L’antropologo trascorse diversi anni nel Mato Grosso e scrisse un libro unico, assoluto
È soprattutto un grande libro sulla desolazione umana secondo Lévinas, il più ateo dei libri
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 23.05.2008)
Quando nel 1934 Claude Lévi-Strauss si imbarcò dal porto di Marsiglia, destinazione le foreste del Brasile, circolava un film che alla giungla aveva innalzato una monumentale metafora di tutte le paure che un mondo altro e arcaico suscitano nell’uomo occidentale. King Kong uscì nelle sale cinematografiche nel 1933 e, come tutti sanno, narra di un re spodestato dal suo regno e portato in catene nella scintillante New York. Lo scimmione è un sovrano sui generis che incute terrore tra gli indigeni dell’isola, fino a quando un manipolo di bianchi immaginano di ricavarne un grande spettacolo: tanto più pittoresco ed efficace quanto più l’immagine del grande gorilla risulterà teatralmente terrificante.
In fondo ciò che l’Occidente, nelle sue componenti più ciniche e affaristiche, ha sempre saputo gestire è la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realtà, la paura - moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri - è un motore formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni, impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti.
Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell’esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un’opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri senza precedenti veri. Nasceva con pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacché alla fine quel libro che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo.
Lévi-Strauss (il grande vecchio compirà cento anni a novembre, si sono tenuti convegni sulla sua figura e altre celebrazioni sono previste in Francia e in Italia) scrisse Tristi tropici in quattro mesi. Il libro nasceva da urgenze diverse: il divorzio dalla prima moglie, la bocciatura al Collège de France, il progetto - vago, seducente e poi abortito - di scrivere un romanzo che avesse come protagonista una specie di truffatore europeo che circuisce gli indigeni della foresta amazzonica.
Non so se davvero Lévi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c’è che Tristi tropici è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito.
In certe pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell’etnologo, condizionato da un’ambiguità che mina, almeno in parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall’altro è consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si intende indagare. È la ragione per cui odia viaggiare. Lo dichiara fin dall’inizio. Tristi tropici si apre con un’affermazione sconcertante: «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni».
L’odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera così esplicita, solo in un altro autore: Jean-Jacques Rousseau. Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che è civilizzazione. Il peso di quell’odio bilancia l’amore che nutre per l’innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù dei Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévi Strauss visita, fotografa, filma, racconta.
È uno sforzo immane quello a cui l’etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all’Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui miserie: di accelerarne la fine.
Considera Tristi tropici un’opera di corruzione del lavoro dell’etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull’impressionismo e Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni. Non è che gli impressionisti non sapessero dipingere, ma essi cercavano l’illusione di un’arte spontanea. La stessa illusione è convinto si celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro colore di superficie?
Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienza improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull’India e le caste, sul buddismo e l’Islam. Ma a uno sguardo più attento si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo.
Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si imbatte nell’omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato, Rousseau è stato il modo in cui l’Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell’altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che l’Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà interamente trasparente.
Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono. Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana.
Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo Emmanuel Lévinas che per definire l’ateismo moderno si richiama al capolavoro levistraussiano: «L’ateismo moderno», scrive Lévinas, «non è la negazione di Dio, è l’indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante».
Che cos’è che colpiva in maniera così acuta il filosofo francese? Credo la mancanza di senso - sia della storia, sia del soggetto che in teoria dovrebbe esserne il portatore - che circola in Tristi tropici. Non a caso l’opera fu letta anche come un attacco all’esistenzialismo e in particolare a Jean-Paul Sartre.
«Il mondo», si legge alla fine di Tristi tropici - «è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui». Siamo i privilegiati del pianeta. Solo perché l’arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza. Abbiamo detronizzato la natura, e le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più complesse, sorrette da equilibri precari. «Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso».
Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientante visione che Lévi-Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti. Ed è la medesima frustrazione provata nell’assistere alla caduta di King Kong dall’Empire State Building. Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c’era più spazio per la natura e per il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più intimo e rovinoso di quel soggetto che abbiamo chiamato uomo.
Sul tema dell’antropologia filosofica, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, GLI ARGONAUTI, E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA...
IN MEMORIA DI MARCEL DETIENNE -DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FLS
Grandi maestri
Lévi-Strauss cent’anni vissuti sempre altrove
di Pietro Citati (la Repubblica, 17.04.2018)
Una famiglia ebrea di antica tradizione. L’amore per la musica e per i romanzi. Il viaggio in Brasile fra gli indigeni del Mato Grosso. New York e lo strutturalismo. Le donne. Il dietro le quinte di una esistenza lunga un secolo Claude Lévi-Strauss nacque, a Bruxelles, il 28 novembre 1908. Era completamente ebreo.
Il trisnonno, Loeb Israel, nato a Strasburgo il 22 gennaio 1754, prese il nome di Strauss. La trisnonna, Judith Hirschman, era figlia di un famoso rabbino, Rabbi Rafael, celebre in tutta l’Alsazia del diciottesimo secolo.
All’improvviso, lo strano e lo stravagante si diffusero nella sua razza: il bisnonno, Isaac, nato a Strasburgo nel 1801, diventò violinista nell’orchestra del Teatro italiano a Parigi, diretta da Gioacchino Rossini. Inventò (o quasi) il valzer, la mazurka, la polka, la quadriglia: compose moltissimi brani tra cui la quadriglia di Orphée aux Enfers di Offenbach. Sia lui che i figli erano integrati nella società del tempo.
Claude si sentiva esclusivamente francese; e non conobbe mai gli impulsi che spinsero Gershom Scholem a risalire fino all’ebraismo della Cabala e del Chassidismo. Non amava nemmeno la Bibbia o i testi di Qumran. Quando visitò Israele nel 1985, si sentì un estraneo.
La madre di Claude, Emma, bella, piccola, abilissima cuoca, cantava tutto il giorno, specialmente le arie di Orphée aux Enfers e di La belle Héléne. Il padre Raymond era un pittore modesto: per tutta la vita fece ritratti e piccole ceramiche in stile cinese. Il talento di bricoleur apparteneva a tutta la famiglia.
Claude fu un figlio unico, preciso, silenzioso, affettuoso, gentile, senza apparenti tratti di genialità. Leggeva molti libri, in primo luogo il Don Chisciotte: scriveva racconti, tra cui Il carbone e i fiammiferi.
Amava moltissimo Le Nozze di Stravinsky e Pelléas et Mélisande di Debussy, che gli fecero sembrare antiquata la musica occidentale.
