La proposta del segretario Cascini: cancellare dal dl la norma che blocca i procedimenti lasciando quelle sulle cariche istituzionali
L’Anm offre una tregua al governo
"No a sospensioni, sì all’immunità"
"Si rischia il caos della giustizia. Il premier non confonda politica e privato"
E i giudici si dichiarano disponibili alla riforma del sistema
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ROMA - Nelle ore della più radicale contrapposizione tra magistratura e Berlusconi, nasce - spontaneo, con ragioni anche dissimili, dentro e fuori il governo e le istituzioni - un partito trasversale della "tregua". Lo sollecita Pierferdinando Casini (Udc). Lo invoca Roberto Castelli (Lega). Gli dà metodo e forma una "lettera aperta" di Francesco Cossiga che invita il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a muovere la sua moral suasion ("il suo più forte potere") per "convincere" Berlusconi "a stralciare nel "passaggio" alla Camera le norme "incriminate"".
"Incriminate" sono le norme che sospendono di un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno 2002, e quindi anche il dibattimento ormai agli sgoccioli che vede il capo del governo imputato a Milano per corruzione in atti giudiziari.
All’urgenza di una tregua e di "nuovo inizio" di dialogo vuole contribuire anche l’Associazione nazionale magistrati che, con la voce del segretario Giuseppe Cascini - mentre chiede di "espungere" la sospensione dei processi dal "decreto sicurezza" - osserva che compete esclusivamente "all’autonomia della politica decidere delle immunità da offrire a chi ricopre cariche istituzionali". Il percorso - no alla sospensione; sì alle immunità; dialogo sulle riforme di giustizia - (sembra di capire) creerebbe le condizioni per "raffreddare un clima" che, incandescente, danneggia tutti. Il governo. La magistratura. Il cittadino.
Cominciano da Cossiga, dottor Cascini. Il presidente emerito propone di stralciare la sospensione dei processi dal decreto legge sulla sicurezza. Voi siete d’accordo?
"Noi pensiamo che le norme che sospendono i processi devono essere espunte dal decreto".
Cossiga immagina, in caso contrario, uno scenario drammatico: dimissioni del governo, elezioni anticipate, "governo d’emergenza", "democrazia semiprotetta" dal Capo dello Stato.
"Non è il mio compito azzardare previsioni. Il nostro compito è indicare i gravi problemi di funzionalità per il processo penale che deriverebbero dalla sospensione generalizzata di migliaia di processi. Si creerebbe un caos senza precedenti che può inceppare in modo definitivo una macchina giudiziaria già molto sofferente. Sembra già un buon motivo per eliminare quell’emendamento. Ma ce n’è un secondo, nascosto in un paradosso. Da un lato, il governo inasprisce le pene per reati di grave allarme sociale (per esempio, gli omicidi colposi da circolazione stradale); dall’altro, blocca i processi per gli stessi reati perché non li ritiene gravi. L’effetto è che le vittime di quei delitti dovranno continuare ad attendere una sentenza che potrebbe non arrivare mai".
E’ ipocrita girarci intorno. Anche Berlusconi, nella sua lettera a Schifani, sovrappone il provvedimento con il suo processo milanese. Ancora più esplicito è stato il suo avvocato e consigliere Niccolò Ghedini: la sospensione di un anno serve per approvare una nuova legge immunitaria.
"Chi governa dovrebbe tenere ben distinte le vicende personali dalle questioni di carattere generale. Uno dei problemi che ha avuto il Paese negli ultimi anni è stata proprio la confusione tra singoli affari penali e interventi legislativi. Il risultato è un processo penale sconnesso, che consente agli imputati tanti e troppi espedienti per sottrarsi al giudizio. Il paradosso è che un processo penale che non funziona finisce per negare in radice il diritto alla sicurezza dei cittadini. Diritto che può essere garantito soltanto da un processo penale rapido, giusto per gli imputati e le vittime, efficace con il colpevole".
D’accordo, questo è il problema, ma qual è la soluzione?
"Alle soluzioni stavamo lavorando prima della violenta ripresa di un clima di scontro. La nuova contrapposizione confonde le questioni e mette insieme piani diversi. Credo che bisogna fermare le polemiche e tornare a separare i problemi e gli argomenti da affrontare".
Si spieghi meglio, per favore.
