Un incontro e un dialogo:
Come ti chiami?
Gesù.
Gesù?!
E di "Chi" sei figlio?
Sono figlio dell’Amore di Maria e di Giuseppe.
Ma chi ha deciso di chiamarti così?
Il mio papà, Giuseppe [Mt. 1, 21-25!!!].
Cosa significa il tuo Nome?
Significa “Amore salva”, cioè
che l’Amore di due persone,
Maria e Giuseppe, mi ha salvato!
E’ bellissimo!Bene! Grazie e buona giornata!
Buona giornata!
GESU’:
E VOI "CHI" DITE CHE "IO SONO"?!
ET VOUS QUI DITES-VOUS QUE JE SUIS?!
Pietro:
"Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivo"
GESU’:
"Beato sei tu, Simone figlio di Giona, poiché non è la carne né il sangue che ti hanno fatto questa rivelazione, ma il Padre mio che sta nei cieli" - AMORE (Agape, Charitas).
O AMORE,
SPIRITO SANTO,
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
GESU’:
E TU "CHI" DICI CHE IO SONO?
IO: "JE SUiS ... "CHRETIEN" - Io sono ... christiano, non "CRETIN"O ... e non "cattolico- romano"!!! Non sono un figlio di "mammasantissima"!!! Il tuo messaggio è un buon-messaggio (eu-angélo) per me, per mia madre "Maria" e mio padre "Giuseppe", e per tutto il mio prossimo, non un messaggio (V-angélo) - venduto a "caro-prezzo" ("caritas") - di Violenza e di Vittoria su mio padre "Giuseppe" e su tutto il prossimo, considerato un nemico, da van-gelizzare e mandare all’inferno: Va-n-gélo!!!
Federico La Sala
Perche’ non possiamo non dirci "cristiani", e non cretini!!! Lettera a L’Unità
di Federico La Sala *
Caro Direttore
devo dirlo (e spero che la cosa sia accolta con attenzione) ma anche sul sillogismo di Pera ( «La separazione fra Stato e religione non può essere una cesura [dunque non ci può essere separazione, ndr]. Lo Stato moderno e democratico si fonda sempre su principi etici. Dunque i valori cristiani non possono essere relegati in un ghetto. Ciò spiega ciò che è capitato a Rocco Buttiglione» Marcello Pera, Presidente del Senato, 15 ottobre), l’Unità ha preso un’altra cantonata. Pera sbaglia (come Buttiglione), ma il ragionamento non è sbagliato - ci rifletta tre secondi!
Il problema esiste (e togliamo il monopolio del tema ai gerarchi degli integralisti di tutto il mondo - basta con la colonizzazione del cielo, anche in senso metaforico)! Già dall’ ’89 (tanto per porre un termine), il confine tra Stato e religione era saltato.... e noi continuiamo a non capire! La Svolta di Salerno era su questa strada ... e ne sapeva di più Togliatti e il vecchio Pci!
Se vogliamo che la democrazia viva non possiamo non ripensare la questione di "Dio" e - oltre Croce - non possiamo non dirci "cristiani", non cretini! E’ in gioco l’idea stessa di cittadino sovrano e cittadina sovrana!
Basta con l’opposizione speculare e la dipendenza dalla Chiesa Cattolica! Riprendere la strada di Kant e del coraggio di pensare: usciamo dallo stato di minorità ... e del risentimento!
Nessun essere umano sulla Terra è senza "padre" e senza "madre"(non accechiamoci - ricordiamo Edipo e Freud!!!) - tutti e tutte siamo figli e figlie dell’ Unità e dell’Unione di due esseri umani sia sul piano biologico (e la famiglia non è - riduttivamente - una "società naturale", come continua a predicare il Papa e la Chiesa cattolica Romana!) sia (cosa ancor più decisiva) sul piano culturale (= costituzionale!!!). Ripartiamo da qui.... e ricominciamo a contare!!!
*IL DIALOGO, Mercoledì, 20 ottobre 2004
LASCIATEMI ANDARE ANCHE QUESTO E’ AMORE!!!