Disegnò scene per il Gabinetto del dottor Caligari di Wiene: scrisse un saggio su Marx e il materialismo storico; e al liceo scoprì alcuni testi di Freud, pochi anni dopo la pubblicazione. Era ateo. Amò il Voyage au bout de la nuit di Céline.
Una sensazione lo accompagnò per tutta la vita: «Si ha bisogno di poco per esistere»; «La vita è corta. Ci vuole solo un po’ di pazienza».
Nell’ottobre 1931, a quasi ventitré anni, cominciò il suo servizio militare a Strasburgo, da cui scriveva regolarmente ai genitori ( Lettere ai genitori 1931- 1942, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli, il Saggiatore, pagg. 422, euro 37).
Queste lettere non sono dissimili dalla prima parte del Diario di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, iniziato qualche anno prima. Si sentiva solo, sebbene - come Dostoevskij - «mai abbastanza».
Nell’ottobre 1932, Lévi-Strauss venne nominato professore di filosofia al liceo di Mont-de-Marsan, vicino a Poitiers. Mont-de-Marsan era come Yonville in Madame Bovary: con il grande mercato e i negozi e i commercianti e le fiere e la folla multicolore e pettegola. Nel settembre sposò Dina Dreyfus, anch’essa ebrea, una donna allegra e divertente.
Si occupava di quattro cose: la moglie, il cibo, i romanzi polizieschi e il socialismo. Il cibo era, per lui, la cosa essenziale. Con quale estasi parlava di peperoncini e confit di maiale e zuppe di zucca e conigli al sugo e fegato d’oca all’agro e tartufi alla lorenese e calamari e tacchino farcito. Come per quasi tutti i francesi, il cibo era per lui, insieme una straordinaria ghiottoneria, un’attività sociale e una questione scientifica.
Con passione sempre crescente leggeva romanzi polizieschi e poi pensò di essere lo “Sherlock Holmes dell’etnologia”. Al cinema amava Ejzenštejn e René Clair e sopratutto Buster Keaton e Chaplin. Nel 1928, a vent’anni, diventò segretario della sezione socialista: Léon Blum gli scriveva lettere affettuose; teneva conferenze di argomento politico e soltanto dopo molti anni abbandonò la sua passione socialista.
Il 4 febbraio 1935, partì per il Brasile: gli era stato proposto di insegnare sociologia all’università di São Paulo; a marzo cominciò a tenere lezioni accanto a Fernand Braudel e Roger Bastide, e conobbe un grande etnologo, Alfred Métraux. Fu affascinato da São Paulo. Si avventurò nel Mato-Grosso, tra gli indigeni Kaingang, Caduveo, Nambikwara e Bororo. Alla ricerca di una specie di cultura originaria, esplorò ciò che era tenebroso e sconosciuto.
Aveva nel cuore l’immagine di Conrad: gli sembrava di essere nella stessa condizione di lui, quando molti anni prima aveva scritto Cuore di tenebra; e pensò di essere una specie di sua reincarnazione.
Nel maggio 1941, dopo un breve soggiorno in Francia, raggiunse insieme a Victor Serge e a André Breton (che sembrava un signore del Grand Siécle) dapprima Porto Rico e poi New York, dove insegnò alla New School for Social Research. Conobbe Jacques Maritain, Henri Focillon, Alexandre Koyré e sopratutto lo spiritosissimo e scintillante e drammatico Roman Jakobson, di cui seguì i corsi di linguistica.
Jakobson diventò il modello del suo pensiero; e gli insegnò i rapporti tra i colori e i suoni. A quell’epoca - egli disse - era ancora uno “strutturalista ingenuo”. Incontrò André Weil e Simone, di cui credo non comprendesse il pensiero religioso e lo straziante spirito di sacrificio.
Tra il 1941 e il 1947 abitò a New York. Amava molto la città: la contemplava dall’alto, trovando che non era affatto, come si diceva, monotona e standardizzata, ma lasciava infinito spazio alla immaginazione. Frequentava insaziabilmente i musei, dove trovò le più belle collane precolombiane che avesse mai visto. Una meravigliosa gatta nera venne ad abitare con lui. Parlò dai microfoni della Voce dell’America: saliva spesso al Rockfeller Center, da cui contemplava l’immensità formicolante: New York stava, per lui, al di qua e al di là della civiltà occidentale, come «il paesaggio immenso di minerali ed acque» di cui aveva parlato Baudelaire; era giunta alla decrepitezza senza passare attraverso l’antichità e la civiltà.
Nella prima giovinezza non aveva mai rinunciato ad essere uno scrittore: ma lì, a New York, di fronte a quella vivente enormità, abbandonò un romanzo e un dramma, intitolato Apoteosi d’Augusto. Si ribellò contro ogni pensiero metafisico, con un furore quasi ossessivo. Detestava la parola filosofia e la parola religione: con uno slancio che meraviglia, visto che per tutta la vita si occupò sopratutto di metafisica e di religione. Trovò una specie di modello in Jean de Léry, che verso la metà del sedicesimo secolo scrisse il Voyage faict en la terre du Brésil.
Avrebbe desiderato essere come lui: un etnologo che, per la prima volta, scopre il nuovo mondo e ne parla con un’inesauribile freschezza e novità di sensazioni. Via via che passavano gli anni, ammirava sempre di più Michel de Montaigne, il quale finì per diventare l’esempio della sua vita e della sua opera. Come amava il suo stile, intenso e succoso: la sua immensa memoria: la sua biblioteca, le sue mistificazioni, la sua serena disperazione, il suo ironico dilettantismo, la sua ironica nonchalance. Come lui, pensava che «non c’è niente di più vano, diverso e ondeggiante dell’uomo».
In Brasile diventò etnologo senza sapere di esserlo; e poi, a New York e a Parigi, tenne regolarmente i suoi corsi. Sull’esempio di Roman Jakobson cercò un sistema: una struttura: un modello (sebbene, nella realtà, non esista nessun modello); un gioco mobile e ricco di relazioni, di varianti e differenze. Usava qualsiasi metodo, con la certezza che, se fosse stato necessario, lo avrebbe cambiato. Affrontò l’inconscio, e lo portava alla coscienza, sperando di giungere ad un punto di certezza come quello di Alfred Einstein. Voleva mettere ordine nel mondo, sebbene sapesse che era impossibile. Sempre, in ogni luogo, sopratutto in se stesso, esaltava ciò che è sovrapersonale.
