AUSCHWITZ, QUEL GIORNO
di Luigina D’Emilio (www.unita.it, 25.01.2006)
Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, durante l’avanzata verso Berlino, arrivarono nella città polacca di Oświęcim, meglio conosciuta con il nome tedesco di Auschwitz, e scoprirono il più tristemente noto campo di stermino, facendo così conoscere al mondo gli orrori del genocidio nazista. Le testimonianze dei pochi sopravvissuti hanno rivelato realtà mostruose e inimmaginabili. A 61 anni da quell’avvenimento si celebra in Italia la giornata della memoria per ricordare tutte le vittime delle persecuzioni naziste. Non solo ebrei, ma anche oppositori politici, gruppi etnici e religiosi dichiarati da Hitler indegni di vivere. Come il Porrajmos , lo sterminio, di 500mila rom e sinti.
L’ideologia della razza ha origini antiche, ma trova legittimazione in Italia, con il decreto del 17 novembre 1938 che permise di scrivere alcune tra le pagine più scure della nostra storia. Nel 2000, il Parlamento italiano decise di istituire la giornata della memoria con una legge proposta da Furio Colombo, approvata all’unanimità. Scrive Colombo nella illustrazione della sua proposta di legge: «La Shoah non è soltanto la memoria di un immenso e meticoloso progetto di genocidio di tutto un popolo in tutta Europa. È memoria di un delitto italiano. Italiane sono le leggi razziali (tra le peggiori d’Europa) e italiane sono le firme di Mussolini e del re. Vittorio Emanuele di Savoia è stato il solo monarca d’Europa a firmare leggi di persecuzione contro i suoi cittadini».
Il ricordo di sei milioni di vittime è una memoria troppo importante per essere cancellata, per questo dopo 61 anni, si continua a parlare di shoah. La memoria deve essere tenuta viva per evitare che una tragedia così immane si possa ripetere. Non dimenticare significa anche mantenere vivo il ricordo di ogni singola persona che quegli orrori li ha subiti. Trovare il coraggio di testimoniare certi orrori, per chi è sopravvissuto, non è stato facile. «Vivere nella colpa di essere sopravvissuti - scriveva Primo Levi - è un peso spesso troppo grande da portare. Meditate che questo è stato». Un carico pesante per i reduci dei campi di sterminio che quegli orrori li portano tatuati addosso e nell’animo. Ma tanti non si sono voluti sottrarre all’obbligo morale di far conoscere la verità a chi questa storia la ha conosciuta solo sui libri.
Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le iniziative da parte delle scuole. Protagonisti studenti e docenti di numerosi istituti italiani che si sono confrontati con oratori che di storie da raccontare ne avevano tante. Incontri tra studenti ed ex deportati, viaggi della memoria, letture di testimonianze, seminari, sono solo alcune delle tante proposte per far conoscere ai giovani gli orrori della shoah.
Da parte dei giovani c’è voglia di sapere, di conoscere e di partecipare. Queste le parole di una delle organizzatrici di un treno della memoria e dei diritti umani Un esempio di progetto educativo organizzato dall’archivio storico della Cgil che ha coinvolto diverse scuole italiane con un numero di partecipanti sempre più ampio.
Un viaggio come quello di tanti altri ragazzi iniziato all’insegna della leggerezza e dello svago, ma terminato con la voglia di non dimenticare. I numerosi istituti coinvolti nell’iniziativa hanno lasciato testimonianza della loro esperienza, c’è chi come Marta M. di una scuola media di Firenze dice: l’esperienza più toccante e significativa della mia vita, oppure chi, come Giovanni del Liceo Parini Di Milano, si limita a citare gli scritti di Primo Levi tante emozioni, sensazioni e commenti raccolti in altrettanti siti internet. Ma c’è anche chi, come il comune di Campi Bisenzio, ha deciso di racchiudere in un libro le impressioni e le esperienze di 31 ragazzi delle scuole medie del territorio che hanno partecipato al progetto. Tanti ragazzi come Giada che parlano delle emozioni di questa esperienza vissuta: "Due ore la settimana non bastano per rendersi conto, la Prof. ci spiega bene la storia, ma poi è finita lì, si chiude il libro e si scorda tutto. Così invece non si d imenticherà mai, ci rimarrà sempre qualcosa dentro, una piccola piaga, che farà male ogni volta che si rammenterà il nome Auschwitz. Non avevo mai provato una cosa simile, ne sono fiera, così potrò dire, io sono stata ad Auschwitz e mi sono resa conto di che cosa è stata la persecuzione contro gli ebrei.
Questa è la spinta giusta perché i giovani devono sapere che quegli orrori erano veri, hanno tentato di cancellare l’identità di un popolo, la dignità di ogni individuo. Non c’è futuro senza memoria e quando non ci saremo più loro dovranno essere la nostra memoria. Questi i commenti di Bruno Venezia, ex deportato ad Auschwitz , dopo l’incontro con alcuni ragazzi prima che partissero per la Polonia.
Imparare dalla storia a non ripetere certi orrori vuol dire anche essere pronti al dialogo con gli altri popoli, educare al rispetto e alla tolleranza questo il messaggio che tanti educatori impegnati nelle iniziative per il giorno della memoria vogliono lanciare soprattutto ai giovani. La memoria di tante persone che certi orrori continuano a viverli. La storia, infatti, non sempre insegna e purtroppo si ripete. In questa giornata così significativa è bene non dimenticare anche i genocidi che sono avvenuti in diversi paesi del mondo come il Ruanda, il Kossovo, la Cambogia, l’ Afghanistan e tutte quelle persone che sono ancora vittime di vessazioni in nome di assurde ideologie. Accanto alle tante proposte in calendario anche iniziative orientate in questa direzione.
Segnaliamo:
Sito del Centro internazionale di studi su Primo Levi:
www.primolevi.it
PRIMO LEVI:
VERSO IL MEZZOGIORNO DEL 27 GENNAIO 1945 *
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (...).
Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta’, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volonta’ buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
* Primo Levi, La tregua, - Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 205-206.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Auschwitz: Drone video of Nazi concentration camp Nella Giornata della memoria vale davvero la pena condividere queste straordinarie immagini girate dalla BBC nel 2015, in occasione del 70esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Birkenau, ad Auschwitz in Polonia. Il sito oggi è patrimonio dell’Unesco e viene visitato ogni anno da migliaia di persone, tra cui sopravvissuti all’eccidio nazista. Più di un milione di prigionieri - di cui la maggior parte ebrei - persero la vita in questo campo di sterminio tra il 1940 e il 1945 (Pisa Pier Luigi Pisa, 27 gennaio 2016).
Auschwitz
Libri tra i fili spinati
Jadwiga Pinderska-Leh è la direttrice della casa editrice interna al Lager. Pubblica testimonianze dei sopravvissuti, guide, saggi: «Niente fiction, per rispetto»
di Maria Teresa Carbone *
Ogni mattina, da più di dieci anni, Jadwiga Pinderska-Lech entra nel suo ufficio e si mette al lavoro secondo una routine che qualsiasi responsabile di una casa editrice in tutto il mondo conosce bene: ricontrolla i volumi in uscita, esamina i testi potenzialmente interessanti, elabora iniziative editoriali, incontra i redattori e i consulenti. Qualcosa, però, rende singolare, anzi unico, il suo lavoro: la sede della casa editrice che lei dirige si trova all’interno del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau, nell’edificio di mattoni dove aveva il suo studio Eduard Wirths, il medico-capo del campo, l’uomo a cui faceva riferimento, tra gli altri, Josef Mengele. «Un luogo saturo di sofferenza, in effetti, ma l’attività che svolgiamo qui dentro è così vasta e coinvolgente, che di rado - almeno nella dimensione quotidiana - ci soffermiamo sul passato di questi muri», dice Pinderska-Lech, che giorni fa, alla Casa della memoria di Roma, ha partecipato all’apertura di una mostra dedicata al polacco Jan Karski, tra i primi a far conoscere al mondo quello che stava avvenendo nei campi di sterminio nazisti.
Non molti, tra i milioni di persone che ogni anno visitano Auschwitz, sanno che fin dal 1957 - dieci anni dopo la trasformazione del campo di sterminio in un museo-memoriale - è attivo all’interno del vecchio lager un dipartimento per l’editoria, di fatto una casa editrice che pubblica libri e periodici con l’obiettivo di divulgare la storia del campo e di commemorare le vittime.
«Si era cominciato allora con gli “Zeszyty Oświęcimskie”, alla lettera, i “Quaderni di Auschwitz”, una rivista monografica di cui esiste oggi una versione inglese, gli “Auschwitz Studies”, al posto di quella tedesca, pensata nei tempi in cui l’unico possibile ponte dalla Polonia verso l’Occidente era la Germania socialista» ricorda la direttrice in un italiano ricco e fluido, appena venato da un lieve accento polacco. Nei primi anni del periodico gli argomenti trattati erano generali (la nascita del campo, la sua organizzazione, le deportazioni dai vari Paesi), ma oggi gli studi affrontano una gamma di temi più ampia e approfondita: «Proprio in questi giorni sto chiudendo il trentesimo numero, che contiene tra l’altro un saggio degli storici del nostro centro di ricerche in cui viene proposta una nuova interpretazione della rivolta dei prigionieri Rom a Birkenau nel maggio 1944 e una revisione del numero generale delle vittime Rom, un dato che dovrà essere acquisito dai manuali di storia».
A distanza di oltre settant’anni dalla fine della guerra, le ricerche continuano: «Solo in epoca relativamente recente abbiamo ricevuto dalla Russia - sia pure in fotocopia o microfilm, non in originale - documenti che erano stati portati via all’indomani della liberazione: sono migliaia di fogli da cui emergono episodi all’apparenza piccoli ma significativi, come la protesta di un caposquadra edile che ha dovuto bloccare per una giornata il suo lavoro a causa dell’attività di una camera a gas nelle vicinanze».
Con il passare del tempo, ai «Quaderni» si è affiancato un numero sempre più alto di volumi, in media tra le venti e le trenta novità l’anno, cui si aggiungono circa settanta ristampe: per lo più saggi storici e testi autobiografici dei sopravvissuti, ma anche libri illustrati e raccolte di poesie. Attualmente il catalogo delle edizioni di Auschwitz comprende circa cinquecento titoli, alcuni dei quali - in particolare le guide per i visitatori - sono tradotti in oltre venti lingue.
Tutti i libri, comunque, precisa Jadwiga Pinderska-Lech, «vengono scelti e curati secondo criteri rigorosi, in accordo con il comitato scientifico del museo». Nessun romanzo, per esempio, è ammesso in catalogo: «È una forma di rispetto verso i sopravvissuti: spesso nelle opere di narrativa su questo tema si trovano elementi di finzione che non solo non corrispondono alla realtà, ma la travisano - storie d’amore improbabili o impossibili, una sorta di “addolcimento” che rappresenterebbe un’offesa per chi ha vissuto questa esperienza tragica».
Non a caso, i libri che hanno una circolazione maggiore sono le memorie delle persone che sono scampate all’Olocausto, ma non hanno dimenticato la tortura della vita al campo: titoli come Sono sopravvissuto dunque sono di Tadeusz Sobolewicz, La speranza è l’ultima a morire di Halina Birenbaum, Infanzia dietro il filo spinato di Bogdan Bartnikowski, Io dal crematorio di Auschwitz di Henryk Mandelbaum, Una violinista a Birkenau di Helena Dunicz Niwińska, si potrebbero definire best seller, se il termine non suonasse poco appropriato per una casa editrice che gode di un finanziamento pubblico e non ha finalità commerciali (i volumi, tra l’altro, si possono acquistare nel bookshop del museo oppure online, ma non nelle normali librerie).
Di queste opere e dei loro autori Jadwiga Pinderska-Lech parla con passione: «Sono convinta che nell’educazione dei giovani, per ricordare le vittime, le testimonianze dei sopravvissuti possano fare moltissimo. Personalmente mi sento onorata perché grazie al mio lavoro ho stretto amicizie preziose, come quella con Halina Birenbaum, e in genere ho avuto la possibilità di conoscere da vicino persone eccezionali, da Tatiana Bucci a Shlomo Venezia, a Piero Terracina». E ricorda quando, da bambina, era rimasta colpita e turbata dalla lettura di un piccolo libro su Auschwitz trovato nello scaffale di sua madre. «Allora abitavo con la mia famiglia lontano da qui, ma quando negli anni Novantasono andata a studiare Lingue all’università di Cracovia, ho deciso che avrei lavorato come guida in questo museo. In seguito ho ricevuto la proposta di entrare nella casa editrice e ho accettato subito». Da allora, prima come redattrice e traduttrice, poi come direttrice, Jadwiga Pinderska-Lech si siede ogni giorno alla scrivania nelle stesse stanze dove il dottor Wirths stilava i suoi rapporti sulle malattie nel campo e sulle terribili sperimentazioni mediche effettuate sui detenuti. «È vero, la tristezza di questi ambienti è grande, ma l’impegno per il mio compito è più forte. Anche se, certo, lavorare ad Auschwitz ha influenzato in profondità il mio modo di vedere le cose, il mio sguardo sulla vita».
* Il Sole-24 Ore, 26 gennaio 2020 (ripresa parziale - senza immagini).
70 anni fa l’esecuzione di Pilecki, rivelò orrori Auschwitz
Dopo la lotta antinazista fu perseguitato dal regime stalinista
di Marco Patricelli, storico *
(ANSA) - TRIESTE - Un colpo di pistola alla nuca, in una buia cella sotterranea della prigione di Varsavia. Il 25 maggio 1948 veniva ucciso così da un boia in uniforme, che veniva per questo ricompensato con la tariffa standard di 1000 zloty, il capitano di cavalleria Witold Pilecki. Un uomo che non aveva esitato a sacrificare tutto, persino la sua vita, per la libertà. E non è un modo di dire.
L’ufficiale polacco nel 1940 era andato di sua volontà ad Auschwitz per una missione segreta: scoprire cosa accadesse davvero nel lager nazista, informare gli Alleati, organizzare una rete di resistenza, scatenare una rivolta al momento più opportuno. Pilecki, uno dei fondatori del movimento clandestino polacco dopo l’invasione tedesca e sovietica del 1939, si era fatto arrestare come fosse per caso durante una retata dei tedeschi nelle vie di Varsavia, il 19 settembre 1940. Aveva assunto la falsa identità di Tomasz Serafinski ed era stato deportato ad Auschwitz, dove subito il sistema criminale nazista si era manifestato nella sua incredibile ferocia. Quello che fino ad allora era riuscito a filtrare all’esterno era nulla rispetto a ciò che avveniva quotidianamente sotto i suoi occhi.
A novembre Pilecki-Serafinski era riuscito a far uscire il suo primo rapporto su Auschwitz che, attraverso un contorto itinerario che dalla Polonia occupata arrivava nella Svezia neutrale, era finalmente giunto nel marzo 1941 a Londra dove si trovava il governo polacco in esilio. Tutto quello che era scritto in quel rapporto, subito classificato, era assolutamente vero, ma venne ritenuto esagerato. Tutto quello che Pilecki raccontava invece era storia: una galleria degli orrori che non aveva precedenti.