Sulla "risposta", per approfondimenti, sul sito, cfr.:
DEPORRE LE ARMI. UNA LETTERA DEL 2002
LA LINGUA D’AMORE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI E LA COSTITUZIONE.
BASTA CON LA "MALA-EDUCAZIONE"!!!
"DEUS CARITAS EST". RETTIFICARE I NOMI
L’EU-ANGELO E’ LA PAROLA DELLA PACE E PER LA PACE ... NON PER LA GUERRA E LE CROCIATE!!!
DONNE, UOMINI, E VIOLENZA. PARLIAMO DI "FEMMINICIDIO".
IL PROGRAMMA DI KANT. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
"NUOVA ALLEANZA"?!: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una "sana laicità", un sano cristianesimo!!!
Federico La Sala
Da Helsinki il presidente lamenta la scarsa sensibilità verso la nostra Carta
e verso quella europea. E poi dice: "L’Italia ha bisogno della crescita"
Napolitano: "In Italia non tutti
si identificano nella Costituzione" *
HELSINKI - "Da noi c’è chi non si identifica nella Costituzione": lo ha detto, oggi, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla conferenza stampa che ha chiuso la sua trasferta di due giorni in Finlandia. Parlando della situazione del nostro Paese, il capo dello Stato ha anche detto che "serve un grande sforzo per rilanciare la crescita".
Ecco il ragionamento di Napolitano: "Credo che in Italia - ha detto - sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona". Il presidente lo ha dichiarato rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c’è in vari paesi europei, rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea, come strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazifascismo.
Sulla necessità di una ripresa della crescita economica, il capo dello Stato ha spiegato che "è essenziale puntare su fattori fondamentali come la debolezza della capacità di concentrarsi sulla ricerca e la formazione. E’ una questione che deve essere affrontata anche dalle politiche pubbliche".
Napolitano ha poi espresso "non solo un sentimento di solidarietà al giudice Giacomo Montalbano (la cui villa è stata bersaglio di un’attentato incendiario, ndr) ma una riaffermazione dell’importanza dell’impegno di tutti magistrati che, come lui, lottano per l’impegno alla legalità anche con sacrificio personale e gravi rischi". Convinzioni, queste, da lui riportate anche al procuratore antimafia Piero Grasso, che ha incontrato proprio nella capitale finlandese.
* la Repubblica, 10 settembre 2008.
Democrazia e fascismo ai tempi della destra
di Ezio Mauro (la Repubblica, 10.09.2008)
NON c’è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.
Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l’unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.
Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l’identità della destra dopo 14 anni, l’esaltazione dell’eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all’errore dell’innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l’aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell’arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d’ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient’affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.
È facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.
Nell’immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L’orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell’assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato.
Perché se non c’è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel ’25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l’elitismo da un lato e il razzismo dall’altro, e dunque si può separare - come appunto fa Alemanno - l’esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l’"anticiviltà".
Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel ’38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l’orrore supremo dell’Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall’assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell’anniversario, ottant’anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l’ordine di ammazzare un deputato d’opposizione.
Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un’autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia - a partire dalla Resistenza - come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione.
La seconda è il limite naturale del berlusconismo - una specie di autismo politico - che concepisce la sua grandezza nell’edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com’è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora - naturalmente a senso unico - anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.
Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c’è, ma nella prassi di governo della destra.
È come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa. Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos’è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.
Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. È ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune - con i suoi pregiudizi - si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.
Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c’era un sentimento civile condiviso: un’"idea comune della democrazia". È’ ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c’è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà. Da un lato c’è un’idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall’altro lato c’è l’idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l’eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.
Ce n’è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell’irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l’istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l’orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo.
Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall’altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all’intero Paese? Non solo: quell’idea comune della democrazia - che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell’identità civile del Paese - non si può declinare e costruire già dall’opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?
di Gian Antonio Stella(Corriere della Sera, 10.09.2008)
Ignazio La Russa ha mai sentito parlare di Hans Schmidt? Se conoscesse la sua storia, forse ci andrebbe più cauto, prima di stupirsi per le polemiche sul suo omaggio ai soldati di Salò e di lagnarsi di «una forma di razzismo culturale» che impedirebbe addirittura di parlare (bum!) a chi è di destra. Alberto Asor Rosa, anni fa, spiegò benissimo le cose: «Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, chè di queste non ce ne sono. Non ce ne importa nulla che i bravi "ragazzi di Salò" non sapessero cosa difendevano, insieme con l’onore della patria. Capita, talvolta, nella storia di trovarsi dalla parte sbagliata».
In quel 1944 in cui i repubblichini affiggevano sui muri manifesti grondanti di croci uncinate («Arruolatevi nella legione SS italiana. L’Italia si riscatta solo con le armi in pugno» oppure «Operai italiani arruolatevi! La grande Germania vi proteggerà! »), Schmidt morì nel nome della democrazia, della libertà, della resurrezione dell’Italia occupata dai nazisti.
Hans era un giovane di trent’anni di Treptow-Köpenick, un municipio berlinese e aveva militato giovanissimo nel partito operaio socialista e socialista era rimasto. Sua moglie si chiamava Else, la figlioletta Eva. I nazisti ne diffidavano. Ma ormai, a guerra persa, mettevano in divisa tutti.
Arruolato come marconista, nel 1944 era a Albinea, a una decina di chilometri da Reggio Emilia, dove l’esercito hitleriano aveva un centro di trasmissioni. Fin dal primo giorno, quel ragazzo che portava il più tedesco di tutti i nomi tedeschi, non aveva avuto dubbi sulla parte con cui stare. Era riuscito a mettersi in contatto con i partigiani italiani, aveva passato loro armi, munizioni, informazioni. Finché, nell’agosto di quel penultimo anno di guerra, aveva messo a punto con altri quattro soldati anti-nazisti un piano per consegnare la postazione militare alla Resistenza.
Non si sa chi li tradì. Fatto sta che poche ore prima del colpo di mano, Hans Schmidt, Erwin Bucher, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Martin Koch furono arrestati. Hans ed Erwin furono torturati per ore e ore prima di essere finiti con una pistolettata in faccia. I loro amici vennero fucilati. «La domenica del 27 agosto fu una giornata silenziosa», avrebbe raccontato don Alberto Ugoletti, parroco di Albinea, «Nessuno poteva avvicinarsi al Comando. Si tendevano le orecchie, si guardava... Alle sei e mezzo del pomeriggio si udirono tre scariche di mitraglia. (...) Scendevano le tenebre quando si posero i cadaveri nella fossa. Prima di ritirarmi mi sono avvicinato al comandante chiedendo se potevo avere i nomi. Mi rispose seccamente di no. Uscendo un soldato mi si avvicinò: domattina ritorni sulla tomba e sotto le zolle troverà dei biglietti col nome. Sono figli di un dio ignoto, prete». Così morì, insieme coi suoi amici, Hans Schmidt.
Il «nostro » Hans Schmidt. In tutta la guerra non aveva sparato un colpo. Un po’ dell’onore tedesco, però, lo salvò lui. E a nessun ministro della difesa di Berlino verrebbe mai in mente di onorare chi, pensando di difendere la Germania, lo torturò a morte.
Dio ha disprezzato il tempio, la chiesa ha moltiplicato le cattedrali.
di Agenzia ADISTA n. 62 del 13/09/2008
La “provocazione fraterna” del vescovo Balduino *
DOC-2032. GOIANIA-ADISTA. Gli antichi profeti lo proclamavano con forza e Gesù lo ha ribadito in più di un’occasione: costruire templi non è gradito a Dio. Ma la Chiesa non ha dato loro ascolto, né ha seguito i suggerimenti e gli esempi dei moderni profeti, primo fra tutti quel dom Helder Câmara che, oltre a scegliere come propria cattedra le comunità della periferia, non esitò a scrivere al papa consigliandogli di abbandonare il Vaticano (v. documento successivo). Oggi è un’altra grande figura profetica, il vescovo emerito di Goiás dom Tomás Balduino, a ricordare la vera funzione del tempio, “simbolo e sacramento della comunità viva” e non “strumento del potere clericale o episcopale, costruito con gli stessi criteri dei templi che anticamente legittimavano il dominio dei potenti del mondo”. Una “provocazione profetica”, come la definisce dom Tomás, rivolta ai vescovi della regione del Centro-Ovest del Brasile, in occasione del trasferimento della cattedrale di Goiânia in una nuova grandiosa costruzione in un luogo di difficile accesso per il popolo.