Mentre scriveva le ultime Mitologiche, Claude Lévi-Strauss sentì che la sua opera era compiuta. Mancava soltanto qualche ritocco. Se si guardava intorno, con i suoi “occhi d’elefante”, non tornava mai sugli stessi argomenti: era sempre imprevedibile. Proprio per questo, si formò delle abitudini, dietro alle quali scivolava, libero come un pesce. Alternava il lavoro a casa, quello al Cnr, le passeggiate, la lettura dei libri contemporanei, la lettura (puntualissima) del giornale, le rare frequentazioni del teatro e del cinema. Era attentissimo alle nuove scoperte tecniche, sebbene non amasse l’idea moderna di progresso.
Sebbene come Madame de Staël non amasse viaggiare, viaggiò moltissimo: in Pakistan, in Canada, in Colombia britannica e cinque volte, tra il 1977 e il 1988, in Giappone. Qualche volta pensò a un Buddhismo cristianizzato o meglio a un Cristianesimo buddhizzato.
Aveva amato molte donne: in ognuna di esse trovava le altre. Forse l’ultima moglie, Monique Roman, fu la più cara: aveva diciotto anni meno di lui; discendeva da una madre ebreo-americana e da un padre belga. Abitava a rue des Marronniers nel cuore di Parigi: era bella e sapeva moltissime cose. Vicino a lei, scrisse Regarder écouter lire pubblicato nel 1993: un libro straordinario, libero da qualsiasi schema o ricordo etnologico, che parla di Poussin, Rameau, Diderot, suoni, oggetti e colori. Adorava Poussin come nessun altro pittore; e credo approvasse le sue parole sul fatto che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura. Claude Lévi-Strauss diventò, quasi senza accorgersene, vecchissimo.
Era un’abitudine di famiglia. Le due nonne erano morte quasi centenarie; e lui superò agevolmente il secolo. Pensava, fantasticava, leggeva: anche gli ultimi libri usciti: e seguiva i film di Eric Rohmer. Morì un mese prima di compiere centouno anni, il 30 ottobre 2009, e venne sepolto a Lignerolles, un villaggio della Côte-d’Or. Sino alla fine uscì da se stesso e dal proprio paese. Nel 1989, Eugenio Scalfari lo invitò a collaborare a Repubblica: scrisse sedici articoli, raccolti col titolo Siamo tutti cannibali (Il Mulino, pagg. 176, euro 14, con una postfazione di Bernardo Valli), abbandonando, come forse non aveva mai fatto, gli argomenti trattati per tutta la vita. Così, sino alla fine, visse altrove.
Nera e rossa, occhi socchiusi: la maschera di Lévi-Strauss
di Marco Belpoliti (La Stampa, TuttoLibri, 17.04.2016)
La via delle maschere, è senza dubbio bella: nera e rossa, occhi socchiusi e bocca a forma di piccola O. Tuttavia non c’entra nulla con il contenuto del volume. Il testo, pubblicato nel 1979, esplora i manufatti rituali di un territorio dell’America nord-occidentale, la Columbia Britannica. Dedicato all’analisi delle maschere di quegli indiani, è un piccolo capolavoro d’indagine estetica, oltre che mitologica; nasce dalla grande passione dell’etnologo francese per gli oggetti tribali e insieme dalla frequentazione di Breton e dei surrealisti fuggiti a New York durante la Seconda guerra mondiale.
Il grafico della casa editrice milanese ha posto su questa copertina una maschera di una popolazione africana, Luba, preferendola a quelle che sono presenti all’interno del volume, come invece aveva fatto nel 1985 Einaudi, quando il libro era stato tradotto per la prima volta in italiano. Traduttore d’eccellenza: Primo Levi; aiutato dalla sorella Anna Maria, s’era sobbarcato la fatica di questo lavoro (due sono i libri di Lévi-Strauss tradotti da Levi per Einaudi).
L’antropologo l’aveva ringraziato per questa ottima impresa, quasi sgridandolo in una lettera per aver dedicato tanto tempo a tradurre i suoi libri, invece di scriverne di propri nuovi. Lévi-Strauss aveva letto in ritardo Se questo è un uomo e La tregua, e anche La chiave a stella, in cui aveva riconosciuto una forma d’antropologia del lavoro.
L’autore de La via delle maschere s’interroga su come le maschere degli indiani della Colombia Britannica siano connesse ai loro miti, come funzionano in rapporto alle storie e leggende che le riguardano; il loro significato, la loro funzione, e lo stesso stile, traggono origine da una dialettica tra maschera e maschera: sistema di rinvii e riferimenti strutturali.
Le storie che l’antropologo racconta sono affascinanti: esseri mostruosi, bambini magici, rapporti incestuosi, fughe solitarie, morti e rinascite. Ma soprattutto sono straordinari gli oggetti rituali che l’hanno attratto. Negli anni Settanta Lévi-Strauss fece due viaggi appositi in quei luoghi per conoscere le tribù e i riti.
La traduzione ha una fluidità notevole, e non deve essere stato facile rendere nomi e dettagli etnografici di quei popoli. Resta una domanda: perché il grafico ha combinato questo scambio così poco rituale e così poco mitico? La via delle smaschere.
Frantz Fanon e la materia viva dell’oppressione
Nuova edizione e nuova traduzione di «Pelle nera, maschere bianche», l’opera giovanile dello psichiatra martinicano che rivela ancora oggi una forte capacità di interrogare il presente
E che fornisce strumenti per comprendere criticamente il perdurare del diffuso razzismo in Europa e Stati Uniti verso rom, afroamericani, arabi, indigeni
di Roberto Beneduce (il manifesto, 3.12.2015)
L’esplosione è ormai ogni giorno, e continuerà ancora a lungo. Sarebbe stato forse questo l’esordio di Pelle nera, maschere bianche (Ets, pp. 216, euro 20), se Frantz Fanon l’avesse scritto oggi. Perché le esplosioni che egli avvertiva nei muscoli, quando sentiva qualcuno dire «Toh, un negro!» o rivolgerglisi in petit nègre, le esplosioni i cui fuochi già vedeva dalla lontana Fort-de-France, sembrano moltiplicarsi nel nostro presente come un lugubre salmo. Altri corpi, sessant’anni dopo, sono ancora alle prese con quel maledetto «Toh, un negro!»: nelle strade di Los Angeles, a Parma, nella banlieue di Parigi, nei nuovi ghetti in cui il razzismo non cessa di riprodursi.