Il suo era il primo rapporto in assoluto su Auschwitz.
Pilecki riuscirà a informare altre volte gli Alleati sulle punizioni collettive, le deportazioni, le stragi di massa al Muro della morte o nelle camere a gas, la Shoah, ma non otterrà mai ciò che chiedeva: un attacco aereo che innescasse la rivolta dei detenuti, aiutati dall’esterno dall’esercito clandestino polacco. Per questo aveva lavorato creando una ramificata rete di resistenza che arriverà a contare migliaia di aderenti infiltrati in tutti i settori nevralgici del lager.
Quando il dipartimento politico delle SS scoprirà l’esistenza di questa organizzazione, Pilecki sarà costretto a evadere. Dopo 947 giorni di prigionia inumana, nei quali più volte è scampato alla morte, alle selezioni, alle malattie, ai capricci dei sadici, Pilecki scapperà rocambolescamente assieme a due compagni, che poi con lui combatteranno nella disperata rivolta di Varsavia di agosto 1944. Dopo la resa, per Pilecki si apriranno le porte di un campo di concentramento per ufficiali, ma ancora una volta l’uso di un falso nome gli permetterà di non essere identificato come il prigioniero di Auschwitz 4859.
Alla fine della guerra Pilecki sarà in Italia, dove si trova l’esercito polacco del generale Anders. Scrive nel 1945 a Porto San Giorgio il suo rapporto definitivo su Auschwitz, che oggi è uno spaccato di verità. La Polonia, intanto, è stata occupata dall’Armata Rossa, Stalin ha insediato un governo comunista, il processo di sovietizzazione è spietato e sanguinoso con fucilazioni, imprigionamenti, deportazioni. Occorre creare una rete di resistenza che permetta alla Polonia di sperare in un futuro di libertà e di democrazia. Pilecki, che ha combattuto oltre ogni immaginazione il nazismo, si offre volontario per combattere il comunismo. In Polonia c’è la moglie Maria, che non vede da anni, ci sono i figli Andrzej e Zofia. Ricrea il sistema di resistenza di Auschwitz ma i servizi segreti comunisti sono sulle sue tracce. Viene arrestato, orrendamente torturato, tenta il suicidio in carcere ma non si piega. Allora lo processano, in un classico processo-farsa di stampo sovietico: il pubblico ministero non è neppure laureato in legge, la corte non è regolare, l’accusa non ha bisogno di testimoni e la difesa non può citarli perché o sono morti o sono in carcere. Tutto quello che Pilecki ha fatto ad Auschwitz è cancellato e i meriti assegnati a Jozef Cyrankiewicz, premier della Polonia sovietizzata (nel 1970 persino presidente della Repubblica). Il quarantasettenne Witold Pilecki viene condannato tre volte a morte.
La sera del 25 maggio 1948, settanta anni fa, il "criminale traditore al servizio di una potenza straniera", il "nemico del popolo" è giustiziato e sepolto nella notte in un luogo segreto del cimitero di Varsavia. Su di lui cala una cappa di silenzio durato decenni. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. (ANSA).
Conferenza
«Come l’Armata Rossa liberò Auschwitz» *
Il Centro Russo di Scienza e Cultura a Roma e Gherush92 Committee for Human Rights vi invitano a prendere parte alla conferenza «Come l’Armata Rossa liberò Auschwitz» che si terrà il 27 gennaio alle ore 10:00. Si presenterà il progetto «Auschwitz Liberation» e si analizzerà la liberazione del campo di sterminio da parte dell’Armata Rossa.
Interverranno il Prof. Massimo Pieri, Presidente della COBASE Associazione Tecnico Scientifica di Base (ECOSOC), l’Arch. Valentina Sereni, Presidente di Gherush92 Committee for Human Rights (ECOSOC), la Dott.ssa Delfina Piu, Project Director per i programmi di Gherush92, Rav Carucci Viterbi, Preside del Liceo Renzo Levi. Si prevede la partecipazione di storici, rappresentanti del corpo diplomatico, imprenditori, istituzioni nazionali e cittadine.
Si intende ricostruire le vicende della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz e narrare le sorti dei combattenti dell’Armata Rossa che, mentre liberano Russia, Ucraina e Polonia dall’invasore nazista e percorrono la strada nel cuore del Reich, scoprono gli orrori della Shoà e l’assassinio di massa dei prigionieri di guerra sovietici. Si racconta una storia di guerra di liberazione contro i nazisti che in gran parte mise fine alla seconda guerra mondiale, una storia poco conosciuta che qualcuno oggi vuole minimizzare o cancellare.
L’operazione per la liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa durante la controffensiva delle truppe sovietiche in marcia verso Berlino, non è ancora stata studiata a fondo; restano da chiarire fondamentali aspetti politici, militari ed umanitari degli eventi di quei giorni. Lo scopo del programma è quello di contrastare i gravi tentativi revisionisti e negazionisti oggi in atto che mirano a distorcere gli eventi e i risultati della liberazione dell’Europa. L’Armata Rossa che salvò l’Europa dal nazifascismo, costituì, di fatto, l’ultima speranza della gente rinchiusa nei ghetti e nei campi di sterminio.
Massimo Pieri introdurrà la conferenza e presenterà il progetto «La Liberazione di Auschwitz». Valentina Sereni parlerà della coraggiosa resistenza dell’Armata Rossa contro l’oppressione nazista. Delfina Piu spiegherà significato e valore di liberazione e di liberatori nell’ebraismo.
Addio Memoriale degli italiani
Giornata della Memoria. Il direttore del museo di Auschwitz dopo un preciso ultimatum ha dato l’ordine di smantellare l’opera d’arte del Blocco 21 inaugurata nel 1980 dedicata agli italiani deportati e morti
di Beatrice Andreose (il manifesto, Alias, 23.01.2016)
Quando Luigi Nono compose la sua opera per il Memoriale italiano che nel 1980 venne inaugurato ad Auschwitz, la commentò in questo modo «Non è una musica facile. È una musica dolorosa. L’unico consiglio che mi sento di darvi prima dell’ascolto: spegnete la luce, massimo silenzio, chiudete gli occhi». Un silenzio accorato, certo non quello dell’abbandono in cui versano le stanze che ospitavano l’opera e che da qualche mese si presentano ormai desolatamente vuote. Cancello sbarrato e memoria calpestata, dunque, per i nostri connazionali deportati e morti ad Auschwitz.
Sino al 2011 i visitatori potevano visitare l’opera realizzata da alcuni tra i più importanti nomi della cultura italiana del Novecento tra cui gli architetti dello studio milanese BBPR (Lodovico Belgiojoso, Ernesto Rogers, Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi) che avevano lavorato assieme a Primo Levi per i testi, Pupino Samonà per i dipinti, Nelo Risi per la regia e Luigi Nono per le musiche. Una morte lungamente annunciata, quella del Memoriale italiano.
L’ultimo capitolo è dell’aprile 2014 quando il direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau Dr Piotr M.A.Cywinski nella sua missiva all’Aned (l’Associazione degli ex deportati nei campi nazisti che del memoriale è titolare) e all’Ambasciatore d’Italia a Varsavia Riccardo Guariglia intimava un vero e proprio ultimatum per lo smontaggio del Memoriale dal Blocco 21. Chiedeva in modo perentorio una nuova installazione più conforme alle disposizioni definite dal Consiglio internazionale di Auschwitz. In sostanza il revisionismo polacco chiedeva che la Shoah oscurasse l’antifascismo esigendo che venissero rimossi i simboli comunisti e quella falce e martello che il Parlamento dal 2009 aveva messo fuori legge.
L’accusa era che si trattava di «un’opera d’arte fine a se stessa, priva di valore educativo». Poco graditi soprattutto il racconto dell’ascesa del nazi-fascismo, del collaborazionismo, del razzismo di Stato, del ruolo delle multinazionali tedesche (soprattutto la Bayer). Per la Polonia era inopportuno ricordare oltre all’olocausto ebreo anche quello dei prigionieri politici comunisti, degli omosessuali, dei rom e dei disabili che trovarono la morte ad Auschwitz.
E così, tra il silenzio ed il disinteresse assordanti dei governi italiani che si sono succeduti dal 2007 ad oggi e dopo anni di resistenze solitarie prima dell’Aned, poi del mondo accademico e artistico italiano capeggiato dall’Accademia di Belle Arti di Brera, nel maggio di quest’anno i tecnici e i restauratori dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure hanno smontato l’opera per trasferirla nello spazio Ex3 del quartiere Gavinana a Firenze, destinato a diventare Polo della memoria e centro di un museo diffuso sulla deportazione.
«Mai avrei voluto vedere le immagini dei restauratori che smontano pezzo per pezzo il Memoriale italiano - commenta Dario Venegoni, presidente ANED - Ricordo ancora lo sforzo immane da noi sostenuto quasi 40 anni fa per progettare, finanziare e allestire quell’opera nel Blocco 21 del campo; ricordo la generale commozione il giorno dell’inaugurazione, a cui io ero presente con mia madre ed un centinaio di altri ex deportati e familiari giunti appositamente dall’Italia. Che l’opera alla quale hanno lavorato così illustri autori sia smontata fa male al cuore. Nonostante ciò nell’aprile 2005 abbiamo raggiunto un accordo per il suo spostamento a Firenze, il pericolo era che venisse chiuso e disperso» conclude rispondendo così ad alcune critiche di cedimento rivolte da più parti all’Aned.
A battersi per la conservazione in loco del memoriale anche l’arch. Gregorio Carboni Maestri autore nel 2013, assieme all’arch. Emanuela Nolfo, del progetto Glossa che proponeva una nuova contestualizzazione del Memoriale». Auschwitz, svuotata di qualsiasi contenuto politico, secondo Primo Levi è un luogo tragicamente destinato a diventare inutile, perché non spiega alle nuove generazioni alcunché. Diventa solo «un tragico evento».
Questo evento - spiega Carboni Maestri- è fatto invece da elementi precisi, che vanno analizzati e compresi, uscendo dalla balla dell’uomo malvagio che ha ipnotizzano una nazione e ucciso milioni di vittime per il semplice gusto di farlo. Ad Auschwitz va spiegato da dove veniamo e verso dove andremo, da cosa nasce la barbarie. E la barbarie nasce solo da un elemento: dalla sconfitta del mondo del lavoro, come intuì Rosa Luxembourg. Quella vicenda ne fu la prova, oggi ne vediamo la tragica conferma, giorno dopo giorno.
La storiografia di regime odierna preferisce una narrativa di Auschwitz alla «Schindler List», manichea e ingenua, con un «cattivo» (Hitler) e delle «vittime inerti» (i soli ebrei, «apatici») in modo che nessuno capisca, in definitiva, alcunché uscendo da quel campo di sterminio. Solo scossi dall’orrore, per poi essere incapaci di vedere l’orrore odierno o i possibili Auschwitz futuri. In modo che nessuno capisca che il nazifascismo nacque (e rinascerà) dalla sconfitta del mondo operaio, che lo stesso fu sconfitto solo dalla lotta vittoriosa di milioni di sovietici, dalle lotte dei partigiani, degli operai in sciopero a Sesto, degli operai statunitensi e inglesi al di là e al di qua dell’oceano che, soli, hanno sopportato lo sforzo di guerra in Regno Unito e Stati Uniti».
A battersi contro lo smantellamento anche l’associazione Gherush92 che in una nota commenta «Al pari delle azioni belliche che mirano alla demolizione di mausolei ed antichi monumenti, anche le manipolazioni storico-politiche come la deportazione del nostro Memoriale, possono disintegrare la memoria delle vittime del Nazifascismo e della Shoà e abbandonare - come anziani archeologi a difesa di antichi monumenti - i partigiani e i deportati e, con loro, la Resistenza Italiana».
Per vedere la storia del memoriale, il suo smontaggio ed il trasferimento l’Aned da appuntamento il pomeriggio del 27 gennaio alla Casa della Memoria di Milano. Gherush92 invece propone il 27 gennaio alle 10 al Centro Russo di Scienza e Cultura di Roma la conferenza «Come l’Armata Rossa liberò Auschwitz». Sarà presentato il progetto «Auschwitz Liberation» e si analizzerà la liberazione del campo di sterminio da parte dell’Armata Rossa.
1945: incredulo film dell’orrore
Alla Cineteca di Bologna il lungometraggio sui campi con la consulenza di Hitchcock che notò lo scorrere sereno della vita che si svolgeva intorno ai luoghi dei massacri
di Angelo Varni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Bergen-Belsen, Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Mauthausen: i nomi terribili dell’orrore nazista; di una crudeltà neppur più misurabile in termini di dolore e di sopraffazione fisica e morale dell’uomo sull’uomo, bensì destinato a portare all’annientamento delle coscienze, all’indifferenza dei carnefici e delle stesse vittime, ridotti a strumenti disumanizzati di un progetto razziale perseguito con meccanica apatia e cieca obbedienza.
Nomi simbolo di una rete vastissima di campi di concentramento e di sterminio, che la Germania di Hitler disseminò nel proprio territorio ed in quelli dei paesi conquistati durante la seconda guerra mondiale, dove milioni di donne, di uomini, di bambini, ebrei per lo più, ma anche renitenti alla leva,zingari, omosessuali, dissidenti politici e prigionieri delle diverse nazionalità trovarono la morte secondo una tragica pianificazione di massa.
A settant’anni da quei terrificanti eventi la Cineteca di Bologna, nell’ambito della XXIX edizione del festival «Il cinema ritrovato» (27 giugno-4 luglio), presenta in prima nazionale l’edizione integrale di German Concentration Camps Factual Survey (La vera indagine sui campi di concentramento tedeschi), un film-documentario costruito attraverso le immagini girate dagli operatori, che accompagnarono le truppe inglesi nell’aprile del 1945 al momento del loro ingresso nei campi (in particolare in quello di Bergen-Belsen). Qui la pellicola fissò - con la crudezza derivante dall’incredulità stessa di quanti si trovarono d’improvviso di fronte all’imprevedibile manifestarsi dello spegnersi di ogni scintilla di umanità - i segni incancellabili delle torture e dei massacri collettivi compiuti, di cui erano prova cataste di poveri corpi ridotti a manichini inscheletriti, insieme al vagare in un vuoto senza sentimenti degli occhi inespressivi dei pochi sopravvissuti.
Subito il ministero dell’Informazione britannico pensò a un immediato utilizzo di tali filmati (completati da quelli paralleli girati dalle truppe sovietiche ed americane) per testimoniare al popolo tedesco, e al mondo intero, le ragioni di un conflitto reso indispensabile dalla necessità di por termine a simili barbarie, che giustificavano la durezza delle condizioni di pace imposte alla Germania. Fu incaricato del progetto il noto produttore Sidney Berstein, che mise al lavoro una squadra di montatori e sceneggiatori di prim’ordine, chiamando a farne parte come consulente l’amico Alfred Hitchcock. Nonostante questo, la lavorazione del film, andò per le lunghe, al punto che gli Stati Uniti, desiderosi di una più immediata divulgazione delle atrocità del delirio hitleriano, affidarono a Billy Wilder la realizzazione di un cortometraggio di una ventina di minuti (uscì nello stesso 1945 con il titolo Death Mills), che presentasse una sintesi di quanto documentato dai filmati realizzati in presa diretta dai militari.