Di seguito il suo intervento, in una nostra traduzione dal portoghese. (c. f.)
IL CAMMINO DELLA PICCOLEZZA
di Tomás Balduino
Cari fratelli nell’episcopato dell’assemblea regionale del Centro-Ovest,
la pace del Signore sia con voi!
Permettetemi di presentarvi alcune mie riflessioni condivise con altri colleghi. Si tratta della nostra concezione di chiesa e, in particolare, di cattedrale. Sono stato sollecitato soprattutto dal fatto che la cattedrale di Goiânia verrà trasferita in una costruzione vicina all’attuale Palazzo municipale (...), in un luogo di difficile accesso e distante dal popolo. Sarà una cattedrale tipo monumento moderno, simile a quella di Brasilia (...). Perlomeno, le cosiddette cattedrali della Chiesa Universale del Regno di Dio, anch’esse grandiose costruzioni, sono ben vicine al popolo e si riempiono di gente. Cosa pensare, allora, delle nostre chiese? Anche questo fa parte della nostra responsabilità pastorale.
1. Il sacramento del Tempio nella Bibbia
Il Signore ci ha trasmesso un insegnamento ben preciso riguardo al tempio. Mentre le nazioni vicine al popolo di Israele avevano tutte il proprio tempio, i profeti del Signore dicevano che Dio non lo voleva. Dio voleva accamparsi con il suo popolo nomade. Costruire un tempio sarebbe stato come tradire questo cammino di Dio con il suo popolo. Persino quando il re Davide volle innalzare un tempio, il Signore inviò il profeta Natan a dirgli: “Ma io non ho abitato in una casa da quando ho fatto uscire gli Israeliti dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finché ho camminato, ora qua, ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi edificate una casa di cedro?” (2 Sm 7,6).
Secondo Isaia, 66,1, Dio è colui che l’universo intero non può contenere. Ha il cielo come trono e la terra come sgabello per i suoi piedi. Come può abitare in una casa edificata dall’uomo? Il problema è che, di fatto, dalle origini fino ad oggi, il tempio è servito a legittimare il potere dei re e dei detentori del potere. Non è un caso che i re e i potenti diano ogni appoggio economico alla sontuosa costruzione di templi in un luogo privilegiato. Per questo i profeti hanno sempre criticato il tempio e chiesto che la fede si liberasse e andasse oltre.
Alcuni profeti, come Isaia e Geremia, hanno dovuto ac-cettare il tempio come fatto consumato, ma lo hanno utilizzato come luogo di insegnamento della Parola, non come luogo di sacrificio. E Gesù ha ripreso questa tradizione profetica. Al momento del suo arresto ha dichiarato ai suoi aguzzini: “Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato” (Mc 14,49). Il tempio, in effetti, non era tradizionalmente un luogo di insegnamento, bensì di sacrificio. Fare di quel posto un luogo di profezia era un atto critico e sovversivo.
Dopo l’esilio da Babilonia, gli ebrei fedeli si riunivano in sinagoghe (case della comunità). Era iniziato allora un conflitto tra il giudaismo della sinagoga (basato sulla Parola) e il giudaismo del tempio (basato sui sacrifici e sul culto). Il cristianesimo è sorto in mezzo al giudaismo delle sinagoghe e non del tempio. Le riunioni dei primi cristiani, che hanno segnato la liturgia fino ad oggi, seguivano lo schema della sinagoga.