L’elenco delle circostanze in cui la violenza continua ad affiorare prendendo di mira neri, rom, musulmani, immigrati, insomma quell’umanità «al ribasso», dà al libro di un Fanon allora appena ventisettenne una forza unica, che pochi scritti mantengono allo stesso modo a distanza di oltre sessant’anni. E se ogni epoca rilegge i classici cercandovi risposte ai suoi dubbi, Fanon è un classico indubbiamente atipico: perché è lui che continua a interpellare il nostro presente, e a rendere necessarie nuove traduzioni dei suoi scritti, in grado di estrarre con maggiore adeguatezza idee e argomenti che in quelle precedenti non avevano trovato analoga attenzione. Quella di Silvia Chiletti raggiunge l’obiettivo.
La malta di un pensiero
Oggi Pelle nera, maschere bianche il lettore italiano può assaporarlo finalmente appieno: traduzione meditata, che restituisce la tensione originaria del testo fanoniano e penetra nelle pieghe di uno stile a tratti nervoso, fra parole che vogliono colpire, farsi dardi, proiettili, come lui stesso scriveva in una lettera al fratello Joby, che intendono «provocare», come ricordava il filosofo francese Francis Jeanson nella prefazione del 1952.
Traduzione doppiamente riuscita perché permette di cogliere nella costruzione del testo e nel suo originalissimo linguaggio i materiali e i vocabolari con i quali Fanon costruisce la sua malta: il sistematico procedere hegeliano, la fenomenologia di Merleau-Ponty, l’esistenzialismo di Sartre, e naturalmente la psicoanalisi, quella di Lacan: un autore «contestato come pochi», la cui appassionata difesa dei «diritti della follia» lo interrogano da molti punti di vista, e con il quale a tratti sembra quasi identificarsi («il fatto che i suoi avversari siano di gran lunga più numerosi dei suoi sostenitori, non sembra preoccupare questo logico della follia», aveva scritto l’anno prima nella tesi di specializzazione sull’atassia di Friedreich).
Le traduzioni inglesi che si sono succedute negli anni, da quella del 1967 di Lam Markmann a quella del 2008 di Philcox, passando attraverso l’edizione del 1986 con l’introduzione di Homi Bhabha, hanno conosciuto le stesse incertezze e rivelato come potessero essere riconosciuti, in quello che Mbembe ha definito un «lavoro gigantesco», profili nuovi e aspetti lasciati sino a quel momento in ombra. Per Bhabha, era «il linguaggio psicoanalitico della domanda e del desiderio» l’orizzonte scelto «nell’articolare il problema dell’alienazione culturale nella colonia». Giusto. Nel clima degli studi postcoloniali diventava questo l’orizzonte più significativo. E d’altronde Fanon, nell’esplicitare il suo progetto di dissoluzione del «doppio narcisismo» (quello dei Bianchi e quello dei Neri), scrive sin dalle prime pagine: «In effetti penso che solo un’interpretazione psicoanalitica possa rivelare le anomalie affettive responsabili dell’intero edificio di un tale complesso».
Quel linguaggio costituisce dunque un aspetto certo fondamentale, ma il rischio è quello di dimenticarne altri, altrettanto decisivi, finendo per dare un rilievo eccessivo a quello che è stato il Fanon «postcoloniale». Ogni lettura che voglia però isolare e far prevalere uno solo dei profili a svantaggio del Fanon clinico e militante, o del Fanon lucido analista della dell’apocalisse coloniale e profeta delle sue conseguenze sociali e psichiche, finirebbe col ripetere quel gesto di frammentazione contro il quale aveva protestato Ernesto de Martino quando chiedeva, per sé e per gli altri, che si fosse considerati «persone intere».
Questo rischio deve essere sorvegliato soprattutto al cospetto di una scrittura che si sviluppa con testarda coerenza nel corso degli anni, e non intende trascurare nulla nel realizzare il suo progetto. Se complesso di inferiorità esiste, scrive del resto Fanon, il processo è «economico innanzitutto, di interiorizzazione, o meglio, di epidermizzzione di questa inferiorità, in secondo luogo».
Marx e Merleau-Ponty, dunque, non solo Lacan: perché è dal corpo e dall’esperienza vissuta, dagli sguardi che lo hanno tormentato, che Fanon trae la linfa infinita delle sue riflessioni («non parlo che di cose vissute», questa l’epigrafe, tratta da Nietzsche, posta nella sua tesi di specializzazione).
E soprattutto un’attenzione incessante al tempo e alla storia («l’architettura del presente lavoro si situa nella temporalità»): il colonizzato, il nero che sogna la vendetta nel letto della bianca, l’indocinese nient’affatto docile, il bambino che vede Tarzan, la società antillana nevrotica perché dominata dall’idea del confronto con l’altro. Ciascun soggetto è ancorato al suocontesto, alla storia, e solo da quest’ultima traggono senso la sua esperienza e la sua sofferenza.
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche, oltre a rispondere a un’attesa diffusa e giungere in un momento in cui la riflessione di Fanon è per più ragioni propizia (il lettore può trovare in italiano ormai tutti i suoi libri, nonché gli scritti psichiatrici, a torto giudicati minori), ha però un altro merito. L’introduzione di Vinzia Fiorino, nell’offrire preziose chiavi di lettura, spinge infatti Fanon a incontrare una riva inconsueta, o meglio «imprevista», come suggerisce la stessa autrice: quella del pensiero femminista italiano in una delle sue espressioni più note, Carla Lonzi.
Oltre le velenose diagnosi
Si tratta di un’operazione doppiamente coraggiosa. In primo luogo perché il dialogo fra Fanon e la donna (antillana, in particolare), individua senza dubbio una delle tensioni più feconde del suo pensiero, ma soprattutto perché in passato a Fanon non sono state risparmiate critiche di ogni genere: omofobo, misogino, sedotto dal mito del guerrigliero algerino con il quale avrebbe tentato di guarire la ferita narcisistica di una mascolinità martinicana ferita e umiliata... A scrivere queste velenose diagnosi, di cui hanno fatto giustizia interpreti rigorosi come Gibson o Sharpley-Whiting, sono state firme prestigiose: da Françoise Vergès a Albert Memmi, quest’ultimo giungendo a sostenere che l’opera di Fanon è essenzialmente motivata da bisogni personali, scandita da un’identificazione con la Francia («con il dominante») e dal «rifiuto di sé». Mediocre psicologismo, ha commentato giustamente Brigitte Riera, adottando un giudizio sin troppo benevolo nei confronti di una critica ingiusta e stizzosa.