La svolta che rapidamente prese la politica internazionale, avviata verso le tensioni della “guerra fredda”, consigliò di attenuare l’impatto che simili fotogrammi potevano avere sull’opinione pubblica germanica, che veniva posta sotto accusa e che era invece necessario coinvolgere nella ricostruzione del paese, mentre gli inglesi, nel contempo, intendevano ostacolare la volontà degli ebrei - certo enfatizzata dal senso di pietà suscitato dal filmato - di ritrovare il proprio “focolare” palestinese, per evitare le negative reazioni del mondo arabo.
Di conseguenza, a fine settembre 1945, fu deciso di abbandonare il progetto, lasciando il film incompiuto, mentre l’intero girato e tutti i materiali connessi (compresi la sceneggiatura e l’elenco delle riprese) qualche anno dopo vennero depositati all’Imperial War Museum di Londra, dopo essere stati comunque usati quali capi di accusa al processo di Norimberga. Nel 1984 questa versione incompiuta (cinque rulli dei sei previsti) fu presentata al Festival cinematografico di Berlino con il titolo Memory of the Camp, suscitando comunque reazioni sconvolgenti nel pubblico.
Vent’anni dopo, nell’edizione del 2005 del Cinema ritrovato, fu proposto questo documento, creando l’aspettativa di un completamento e di un restauro complessivo dell’opera. Con alcuni anni di lavoro il Museo londinese è riuscito a identificare tutte le sequenze sulla base dei documenti originali, rimontando l’intero film in digitale e accompagnandolo con il commento tratto dalla prima sceneggiatura.
Le scene che in tal modo si succedono davanti agli occhi dello spettatore, oltre a provocare un senso di inorridita repulsione verso una simile evidente testimonianza di disprezzo per gli stessi primordiali valori di umanità, propongono difficilmente sondabili interrogativi sulle responsabilità individuali e collettive di fronte all’esercizio del male; sul rapporto tra autorità statale e cittadini; sulla capacità di un’ideologia e di una fede cieche di lacerare le coscienze trascinandole in uno smarrimento di sé, che sa di abdicazione totale all’uso critico della ragione, cioè all’abdicazione stessa dall’ essere uomini.
Ecco allora le scene terribili dei soldati tedeschi obbligati a gettare nelle fosse comuni i miseri resti dei prigionieri lasciati morire di fame, che paiono svolgere tale compito con meccanica impassibilità. Ecco il confronto (sul quale Hitchcock pare insistesse molto) tra quanto accadeva nei campi e lo scorrere sereno della vita degli abitanti dei luoghi circostanti. Ecco, ancora, il bruciare dei forni, i cumuli di ossa, i folli esperimenti genetici posti in atto, fino al puntiglioso recupero dei vestiti dei prigionieri, predisposti per un ordinato burocratico riutilizzo per i successivi ingressi, in immagini non meno deprimenti, sotto il profilo morale, di quelle riguardanti i primi piani dei cadaveri.
Ecco, soprattutto, gli sguardi dei vivi fra tante morti: impossibilitati ormai a esprimere alcunché, neppure la riconoscenza per i “salvatori”, negata dalla forzata perdita di ogni sensibilità verso quanto appartenesse alla sfera delle umane relazioni. Ma poi ritornano antiche emozioni perdute - ed è momento particolarmente coinvolgente del film - quando vengono dati ai sopravvissuti i vestiti per ricoprire le loro abbruttite nudità: pare che un simile gesto, un tempo naturale, riportasse alla vita; a una normalità capace di scacciare, ancor meglio del fragore delle armi, anche di quelle soccorritrici, i neri fantasmi della malvagità, del dolore, della consunzioni dei corpi e delle anime.
Certo con questi fotogrammi il cinema mostrava per la prima volta al mondo incredulo la prova inconfutabile di un oscuro potere del male, cui popoli interi finivano per soggiacere. E c’era la speranza chiaramente espressa che questa visione esorcizzasse altre consimili tragiche esperienze. La storia dell’intero secolo scorso e di questo inizio di millennio ci dimostra che così non è stato e non è e che si finisce magari per assuefarci a queste rappresentazioni raccapriccianti. Eppure non si deve perdere la speranza che il riscoprire la concreta visione di tali realtà ci porti tutti a risvegliare coscienze capaci di trovare il necessario equilibrio tra ragione e sentimento, unica strada per una civile convivenza dell’umana collettività.
Addio Shlomo, l’ultimo sopravissuto di Auschwitz
di Oreste Pivetta (l’Unità, 2 ottobre 2012)
182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto -scrisse - con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili... Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline.
Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era.
Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo... Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda.
Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia - scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli - qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio.
Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno - disse - ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorresse, perché era certo che i giovani dovessero sapere
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2012)
Dopo Shlomo Venezia chi verrà a dire - in forma di testimonianza diretta e implacabile - ciò che è accaduto durante gli anni della persecuzione razziale (tedesca, italiana e di tutti i fascismi succubi) in Europa? Chi persuaderà coloro che adesso sono giovani e i giovani che non sono ancora venuti, che è veramente accaduto ciò che Shlomo Venezia ha raccontato ogni giorno, finché era vivo, quest’uomo grande e forte che era sopravvissuto ai due eventi spaventosi del campo di sterminio e del ricordo?
SHLOMO ERA la prova (che mancherà fra poco, con lo spegnersi degli altri pochi che sono ancora in grado di rendere questa tremenda testimonianza), di tre cose impossibili: che quel che è accaduto (sterminio di tutto un popolo, per ragioni dette senza vergogna e senza pudore “razziali”, ma anche in onore di macabro pregiudizio religioso, estesissimo, radicatissimo, sempre in vita, sulla morte di Cristo dovuta agli ebrei) che quel che è accaduto, è accaduto non come impulso bestiale, ma attraverso una meticolosa e perfetta organizzazione . Così perfetta che dovendo scegliere fra la morte di tutti gli ebrei e il rischio imminente di perdere la guerra, è stata data la precedenza al meticoloso e ben organizzato sterminio, fino all’ultimo campo e fino all’ultimo treno carico di vittime che riesce ancora ad attraversare per tempo l’Europa ormai devastata.
Infine chi dirà che tutto questo è un progetto di cultura, della più alta, nel cuore di un’Europa e si riteneva e ancora si ritiene la culla di tutto, che guardava, e ancora guarda, con benevola superiorità tutto il resto del mondo? Dice un proverbio americano che puoi ingannare tutti per poco tempo oppure qualcuno per lungo tempo, ma non tutti per sempre. Le leggi razziali e la loro esecuzione, complice un immenso silenzio di tutti (così poche le eccezioni che ogni tanto si contano e vi si rende omaggio, come a rari atti di eroismo) confutano questo detto del buon senso.
Tutti hanno partecipato o accettato la persecuzione totale degli ebrei per tutto il tempo, e il fatto è così enorme e incredibile che ci voleva il corpo, la presenza, la vita e la memoria di Shlomo e degli ormai pochi sopravvissuti come lui perché chi non c’era o non sapeva credesse, al di là dell’inverosimile e della favola più oscura che l’umanità si sia mai tramandata. Ha scritto Alessandro Piperno che dopo Shlomo e dopo coloro che sono ancora qui, pronti a testimoniare, non si potrà più pretendere che qualcuno ti creda.
Spero che abbia torto e per questo ho fatto in modo che esistesse, anche con l’aiuto di Shlomo, un giorno detto “il Giorno della Memoria”. Spero, ma condivido quella paura, che è fondata sul senso di ciò che si può e ciò non si può narrare. “Ricordo” non è la parola, non basta. Shlomo e gli altri hanno fatto la guardia ai morti del massacro più ignobile del mondo fino all’ultimo istante. Erano qui a dire, parlando al presente, “badate che succede, che li portano via, anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati, tutti, per sempre, con la visione della buona cultura e l’efficienza della perfetta organizzazione, e il pregiudizio ben radicato di una fede”.
SHLOMO è stato tra coloro che hanno voluto (assieme a Tullia Zevi) che il “giorno della memoria italiano” fosse il 27 gennaio (abbattimento dei cancelli di Auschwitz) come quello europeo, e non il 16 ottobre (la razzia notturna nel ghetto di Roma, a 500 metri dal Vaticano e senza alcun grido di indignazione), come nel mio primo progetto. Voleva un segno che comprendesse tutta l’immensa tragedia europea. Immensa perché ha travolto tutti. E i discendenti del complice popolo europeo, che ha taciuto dovunque, avranno più difficoltà dei figli di Shlomo a spiegare il silenzio o vile o indifferente o prudente dei loro beneducati bisnonni, rispettosi dell’autorità e delle leggi. Shlomo Venezia è morto, ma bisognerà disperatamente fare in modo, nel rimpiangerlo, che non una sola parola di ciò che ha detto nelle scuole, nelle case, in tutti i luoghi d’Italia in cui ha potuto parlare, vada perduto. Troppo spaventoso sarebbe il vuoto.
Addio a Shlomo Venezia, vittima due volte del nazismo
di Elena Loewenthal (La Stampa, 2 ottobre 2012)
Shlomo Venezia se n’è andato a 88 anni. Era nato a Salonicco dove, fino all’arrivo della furia nazista, viveva una delle più grandi e antiche comunità ebraiche d’Europa, annientata nei campi di sterminio. «Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda. Non si esce mai per davvero dal Crematorio», ripeteva spesso.
Se, come diceva Primo Levi, i sopravvissuti non hanno conosciuto la Shoah fino in fondo perché sono sfuggiti a quel destino di annientamento, Shlomo Venezia vi fu più vicino che mai: i tedeschi lo destinarono infatti al Sonderkommando, la squadra di prigionieri incaricata di condurre i convogli di ebrei alla distruzione. «A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri», scrive Levi ne I Sommersi e i Salvati.
Nell’universo dello sterminio, non c’è stata forse un’esperienza più terribile, più «completa». Nessuno ha conosciuto la macchina di Auschwitz meglio di loro, più da vicino. In pochissimi sono sopravvissuti alle squadre del Sonderkommando che si avvicendavano nel campo perché venivano eliminate a ritmo regolare, e per molto tempo nessuno di loro se l’è sentita di parlare perché pareva impossibile riuscire a raccontare una realtà così follemente crudele: «Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici», scrive ancora Primo Levi dialogando con uno di loro.
Per decenni il tormento ha costretto al silenzio anche Shlomo Venezia. Insieme alla moglie mandava avanti un negozietto di souvenir per turisti a Roma. All’inizio degli anni 90 ha cominciato a testimoniare e da allora l’ha fatto con tenacia e schiettezza, senza negare a chi lo ascoltava nulla dell’orrore che aveva vissuto. Raccontava l’inferno nel modo più diretto possibile e così aveva fatto anche per Roberto Benigni, che l’ha avuto come consulente preparando il suo film La vita è bella.
Da allora Venezia era stato nelle scuole, aveva testimoniato in pubblico, alla televisione. Parlava con una forza sconcertante, con un’energia vitale che rendeva ancor più obbrobrioso il confronto con la morte di massa di cui raccontava. E’ stato un testimone unico non solo perché veniva da quel buco nero dell’inferno, non solo perché lui dentro le camere a gas e nel forno crematorio ci era entrato migliaia di volte: anche per il coraggio di una parola franca, vibrante, senza eufemismi. Nel 2007 ha messo per iscritto la sua testimonianza in un libro intitolato «Sonderkommando Auschwitz» e pubblicato da Rizzoli
Shlomo nel Sonderkommando
Il destino che Primo Levi non capì
Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di «zona grigia»
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 18.01.2019)
Svastiche nere, impudenti e minacciose, erano comparse d’un tratto a segnare i negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era all’inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con alcuni fascisti che volantinavano sbraitando. La tensione era forte. Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l’impulso di intervenire. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un’altra. Nel 1992 Shlomo Venezia cominciò a parlare.
Dunque esisteva un membro del Sonderkommando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinanza italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerli. In casa si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel leggendario passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante l’occupazione nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz, dove giunsero l’11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero 182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro supplementare» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame; (...) quando compresi era troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime lingue.
Impossibile immaginare che cosa dovette provare un ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore. Con «onestà irreprensibile» - come ha notato Simone Veil nelle pagine introduttive dell’edizione francese - ricostruisce la catena dell’annientamento: dalla discesa negli spogliatoi all’avvio nelle camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino all’incinerazione. Chi voglia capire che cos’è stata davvero la Shoah, questa ignominiosa fabbricazione di cadaveri, questa degradazione della morte, deve leggere la sua testimonianza che non può essere paragonata ad altre.
Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I nazisti avrebbero voluto eliminare l’ebreo e il testimone. Lui invece era sopravvissuto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkommando, la marcia attraverso la neve, la liberazione, ma anche per dire quel che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevole di essere il superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas e il forno crematorio, peculiarità dello sterminio hitleriano, che sarebbe stato sempre decisamente negato. Shlomo Venezia è il superstite, non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto, rimasto oltre - oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio. Unica e preziosa, la sua testimonianza sarebbe stata perciò la più temuta dai negazionisti.
È tempo, però, anche di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
Aveva ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti. E oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando.
Chi l’ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un’angoscia tetra, di una disperazione sorda, che rischiavano di logorarlo. Dopo il filo spinato del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi le sue parole. Eppure Shlomo, combattente instancabile, ha vinto la sua battaglia.
Memoria
Nell’inferno di Auschwitz c’è un bambino che disegna
L’infanzia nel lager di Thomas Geve in 79 tavole. Realizzate nel 1945, solo ora sono diventate un libro *
Un tredicenne che si trova gettato nella bocca dell’inferno, solo e senza istruzioni. È un tema adatto a uno scrittore dell’orrore dalla fantasia perversa. Ma è esattamente la sorte toccata a Thomas Geve, un bambino ebreo di Stettino deportato ad Auschwitz nel 1943. Thomas era vissuto con la mamma e i nonni, esercitando gli unici mestieri possibili per un ebreo come lui, il giardiniere e il becchino. Il padre, espatriato a Londra, faceva vani tentativi per richiamare a sé i suoi cari. Ad Auschwitz, Thomas fu deportato con la madre, che resistette pochi mesi al lavoro forzato. In base alle norme vigenti nel Lager, tutti i bambini inferiori ai quattordici anni (e tutti i vecchi) venivano mandati direttamente alle camere a gas. Thomas, sottratto al forno crematorio perché giudicato robusto, costituì dunque un’eccezione. E a quest’eccezione allude il terribile titolo dell’opera di Thomas Geve (Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, traduzione di Margherita Botto, Einaudi, pp. 186, 24).