"Sul tavolo ci sono tre diverse questioni. 1. La riforma della giustizia. Richiede dialogo, ponderazione, analisi prudenti, qualche convergenza. Non si può legiferare senza valutare le conseguenze delle innovazioni, come è accaduto con la norma che congela i processi. 2. Una leale collaborazione tra le istituzioni. Se si aggrediscono singoli magistrati accusandoli, più o meno, di attentato alla Costituzione, la soluzione dei problemi si allontana. 3. Infine c’è la proposta di fermare i processi per le più alte cariche dello Stato. Questi capitoli devono restare separati e ciascuno deve avere un luogo, un metodo e gli attori per essere affrontati e risolti".
Voi siete d’accordo con un nuovo lodo Schifani-Maccanico?
"La scelta dell’immunità temporanea o permanente di chi ha alte responsabilità istituzionali spetta all’autonomia della politica che valuterà le forme e i modi di un eventuale provvedimento tenendo conto delle indicazioni della Corte Costituzionale".
Per quel che si è capito, però, Berlusconi subordina ogni iniziativa all’approvazione del nuovo lodo.
"La questione dell’immunità deve essere separata e non confusa con i meccanismi che fanno funzionare i processi né può essere accompagnata da una campagna di aggressione contro alcuni magistrati. Come non può interferire con la legislazione ordinaria in materia di giustizia. Voglio dire che ogni questione deve essere affrontata sul suo piano. E’ l’unico metodo possibile per andare avanti e ha una precondizione: il riconoscimento di legittimità tra le diverse istituzioni dello Stato. Se i giudici condannano all’ergastolo i Casalesi, credo che il capo del governo abbia il dovere di tutelare la legittimità democratica di quella decisione, come peraltro ha fatto il Capo dello Stato. Se il giorno dopo quella sentenza, per altri motivi, si accusa la magistratura di attentato alla democrazia si provoca una crisi di legittimità, credibilità e fiducia che paga, non solo l’ordine giudiziario, ma soprattutto il cittadino che sarà meno protetto dai poteri criminali".
Le dice: "dialogo". Ma chi è il vostro interlocutore? L’avvocato Ghedini, che scrive le leggi, o il ministro Alfano, che le presenta in Parlamento?
"Alcuni atteggiamenti della difesa nel processo non aiutano una maggiore comprensione dei problemi. Le faccio un esempio. Nel codice c’è scritto che l’istituto della ricusazione non sospende il processo, ma impedisce solo la pronuncia della sentenza. L’avvocato Ghedini ha invece sostenuto che la mancata sospensione del processo è "la prova" che il giudice è prevenuto. Questo comportamento è emblematico di una volontà di inasprire il conflitto. Il guaio è che questo metodo non si ferma all’interno del processo, ma viene trasferito anche in sede politica e legislativa".
Dunque, meglio il ministro Alfano?
"Il ministro è il grande assente in questa vicenda. All’inizio del suo mandato ha ben impostato un metodo di lavoro mostrando di condividere priorità e urgenze. Avrebbe dovuto tenerne conto anche quando, in occasione delle presentazione della norma che sospende i processi, non ha fornito al Parlamento i dati sulle gravi conseguenze di quel provvedimento sul funzionamento della giustizia di cui, per dettato costituzionale, egli è responsabile".
L’ultima domanda è per la magistratura. Soltanto il 21 per cento degli italiani, a quanto pare, ha fiducia nella magistratura. Non è un problema?
"Certo che lo è. La crisi di funzionalità della giustizia sta lentamente corrodendo anche la credibilità dell’istituzione giudiziaria. Sono necessarie e urgenti riforme legislative, ma occorre riconoscere che ritardi e inefficienze sul piano organizzativo e anche comportamenti non ortodossi di singoli magistrati hanno contribuito a creare un clima di sfiducia nei confronti del sistema. La magistratura è impegnata in uno sforzo di rinnovamento e di autoriforma. Il Consiglio superiore sta provvedendo a un radicale rinnovamento della direzione degli uffici mentre un sistema periodico di valutazione darà alla magistratura più professionalità ed efficienza. Ma ripeto: ogni problema deve avere il luogo, gli attori e il metodo per essere affrontato e risolto".
* la Repubblica, 24 giugno 2008.
GIUSTIZIA: ANM, MAI OFFERTO TREGUA, SU LODO RISPETTARE CONSULTA
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA
Il prezzo dell’impunità
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un’opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).
Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell’amministrazione giudiziaria, un’accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d’insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un’immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest’occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.
Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all’anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l’esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall’altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l’azzoppa irrimediabilmente.
Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d’uscita dalle molte crisi che lo affliggono.
In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.
C’erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell’interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un’immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C’era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio.
Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un’agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un’agevole previsione credere che molto presto toccherà all’informazione.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.
L’Aula vota il provvedimento che contiene la contesta norma
L’ex ministro leghista Castelli: "Sì alla tregua con la magistratura"
Senato, passa il "salva-premier"
Via libera al decreto sicurezza *
ROMA - Via libera del Senato al decreto sicurezza. L’Aula di Palazzo Madama approva il testo che stabilisce l’uso dell’esercito nelle città e contiene la contestata norma "salva-premier" (166 voti favorevoli, 123 contrari e 1 astrenuto). Quell’emendamento che prevede il blocco dei processi per i reati che non creano allarme sociale commessi fino al giugno 2002, tra cui quello Mills in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi, per dare priorità a quelli per fatti gravi e gravissimi e in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. L’Udc, l’Idv e Pd hanno votato contro. "Siamo contrari all’aggravante di clandestinità e alla norma che sospende i processi. Ritiratela da questo decreto. Non è questione di antiberlusconismo, il dialogo deve avere principi e regole condivisi" dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo dei Democratici. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che non ha partecipato al voto, attacca "quelle lobby politico-eversive che sono l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio superiore della magistratura". Rivendica l’approvazione del decreto Maurizio Gasparri: "Votiamo con orgoglio un provvedimento che dà più sicurezza gli italiani e più trasparenza alla giustizia" dice il capogruppo del Pdl. Il testo passa ora passa all’esame della Camera.
Castelli: "Sì alla tregua". "Rinunciare all’emendamento blocca-processi per avere una tregua subito". L’ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli accoglie così la proposta dell’Anm che mira a stoppare il duro scontro con il governo sull’emendamento "salva-premier" ("no alle sospensioni, si all’immunità" dice il presidente Cascini a Repubblica). Un’apertura che resta isolata. E così, dopo il voto, Castelli getta la spugna: "La mia era solo una proposta di buon senso, mi sembrava che potesse essere utile per svelenire il clima. Ma mi pare che non sia andata".
Infine il ministro della Giustizia Angelino Alfano, intervistato dal Sole 24 ore, annuncia che è pronto il testo del nuovo "lodo Schifani" per l’immunità delle alte cariche dello Stato, che dovrebbe riguardare presidente della Repubblica, presidente del Consiglio e presidenti delle due Camere.
Contro la Costituzione
di Stefano Passigli (l’Unità. 24.06.2008)
In nessun Paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. Le modifiche vanno ricercate nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è
Bene hanno fatto il capo dello Stato e il vice presidente del Csm a precisare che al momento non esiste alcun parere dell’organo di autogoverno della magistratura sulla costituzionalità delle norme blocca-processo. La forma ha una sua rilevanza, ma non può alterare la sostanza; e sul piano della sostanza non vi è dubbio che l’aggiunta al decreto sulla sicurezza di una norma blocca-processi presenta profili di incostituzionalità, solleva interrogativi sul ruolo dei presidenti delle Camere, e appare politicamente dirompente.
In primo luogo applicandosi solo ai procedimenti prima del 2002, il blocco contrasta con il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione discriminando tra ipotesi di reato identiche sulla base della mera data di avvio del relativo procedimento penale.
Irragionevole appare in ogni caso il riferimento temporale adottato. Non solo meglio sarebbe stato sospendere quei processi ove la eventuale condanna sarebbe comunque coperta dal recente indulto, ma più logico sarebbe stato semmai accelerare anziché bloccare i processi più datati e quindi più a rischio di prescrizione, ritardando piuttosto i più recenti per i quali la prescrizione è più lontana. Né si dica che, essendo sospesa la prescrizione, la situazione dei processi bloccati non muterebbe. Alla loro ripresa, infatti, molti collegi giudicanti potrebbero dover essere ricostituiti per intervenuti trasferimenti o pensionamenti, con il conseguente ripartire da zero del processo e un altrettanto conseguente garanzia di impunità. La norma blocca-processi votata a maggioranza semplice dal Parlamento configurerebbe così, in buona sostanza, un’amnistia surrettizia, in spregio della norma che vuole le amnistie votate da una maggioranza qualificata.
In secondo luogo, nel processo penale le parti sono tre: il Pubblico Ministero a tutela dell’interesse generale, la Parte Civile a tutela del soggetto offeso, e la Difesa a tutela dell’imputato. Ebbene ritardare - o addirittura vanificare, come spero di aver or ora dimostrato - la celebrazione del processo è certo nell’interesse dell’accusato, ma non della parte lesa e della collettività.