Di un libro da leggere e rileggere con pazienza, con passione, devo ricordare almeno un ultimo aspetto, oggi particolarmente saliente. Se per Fanon «inventariare il reale» è «compito colossale», che ci lascia sempre con un senso di incompletezza, se non cessa mai di rivelarsi, nulla nascondendo - a chi sa leggere le sue parole - della propria esperienza, egli chiede (a sé e a noi) l’impegno forse più doloroso, non essere cioè schiavi del passato: «Non ho dunque altro da fare su questa terra che vendicare i Neri del XVII secolo? (...) Io sono il mio proprio fondamento. Ed è superando il dato storico, strumentale, che introduco il ciclo della mia libertà». Domanda sorprendente, affermazione radicale: nasce qui forse l’invito più decisivo di un pensiero che, mai amnesico nei confronti del passato, degli inganni del sapere (quello psichiatrico, in primo luogo), e delle radici oscure dell’alienazione, intende però curare la Storia stessa.
In un momento così difficile per l’Europa, la scelta di ripubblicare Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon (Edizioni ETS, Collana «Studi culturali», pp. 216, euro 20, cura redazionale di Marica Setaro) non è solamente un’operazione culturale meritoria, è un atto politico. L’attualità di questo testo - spiega Vinzia Fiorino nell’introduzione - è del tutto evidente di fronte «ai significativi processi migratori che negli ultimi anni hanno visto riemergere antichi e beceri razzismi, afflati umanitari, inquietanti silenzi e insulsi balbettii».
Il rinnovato interesse per la figura di Fanon è anche contiguo alla ripresa degli studi su altri maestri del pensiero critico come Michel Foucault, Franco Basaglia e Carla Lonzi: una nouvelle vague che si spiega alla luce «delle trasformazioni epocali che nelle regioni del mondo economicamente più avanzate hanno ridisegnato nuove aree di marginalità e definito inedite perdite di status per figure sociali diverse».
La traduzionedi Silvia Chiletti restituisce la forza prorompente del linguaggio di Fanon, impegnato nel decostruire la realtà circostante per svelarne attraverso l’analisi critica dei discorsile contraddizioni socio-culturali. Tra i danni a lungo termine provocati dal colonialismo figura il desiderio di «lattificazione» innestato dalla società bianca occidentale. «Il Nero non è un uomo. (...) Il Nero è un uomo nero», spiega Fanon: «ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si colloca all’interno di un universo da cui bisognerà tirarlo fuori». Agli occhi dello psichiatra lo svelamento del desiderio di «bianchezza» si impone dunque in prima istanza come una terapia (militante) per liberare «l’uomo di colore da se stesso».
Dal punto di vista politico, la critica ai sostenitori della «negritudine», che pure aveva attratto originariamente Fanon, allarga l’orizzonte in direzione di una lotta di più ampio raggio. Scrive Francis Jeanson nell’introduzione francese del 1952: «(Per Fanon), il postulare una salvezza futura delle società umane non apporta alcun rimedio alle disgrazie degli uomini di questo tempo. (...) L’uomo che si tratta di salvare non è l’astrazione di un’epoca inesistente, è il negro strappato dal suo villaggio, il fuciliere senegalese (...), esistenze attualmente in questione, di cui ciascuna è unica, insostituibile, vissuta senza ritorno...».
Le dialettiche di Hegel e Marx, ma anche le categorie psicoanalitiche di Freud e Adler, ne escono quindi fortemente ridimensionate e vengono ricondotte alla loro natura occidentale (centrica). Nello stesso tempo, se la «bianchezza» è un marcatore che«definisce la titolarità della sovranità e i confini della cittadinanza», la lotta per salvare il nero non può che divenire rivoluzionaria per l’intero sistema. La pelle e il corpo saranno il campo di battaglia, il «desiderio», una volta rivelata e superata la nevrosi, lo strumento di liberazione. (Alessandro Santagata)
Robinson Crusoe
Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo?
L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista
di Lucio Villari (la Repubblica, 3.12.2015)
La moderna Europa occidentale - quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario - deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati, ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea.
Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».
Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei.
Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere.
Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto.
Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore ».
Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice».
Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare.
Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»).
Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”.
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA. C. Lévi-Strauss, Chers tous deux. [Lettres à ses parents 1931-1942]
A lezione di pensiero selvaggio
di Marino Niola (la Repubblica, La domenica, 29.11.2015)
Scandiva le parole con la precisione di un metronomo. Seguiva il filo del discorso in un labirinto di cui conosceva alla perfezione le entrate e le uscite. La sua testa piccola e affilata somigliava a quella di un uccello che punta la preda. Il resto lo facevano la solennità gnomica dei toni e l’eleganza severa dei gesti, che rendevano le lezioni di Claude Lévi-Strauss al Collège de France delle performance intellettuali. Si aveva la sensazione fisica di assistere a un’opera che si produceva davanti ai nostri occhi. E qualche volta sembrava addirittura di sentire il ronzio del pensiero al lavoro.
Lui era tutto il contrario dell’antropologo alla Indiana Jones, quello sempre vestito di avventura. Era invece il più schivo e il più inimitabile dei maestri. Smontava e rimontava mondi lontani con l’acribia di un orologiaio cosmico. Rapito dalla logica incandescente del pensiero selvaggio, passava con la facilità apparente del poeta, dai miti degli indiani d’America allo sciamanesimo siberiano. Dai cacciatori di teste agli psicanalisti, che considerava i nostri riduttori di teste. La sua erudizione, sterminata e preziosa, lo faceva volare tra Montaigne ed Erodoto, tra Baudelaire e Wagner. Ogni volta dinamitava le nostre certezze con una calma olimpica. E con il gusto sottile dell’oscurità. Che è concessa solo ai grandi.
L’inedito. Tribù metropolitane
Lévi-Strauss. Un antropologo a New York
Fuggito dalla Parigi nazista l’autore di “Tristi tropici” si rifugiò tra i grattacieli di Manhattan. E in queste lettere ai genitori ne raccontò usi e costumi
di Fabio Gambaro (la Repubblica, La domenica, 29.11.2015)
PARIGI «DA QUESTE PARTI VEDO PERSONE che vivono da venticinque anni nella condizione d’immigrati. Sono già al loro quarto o quinto paese rifugio, e dappertutto hanno lasciato qualcosa. Tra di loro ci sono giovani, uomini o donne, che non hanno mai conosciuto altra esistenza». Nel maggio del 1942, quando scrive queste amare parole, Claude Lévi-Strauss è in esilio a New York, dove si è rifugiato l’anno prima fuggendo dalla Francia delle persecuzioni razziali e dell’occupazione nazista. La lettera è una delle duecentodiciassette scritte dal celebre antropologo ai genitori tra il 1931 e il 1942 e oggi pubblicate per la prima volta in Francia in un volume intitolato Chers tous deux. [Lettres à ses parents 1931-1942] (Seuil, La librairie du XXI siècle, 560 pagine, 25 euro).