Libro straordinario perché sulla sua esperienza di bambino c’informa, soprattutto, con i disegni. Infatti, dopo la liberazione da parte degli alleati (Thomas era finito a Buchenwald, in seguito all’evacuazione di Auschwitz), nei quindici giorni di convalescenza Thomas si procurò carta, matite colorate e acquerelli, e gettò giù in fretta settantanove disegni, con spiegazioni in tedesco che documentano con esattezza architettura e organizzazione del Lager, ma anche il funzionamento interno, i tipi di lavoro, i regolamenti disciplinari, i problemi igienici, l’alimentazione. Tutto questo per comunicare al padre, poi finalmente raggiunto, come aveva passato i due anni di prigionia. I disegni di Thomas trovarono scarso interesse, e solo quarant’anni dopo, depositati allo Yad Vashem di Gerusalemme, città nella quale Thomas abita dal 1950, hanno cominciato a circolare con una mostra itinerante e poi in pubblicazioni parziali. Questa è la prima completa.
Sarebbe frivolo affrontare questi disegni come opere d’arte. Ben più importante notarvi i segni di una dura esperienza, l’attenzione alle misure, agli spazi, alle prospettive di un mondo artificiale e perverso che il ragazzo viene a conoscere e cerca di memorizzare. Le baracche realizzano e contengono i mezzi per una tortura implacabile; il filo spinato è reclusione e insieme assassinio; le fognature propongono sogni di evasione; gli orari sono un cilicio per il tempo, e le annotazioni non attenuano nulla: «Nel reparto di chirurgia i detenuti venivano semplicemente legati e poi operati senza anestesia. Da quel luogo uscivano grida barbare». C’è persino lo schema delle camere a gas.
Ma Thomas ha un orizzonte morale maturo: sente pietà per i deportati zingari, capisce la vergogna delle prostitute al servizio del comando militare, non certo dei detenuti, fa amicizia con qualche altro ragazzo, ma spesso li vede morire; le canzoni dei deportati lo commuovono sempre più intensamente. Date le misure ristrette delle illustrazioni, i personaggi di Thomas sono tutti omini, ma non sfuggono all’occhio attento né i lavori inutili, né la caccia ai pidocchi, né gli espedienti per trovare un tozzo di pane in più, né le bastonature o le impiccagioni. Sullo sfondo i canti dei deportati, e le marce militari degli aguzzini. Gli omini di Geve ricordano a volte, certo per caso, Klee. E alla fine le sorprendenti qualità artistiche di Thomas non possono più essere taciute. Se ossessionano le file di vagoni e di baracche che Thomas rappresenta, altre volte sintetizza in pochi riquadri minacciosi i temi di questa sopravvivenza disperata, oppure costruisce figure a schema circolare che rispecchiano la coerenza criminale del disegno realizzato con il Lager. Memoria e giudizio vengono a coincidere.
Cesare Segre
* Corriere della Sera, 25 gennaio 2011:
Il cancello della memoria
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2011)
Se il “giorno della memoria” dedicato alla Shoah (27 gennaio) è inutile, che dite, lo lasciamo perdere? Dopotutto viviamo in un paesaggio di detriti, pirateria, malefatte e vergogne, che non sono solo italiane - come a volte esasperati crediamo - ma rovesciano conseguenze dolorose, o la morte, su esseri umani indifesi, nel mondo povero, ma anche nel cuore del mondo ricco. Nessuno ti dice di voler dimenticare. Piuttosto ti dicono: in un mondo così, a cosa servono le cerimonie. O meglio: altre cerimonie, oltre quelle che celebriamo da sempre, con poca persuasione e molta distrazione in ciò che resta della comune vita pubblica? Forse qualcuno ricorderà che l’istituzione della legge che celebra il “giorno della memoria” è la sola iniziativa che sono riuscito a portare a conclusione in anni di vita parlamentare. Ho scritto e firmato e proposto il brevissimo testo subito dopo essere entrato in Parlamento, nel 1996; ho speso tutti gli anni di una legislatura a cercare l’unanimità per una legge senza carichi finanziari, esclusivamente simbolica; ho dovuto farmi strada fra chi voleva parlare, invece, di gulag, foibe, e coloro che giudicavano la legge inutile. Finalmente, nel 1999, giunto il momento del dibattito e dei discorsi finali, ho potuto dire alla Camera che in ogni seggio di quell’Aula ogni deputato presente (355), nel 1938 aveva votato “sì” senza eccezioni e astensioni quando erano state presentate da Mussolini le leggi razziali.
HO DETTO ai miei colleghi che il nostro voto oggi non poteva cambiare nulla. Ma se avessimo tutti votato “sì”, avremmo almeno lasciato un segno di repulsione per il rito macabro che si era compiuto tra applausi e grida di “viva il Duce” in quella stessa Aula e che aveva fatto dell’Italia uno dei carnefici di migliaia di cittadini ebrei, insieme a milioni di ebrei d’Europa, le vittime, sfregiando per sempre il volto di questo Paese. E così la legge sul “giorno della memoria” è stata votata all’unanimità dalla Camera dei Deputati nel 1999 (solo voto unanime della XIII legislatura) ed è diventato legge della Repubblica il primo luglio 2000, dopo l’approvazione (non unanime) del senato. Poiché il primo “giorno della memoria della Repubblica italiana è stato il 27 gennaio del 2001, in questi giorni si compiono i 10 anni di questa iniziativa. Tenterò, da persona che se ne è assunta la responsabilità, di affrontare le tante perplessità ed obiezioni. Prima vorrei dire le ragioni che hanno reso obbligatorio, per me, scrivere e battermi per quella legge. Il percorso comincia in una classe del liceo D’Azeglio di Torino. I nostri insegnanti erano stati tutti protagonisti della Resistenza, laici, cattolici, comunisti. Edoardo Sanguineti e io, in quella classe, abbiamo organizzato una piccola rivolta quando ci siamo accorti che non veniva mai proposto l’argomento delle leggi razziali fasciste. E abbiamo cominciato a formare un punto di incontro tra ragazzi che volevano sapere e parlare e ragazzi sfuggiti alla deportazione, a volte unici superstiti di una famiglia inghiottita dai campi.
Tanti anni dopo mi sono ricordato di quel gruppo, quando la collega della Columbia University, Susan Zuccotti, che stava per pubblicare il suo libro sullo sterminio degli ebrei in Italia (“The Italians and the Holocaust”, Nebraska University Press, 1988), mi ha chiesto di scrivere la prefazione. In quella prefazione (ripresa nella traduzione italiana) ho potuto dire che molti italiani antifascisti, che hanno lasciato il loro nome nella storia della liberazione dal fascismo e dal nazismo hanno avuto e diffuso la persuasione che la Resistenza avesse cancellato le malefiche pagine delle leggi razziali e della loro spesso feroce esecuzione, creando l’immagine di un’Italia vittima, tutta, di dittatura, occupazione e aguzzini tedeschi, che si riscatta con la liberazione.
Nasce così la cancellazione della responsabilità italiana nella campagna di distruzione del popolo ebraico che ha portato discriminazione, persecuzione e morte in tutta Europa sotto due bandiere, quella tedesca e quella italiana.Resta anzi la legittima domanda, tenuto conto dell’immagine di grande potenza dell’Italia in quegli anni: avrebbe potuto, la Germania, da sola, imporre in tutta Europa la sua politica razziale e omicida? La risposta non è nei tanti italiani, compresi generali e funzionari, che si sono opposti. È nei tanti che, negli uffici, nelle scuole, nelle case, nella vita cittadina, hanno dato una mano per identificare e arrestare e hanno collaborato con la finzione di non vedere e di non sapere. Questa persuasione tragica e vera, la Shoah è un delitto italiano, è all’origine della legge così come è stata scritta. Infatti, nella sua prima versione, il mio testo indicava come “giorno della memoria” quel 16 ottobre del ’43 a Roma: 1017 cittadini romani, dai neonati agli infermi, prelevati nella notte dal Ghetto, cuore della città a meno di mille metri dal Vaticano, quasi tutti sterminati ad Auschwitz. È un delitto atroce, ma anche un delitto perfetto. Gli esecutori sono soldati tedeschi. Strade, indirizzi, nomi, sono a cura della polizia fascista. La città dorme, il Vaticano tace.
Il “giorno della memoria” della legge di cui sto parlando è adesso il 27 gennaio, giorno in cui i soldati russi hanno abbattuto i cancelli di Auschwitz e scoperto per la prima volta l’orrore di un campo di sterminio. Infatti il 27 gennaio è il “giorno della memoria” in molti paesi europei. La data infatti permette di includere, come in un abbraccio della memoria, i perseguitati politici, i militari italiani che non hanno voluto combattere a fianco dei nazisti, gli omosessuali, i rom, anch’essi vittime di persecuzione e sterminio. La domanda più frequente, che viene spesso da persone che non rifiutano la memoria, ma rifiutano il rischio di imposizione, è: “perché una legge?”. E ti raccontano del modo annoiato e automatico con cui certe scuole improvvisano il loro “giorno della memoria”; ti ricordano che tutte le feste statali diventano cerimonie ritualizzate, con molta retorica e nessuna vera partecipazione. Non era meglio lasciare tutto all’iniziativa spontanea? Risponderò che nel Paese meno incline alle celebrazioni per legge, gli Stati Uniti, dove non si sono mai visti carri armati nelle strade per celebrare la loro festa della Repubblica (il famoso 4 luglio) le poche celebrazioni nazionali sono tutte stabilite per legge, (Memorial Day, Labor Day, Indipendence Day e, dal 1968, il Martin Luther King Day).
RISPONDERÒ che, se in Francia ci fosse un giorno della memoria, sarebbe più difficile in quel Paese dedicare, come è stato fatto, il 2011 allo scrittore antisemita Celine. Risponderò che l’antisemitismo è sempre molto vitale e molto attivo. Lo dimostrano eventi quotidiani, come gli attacchi volgari e stupidi al Diario di Anna Frank, come la recente pubblicazione, in un sito americano, di una lista di ebrei da “tenere d’occhio” negli Usa, nel mondo e anche in Italia; lo dimostra la confusione continua tra la politica di un governo israeliano ed gli ebrei del mondo, lo dimostra il fatto che persino la piccola gerarchia più o meno ex fascista che occupa posti nel Comune di Roma dice e diffonde espressioni di odio antiebraico da Repubblica di Salò.
Una legge non è una diga, è solo una piccola bandiera piantata sulla terra di un passato spaventoso. Non consola. Ma incoraggia (come per fortuna accade) studenti e insegnanti di molte scuole italiane ad essere i nuovi testimoni.
Ma così si riaprono antiche ferite
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2009)
La contemporaneità delle due notizie è da ritenersi casuale, ma colpisce ugualmente. In Polonia, alcuni criminali rubano da Auschwitz la scritta-simbolo della Soluzione finale, «Arbeit macht frei». In Vaticano, Papa Ratzinger firma il decreto che avvia Pio XII sulla strada della beatificazione. Un increscioso affronto simbolico alla memoria della Shoah coincide con un clamoroso riconoscimento canonico delle "virtù eroiche" di chi era pontefice durante lo sterminio degli ebrei
Nei giorni scorsi, le due notizie hanno provocato reazioni differenti. Il furto compiuto in Polonia ha suscitato l’unanime riprovazione dell’opinione pubblica internazionale, che ha tirato un grande sospiro di sollievo quando si è saputo che l’insegna era stata ritrovata. Il decreto firmato in Vaticano ha invece diviso. Da una parte gli apologeti di Pio XII, fieri che Ratzinger abbia rotto gli indugi e fiduciosi di vedere Pacelli elevato presto agli altari. Dall’altra parte i critici di Pio XII, inquieti che la decisione vaticana offenda le comunità ebraiche e penalizzi il dialogo interreligioso. In realtà, la doppia notizia di questi giorni andrebbe sottratta sia al tempo troppo rapido delle news, sia al riflesso quasi pavloviano delle contrapposte appartenenze. Andrebbe consegnata a un’analisi più distesa, a una riflessione più storica. Si scoprirebbe forse, a quel punto, che non tutto il male viene per nuocere.
Lo sciagurato furto di Auschwitz ha offerto una testimonianza straordinaria di come la Polonia stia cambiando. Nelle quarantotto ore intercorse fra il trafugamento dell’insegna e il suo ritrovamento, il paese natale di papa Wojtyla - amico vero degli ebrei - è stato colpito da un trauma collettivo. Di là dalla mobilitazione poliziesca per identificare e arrestare i responsabili del furto (a quanto sembra, non immediatamente legati a circoli neonazisti), la Polonia si è dimostrata compatta nel vivere l’episodio criminale come un terribile memento dei suoi trascorsi di nazione antisemita
Pochi anni fa, la pubblicazione di un libro di storia che sottolineava il volenteroso contributo dei polacchi alla Soluzione finale del problema ebraico (Jan T. Gross, I carnefici della porta accanto, Mondadori 2002) aveva suscitato reazioni piccate e scomposte nella Polonia dei fratelli Kaczynski e di Radio Maryia. Oggi, l’antisemitismo che tuttora alligna in alcuni settori della società polacca ha dovuto inchinarsi alle passioni e alle ragioni di una nazione altrimenti matura e civile. Quanto alla prospettiva di un’elevazione agli altari di Papa Pacelli, non c’è dubbio che si tratti di una faccenda carica d’implicazioni gravi. Lo attestano i segnali di protesta che si vanno levando - oltreché dalle comunità ebraiche - dagli ambienti cattolici più impegnati sul fronte dell’ecumenismo. La decisione di Joseph Ratzinger minaccia di riaprire ferite che ci si poteva augurare rimarginate per sempre grazie all’impegno di Karol Wojtyla.
Eppure, anche nel caso del decreto vaticano su Pio XII non tutto il male viene per nuocere. Perché qualunque cosa la Chiesa cattolica voglia decidere riguardo alla beatificazione di un papa, la collettività intera ha ancora bisogno di studiare, di ragionare, di sapere intorno alla questione del rapporto fra carnefici, vittime e spettatori della Shoah.