Nel proporre la norma blocca-processi Berlusconi e il suo governo mostrano - e pour cous - di privilegiare l’interesse dell’imputato piuttosto che quello generale e delle parti lese. Ma proprio il centrodestra, per bocca del senatore Pera con il pieno appoggio dell’onorevole Berlusconi, si batté per introdurre in Costituzione la norma sull’equo processo che ne impone una «ragionevole durata»: ebbene la norma blocca-processi allungandone la durata e di fatto favorendo in molti casi la prescrizione, priva gli imputati innocenti di una pronuncia assolutoria e le parti lese di una condanna, violando così palesemente l’articolo 111 della Costituzione.
Da alcuni si è affermato (Antonio Alfano, Corriere della Sera del 22 giugno) che una norma blocca-processi fu già introdotta nel 1998 dal governo Prodi, ministro della Giustizia Flick, presidente Scalfaro. Niente di meno vero, e sorprende che a un ex Procuratore Generale onorario di Cassazione la passione politica faccia velo sull’intelligenza giuridica: tale disposizione prevedeva infatti che «al fine di assicurare la rapida definizione dei processi pendenti... nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza... si tiene conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti nonché dell’interesse della persona offesa».
La concreta decisione sui criteri di priorità era insomma rimessa agli uffici che ne dovevano informare il Csm, restando così interamente nel discrezionale apprezzamento dei magistrati. Cosa ben diversa da un intervento legislativo che lede profondamente un ulteriore e fondamentale principio costituzionale: quello dell’autonomia della magistratura.Al di là della forma, avanzare dubbi sulla costituzionalità di una norma blocca-processi è dunque non solo legittimo, ma anche opportuno, specie alla luce delle modalità scelte dal governo per la proposta: non un disegno di legge costituzionale - al quale lo invitano, oltre ad alcuni esponenti della maggioranza, persino (con un intervento ai limiti dell’oltraggio a un potere dello Stato quale la Corte Costituzionale) il presidente emerito Cossiga che invita anche il presidente Napolitano a rinviare la legge di conversione qualora contenesse la norma - ma un emendamento suggerito a parlamentari amici che aggiunge a un decreto legge materia estranea al testo passato al vaglio autorizzativo della presidenza della Repubblica.
Chi scrive è profondamente convinto che i presidenti di Camera e Senato dovrebbero dichiarare improponibili emendamenti estranei al corpo dei decreti, evitando così di vanificare il controllo dei requisiti di necessità e urgenza compiuto dalla presidenza della Repubblica. Ma chi scrive è altrettanto profondamente cosciente che - caduta la prassi che voleva le presidenze di Camera e Senato affidate a maggioranza e opposizione e votate consensualmente - a partire dalla rottura della prassi effettuata dal primo governo Berlusconi nel 1994 l’indipendenza delle due presidenze si è inevitabilmente affievolita.
Occorre dunque aiutare la presidenza delle Camere a mantenere al massimo la propria autonomia: anche da questo punto di vista, la presentazione di un emendamento blocca-processi indebolisce e non rafforza le istituzioni, ed è opportuno che sia perciò ritirato. Infine, gli aspetti più strettamente politici.
A lungo, in molti abbiamo lamentato che i rapporti tra maggioranza e opposizione non fossero in Italia quelli esistenti in un «paese normale». Alla necessità di un più corretto rapporto alcuni tra noi - io ad esempio - avevamo a malincuore sacrificato battaglie che come quella per una più adeguata disciplina del conflitto di interessi, ci apparivano necessarie. Ma esistono limiti invalicabili, e princìpi irrinunciabili.
Così come nel 2006 ci battemmo con successo per respingere un progetto di riforma costituzionale altamente pericoloso, oggi siamo costretti a un nuovo e deciso «no» al tentativo di introdurre norme che sentiamo lesive di un fondamentale principio non solo della nostra Repubblica ma di qualsiasi democrazia: l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Troppi indizi ci dicono che si sta preparando un nuovo tentativo di sovvertire alcuni capisaldi del nostro ordinamento costituzionale: la forma parlamentare di governo, ribadita dai cittadini italiani nel referendum del 2006; il ruolo e le funzioni delle supreme magistrature di garanzia (presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale); e infine l’autonomia della magistratura. In nessun paese gli assetti istituzionali sono immodificabili. E le modifiche vanno ricercate e fatte nel dialogo tra maggioranza e opposizione. Ma proprio per dialogare occorre non smarrire la coscienza di cosa è negoziabile e cosa non lo è.