Nella scena della cacciata dei mercanti dal tempio, lo zelo vigoroso mostrato da Gesù non era in difesa dell’opera costruita dall’uomo. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,21) e anche della dimora di Dio, che è colui che lo ama e compie la sua parola (Gv 14,23), e, soprattutto, dell’affamato, dell’assetato, dello straniero, di chi è nudo, dell’infermo, del prigioniero, delle vittime dell’oppressione e dello sfruttamento (cfr. Mt 23). Gesù si proclama più grande del tempio (Mt 12,6). Egli è venuto a costruire un tempio fatto non dalla mano dell’uomo (Mc 14,58). Il tempio nuovo è il suo corpo risuscitato (Gv 2,20). Nell’Apocalisse, quando viene annunciata la nuova Gerusalemme, l’autore insiste sul fatto che essa non ha un tempio perché Dio stesso è il suo tempio (Ap 21).
2. Templi e cattedrali nella storia della Chiesa
C’è un paradosso e una contraddizione nel fatto che gli ebrei, per i quali il tempio era diventato il sacramento della presenza divina, non hanno voluto ricostruire il tempio dopo la sua distruzione nell’anno 70, mentre i cristiani, che hanno ricevuto tanti avvertimenti da Gesù, hanno moltiplicato i luoghi di culto.
Nella misura in cui la Chiesa si è incorporata all’Impero ed è diventata la Chiesa della Cristianità, ha occupato gli antichi templi pagani e li ha trasformati in templi della nuova religione ufficiale che era il cristianesimo. Dal Medioevo fino ai nostri giorni, le cattedrali, costruite nelle piazze centrali e a fianco del potere politico, sono diventate simboli di una Chiesa che il Concilio Vaticano II ha cercato di superare. Secondo la Lumen Gentium, “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. (...). Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre ‘ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito’ (Lc 4,18), ‘a cercare e salvare ciò che era perduto’ (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente” (LG 8). Dom Hélder Câmara, per esempio, fedele a questo nuovo spirito, preferì andare in periferia. Scelse “la chiesa delle frontiere” e fece delle comunità di periferia il luogo della cattedra del pastore. Anche in piena Cristianità, pastori come Giovanni Crisostomo, Basilio e, in Occidente, Ambrosio e Agostino insistono sul fatto che il vero tempio di Dio e la gloria della Chiesa sono i poveri. E Giovanni Crisostomo faceva sedere i poveri sulla sua cattedra nella Chiesa di Costantinopoli.
La celebrazione dei sacramenti centrata sull’altare, come pure la devozione dei santi centrata sul santuario, è diventata, nel corso dei secoli, il segno caratteristico delle chiese cattoliche, purtroppo svuotate della Parola. Al contrario, le chiese della Riforma protestante hanno assegnato un luogo centrale al pulpito e alla Bibbia, letta e assunta, con molto impegno, da tutti i membri della comunità. È stato il Concilio Vaticano II, attraverso le Costituzioni Dei Verbum e Sacrosanctum Concilium, a ristabilire l’equilibrio originale tra l’altare e il pulpito, valorizzando la Parola, passata ad integrare le celebrazioni dei sacramenti e a recuperare il posto che aveva nella vita della primitiva Chiesa degli apostoli e dei martiri. Nella costruzione delle nuove chiese hanno cominciato anche ad apparire soluzioni architettoniche creative finalizzate e garantire una buona acustica, per favorire l’ascolto chiaro, da parte di tutti i partecipanti, di tutto ciò che è proclamato nella liturgia.
Le comunità hanno bisogno di luoghi in cui riunirsi e tenere il culto. Esse gradiscono che questi luoghi siano belli, dignitosi e venerati. Tuttavia, è importante chiarire che il tempio è simbolo e sacramento della comunità viva e deve essere il luogo della comunità e non lo strumento del potere clericale o episcopale, costruito con gli stessi criteri dei templi che anticamente legittimavano il dominio dei potenti del mondo.