Il libro si apre con una quarantina di missive scritte dal futuro autore di Tristi tropici durante il servizio militare, prima a Strasburgo e poi a Parigi. Lo studioso poco più che ventenne vi descrive con curiosità e distacco i riti dell’esercito, nei cui ranghi però soffre soprattutto «l’assenza totale di solitudine».
Appena terminato il servizio di leva, nel 1932, Lévi-Strauss ottiene il suo primo incarico come insegnante di filosofia a Mont de Marsan, una cittadina nel sud ovest della Francia. Da lì scriverà ai genitori un centinaio di volte, raccontando la vita di provincia, il mondo scolastico, le lezioni con le quali ad esempio fa scoprire Ibsen a studenti che non «non ne hanno mai sentito pronunciare il nome». Non mancano le gite in bicicletta e i piaceri della buona tavola, come pure le tracce delle sue letture, dove Viaggio al termine della notte - «un capolavoro lungo ma straordinario» - affianca la Storia della rivoluzione russa di Trotsky. In quei mesi infatti, il giovane professore s’interessa molto alla vita politica, milita nei ranghi della Federazione socialista e decide persino di candidarsi alle elezioni locali, progetto poi andato in fumo a causa di un incidente automobilistico.
A queste lettere - «testimonianza di un mondo che non esiste più», come scrive Monique Lévi-Strauss nell’introduzione - seguono quelle che Lévi-Strauss scrisse da New York nel primo periodo del suo esilio americano. Qui la tonalità è decisamente più cupa e preoccupata. Negli Stati Uniti l’antropologo deve affrontare la solitudine, la lontananza e le ristrettezze economiche, senza dimenticare le notizie inquietanti provenienti dalla Francia dove sono rimasti i genitori che lo studioso cerca in tutti i modi di far venire negli Stati Uniti.
A New York oltre a darsi da fare per aiutare gli altri esuli in fuga dal nazismo, partecipa attivamente alle trasmissioni radiofoniche destinate a mantenere viva la speranza nella Francia occupata. Sono anni difficili. Per fortuna però Lévi-Strauss può contare sull’appoggio di un gruppo di esuli, tra cui Breton e Masson, con cui condivide inquietudini e speranze.
Nelle lettere, dove spesso è costretto a utilizzare parole in codice per aggirare la censura, non c’è però solo la preoccupazione. Lévi-Strauss vi racconta con stupore la scoperta della società americana, così diversa e lontana da quella francese, e sempre ricca di sorprese.
I contatti con il mondo intellettuale newyorchese gli saranno estremamente utili anche sul piano scientifico. Basti pensare che proprio a New York incontrerà Roman Jakobson, il quale, iniziandolo ai segreti della linguistica, lo aiuterà a orientare le sue ricerche in direzione di quell’antropologia strutturale per cui lo studioso francese scomparso nel 2009 all’età di cent’anni è celebrato ancora oggi.
L’eredità di Claude Lévi-Strauss
di Riccardo Pozzo (Ilò Sole-24 Ore, 08 settembre 2013)
Presentato fresco di stampa l’8 agosto al congresso mondiale di filosofia di Atene, questo volume curato da Wolfgang Kaltenbacher presenta uno sguardo prismatico all’eredità di Claude Lévi-Strauss, scomparso nel 2009 all’età di 101 anni. Si tratta di un’iniziativa congiunta tra l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e della rivista internazionale Diogène, pubblicata dal Conseil International de la Philosophie et des Sciences Humaines in collaborazione con la Iulm, che ha pubblicato in anteprima i testi tradotti in francese, inglese e cinese. Gli autori sono antropologi, linguisti e filosofi tra i più apprezzati specialisti di Lévi-Strauss d’Italia ed estero: Salvatore D’Onofrio, Ugo E.M. Fabietti, Andre Gingrich, Wolfgang Kaltenbacher, Bruno Karsenti, Fréeéric Keck, Marino Niola, Francesco Remotti, Domenico Silvestri, Wiktor Stoczkowski.
Tornato in Francia dall’esilio negli Stati Uniti, nel 1949 Lévi-Strauss entrava nei ranghi del Cnrs e dirigeva il Musée de l’Homme, il museo etnografico del Palais de Chaillot, presupposto per la Maison des Sciences de l’Homme, che sarebbe stata fondata di lì a poco, nel 1962, installandosi nella storica sede di Boulevard Raspail. Il pensiero selvaggio richiede indagini linguistiche su dati espliciti e impliciti; ed è stata dunque la “rivoluzione rousseauiana” che preforma e avvia la “rivoluzione etnologica” a giustificare il rifiuto di ogni identificazione obbligata, sia essa di "una cultura a questa cultura", o di un individuo membro di una cultura, a un personaggio o a una funzione sociale che tale cultura cerca di imporgli.
Il punto di vista più adatto per apprezzare il volume è osservare gli sviluppi dei principali approcci teoretici su scala globale e locale, dando conto dell’interazione, variabile secondo le regioni geo-culturali, tra filosofia e altre forme di spiritualità. Se l’obiettivo delle scienze umane e sociali è definire l’essere umano nella sua interezza per la sua evoluzione biologica, il suo adattamento all’ambiente e l’elaborazione di una cultura che si solidifica grazie ai diversi vettori comunicativi, il risultato più lampante raggiunto da Lévi-Strauss è mostrare come per arrivare all’uomo nella sua interezza lo si debba dissolvere come dato storico, forma di coscienza e soggetto. La cultura e l’individuo rivendicano il diritto a una libera identificazione, «che può realizzarsi solo al di là dell’uomo: con tutto ciò che vive, e quindi soffre». Di qui l’introduzione dello strutturalismo, nelle due dimensioni verticale-etnografica e orizzontale-culturale la coscienza della pressione umana sull’ambiente, le conseguenze dell’evoluzione nel presente e per il futuro: «Allora, l’io e l’altro, affrancati da un antagonismo - concludeva Lévi-Strauss nel discorso celebrativo del 1962 per il duecentocinquantenario rousseaiano - che solo la filosofia cercava di stimolare, recuperano la loro unità».