La storia guadagna poco da un approccio di tipo giudiziario, da una dialettica secca colpevole/innocente. E tanto meno guadagna la storia della Shoah, che tra il bianco e il nero conobbe infinite gradazioni di grigio. Pio XII non va trasformato nell’unico responsabile di quella che fu l’indifferenza diplomatica - o, peggio, il calcolo politico -anche delle maggiori potenze impegnate nella guerra contro il nazismo. Dal 1941 al ’45, il silenzio di Churchill e di Roosevelt (per tacere di Stalin) fu altrettanto assordante del silenzio di Papa Pacelli
Ciò detto, il Vaticano potrebbe ben guardare alla vicenda di cattolici i quali, durante la Soluzione finale, mostrarono di possedere "virtù eroiche" assai più sviluppate che quelle di Pio XII. Uno per tutti: Jan Karski, eccezionale figura di messaggero della Resistenza polacca presso i governi alleati. In un giorno d’agosto del 1942, questo giovane uomo vide lo spettacolo inenarrabile del ghetto di Varsavia, e da allora ebbe una sola idea fissa: far sapere al mondo che gli ebrei venivano sterminati. Le torture dei nazisti non lo fermarono. Fra il ’43 e i1 ’44 Karski fu a Londra, fu a Washington, bussò a tutte le porte di tutti i potenti della coalizione antihitleriana. Non fu creduto, ma non smise di battersi per salvare - se non la vita degli ebrei - almeno la coscienza del mondo. Lui sì che andrebbe fatto santo, santo subito. Sergio Luzzatto insegna storia moderna all’Università degli studi di Torino
Il papa dei troppi silenzi
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2009)
Santo no. Anche se appare un leader importante della Chiesa del Novecento. Pio XII, che papa Ratzinger sta portando sugli altari, resta una figura controversa. Difficile presentarlo come simbolo e modello da seguire. È bastato che Benedetto XVI firmasse il decreto sulle “virtù eroiche” di Eugenio Pacelli (ultimo passo, oltre al riconoscimento di un miracolo, prima della beatificazione ufficiale) perché esplodesse nuovamente la crisi fra Ratzinger e il mondo ebraico. Il Papa dovrebbe recarsi in visita alla Sinagoga il 17 gennaio, ma ora tutto è in forse. Già l’anno scorso, proprio a causa dell’esaltazione di Pio XII fatta da Ratzinger, l’assemblea rabbinica italiana aveva cancellato la tradizionale giornata d’incontro cattolico-ebraica.
Faticosamente si era riallacciato il dialogo e adesso arriva la nuova gelata. Dietro le quinte sono in corso negoziati molto tesi perché il Vaticano garantisca che la beatificazione di Pacelli non abbia luogo almeno nel 2010 assieme a quella di Karol Wojtyla.
Continua a pesare su Pio XII l’atteggiamento di diplomatica prudenza di fronte all’Olocausto, quel “silenzio” che gli fu rimproverato dal drammaturgo Rolf Hochhuth nell’opera teatrale “Il Vicario”, che nel 1963 si conquistò risonanza mondiale. Ancora oggi i maggiori rappresentanti dell’ebraismo gli rimproverano di non avere detto una parola quando i nazisti rastrellarono a Roma, quasi sotto le finestre del Palazzo apostolico, e oltre mille ebrei che vennero deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943.
Negli ultimi vent’anni l’immagine di papa Pacelli è rimasta schiacciata sulle vicende della Shoah, paradossalmente dopo che nell’immediato dopoguerra esponenti ebraici di primo piano come il premier israeliano Golda Meir lo avevano elogiato come difensore delle vittime dell’Olocausto. In effetti immaginare Pio XII tollerante verso il nazismo o peggio suo complice - secondo la tesi adombrata nel titolo del libro “Hitler’s Pope - Il Papa di Hitler” dello scrittore britannico John Cornwell - è una falsità. Pacelli aveva orrore di Hitler e dell’ideologia neopagana e razzista del nazismo. Negli archivi sono state trovate anche tracce di un suo cauto, ma convinto appoggio ai tentativi di circoli dell’establishment tedesco di eliminare il Führer. Né si può dimenticare l’impulso da lui dato a istituzioni e conventi cattolici per salvare in ogni modo un numero grandissimo di ebrei.
E tuttavia, nella stagione cruciale del duello mortale ingaggiato tra il nazifascismo e lo schieramento antifascista, divenuto poi in guerra il fronte degli alleati, Eugenio Pacelli è rimasto vittima di una concezione tutta politica e diplomatica della sua missione. Era preoccupato di salvaguardare per la Santa Sede una posizione al di sopra delle parti nel conflitto mondiale, preoccupato di garantire i diritti della Chiesa cattolica tedesca attraverso il Concordato offertogli da Hitler, preoccupato di mantenere per la Germania una funzione di baluardo nei confronti del bolscevismo, convinto di scegliere il male minore non chiamando per nome la bestiale persecuzione degli ebrei nell’intento di salvarli dietro le quinte.
Così Pio XII non ha saputo essere all’altezza del momento storico. Quanto più negli ultimi cinquant’anni è cresciuta la consapevolezza internazionale del carattere radicalmente disumano della Shoah tanto più appare chiaro che Pio XII ha mancato nel ruolo profetico che dovrebbe svolgere un “vicario di Cristo”. Ci sono tappe precise che testimoniano dei fallimenti di papa Pacelli, non riscattati dalla sincerità delle sue intime angosce. Come segretario di Stato vaticano Pacelli preme nel 1933 sul partito cattolico tedesco Zentrum affinché voti i pieni poteri a Hitler, prologo della dittatura organica. A Pacelli interessava ottenere il concordato con il Terzo Reich. Eppure i cattolici del Zentrum e i socialdemocratici avevano voti abbastanza per impedire l’approvazione della legge, ma Pacelli, diffidente della democrazia e avverso ai socialdemocratici, volle altrimenti. Subito dopo la conferenza episcopale tedesca fu costretta ad abrogare i suoi precedenti pronunciamenti antinazisti. E quando si verificò il gigantesco pogrom antiebraico della Notte dei Cristalli, la Chiesa stette in silenzio.
Appena eletto pontefice Pacelli mise nel cassetto il progetto di un’enciclica contro l’antisemitismo, progettata dal suo predecessore Pio XI. Non condannò decisamente la violazione della neutralità di Belgio e Olanda da parte delle truppe tedesche. Suscitò amarezza nei cattolici polacchi, che non si sentirono abbastanza difesi. Non denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, pur mandando messaggi chiari di simpatia e solidarietà al popolo ebraico usando un linguaggio allusivo. È in questo quadro che si situa il tragico silenzio sul rastrellamento dei 1021 ebrei romani nel 1943. Silenzio osservato, nella sua ottica, per aiutare le vittime.
Papa Wojtyla, nel suo viaggio in Germania nel 1996, elogiò i vescovi olandesi che avevano protestato pubblicamente contro le persecuzioni antisemite. La reazione nazista fu spietata, ma la citazione di Giovanni Paolo II rivelò eloquentemente che il pontefice polacco riteneva che dinanzi all’“Anticristo” non bisognasse fermarsi a fare di conto tra profitti e perdite.
Pio XII stesso sapeva che il suo silenzio sarebbe stato giudicato. Lo documenta l’interessante biografia di Andrea Tornielli (Mondadori). Tormentato, ne parlò già nell’ottobre del 1941 con l’allora nunzio Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII. E appelli a levare profeticamente la sua voce gli vennero da personalità cattoliche francesi come Mounier e Mauriac, da Edith Stein, dal gesuita tedesco Friedrich Muckermann che già negli anni ‘30 si chiedeva perché la Chiesa si fermasse alla “tattica” e non denunciasse il nazismo con la stessa forza con cui combatteva il bolscevismo.
E così i silenzi di Pacelli hanno finito per oscurare anche il suo ruolo rilevante all’interno della Chiesa dopo la guerra. A studiarlo attentamente, il suo pontificato mostra importanti aperture nell’incoraggiare gli studi di esegesi biblica. È lui a dare un primo placet alle teorie evoluzioniste di Darwin come “ipotesi” accettabili. È lui ad autorizzare nei paesi del nord le messe nelle lingue nazionali. Lui a occuparsi per primo della regolamentazione delle nascite attraverso l’osservanza dei periodi fecondi e infecondi della donna. Lui, persino, a progettare un Concilio che mai si terrà. Poi c’è il capitolo della politica italiana, ma questa - come direbbe Kipling - è un’altra storia.
intervista a Daniele Menozzi a cura di Luca Kocci (il manifesto, 22 dicembre 2009)
Tre giorni dopo il riconoscimento delle "virtù eroiche" di papa Pio XII, preambolo alla beatificazione, da parte di papa Ratzinger, il mondo ebraico manifesta a gran voce la sua contrarietà alla santificazione di un pontefice da più parti accusato di aver taciuto di fronte alla tragedia della Shoah. Anche se ieri Benedetto XVI, nel discorso alla Curia romana, ha detto che l’Olocausto «ha cacciato dal mondo anche Dio», non si placano le polemiche. «La beatificazione di Pio XII è inopportuna e prematura, sino a quando i suoi archivi del periodo 1939-1945 resteranno chiusi e non si saranno chiarite le sue azioni, o inazioni, sulla persecuzione di milioni di ebrei durante l’Olocausto», dichiara Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress. E gli ebrei italiani, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che il prossimo 17 gennaio accoglierà papa Ratzinger in visita alla sinagoga della capitale, pur non volendo «interferire su decisioni interne della Chiesa», ribadiscono che se la decisione vaticana significasse «un giudizio definitivo e unilaterale sull’operato storico di Pio XII, la nostra valutazione rimane critica».
«La ricerca storica ha dimostrato che Pio XII è intervenuto solo a livello diplomatico, facendo presente al governo di Hitler che la Santa Sede non condivideva le persecuzioni contro gli ebrei», spiega Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa ed esperto del papato novecentesco. «Ma papa Pacelli - prosegue - non ha mai assunto una posizione pubblica di condanna durante la guerra. E questo è dimostrato anche dal fatto che nel magistero pontificio del periodo bellico la parola ebrei non viene mai usata. Pio XII la pronuncerà solo molti anni dopo, a guerra finita, per dire che non si poteva fare nulla di più di quello che è stato fatto, in una sorta di autoassoluzione».
Alcuni storici vicini alla Santa Sede sostengono che il silenzio di Pio XII fosse tattico, per consentire alla Chiesa di poter aiutare gli ebrei in segreto, per esempio nascondendoli nei conventi. Cosa ne pensa?
Istituzioni ecclesiastiche e singoli cattolici hanno sicuramente offerto una via di scampo a molti ebrei, ma il punto non è questo. La ricerca non può assumere le categorie con cui gli attori giustificano i loro comportamenti, perché il giudizio storico può tenere conto delle intenzioni ma deve basarsi sui fatti e sui risultati. E i risultati sono che i silenzi di Pio XII non hanno evitato lo sterminio degli ebrei, anzi hanno fatto parte del contesto in cui esso si è verificato. Aggiungo tuttavia che constatare il silenzio di Pacelli sulla Shoah non vuol dire che non ne fosse intimamente inorridito, né che non la condannasse e nemmeno che non cercasse di limitarne, tramite la via politico-diplomatica, le spaventose conseguenze. Significa solo che non prese pubblica posizione su di essa.
Insieme a Pio XII, papa Ratzinger ha riconosciuto anche le "virtù eroiche" di Giovanni Paolo II, dicendo che "i santi non sono rappresentanti del passato ma costituiscono presente e futuro della nostra società". Esiste una sorta di "politica" vaticana delle canonizzazioni?
Per secoli la Chiesa di Roma non ha santificato dei papi. Poi, a partire dalla seconda metà del ’900, proprio con Pio XII, si è iniziato a canonizzare pontefici, soprattutto quelli del XX secolo, avviando una prassi, interrotta solo da Giovanni XXIII e Paolo VI, per cui i papi vengono fatti santi. C’è una spiegazione: un papato che si sente in difficoltà in una società contemporanea che sfugge al suo controllo tende a rafforzarsi santificando se stesso.
La decisione di affiancare Pio XII e papa Wojtyla è casuale?
Non credo. Mi sembra che si voglia ripetere quanto venne fatto da Giovanni Paolo II nel 2000 beatificando Pio IX, ovvero un papa molto controverso, insieme con Giovanni XXIII, un papa al contrario molto popolare. E anche oggi si mettono insieme il discusso Pio XII con il popolarissimo Wojtyla. Ma le difficoltà mi sembrano maggiori perché il rapporto di Pacelli con il mondo ebraico è una ferita ancora aperta.
La crudeltà del lager
di MARCO BELPOLITI (LA Stampa, 19.12.200)
Tra i vari modi con cui i nazisti intendevano dileggiare i prigionieri dei Lager, racconta Primo Levi, c’era l’orchestrina che suonava le marce all’entrata e all’uscita dei deportati dal campo, per recarsi al lavoro forzato e le scritte che campeggiavano sui cancelli, spesso ricavate da proverbi o frasi della Bibbia.
La più sarcastica e provocatoria è quella issata, o almeno lo era fino a poco fa, all’ingresso di Auschwitz: Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi. Due parole, ricordava ancora l’autore di Se questo è un uomo - lavoro e libertà -, che per lui sono sempre state collegate, e che lì, nel campo, diventavano invece un’irrisione terribile della condizione di migliaia e migliaia di uomini e donne costretti a una attività fisica, il lavoro coatto, che li avrebbe ben presto portati alla morte. Tutto questo fa parte di quella che Levi ha definito la «violenza inutile», quella forma d’ulteriore degradazione, avvilimento, che si perpetuava non solo attraverso punizioni fisiche, sofferenze protratte, ma mediante una sottile strategia fatta di regolamenti assurdi, leggi paradossali, espressioni linguistiche rovesciate.
Il Lager è il ribaltamento della logica normale, quella che vige nel mondo là fuori, per cui agli intellettuali, a tutti coloro che praticavano mestieri di concetto, era data una pala per scavare, e ai lavoratori manuali affidato invece il compito di comandare il gruppo dei professori, avvocati, notai. Un rovesciamento che fa parte della logica ferrea del Campo: niente somiglia a ciò che usuale nella vita civile.
Eppure nel suo ribaltamento, nella sua irragionevolezza, il Lager possedeva una sua razionalità, folle e assurda, ma pur sempre una logica. La scritta rubata ad Auschwitz appartiene a questa. E pensare che anche nel Lager, lo ha notato molte volte Levi, dove il lavoro forzato somiglia a quello delle bestie, c’era chi amava il lavoro ben fatto, come Lorenzo il muratore, che tirava su muri a regola d’arte. Per Levi il lavoro è una delle approssimazioni possibili alla felicità in terra. Il suo ideale è quello dell’homo faber, che riesce a rovesciare la condanna biblica del lavoro come fatica, e ne fa una possibilità di riscatto; anche lo sbaglio, come spiega Faussone nella Chiave a stella, è parte del mestiere. La libertà è questa: il lavoro come sfida, avventura, prova. Ogni tipo di lavoro, anche quello più umile, compiuto con cura e attenzione, è per il piemontese Primo Levi, una via per costruire se stessi e il mondo, per essere, nonostante tutto, davvero liberi.
Divelta la scritta in ferro battuto. I ladri sono entrati recidendo il filo spinato
L’iscrizione era stata realizzata dagli stessi prigionieri e installata nel 1940
Furto-profanazione ad Auschwitz
rubata l’insegna "Arbeit macht frei"
Nel campo di sterminio nazista furono uccise oltre un milione di persone
Il portavoce del sito: "E’ il primo furto così grave, e vergognoso, ai danni del sito" *
VARSAVIA - Svitata da un lato e strappata dall’altro. Così è stato rubata l’insegna in ferro battuto, tragicamente celebre, che reca la scritta "Arbeit macht frei" ("Il lavoro rende liberi"), che campeggiava al di sopra del cancello di ingresso del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau, nel sud della Polonia.