“Non potete servire Dio e il Denaro (Mammona)”, ha detto Gesù (Mt 6,24). Il termine “servire” si riferisce al culto e il termine “Denaro” è sinonimo di “Mammona”, l’idolo. Il popolo di Dio, popolo sacerdotale, al tempo stesso in cui rende culto al Signore, nel tempio o fuori dal tempio, cioè nella vita pratica, deve chiaramente denunciare la mostruosa idolatria che domina il mondo. Nel l989, in preparazione della conferenza del Consiglio Mondiale delle Chiese su “Giustizia, Pace e Difesa del Creato”, Ulrich Ducrow scriveva: “Quando vediamo i meccanismi di un sistema economico che, anno dopo anno, crea milioni di vittime della fame e milioni di disoccupati, quando vediamo morire le foreste per il profitto delle imprese e vediamo le superpotenze portare avanti la folle corsa agli armamenti, dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte ad un mostro demoniaco. Di fatto, i capitoli 13-18 dell’Apocalisse, con la loro descrizione della Bestia che esce dagli abissi, sono ancora la migliore descrizione dell’attuale sistema economico e politico e dei suoi mezzi di comunicazione”. Ebbene, questa terribile idolatria ha i suoi “templi”. Le banche centrali superano in visibilità architettonica qualunque cattedrale di qualunque parte del mondo. Sono Templi. Hanno i loro sacerdoti, il loro santo dei santi, i loro sacrari di massima sicurezza, accessibili a pochi e dove viene custodito il loro dio. Intendiamo contrapporci a questo usando gli stessi criteri di grandiosità e di potere o seguendo i cammini della piccolezza e del non-potere indicati da Gesù come forza imbattibile nella costruzione del Regno di Dio?
Queste, fratelli, erano le riflessioni che volevo comunicarvi, con semplicità, nella certezza che possano sortire un qualche effetto pratico. Da parte mia, resto a vostra disposizione per qualunque reazione a quella che vuole essere una fraterna provocazione.
Vi saluto con fraterna amicizia nel Signore Gesù, nostro Tempio vivo.
Articolo tratto da
ADISTA
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j’accuse
Esce anche in Italia il pamphlet del noto giornalista francese Jean-Claude Guillebaud, «neoconvertito»
Cristiani, in Europa messi al bando
«Non c’è persecuzione, ma quella derisione beffarda che agita i media e indica il credente come un essere arcaico amputato di parte di sé, votato alla credulità»
DI JEAN- CLAUDE GUILLEBAUD (Avvenire, 10.09.2008).
« Ma lei è cristiano, sì o no?» Ci sono domande che ti assediano, così, di botto, quando uno non se le poneva più. Si disinteressava. Pensava di averle superate. Forse, giorno dopo giorno si sottraeva, senza saperlo. Conferenze, incontri, dibattiti: sono gli altri che in tali contesti pubblici mi hanno incalzato, e senza mezzi termini. All’inizio, la loro curiosità mi infastidiva. Mancava poco che la percepissi come sconveniente. Ero cristiano? Ma io stesso me ne rendevo conto forse? È una qualità - o un’identità - di cui, in ogni caso, non avevo intenzione di fregiarmi. Presagivo che la questione, prima o poi, si sarebbe ripresentata ma, senza un calcolo deliberato, rimanevo nel vago, nell’ambiguità, nel non-detto.
Dichiararmi cristiano mi sarebbe sembrato presuntuoso per non dire magniloquente, ma sostenere il contrario sarebbe stata vigliaccheria. Allora? Rimandavo a più tardi, spingendo in avanti la suddetta questione, come un bagaglio con il lucchetto, un po’ ingombrante. E non andavo a messa. Poi arriva un momento in cui il bagaglio bisogna aprirlo sul serio. Non è semplice.
Allora, sono cristiano? Capisco meglio, adesso, il torpore spirituale, la prostrazione istintiva, la prudenza pigra che mi assalivano appena mi avvicinavo con il pensiero a tale questione centrale. Reagivo come chiunque. Rispondere in modo diretto, spiegarsi senza raggiri esige che si accetti di «mollare la presa». Che cosa vuol dire? Vuol dire che si rinuncerà per quanto possibile all’eloquenza, al calcolo.