Alla scoperta di noi selvaggi
Una conversazione di Lévi-Strauss con Marcel Hénaff
di Marino Niola (la Repubblica, 13.07.2013)
IL LIBRO Dentro il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss con Marcel Hénaff Medusa pagg. 96 euro 12
Lévi-Strauss colpisce ancora. A tre anni dalla sua scomparsa esce l’ultima grande intervista concessa dal più importante antropologo del Novecento. Una conversazione serrata e appassionante con un interlocutore d’eccezione come il filosofo francese Marcel Hénaff, professore all’Università della California. Titolo, Dentro il pensiero selvaggio. L’antropologo e i filosofi (Medusa, pagg. 96, 12 euro).
Argomento del libro è l’attualità di quell’ossimoro rivoluzionario che nel 1962 diede il titolo a uno dei livres de chevet del secolo breve. Di fatto il pensiero selvaggio mandava in pensione l’opposizione eurocentrica e rassicurante - egualmente cara agli idealismi e ai marxismi - tra primitivi e civilizzati. Questi logici e razionali, quelli prelogici ed emotivi. Praticamente non pensanti, impressionabili dalle cose ma incapaci di dominare il mondo con gli strumenti della ragione.
E in questo dialogo con Hénaff Lévi-Strauss torna sull’argomento e col senno di poi rincara addirittura la dose. Ricordando che gli indios dell’America centromeridionale senza provette, alambicchi e microscopi avevano inventato tecniche per detossificare la manioca a scopi alimentari. Erano riusciti a disidratare le patate alternando fasi di congelamento e di fermentazione. Ed è grazie a loro che abbiamo il mais, creato incrociando specie non commestibili. E per di più senza compromettere gli equilibri ambientali.
Come dire che la scienza non è prerogativa esclusiva di civiltà come la nostra. Perché in realtà il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi, ma è una modalità del pensiero che fiorisce in ogni mente umana, contemporanea e antica, vicina e lontana. È un modo di rapportarsi alla realtà che si trova anche in noi e si manifesta tutte le volte che la mente si ricongiunge alle cose, fa corpo con la natura. È una logica del concreto. Simile a quella dell’arte, della musica, della poesia.
È questa la conclusione provocatoria del grande vecchio che poi spara ad alzo zero sulla filosofia che si ostina a far rientrare la realtà nei suoi schemi come in un letto di Procuste. Il mio pensiero, dice polemicamente l’autore di Tristi Tropici, ha sempre avvertito un senso di soffocamento di fronte a certe astrazioni. Invece “all’aperto l’aria nuova lo rinvigoriva”.
Come dire che l’esperienza dell’altro in carne e ossa è la sola cura contro un universalismo astratto ed eurocentrico. Eppure qualcosa di universale esiste. E l’antropologia indica la strada concreta per trovarlo. Quella che passa attraverso le umanità particolari, per arrivare a quel minimo comune denominatore che ci rende tutti umani. Quell’unità della specie che la modernità ha cominciato a cercare da quando le scoperte geografiche hanno allargato improvvisamente i confini del mondo.
Oggi che non siamo noi a viaggiare verso gli altri ma sono loro a viaggiare verso di noi, a colonizzare il nostro mondo, si ripropone alla rovescia il dilemma dei conquistadores. Cosa possiamo fare noi e loro per coabitare in un pianeta sempre più affollato. In cui un Lévi-Strauss novantaseienne confessa di sentirsi fuori luogo, quasi deportato, fotografando con oggettività da entomologo e visionarietà da profeta quella crisi sistemica che spaesa tutti noi. Perché avvertiamo che niente più sarà come prima. E viviamo con inquietudine una mutazione dagli esiti imprevedibili.
Eppure, ora come allora, si tratta di mantenere l’ordine. Ed è proprio questo il vero tratto universale, la vera natura di homo sapiens. In fondo le istituzioni umane, la cultura, le arti, le ideologie e le religioni stesse sono dispositivi per ordinare la realtà. E parare ogni volta i colpi del caos.
Siamo tutti cannibali. Parola di Lévi-Strauss
Dalla fecondazione ai matrimoni gay, una raccolta di saggi del grande antropologo
di Marino Niola (la Repubblica, 09.04.2013)
Mettete il più grande antropologo di tutti i tempi a ragionare sul presente senza tabù e senza pregiudizi. Con la lucidità spiazzante di un Montaigne e il fervore dissacrante di un Rousseau. E viene fuori che siamo tutti cannibali.
È questo il titolo provocatorio dell’ultimo libro di Claude Lévi-Strauss. Uscito in questi giorni in Francia per i tipi di Seuil (Nous sommes tous des cannibales, Seuil, pagg. 273, euro 21). Sedici saggi che il padre dello strutturalismo ha dedicato alla società contemporanea. I testi sono inediti per la Francia, ma noti ai lettori di Repubblica. Che hanno avuto il privilegio di leggerli in anteprima tra il 1989 e il 2000, dominato dall’incubo della mucca pazza.
Il profeta dell’antropologia, scomparso nel 2009 all’età di 101 anni, non amava scrivere per i giornali. Ma si lasciò tentare dalle domande di questo giornale che lo sollecitò a pensare sui temi cruciali del nostro tempo.
Il risultato è una summa antropologica dell’Occidente contemporaneo. Dalle questioni etiche e razziali sollevate dall’infibulazione ai problemi del multiculturalismo. Dal relativismo culturale, di cui Lévi-Strauss indica lucidamente pregi e difetti, alle pratiche della fecondazione assistita. Fino al funerale di Lady Diana, in cui il maestro indiscusso degli studi sulla parentela legge l’irrituale esternazione del fratello della principessa infelice. Che nella sua commemorazione rivendicava il diritto di proteggere i nipoti dal padre e dalla famiglia reale. Nella polemica esternazione del conte Spencer sarebbe riaffiorato, infatti, l’antico ruolo tutoriale dello zio materno che la nostra cultura sembrava aver dimenticato.
In ogni caso su qualsiasi oggetto si poggi, lo sguardo di Lévi-Strauss è implacabile e corrosivo. E perfino sovversivo quando affronta senza ideologia, ma con rigore entomologico, questioni come le nuove frontiere aperte dall’ingegneria genetica. Che applicate alla fecondazione eteroclita spostano la soglia tra natura e cultura, ponendo problemi sociali e morali che hanno un’eco nella coscienza collettiva e nell’economia politica dei sentimenti.