Il furto, compiuto - come riferisce la polizia polacca - fra le tre e le cinque della scorsa notte, non sembra essere una semplice bravata: i ladri hanno infatti reciso il filo spinato che costeggia la rete che delimita il campo, un’operazione quindi complessa che solo dei "professionisti" avrebbero potuto compiere. "Si tratta del primo caso così grave di furto in questo luogo - spiega un portavoce del museo di Auschwitz, Jeroslaw Mensfeld - è una profanazione vergognosa nel luogo in cui oltre un milione di persone sono state assassinate".
L’iscrizione in ferro battuto, costruita dagli stessi prigionieri e installata nel 1940, non era difficile da staccare, ha precisato Mensfeld, "ma bisognava saperlo". Di notte, il campo è chiuso e sorvegliato da vigilantes. Ora all’esame degli inquirenti ci sono anche i video ripresi dalle telecamere di sorveglianza poste intorno e dentro il sito.
Tra il 1940 e il 1945, nel campo di Auschwitz-Birchenau i nazisti sterminarono oltre un milione di persone, di cui un milione di ebrei. Fra le altre vittime, soprattutto polacchi non ebrei, rom e prigionieri di guerra sovietici. Le autorità del museo hanno già provveduto a installare all’ingresso del campo una copia della scritta, realizzata in occasione di un periodo di restauro dell’originale, divenuto in tutto il mondo il triste simbolo dell’Olocausto.
Proprio ieri il governo tedesco aveva annunciato di essere pronto a una donazione di 60 milioni di euro per la manutenzione dell’ex lager. Una cifra che rappresenta la metà del denaro necessario a preservare quel che resta delle baracche e delle camere a gas del più noto dei campi di concentramento nazista. Alla fine della guerra, oltre 200 ettari del campo furono trasformati in museo, visitato ogni anno da centinaia di migliaia di persone. Ma i proventi dei biglietti non sono sufficienti a mantenere il grande sito, con i suoi 155 edifici, le 300 strutture in rovina e centinaia di migliaia di reperti, in gran parte effetti personali dei prigionieri. Non mancano iniziative di sostegno che coinvolgono i visitatori, come la richiesta di un’offerta spontanea dal titolo "Compra un mattone".
Quanto alla donazione della Germania, Mensfelt l’ha definita "enorme", ed ha auspicato che anche altri paesi possano seguire l’esempio con altri contributi in risposta all’appello lanciato dal governo polacco. Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha detto che la donazione di Berlino rispecchia la "responsabilità storica" dei tedeschi. Per il momento, anche la Gran Bretagna ha dato la sua disponibilità.
* la Repubblica, 18 dicembre 2009
L’insegna con la frase "Il lavoro rende liberi" è stata tagliata in tre pezzi
Gli uomini fermati nel nord della Polonia hanno tra i 20 e i 39 anni
Ritrovata la scritta di Auschwitz
arrestate cinque persone
dal nostro inviato ANDREA TARQUINI *
CRACOVIA/OSWIECIM - Ancora una volta i polacchi ce l’hanno fatta, hanno mostrato al mondo di sapercela mettere tutta per affrontare le sfide del momento e della Storia. La targa di Auschwitz, quella con la sinistra scritta ’Arbeit macht frei’ (il lavoro rende liberi), rubata nella notte tra giovedì e venerdì, è stata ritrovata e sarà restituita al museo-memoriale dell’ex lager nazista, la più grande e atroce fabbrica della morte dell’Olocausto, il più grande cimitero del mondo. Con un blitz notturno, la polizia polacca, agenti speciali della Guardia di frontiera, del servizio segreto e dei reparti scelti del ministero della Difesa hanno preso d’assalto un’abitazione privata nel nord del Paese. Là hanno ritrovato la targa, tagliata in tre parti per renderla trasportabile. Là, hanno detto i portavoce della polizia, hanno sorpreso e arrestato i cinque presunti ladri-profanatori, cinque uomini tra i 20 e i 39 anni. Nelle prossime ore le autorità forniranno nuovi dettagli.
L’impegno senza riserve e l’efficienza del più importante tra i Paesi entrati di recente nell’Unione europea e nella Nato hanno dunque risolto il caso criminale più clamoroso di questi giorni, cioè appunto il furto del massimo simbolo e oggetto della Memoria della Shoa, il genocidio del popolo ebraico che il regime nazista pianificò a tavolino alla conferenza di Wannsee e attuò con spaventosa precisione industriale.
Il campo di sterminio di Auschwitz, costruito dagli occupanti nazisti nella Polonia occupata e destinata anche lei all’annientamento etnico, fu edificato a circa 70 chilometri da Cracovia, la più bella città polacca, e prima capitale. Per sfregio al Paese che fu aggredito con l’attacco che dette inizio alla seconda guerra mondiale. E perché geograficamente Auschwitz era come il centro di una ragnatela, cuore di una rete di linee ferroviarie con cui arrivavano i treni della morte, e vicino alle industrie e miniere dove i deportati lavorarono trattati come bestie prima di finire torturati, vittime di criminali esperimenti "medico-scientifici", poi assassinati con il gas letale Zyklone-B e inceneriti nei forni crematori. Oltre un milione e centomila persone furono assassinate ad Auschwitz e Birkenau, i due campi di sterminio uniti, dai nazisti. In massima parte ebrei, poi resistenti polacchi, rom, prigionieri di guerra sovietici.
Probabilmente, fanno capire i portavoce della polizia, non è casuale che i ladri abbiano portato al nord la targa dall’ex lager (che si trova nel sud della Polonia). Forse speravano di raggiungere un porto o un confine e trafugarla all’estero. Rimane da chiarire il movente del crimine e chi siano i mandanti. La polizia polacca, in contatto con l’Interpol e con i servizi segreti tedesco, britannico e israeliano, ha attuato la sua caccia all’uomo lavorando su due piste: neonazisti oppure collezionisti folli e ricchissimi.
© la Repubblica, 21 dicembre 2009
Nazisti d’Europa
Dopo lo sfregio di Auschwitz viaggio tra le formazioni dell’estrema destra
Ecco chi sono i nuovi fanatici
E dove vogliono arrivare
Sono giovani, si collegano attraverso Internet e definiscono la Shoah un bluff
Partiti e partitini, poi skinhead, ultrà, picchiatori di strada. Si stima siano oltre 250 mila
Chi sono i ladri profanatori di Auschwitz? Perché hanno colpito? Una galassia di gruppi xenofobi e neonazisti cresce dalla Spagna alla Polonia, fino alla Russia. Si tratta di movimenti frammentati che cavalcano nazionalismo e localismo. Ecco una fotografia delle formazioni razziste che guardano al Terzo Reich
di Paolo Berizzi (la Repubblica, 21.12.2009)
Chi sono e da dove muovono i ladri profanatori di Auschwitz? Perché hanno colpito? «È una dichiarazione di guerra», dice secco Avner Shalev, direttore del museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per capire le sue parole bisogna guardare la fotografia della "scena" nazionalista, neonazista e antisemita che sta montando in Europa. Un vento che soffia con forza dall’Est: dalla Polonia all’Ungheria fino all’ex Unione sovietica. Una galassia complessa e frammentata. Che si ispira direttamente al Terzo Reich (anche nei simboli: svastiche, croci runiche e diagonali, sigle e anagrammi e caratteri pangermanici). Che cavalca nazionalismo e localismo per approdare a derive antisemite.
In nome della battaglia anti-mondialista. Da lì a definire la Shoah e i forni crematori un "bluff" ebraico, il passo è breve. Il network neonazista estende i suoi confini dal cuore della Germania alla Francia, dalla Spagna "falangista" ai paesi scandinavi, dall’Inghilterra ai nuovi laboratori dell’Est, Polonia, Ungheria, Romania, dalla Grecia a Cipro passando dall’Italia e risalendo fino alla Russia. «Si sta diffondendo un nuovo-vecchio odio verso gli ebrei, che è poi di fatto una continuazione - ragiona Cono Tarfusser, già procuratore capo di Bolzano, oggi giudice della Corte criminale internazionale dell’Aia - . È un sentimento viscerale e al tempo stesso vuoto, messo in giro dalle formazioni nazionaliste a forte impronta xenofoba. La novità non è tanto che l’ostilità non va più solo contro gli immigrati, gli omosessuali, le minoranze etniche e religiose ma anche contro gli ebrei - quelli di oggi e quelli di ieri. La novità - spiega - è che la società, con la sua assenza di cultura, non riesce più a mettere degli argini naturali in grado di isolare questa gente, di sottrargli spazio, terreno di coltura».
Tarfusser a Bolzano ha creato un pool di magistrati anti-naziskin, la nuova "Gioventù hitleriana" che si muove in Alto Adige. «Preoccupa, oltre al qualunquismo rabbioso di queste bande, la precoce età dei militanti, che agiscono perché trovano spazi politicamente fertili. Disagio sociale, crisi economica, globalizzazione degli Stati e immigrazione: tutti elementi che i partiti e le organizzazioni paranaziste sfruttano per fare proseliti. Oggi, e dalla fine del comunismo, questo fenomeno ha dimensioni importanti soprattutto nell’Est». Partiti e partitini, e poi skinhead, hammersin, bonhead, ultrà, picchiatori di strada. Si stima siano oltre 250 mila i militanti neonazisti in Europa. Altri 50 mila nella sola Russia. La rete di collegamento è Internet. E guai a chiamarsi nazisti.
In Polonia spopola la Lega delle famiglie polacche, l’alleanza dei partiti nazionalisti che ha eletto presidente della Repubblica Lech Kaczynski. Determinante per la vittoria al ballottaggio del 2007 è stato l’aiuto di Radio Maryja, un’emittente clericale, anti-comunista ma soprattutto anti-semita (più volte condannata dallo stesso Vaticano) che si rivolge a due milioni di elettori. La Polonia confina a ovest con la Germania e a sud con Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Npd (partito nazional democratico tedesco, fondato 45 anni fa da ex appartenenti al partito socialista del Reich tedesco) di Ugo Voight continua a piazzare suoi rappresentanti nei lander. Nonostante la maggior parte della popolazione lo definisca un partito filo-nazista, razzista e anti-semita.
Ancora Europa centrale. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia: tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo, oggi nella Ue. A Bratislava l’estremismo antisemita è stato sdoganato al governo dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico. «La fine del comunismo ha fatto saltare il tappo che comprimeva l’estrema destra, allora era marginale ma oggi cresce più che da ogni altra parte», spiega Giuseppe Scaliati, autore del saggio La destra radicale in Europa (Bonanno editore). A Budapest i 7 mila adepti della Guardia Ungherese sfilano in centro in uniforme nera, sventolando i gagliardetti delle "Croci frecciate" alleate di Hitler. Evocano l’Olocausto, sognano una "soluzione finale alla questione zingara", affrontano la polizia in violenti scontri nelle strade di Praga. Zingari e rom sono finiti anche nel mirino dei romeni di Noua Dreapta (Nd), gli estremisti che si rifanno alla Guardia di Ferro dell’anti-semita Corneliu Zelea Codreanu (attiva negli anni ‘30). Giovani, camicie nere o verdi, si considerano la più importante organizzazione neo-legionaria della Romania. «Vogliamo risvegliare le coscienze avvertendo dei pericoli che minacciano il popolo romeno», tuona il leader 30enne, Tudor Ionescu. L’opera di proselitismo si è allargata agli immigrati che vivono in Italia (Padova, Roma). Come quella dei partiti oltranzisti cresciuti nell’ex Jugoslavia. In Serbia e Croazia il "nostalgismo" per i vecchi leader nazional socialisti fautori della pulizia etnica si mischia all’insofferenza verso le lobby ebraiche. «Sono le zone balcaniche il laboratorio privilegiato dei nuovi nazisti - ragiona Saverio Ferrari, Osservatorio democratico sulle nuove destre - una cinghia di raccordo tra i movimenti dell’Europa occidentale e quelli dell’Est. I neofascisti italiani hanno rapporti intensi con le organizzazioni di questi paesi».
La Russia. Sarebbero oltre 50mila, secondo fonti di polizia, i militanti neonazisti attivi nell’ex impero sovietico. Solamente San Pietroburgo conta 20 mila skinhead. Autori di aggressioni contro cittadini stranieri, al grido di "la Russa ai russi". "Unità nazionale russa", "Gruppo socialismo nazionalista-potere bianco": sono le due sigle più importanti. Accanto ai picchiatori di Combat 18, quelli dei video coi pestaggi e le parate naziste su Youtube. Nel 2007 ne girò uno drammatico: neonazisti che decapitano un prigioniero caucasico ("negro", poiché originario del Caucaso). La firma: i nazionalsocialisti di "Rus" (termine usato dai neonazi per definire la madre patria). Altri partiti di riferimento sono il Partito nazionale del popolo (15mila militanti, la metà sotto i 22 anni) e il Partito liberal democratico di Vladimir Zhirinovsky, già vice presidente della Duma, il parlamento russo, costretto nel 2003 ad ammettere le sue origini ebraiche.
Fanno paura i Nazional socialisti di Konstantin Kasimovsky, riferimenti all’ideologia hitleriana, per simbolo una croce nera che richiama il labarum cristico (PX). Si sa che le gesta dei capi vengono sempre ammirate. In Inghilterra, dopo l’aggressione del leader del British national party Nick Griffin ai danni di un insegnante ebreo, è cresciuta l’intolleranza verso la popolazione di origine israeliana. Come in Francia, dove il Front national di Jean Marie Le Pen dopo la flessione seguita all’exploit elettorale del 2002 (17,79%), sta risalendo la china. In Spagna avanzano i neonazisti della Falange, che fanno breccia tra i giovanissimi. In Grecia Alleanza patriottica ha eletto il proprio leader in parlamento, e gli estremisti di Laos e Albadoro vogliono bissare l’edizione 2006 di Eurofest, una Woodstock neonazista. Poi ci sono quelli che non dissimulano. In Svezia sta tornando di moda il Partito del Reich nordico, fondato nel 1956 e ancora guidato dal battagliero Assar Oredsson. Scendendo a Sud, riecco gli oltranzisti austriaci del Bzoe di Jorg Haider, partito che ancora governa in Carinzia. Informative dei servizi tedeschi parlano di gruppi neonazisti attivi sul confine tra Austria e Germania. Meta di riferimento: Branau, la città natale di Hitler.
Infine l’Italia. Che non si fa mancare niente. Compreso un disciolto (da poco) Movimento dei lavoratori ispirato al Partito nazional socialista dei lavoratori (nel 2006 riuscì a far eleggere dei consiglieri nelle province di Varese, Como e Novara). Anche da noi l’arcipelago dell’estrema destra antimondialista è frammentato. Da una parte Forza Nuova (il leader Roberto Fiore è segretario generale del Fronte nazionale europeo, la casa comune dei partiti europei di estrema destra); dall’altra il circuito Casa Pound, che si ispira al poeta antisemita Ezra Pound. A Casa Pound aderisce anche Cuore nero, circolo neofascista milanese. Agosto 2008, copertina di "Doppio Malto", la fanzine ufficiale di Cuore nero: uno skinhead che brinda con un boccale di birra. Sullo sfondo, la "porta dell’inferno" del lager di Auschwitz. La scritta "Il lavoro rende liberi" - che allora era ancora al suo posto - fu sostituita da una più commerciale, e vergognosa, insegna. "Birrificio Cuore nero". A proposito.
