionali di un esecutivo legittimamente in carica e rispetto delle regole che governano una democrazia, e che imboccare scorciatoie invocando cause di forza maggiore sia una strada estremamente pericolosa, anzi, del tutto inaccettabile. Altro che «questione marginale»!
Nell’intervista, molto più semplicemente, affermavo che, a maggior ragione in un momento in cui i governi sono chiamati ad affrontare nodi delicatissimi e legittimamente dibattuti, con conseguenze rilevanti non solo sul sistema economico, per l’Italia sarebbe ancora più utile un’opposizione che eserciti il suo diritto di critica e il suo dovere di proposte alternative, senza ritornare a vecchie parole d’ordine che sembravano finalmente superate, senza gridare al rischio di regime come ha fatto negli ultimi 15 anni (ulteriore conferma, peraltro, che di regime non c’è traccia). Mi pare, del resto, che anche a sinistra non tutti abbiano apprezzato questi allarmi.
Leggendo l’editoriale, piuttosto, sorge lecito il dubbio che sia proprio l’autrice a considerare come elementi in contrapposizione e non conciliabili la dialettica democratica da una parte e la responsabilità di decidere dall’altra. Quasi che il confronto fosse davvero tale solo se si escludono a priori scelte che non siano unanimi: un equivoco paralizzante responsabile di guasti notevoli anche nella storia recentissima del nostro Paese.
Non mi stupisce il fatto che Barbara Spinelli, come peraltro dal suo scritto si rileva esplicitamente, critichi me per colpire un bersaglio ben più importante. Ma almeno non lo faccia attribuendomi posizioni che non sono mai state le mie. E non arrivi addirittura a evocare una sorta di parallelo con l’ascesa del nazismo. Questa sì, mi sia permesso, un’operazione - per usare le parole dell’editorialista - «parecchio infelice».
l’Unità 7.10.08
Giorgio Lunghini. Il docente dell’Iuss di Pavia: viviamo l’ultimo atto della caduta dell’economia americana
Questa crisi cambierà gli assetti del potere nel mondo
di Luigina Venturelli
«L’attenzione di tutti è concentrata sul crollo delle Borse, ma questa crisi non è solamente finanziaria: è l’ultimo atto di una crisi reale iniziata tanti anni fa, quella dell’economia americana». Così Giorgio Lunghini, economista di lungo corso dell’Istituto di Studi superiori dell’Università di Pavia, spazza via anche l’ultimo tentativo di circoscrivere la bufera che si sta abbattendo sui mercati mondiali: quello di descriverla come il frutto amaro di titoli derivati e mutui subprime.
Quali saranno le conseguenze di questo tracollo?
«Una risposta definitiva potranno darla solo gli storici tra qualche anno. Sicuramente ci sarà una redistribuzione del potere a livello mondiale tra Stati Uniti, Europa, Russia e il blocco asiatico costituito da Cina e India».
Da ovest verso est?
«Gli Stati Uniti perderanno peso sul fronte del lavoro, della produzione, della finanza e quindi della politica. La crisi dell’economia americana è iniziata molto tempo fa: prima si è manifestata con il crollo della new economy, poi è stata spostata sulla Borsa grazie ad una politica accomodante della Federal Reserve. Quindi, per evitare che scoppiasse, è stata indirizzata da Greenspan verso il mercato immobiliare con la promessa di una casa per tutti, anche per i soggetti non solvibili».
Così si arriva ai subprime.
«A questo percorso si aggiungano le costanti degli ultimi trent’anni di storia economica a stelle e strisce: il deficit strutturale del commercio estero, a lungo compensato con un afflusso di capitali dall’estero che ora si è interrotto; l’elevato debito pubblico, che dipende in gran parte dalle spese militari; l’eccezionale debito privato accumulato dai cittadini americani. Gli Stati Uniti sono un paese oberato dai debiti ed ora si è arrivati alla resa dei conti».
Che cosa succederà, invece, all’Europa?
«L’Europa è in una situazione meno drammatica, ma non è l’isola felice che si credeva solo poche settimane fa. Da un lato la crisi è globale e i costi del crollo Usa si scaricheranno su tutto il capitalismo occidentale. Dall’altro lato l’Unione europea non esiste come federazione, quindi manca delle politiche unitarie di bilancio che servirebbero per arginare la crisi. Dispone solo della leva monetaria, che viene gestita da Trichet in modo prekeynesiano, con l’unico obiettivo di contenere l’inflazione dimenticando la promozione della crescita».
Qualche governo si sta muovendo autonomamente. La Germania, ad esempio, ha garantito con denaro pubblico i depositi dei suoi risparmiatori.
«La prima economia europea cerca di tranquillizzare i suoi cittadini e probabilmente ci riesce. Ma sono preoccupanti le reazioni indispettite degli altri governi. Forse perchè non si sentono in grado di fornire una garanzia analoga ai propri cittadini?».