Mentre scrivo penso alla sorte che «questo» tempo riserva ai cristiani. Parlo qui non certo di «persecuzione» propriamente detta (sarebbe un’idiozia), ma di quella derisione beffarda che pervade la nostra epoca e agita i media, soprattutto a sinistra, dove si situano perlopiù i miei amici. Si ama indicare chi si palesa credente come se fosse uno zombi arcaico, amputato di una parte di sé, votato a una credulità che fa sorridere o addirittura scatena ostilità. Negli ambienti filosofici e scientifici la messa al bando è d’obbligo. Come potrebbe pretendere di pensare razionalmente chi si commuove ancora con queste «favole»? Può porsi come interlocutore e ricercatore serio chi non è riuscito a rompere una volta per tutte con l’eredità delle superstizioni o non si è augurato di farlo? Ma pensa! Preoccuparsi ancora di significato, ontologia, metafisica!
Non è la vivacità ostile di questi discorsi che mi colpisce. I cristiani, dopo tutto, di fronte alla disputa che accompagna fin dalle origini la storia del cristianesimo non si sono mai tirati indietro. Il confronto con un discorso ostile, anche violento, è un’evenienza di cui occorre accettare la durezza. Forse anche rallegrarsene. Qualunque convinzione non deve forse «dare ragione» di sé, salvo rimanere nell’oscurantismo o nel sentimentalismo?
Di libro in libro ho tentato, da parte mia, di prendere sul serio le argomentazioni anticristiane. Ho avuto cura, per quanto sono stato in grado, di mettere a confronto il cristianesimo con le critiche più severe, quelle che arrivavano a ricusarne il fondamento. In uno dei suoi saggi, Jacques Ellul racconta che, uscito dall’adolescenza e sentendo rinascere in lui la fede cristiana, si affrettò a leggere - o rileggere - i grandi autori anticristiani per mettere alla prova la sua fede ritrovata. Non fu mai ostacolato dalla vivacità o dalla violenza di quei testi.
No, è la superbia e la degnazione spesso incolta - per non dire ignorante - di certe requisitorie contemporanee che mi irritano, soprattutto quando sono intimamente vissute come ferite dagli uomini e dalle donne che incontro. Queste requisitorie non hanno più niente a che vedere con una controversia documentata. Derivano da un imperativo pieno d’odio, molto vicino, in fondo, a ciò che furono gli anatemi ideologici del XX secolo. Si vorrebbero convincere i cristiani che non solo sono reazionari, come si usa dire, ma anche oramai esclusi dalla storia delle idee. Sono out o, come si scrive nei settimanali, irrimediabilmente «in ribasso ».
Penso anche a certi autori come il fenomenologo Michel Henry o il romanziere Frédéric Boyer che furono a lungo lodati dalla critica per il loro lavoro e i loro libri, fino al giorno in cui confessarono la loro inclinazione cristiana. Allora lessero recensioni beffarde o falsamente dispiaciute nelle pagine letterarie di alcuni grandi giornali. Ne furono sopraffatti, per quanto avessero gli strumenti per difendersi. Ma che dire dei credenti comuni, quelli che non hanno accesso ad alcuna tribuna e giorno dopo giorno devono incassare questo disprezzo calato dall’alto? Un disprezzo che in fondo mi sembra non solo ingiusto ma intellettualmente bizzarro.
Questa ignoranza della teologia la si ritrova perfino presso gli intellettuali o gli universitari che professano di «combattere l’oscurantismo religioso ». Tutta la storia del cristianesimo, a sentir loro, è ridotta a una spaventosa successione di crociate, inquisizioni, violenze clericali, mentre i grandi autori della tradizione ebraica o cristiana vengono presentati come manipolatori o, nel migliore dei casi, come spiriti sempliciotti.