Messaggio da Auschwitz 65 anni dopo *
Alcuni operai che lavoravano in un sito vicino al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau hanno trovato un messaggio in una bottiglia lasciato da un gruppo di prigionieri. Il testo, scritto a matita e datato 9 settembre 1944, contiene i nomi, il numero di matricola e le città d’origine di sette giovani internati (sei polacchi e un francese), almeno due dei quali-secondo fonti del museo di Auschwitz- sopravvissero.
La bottiglia era nascosta nel muro in calcestruzzo di una scuola che i prigionieri dovettero rafforzare. Gli edifici, a pochi centinaia di metri dal campo, erano stati utilizzati dai nazisti come magazzini. Secondo un portavoce del museo, gli autori della nota, tutti tra i 18 e i 20 anni, erano «giovani che tentarono di lasciare dietro di sè qualche traccia della loro esistenza». Solo ad Auschwitz, i nazisti uccisero oltre un milione di persone, in maggioranza ebrei e gitani.
* l’Unità, 28 aprile 2009
Al Quirinale consegna delle medaglie agli ex deportati o agli eredi
Incontri, proiezioni, letture, iniziative e manifestazioni in tutta Italia
27 gennaio, una Giornata per non dimenticare
Viaggi della memoria ad Auschwitz e Birkenau
Un giovane palestinese sul treno da Firenze: "L’uomo da quegli orrori non ha imparato"
di RITA CELI *
ROMA - Il 27 gennaio di 64 anni fa le avanguardie dell’Armata Rossa aprivano i cancelli di Auschwitz, liberando i pochi superstiti e mostrando al mondo gli orrori di un lager dove erano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici e prigionieri di guerra. Per non dimenticare la Shoah e le vittime innocenti uccise ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento domani, 27 gennaio, sarà celebrata la Giornata della memoria, istituita nel 2000 per ricordare - soprattutto ai giovani - i milioni di uomini, donne e bambini messi a morte dai nazisti. Numerose le iniziative, a cominciare dalla consegna al Quirinale delle medaglie agli ex deportati o agli eredi, per proseguire nel corso della giornata con concerti, proiezioni, testimonianze, conferenze, letture e manifestazioni in tutta Italia.
Quirinale, medaglie a ex deportati. Una cerimonia solenne al Quirinale apre la Giornata della memoria. Il sottosegretario Gianni Letta, a nome del governo, consegnerà medaglie d’onore ad alcuni ex deportati civili e militari che furono internati nei lager nazisti o ai loro eredi per onorare i sopravvissuti e le vittime di un dramma che coinvolse centinaia di migliaia di italiani (40mila civili e 650mila militari deportati: nove su dieci non fecero ritorno, 50mila i soldati uccisi nei campi di sterminio). Cerimonie analoghe si svolgeranno contemporaneamente in diverse città alla presenza delle autorità locali.
Convegno alla Camera. Alle 15 nella Sala della Lupa di Montecitorio si terrà il convegno "Memoria: dalle testimonianze dirette al museo della Shoah", aperto dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Interverranno: Gianni Alemanno, Piero Marrazzo, Nicola Zingaretti, Walter Veltroni, Renzo Gattegna, Leone Paserman, Goti Bauer, Marcello Pezzetti, Luca Zevi, Giorgio Maria Tamburini. Il convegno sarà anche l’occasione per presentare il progetto del Museo nazionale della Shoah, sulla via Nomentana a Roma, la cui inaugurazione è prevista per il 2011.
Il viaggio in treno da Milano. Oltre 900 giovani delle scuole superiori di Milano e della Lombardia hanno affrontato il lungo viaggio in treno dalla stazione Centrale di Milano fino a quella di Auschwitz. I ragazzi arrivati a destinazione sono rimasti in silenzio di fronte all’atrocità evocata dalla scritta "Arbeit Macht Frei" (il lavoro rende liberi) che ancora campeggia sul cancello d’ingresso del campo di sterminio nazista. Orrore amplificato davanti alle camere a gas, agli oggetti delle vittime, ai nomi e dopo la visita a Birkenau, dove i quattro forni crematori hanno funzionato a pieno ritmo fino agli ultimi giorni della guerra.
Sul treno anche gli studenti di Parma. Su uno dei due treni della memoria partiti da Milano, organizzati da Cgil, Cisl e dalla Provincia di Milano, tra gli oltre 1200 passeggeri sulla via per Auschwitz - tra cui 300 lavoratori e pensionati - anche un gruppo di studenti di Parma che hanno affidato a Parma-Repubblica.it il loro diario di viaggio corredato di foto e racconti. Un viaggio collettivo verso i campi di sterminio, dove sono previste visite, cerimonie, confronti organizzati con l’obiettivo di "formare nuovi testimoni".
Arabi e cristiani in viaggio da Firenze. Un treno della memoria è partito anche da Firenze, organizzato dalla Regione Toscana, con a bordo 800 persone tra studenti delle scuole superiori e giovani di diversi paesi che frequentano le università toscane. Una ragazza marocchina con il chador, un palestinese che studia a Firenze per diventare artista nella sua terra, un esponente della comunità rom. "Questo viaggio è importante per conoscere dal vivo i luoghi dove l’uomo ha commesso orrori, ma sono consapevole che l’uomo da quegli orrori non ha imparato" commenta Remzt, 22 anni, palestinese della città vecchia di Gerusalemme.
Gli appuntamenti in tv. Numerose le occasioni per ricordare la Giornata della memoria sul piccolo schermo, a cominciare da RaiTre che domani alle 11 trasmette in diretta la cerimonia dal salone dei Corazzieri del Quirinale. Questa sera Retequattro alle 23.20 propone il film tv Il processo di Norimberga. Sempre su RaiTre, questa sera a mezzanotte Linea notte ospiterà Anna Foam, autrice del libro Diaspora, storia degli ebrei nel ’900. Domani si comincia alle 8.05, ancora su RaiTre, con la seconda puntata de La storia siamo noi, dal titolo La soluzione finale, alla ricerca delle radici ideologiche e politiche della Shoah (mercoledì la terza parte). Sempre sulla terza rete Rai alle 13.10 va in onda Un treno per Auschwitz, il documentario di Carlo Lucarelli e Paola De Martiis dedicato al viaggio in treno di 600 studenti da Carpi al lager. RaiUno alle 14.10 ripropone la fiction Exodus - Il sogno di Ada, protagonista Monica Guerritore, dedicata alla storia di Ada Sereni che ha dedicato la sua vita a organizzare l’espatrio di migliaia di ebrei verso la Palestina. Nell’arco della giornata Rainews 24 propone interviste a scrittori, storici, testimoni, sopravvissuti e l’inchiesta esclusiva Bombardate Auschwitz: l’ordine che non fu dato. Sempre domani Retequattro trasmette alle 21.10 Il pianista, il film di Roman Polanski con Adrien Brody, il musicista la cui vita fu sconvolta dalla guerra e dall’invasione nazista. Sky Cinema 1, invece, ricorda lo sterminio trasmettendo in esclusiva alle 21 il film Il diario di Anna Frank, una recente trasposizione del celebre diario.
Roma, le iniziative alla Casa della memoria. Proiezioni di film, documentari, testimonianze e interviste, conferenze, letture e presentazioni di libri organizzati alla Casa della memoria e della storia, a Roma. Domani dalle 11 alle 24 nel locale Qube, appuntamento con La memoria degli altri - Il giallo e il rosa. Shoah e Homocaust, due genetiche per uno sterminio, evento ideato da Davide Pavoncello per ricordare le discriminazioni e persecuzioni che ebrei e omosessuali subirono durante il nazismo. Al Complesso del Vittoriano alle 17 il ministro per i Beni e le attività culturali, Sandro Bondi, interverrà all’iniziativa promossa dal suo ministero che prevede lettura di brani sulla Shoah da parte di alcuni studenti delle scuole medie superiori, con l’intervento di Paola Pitagora, e la presentazione del volume Il libro della Shoah italiana di Marcello Pezzetti, coordinata da Bruno Vespa con gli interventi dell’autore, del ministro Bondi e di quello dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, del sottosegretario Carlo Giovanardi e dei rappresentanti delle comunità ebraiche italiane.
Venezia, un mese per non dimenticare. Anche quest’anno Venezia celebra la ricorrenza della Giornata della memoria scegliendo di promuovere molteplici appuntamenti distribuiti nell’arco di un mese, sostenendo occasioni di approfondimento culturale e iniziative d’arte e spettacolo sensibili ai valori di una "memoria condivisa" da non rimuovere, specie nei suoi capitoli meno conosciuti come la persecuzione nazista dei disabili, degli zingari, degli omosessuali e degli oppositori politici. Spicca la presenza di Moni Ovadia, che ha dato il via a una serie di eventi al teatro Goldoni tra cui la prima del suo ultimo lavoro teatrale Senza confini, ebrei e zingari. Tra le iniziative più toccanti la Fiaccolata delle memoria, la silenziosa marcia che partirà domani da Chirignago, in terra ferma, e sarà accompagnata dalle testimonianze di coloro che allo sterminio nazista sono sopravvissuti.
Cuneo, Bob Geldof in concerto. Incontri culturali, momenti di confronto e di riflessione a Cuneo. Nella mattinata di martedì, alle 12, in prefettura consegna delle medaglie d’onore ai deportati nei lager nazisti. Alle 16.30 dalla sinagoga di Contrada Mondovì partirà un trekking della memoria, con tappe al monumento alla Resistenza, al santuario degli Angeli e poi a Borgo San Dalmazzo dove centinaia di lumini ricordano le vittime della Shoah al Memoriale della deportazione, nei pressi della stazione ferroviaria. Alle 21 al teatro Toselli l’ottava edizione del Concerto della memoria con Bob Geldof, artista già candidato al premio Nobel per la pace e organizzatore di grandi eventi mondiali come il Live Aid e il Live 8.
Trieste ricorda dalla Risiera di San Sabba. A Trieste la giornata del 27 gennaio si apre alle 9.30 con la marcia silenziosa degli ex deportati dalle carceri del Coroneo alla Stazione centrale, dove sarà deposta una corona del Comune a ricordo della partenza dei convogli verso i campi nazisti. Alle 11 alla Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio sul territorio italiano, si svolgerà la cerimonia solenne mentre tre esposizioni approfondiranno le storie legate alle deportazioni nazifasciste: le opere di Mario Moretti, militare italiano deportato dal 1943 al 1945 in Polonia e Germania, una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia e una sul diario di Nicolò Chiucchi, cittadino istriano deportato a Dachau.
In Toscana spettacoli e riflessioni. Un nuovo museo per la documentazione, canti sacri, spettacoli teatrali e momenti di riflessione sono le iniziative organizzate in Toscana. A Prato domani sera è in programma nella chiesa di Lammari a Capannori il concerto di Antonella Ruggiero dedicato alla musica ebraica. Massa celebrerà il giorno della memoria con una seduta solenne del Consiglio Regionale nel Palazzo Ducale. Le scuole di Chiusi (Siena) saranno invece coinvolte in incontri con un sopravvissuto di un lager, Bruno Toppi, e assisteranno anche alla proiezione del film Il bambino col pigiama a righe. A Firenze il tradizionale concerto del 27 gennaio organizzato dal Maggio Musicale fiorentino sarà dedicato quest’anno alla "notte dei cristalli". Durante il concerto, in programma al Piccolo teatro del Maggio, saranno proiettati filmati e foto d’epoca con l’obiettivo di proporre una riflessione sul tema.
Bologna, teatro e commemorazioni. Deposizioni di corone, incontri musicali, tavole rotonde, spettacoli teatrali e consigli congiunti di Comuni e Province sono in programma in tutta l’Emilia Romagna. A Bologna le celebrazioni si aprono al Museo ebraico con l’inaugurazione della mostra Carlo Levi - Il prezzo della libertà. Al quartiere San Donato, invece, andranno in scena gli spettacoli teatrali ispirati al saggio di Hannah Arendt La banalità del male replicati nei licei Copernico, Minghetti e Galvani. Martedì saranno deposte delle corone davanti alle lapide presso lo stadio Dall’Ara in memoria di Arpad Weisz, atleta ebreo morto ad Auschwitz che fu allenatore del Bologna negli anni Trenta, al monumento dei martiti in piazza Nettuno, al cippo dei caduti in Certosa, alla lapide davanti alla Sinagoga e ai monumenti ai deportati omosessuali e zingari, uccisi dai nazi-fascisti.
Genova ricorda vittime omosessuali. In occasione della Giornata della memoria il programma di iniziative del Comitato Genova Pride presenta nella sala espositiva della Regione Liguria la mostra interattiva Omocausto, organizzata dal Gruppo Giovani del comitato Arcigay L’Approdo.
Le iniziative in Puglia. Numerose le iniziative in Puglia, a cominciare dalla consegna, domani mattina in prefettura a Bari, delle medaglie d’onore ai cittadini italiani, civili e militari, deportati e internati nei lager nazisti. Il Piccinniensemble con la direzione del maestro Valfrido Ferrari, terrà un concerto a Santeramo in colle. A Foggia la Città del cinema ha curato la proiezione, domani mattina, del film Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman.
L’università della Calabria. "Toccare, vedere, sentire: comprendere l’altro", questo il tema scelto dall’Università della Calabria con un nutrito programma di iniziative organizzate con il Conservatorio Giacomantonio di Cosenza, con la fondazione Ferramonti che prevede una visita al Campo di concentramento di Tarsia, e con il Movimento delle donne e l’Arcigay.
* la Repubblica, 26 gennaio 2009 - ripresa parziale.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
Diversità e Sicurezza Culturale
Una risorsa contro l’Antisemitismo e il Razzismo
SHOAH E FALCE E MARTELLO
Non dimentichiamo di dire la verità ai nostri studenti al di fuori di meschini intenti demagogici
Qualcuno, durante la visita al campo di sterminio di Auschwitz, ha proposto di eliminare il simbolo della falce e martello dal Padiglione Italiano e ha sostenuto che in quel monumento si è utilizzato l’orrore del nazismo per coprire il comunismo e usare la falce e martello come simbolo positivo. Chi ha detto questo ha insultato le stesse vittime che è andato ad onorare fra cui gli autori di quel monumento.
Chiariamo subito un punto: la falce e martello e un simbolo positivo e non c’e da scandalizzarsi. Può darsi che la proposta di eliminare i simboli del comunismo o dei regimi totalitari sia pienamente giustificata dalla storia ma in ogni caso tutto questo non ha nulla a che vedere con Auschwitz, con lo sterminio degli Ebrei, con la Shoah e il prezzo da pagare per manipolare la storia sono demagogia e opportunismo.