Chi, oggi, parla delle dure lotte giuridiche portate avanti dalla Chiesa nel tentativo di mitigare la violenza medievale («pace di Dio», «tregua di Dio», interdizione progressiva delle ordalie, eccetera)? Chi ricorda le opere di assistenza ospedaliera o educativa perseguite di secolo in secolo? In breve, chi conserva almeno memoria di ciò che un semplice studente di diritto dell’università laica e repubblicana imparava ancora negli anni ’60? Nessuno, naturalmente. L’intera storia del cristianesimo non è più ripercorsa se non nell’ottica di una demonizzazione a oltranza. Anche l’Inquisizione ha quindi cambiato campo. In questo contesto, molti cristiani d’oggi reagiscono emotivamente e cedono a reazioni contraddittorie. Primo riflesso: rasentano i muri e tacciono prudentemente la loro fede, come facevano negli anni postbellici ma soprattutto durante i decenni ’60 e ’70, di fronte alle grandi intimidazioni marxiste, sartriane o strutturaliste. Al di là della contrizione e del pentimento, acconsentono a divenire degli impotenti, assenti dal dibattito contemporaneo, perfino afasici.
Questa prudenza eccessiva non mi soddisfa. È parente della resa e rende tutto troppo facile all’aggressività di cui è circondata, all’incultura generalizzata o al cinismo diffuso. Lascia intendere che la tradizione cristiana sarebbe un arcaismo residuo che, pur rimanendo rispettabile, non ha più niente da dire rispetto al mondo del XXI secolo. Pone l’adesione al cristianesimo nel capitolo degli affetti elementari, delle effusioni intime che non sarebbero in grado di allargarsi a ciò che compete all’intelligenza e alla ragionevolezza. Il cristianesimo, si lascia intendere, storicamente è forse apprezzabile ma nel senso stretto del termine non ha più voce in capitolo. Io invece, sono convinto del contrario.
IL «RICOMINCIANTE»
In Francia li chiamano i «ricomincianti»: sono i cristiani «di ritorno», le persone che - cresciute in ambiente più o meno cattolico - hanno poi lasciato la fede per scelta o per incuria e più avanti nella vita ricominciano un cammino cristiano consapevole e convinto. Jean-Claude Guillebaud è uno di loro; nato ad Algeri nel 1944, già giornalista a «Le Monde», ateo e di sinistra, oggi Guillebaud (foto qui a fianco) è direttore della casa editrice Seuil ma Oltralpe è diventato un caso anche per la sua conversione. Ora egli stesso ne racconta le tappe in «Come sono ridiventato cristiano» (Lindau, pp. 142, euro 14), da cui riprendiamo in questa pagina lo stralcio iniziale. Dalle missioni giornalistiche di guerra in Vietnam, Israele, Libano, Etiopia, India, al volontario distacco da quella che egli stesso chiama «la pura orizzontalità del fatto» per puntare a una riflessione più profonda; dal maggio Sessantotto vissuto sulle strade di Parigi alla riscoperta delle origini cristiane delle democrazie e persino del marxismo: Guillebaud descrive i «tre cerchi» attraversati nella ricerca - del tutto non apologetica - che l’ha condotto felicemente (ne fa testo la sorridente foto di copertina) al cristianesimo.
Torna il grido di Camus: «Cattolici, svegliatevi!»
«I cristiani sono tanti (...). Se lo volessero, milioni di voci nel mondo si aggiungerebbero nel mondo al grido di un pugno di solitari che, senza fede né legge, oggi lottano un po’ dappertutto e senza sosta per i bambini e per gli uomini » . Così Albert Camus ( nella foto), lo scrittore e premio Nobel francese, dichiarava in un celebre discorso tenuto nel 1948 davanti ai domenicani di boulevard La Tour Maubourg a Parigi. Proprio quel testo dell’autore de La peste, la cui nostalgica dialettica col cristianesimo è ben nota, viene rilanciato ora da Guillebaud, che annota: « Camus rimproverava già i cristiani - senza aggressività, anzi - di non esprimersi più con voce alta e comprensibile sul loro credo. Parlava della loro timidezza del dopoguerra di fronte al terrorismo staliniano. Aveva ragione. Che cosa direbbe oggi! » .