La falce e martello e il simbolo del movimento operaio e della classe lavoratrice e rappresenta l’unita tra i lavoratori agricoli e industriali. Fu condiviso dalle organizzazioni socialiste e comuniste anche ebraiche e sioniste ed e stato per molti sinonimo di liberazione. La falce e martello e stato il simbolo del socialismo e del comunismo divenendo emblema dei partiti politici e, più tardi, dei paesi del socialismo reale. La falce e martello e rappresentata in numerosi altri simboli ancora vigenti, come ad esempio la bandiera di stato austriaca.
Ma, in particolare ad Auschwitz, la falce e martello ricorda l’Armata Rossa che ha liberato il campo il 27 gennaio del 1945, data oggi celebrata ogni anno come Giornata della Memoria; la falce e martello è anche il simbolo delle donne e degli uomini, comunisti e socialisti, che sono stati perseguitati politici dai nazi-fascisti e sono morti nei campi; la falce e martello ricorda anche i 20 milioni di morti russi che hanno combattuto contro i nazi-fascisti.
E’ inaccettabile fare della falsa ideologia in un luogo della memoria o raffrontare con faciloneria il nazismo al comunismo e non e vero che la memoria appartiene a tutti gli schieramenti politici perché appartiene ad un solo schieramento: ad Auschwitz esiste la memoria dei perseguitati che ricorda le vittime massacrate e la memoria dei persecutori che ricorda cristiani, fascisti e nazisti con i rispettivi simboli della croce, della croce celtica e della croce uncinata. Queste semplici e veritiere considerazioni non hanno niente a che vedere con gli schieramenti ideologici o politici attuali.
Ad Auschwitz la falce e martello rappresenta, volente o nolente, la liberazione e i liberatori e, ad onore di verità, invece di eliminare falce e martello, come qualcuno ha suggerito, bisognerebbe rimuovere le croci, incomparabile simbolo della persecuzione antiebraica in tutti i secoli.
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
gherush92@gherush92.com
Segue un brano di Primo Levi da La Tregua:
Il disgelo
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi e lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidita dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Cosi per noi anche l’ora della liberta suono grave e chiusa, e ci riempi gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piu sarebbe potuto avvenire di cosi buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed e questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa e una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volonta di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Percio pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.
Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi.
Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un «triangolo rosso», un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i «politici» tedeschi erano assai raramente ospiti dell’infermeria, in cui d’altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l’unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria.
Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall’arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia. Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gemelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato. Arthur per l’ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto «vieux dégoutant» e «putain de boche»; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorita, aveva preso l’abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l’unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l’unico situato nelle vicinanze di una stufa.
Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalita del Lager, altre sfumature non c’erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosita né l’occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di liberta.Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla liberta ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte.
Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.
...
Il mattino ci portò i primi segni di liberta. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggi come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pieta e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunzio che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e la per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e meta della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima liberta, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «Il lavoro rende liberi».
L’INTERVISTA Parla lo storico Korn leader della comunità ebraica tedesca
"Rubarci la Storia il crimine più grave"
di ANDREA TARQUINI (la Repubblica,11.12. 2006)
BERLINO - La conferenza di Teheran minaccia di rafforzare in tutto il mondo il revisionismo storico e correnti antisemite. Lo dice Salomon Korn, vicepresidente della comunità ebraica tedesca, autore di libri sulla storia contemporanea dell’ebraismo.
Quanto è pericolosa l’iniziativa di Ahmadinejad?
«Il pericolo del revisionismo è più vecchio di Ahmadinejad. Le persone bene informate non saranno influenzate dalla conferenza. Ma il pericolo è un altro. C’è una tendenza generale a storicizzare l’Olocausto: ridurlo a un Passato che non ha un ruolo e un’influenza nel presente. Una conferenza del genere, organizzata per la prima volta da uno Stato membro delle Nazioni Unite, può rafforzare molto questa tendenza».
Quanto sono pericolosi questi circoli, il movimento revisionista?
«E’ piuttosto pericoloso. Perché quanto più il 1945 si allontana nel tempo e nella memoria, tanto più cresce e si diffonde questa tendenza».
Quanto è vasto il movimento revisionista?
«E’ più vasto e diffuso di quanto non ci si immagini. Sfugge alle statistiche. Se in Europa in media l’antisemitismo coinvolge il 20 per cento della popolazione, vuol dire che correnti sottocutanee si muovono negli animi e nelle nostre società. C’è gente specie in Germania e negli ex paesi che collaborarono con la Germania che non vuole più sentir discutere dell’Olocausto perché per loro è imbarazzante. Magari parenti furono coinvolti. Oppure quella memoria disturba il nazionalismo. Si produce cioè un antisemitismo che nasce dal rifiuto del peso del senso di colpa. Sentimenti incoraggiati dall’iniziativa di Ahmadinejad».
Chi finanzia il movimento revisionista?
«Ci sono molti finanziatori. E quando partiti neonazisti entrano in parlamenti anche regionali, come la Npd in Germania, incassano i contributi pubblici. Flussi di denaro esistono ovunque: Europa, Usa, Medio Oriente. Ma il tema del momento è un altro. Il fatto che Ahmadinejad ormai agisce secondo il classico modello dell’antisemitismo. Prima si toglie agli ebrei la dignità, poi le loro proprietà, poi la loro esistenza di esseri umani. Lui con la conferenza sta compiendo un passo in più: togliere agli ebrei la loro Storia. Nessun antisemita lo aveva mai fatto».
Come nasce il revisionismo?
«Dalla diffusa voglia di sentirsi popolo superiore, popolo eletto. Fu tipica del nazionalismo tedesco ma non solo. E’un trend generale e pericoloso».
Il pericolo è maggiore in Germania o altrove?
«Più forte è la democrazia, minore è il pericolo. La Germania nell’insieme è una stabile democrazia. Ma ha un grosso problema storico: negli ultimi secoli ha subìto almeno sei catastrofi storiche - dal 1806 alla fine dell’Impero nel 1918, dalla fine di Weimar, alla catastrofe del Terzo Reich, alla divisione del paese dopo il 1945. Scosse che hanno impedito alla coscienza nazionale di svilupparsi».
Per negare la Shoah
di Furio Colombo *
Sappiamo tutti ciò che sta avvenendo in questi giorni a Teheran. Sotto la finzione grottesca del convegno universitario, si è aperto un processo alla Shoah. Il presidente della Repubblica dell’Iran, Ahmadinejad, ha già anticipato il senso di ciò che sta accadendo, dunque ha già fatto circolare la velina della sentenza che attende di avere: la Shoah è un’invenzione della cultura europea, succube del complotto ebraico.
Avevano bisogno di un grande pretesto per occupare la Palestina e lo hanno inventato, con la consueta malevola astuzia. La stessa dei Protocolli dei Savi di Sion, la stessa del sangue dei bambini cristiani da essi versato (nella interpretazione di Ahmadinejad si tratta di sangue islamico). La stessa del deicidio. È molto importante ciò che sta per accadere a Teheran. Perché fa venire brutalmente alla luce ciò che si dice e non si dice, si pensa ma si nega, oppure inquina - non notato, come una fonte infetta - la persuasione di molti che credono di discutere di politica ma non sanno su quali fondamenta appoggiano le loro riflessioni, o antagonismi, o proteste.
Quando il tema è Israele, in tanti parlano di occupazione da sessant’anni, mostrando così di considerare occupazione anche la terra assegnata dall’Onu al nascente Stato degli Ebrei, mostrando di considerare la data della fondazione di quello Stato come l’inizio di un potere usurpato.
Quando la discussione è sulla difesa di Israele, sui modi in cui tenta di tener testa al terrorismo e alla ostilità che lo circonda, due riferimenti tornano spesso: i perseguitati sono diventati persecutori. E anche: la persecuzione (ovvero la Shoah) non è una buona ragione per occupare la terra degli altri. In altre parole, per quanto sia stata grave, la Shoah è una tragedia che riguarda l’Europa e non la Palestina. L’obiezione sulla indifferenza che rasenta l’antisemitismo o lo rappresenta, viene sdegnosamente respinto dicendo che in questi casi non si parla di ebrei. Si parla di Israele e di Israeliani.
Agli Israeliani si imputano delitti che sono tutti nella tradizione antica e profonda del pregiudizio che rende costantemente speciali le colpe degli ebrei.
Muoiono purtroppo bambini in tutte le guerre. Ma i bambini vittime delle azioni militari israeliane sono esibiti in televisione, corpicino per corpicino, in insopportabili sequenze come non avviene per il Darfur (duecentomila bambini fra le vittime di un immenso genocidio, molti sepolti vivi, in due anni), come non avviene per tutti gli altri conflitti che disgraziatamente insanguinano il mondo.
Gli iracheni restano «resistenti» anche quando fanno saltare uno scuolabus, una intera scuola o fanno strage di intere famiglie per ragioni religiose. Rapide sequenze mostrano i piccoli cadaveri sotto mucchi di coperte e lenzuola insanguinate. In Libano le vittime dei soldati israeliani venivano mostrate scoperte, bambino per bambino, come se fossero stati colpiti uno per uno, di proposito.
Le vittime di Israele sono poveri. Israele (come tutti gli ebrei) è ricco e non solo occupa, ma domina e sfrutta. In questo modo viene cancellato l’immenso potere del petrolio (e delle armi) di Iran e Arabia Saudita, oltre al sostegno militare della Siria che, attraverso Hezbollah, sta lavorando a riconquistare il controllo del Libano. Costi quello che costi, in vite umane, il controllo del Libano da parte di Hezbollah e della Siria, con illimitati fondi iraniani, è il normale susseguirsi dei drammi quotidiani che accadono dovunque nel mondo. Invece Israele se sta fermo occupa. Se si muove è un arrogante conquistatore. Se reagisce a migliaia di missili le cui rampe sono state disseminate dovunque vi siano donne e bambini, è assassino. Se erige un muro contro le stragi nelle sue strade, è «apartheid» e «muro della vergogna», benché da allora non vi siano più state stragi.
Quando una nonna o un bambino imbottiti di tritolo cercano di passare a un «check point» israeliano (il bambino per fortuna si è salvato) si tratta di notizie drammatiche ma isolate. Nessuno le usa per far capire perché i «check point» israeliani siano così tanti, così lenti e - fatalmente - così odiosi per tanti pacifici palestinesi, che stanno soltanto andando a scuola o al lavoro. A nessuno viene in mente che, come i libanesi, ogni giorno vengono mandati a fare da scudi umani.
Ieri a Gaza tre bambini sono stati uccisi come vendetta trasversale di Hamas contro uno dei collaboratori chiave di Abu Mazen, il presidente palestinese. È un evento terribile perché non è guerra, e non è errore imperdonabile. È assassinio. Un assassinio deliberato di bambini. Ma è una notizia breve, senza corpi esibiti, parte di vicende della turbolenta vita quotidiana. Non sono stati gli israeliani a uccidere quei bambini.
Adesso, con la sua iniziativa, Ahmadinejad ha tolto di mezzo ogni possibilità di dividere un argomento dall’altro: gli israeliani sono fuori posto perché sono ebrei, sono occupanti perché hanno creato un complotto e sono nemici perché gli ebrei tentano da sempre di prendere il controllo del mondo.
Interessante apprendere che tra i partecipanti di Teheran c’è un signore americano di nome David Duke. È stato "Grand Wizard" (capo supremo) del Ku Klux Klan (la storica organizzazione del razzismo americano che combatte i neri e gli ebrei). Duke, negli anni Ottanta, ha tentato di farsi eleggere senatore nelle file del partito repubblicano.
Ma l’America, neppure ai tempi di Ronald Reagan, era il posto in cui un personaggio (che avrebbe sfilato fra gli applausi con la bandiera celtica il 2 dicembre per Berlusconi) può schierarsi insieme alla destra. La destra lo ha rifiutato benché fosse in testa ai sondaggi del suo Stato. E ha preferito perdere contro un candidato democratico e antirazzista. Bene, Duke sarà a Teheran per discutere di Shoah e di diritto degli ebrei ad avere il proprio Stato fondato dalle Nazioni Unite. È bene forse non dimenticare che il Ku Klux Klan e il fondamentalismo cristiano americano considerano le Nazioni Unite uno strumento dell’ebraismo nel mondo.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.12.06 Modificato il: 12.12.06 alle ore 13.01
Forti critiche al presidente Ahmadineja anche dall’interno. Diversi esponenti riformisti appoggiano la protesta degli studenti
Vaticano condanna la conferenza sulla Shoah "L’Olocausto fu una immane tragedia"
Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema: "E’ una cosa inqualificabile" *
ROMA - "La Shoah è stata una immane tragedia, dinanzi la quale non si può restare indifferenti. Il ricordo di quei terribili fatti deve rimanere un monito per le coscienze, al fine di eliminare i conflitti". Il Vaticano si schiera nettamente contro la conferenza sull’Olocausto che si sta tenendo a Teheran e che ha l’obiettivo di dare ampio risalto alle tesi negazioniste della Shoah. E la posizione della Santa Sede trova sponda anche nel governo italiano e quello inglese.
D’Alema: "Cosa inqualificabile". Il vice premier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha definito oggi la conferenza sull’Olocausto organizzata a Teheran dal presidente iraniano Ahmadinejad "Una cosa inqualificabile".
Blair all’attacco. "Incredibilmente scioccante". Così il premier inglese Tony Blair definisce la conferenza. L’Iran rappresenta una "significativa minaccia strategica" per tutto il Medioriente, dice Blair.
Merkel: "Non accetteremo mai".’’Respingiamo con la piu’ grande fermezza’’ commenta il cancelliere tedesco Angela nel corso di una conferenza stampa congiunta a Berlino con il Primo ministro israeliano Ehud Olmert. ’’La Germania non accettera’ mai’’ questo tipo di avvenimenti, ha aggiunto il cancelliere tedesco.
I riformisti iraniani. Tra ieri e oggi il presidente iraniano ha ricevuto anche contestazioni dall’interno. Ieri la protesta degli studenti, una reazione al fatto che "non possono più parlare", ha commentato oggi Mohsen Mirdamadi, segretario del Mosharekat, il maggiore raggruppamento riformista iraniano. "Condanniamo gli insulti al presidente", ha tenuto a sottolineare Mirdamadi, citato oggi dalla stampa, mettendo però l’accento sul fatto che "nell’ultimo anno e mezzo", cioè da quando Ahmadinejad è diventato presidente, "gli studenti non hanno una tribuna" per esprimere le loro idee. E questa è l’analisi che accomuna anche diversi altri esponenti politici e giornali riformisti sull’episodio di ieri.
Per le stesse ragioni un altro dirigente del Mosharekat, Ali Shakurirad, dalle colonne del quotidiano riformista Etemad afferma che le contestazioni di ieri "non erano inaspettate" e aggiunge che "la politica e i metodi del governo di Ahmadinejad meritano una protesta civile", anche se con modi diversi. In un editoriale un altro giornale riformista, Etamad Melli, definisce la protesta di ieri "un campanello d’allarme" per il presidente, al quale "si oppongono molti intellettuali, giornalisti e politici".
* la Repubblica, 12 dicembre 2006.