Nella Francia di questi giorni divisa dalla nuova legge sul matrimonio per tutti, che estende di fatto i diritti sull’adozione e sulla procreazione anche alle coppie omosessuali, le pagine di Lévi-Strauss assumono un valore anticipatore. Anche perché egli guarda la nostra società da lontano, mostrando come altre culture hanno sempre immaginato la genitorialità biologica come qualcosa di assolutamente distinto dalla paternità e maternità. Che invece sono ruoli sociali in continua ridefinizione. E che non hanno necessariamente a che fare con la consanguineità.
Ricorrendo a numerosi esempi etnologici, l’autore di Tristi Tropici smentisce l’idea che esista una forma di famiglia naturale. Tra i popoli nilotici dell’Africa e quelli della Nigeria per esempio, se una donna è sterile viene considerata socialmente un maschio. Per cui può sposare un’altra donna e diventare “padre” dei figli che la sua metà genera con un donatore di seme.
Insomma se da noi il giudice, il legislatore, il moralista sono spaesati dall’idea di una virtualità genitoriale infinita, l’antropologo non lo è per niente. Anzi, afferma con decisione Lévi-Strauss, è il solo ad avere gli strumenti per capirci veramente qualcosa. Perché le culture studiate dagli etnologi hanno affrontato in anticipo queste questioni. E pur senza la fecondazione assistita hanno da sempre immaginato degli equivalenti metaforici. Come dire che gli uomini hanno già sperimentato tanti modi diversi di essere genitori. In questo senso gli altri hanno qualcosa da insegnarci.
Anche sul cannibalismo, antico fantasma dell’Occidente, l’argomentazione levistraussiana dà le vertigini. Perché porta alle estreme conseguenze il celebre saggio sui cannibali di Montaigne dimostrando che la questione tocca molto da vicino anche noi. Se antropofagia è mettersi l’altro in corpo, allora c’è una sorta di cannibalismo terapeutico anche nei trapianti di organi. O in certe terapie a base di ormoni estratti dalle ipofisi. O innesti di membrane provenienti da cervelli umani. Quelle che furono all’origine dell’epidemia di Creutzfeldt-Jacob. E che secondo il Nobel per la medicina Carleton Gajdusek scatenarono un morbo dagli stessi sintomi tra i cannibali della Nuova Guinea, abituati non a caso a mangiare i cervelli dei nemici.
L’accademico si è spento a Parigi, avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre
Una vita dedicata allo studio delle strutture che guidano popoli e gruppi sociali
E’ morto Claude Lévi-Strauss
addio al padre dell’antropologia *
PARIGI - L’antropologo ed etnologo Claude Lévi-Strauss è morto la notte fra sabato e domenica a Parigi. Era nato a Bruxelles il 28 novembre del 1908, fra pochi giorni avrebbe compiuto 101 anni. La notizia della sua scomparsa è stata diffusa dall’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales.
Lévi-Strauss nasce a Bruxelles ma si trasferisce presto con la famiglia a Parigi dove suo padre lavorava come ritrattista. La sua formazione culturale avviene nel clima intellettuale parigino. Studia Legge e Filosofia alla Sorbona, non conclude gli studi in Legge ma si laurea in Filosofia nel 1931. Inizia a insegnare in un liceo di provincia - un’esperienza che condivide con Maurice Merleau-Ponty e con Simone de Beauvoir.
Le sue posizioni filosofiche sono molto critiche nei confronti delle tendenze idealiste e spiritualistiche della filosofia francese del periodo fra le due guerre. Scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell’etnologia, la possibilità di costruire un discorso più concreto e innovatore sull’uomo. Decisivi gli incontri con Paul Rivet, che conosce in occasione dell’esposizione di Jacques Soustelle al Museo Etnografico, e con Marcel Mauss, del quale fu allievo. Di quest’ultimo, lo segna in particolare il metodo utilizzato per spiegare e analizzare riti e miti dei popoli primitivi.
Nel 1935 gli viene offerto di andare a insegnare Sociologia a San Paolo in Brasile, dove una missione culturale francese aveva avuto l’incarico di fondare una università. Sarà per Lévi-Strauss l’occasione per conoscere un mondo completamente diverso da quello europeo, ma soprattutto per entrare in contatto con le popolazioni indie del Brasile, che diventeranno l’oggetto delle sue ricerche sul campo.
Il suo esordio nel campo dell’antropologia avviene in maniera graduale. Nei primi tempi, quando è libero dagli impegni universitari, compie brevi visite nell’interno del paese. Organizza poi una spedizione di qualche mese tra i Bororo, un gruppo rtnico del Brasile, e infine una missione, che durerà un anno, nel Mato Grosso e nella foresta amazzonica dove incontrerà "i veri selvaggi", cioè le popolazioni meno acculturate e nello stesso tempo per lui più interessanti. L’analisi di queste esperienze di antropologo sul terreno confluiscono in Tristi Tropici, opera pubblicata nel 1955.
Tornato in Francia nel 1939 viene mobilitato per lo scoppio della seconda guerra mondiale ma nel 1941, subito dopo l’armistizio, a causa delle persecuzioni contro gli ebrei, è costretto a fuggire e riesce a imbarcarsi per gli Stati Uniti. A New York conosce e frequenta altri intellettuali emigrati e insegna presso la Nuova scuola per le ricerche sociali. Insieme a Jacques Maritain, Henri Focillon e Roman Jakobson, è considerato uno dei fondatori dell’École Libre des Hautes Études, una specie di "università in esilio per accademici francesi.
Gli anni trascorsi a New York sono molto importanti per la formazione di Lévi-Strauss. La sua relazione con il linguista Jakobson gli è d’aiuto per mettere a punto il suo metodo di indagine strutturalista. Lévi-Strauss è anche considerato, insieme a Franz Boas, uno dei maggiori esponenti dell’antropologia americana. Disciplina, quest’ultima, che insegna presso la Columbia University a New York, lavoro che gli fa ottenere un titolo che gli servirà per essere accettato con facilità negli Stati Uniti.
Nel 1948 torna a Parigi e nekllo stesso anno consegue il dottorato alla Sorbona con una tesi maggiore e una minore - come era tradizione in Francia - dal titolo The Family and Social Life of the Nambikwara Indians (La famiglia e la vita sociale degli indiani Nambikwara) e The Elementary Structures of Kinship (Le strutture elementari della parentela). Quest’ultima viene pubblicata l’anno seguente e subito è considerata uno degli studi antropologici più importanti, realizzati fino a quel momento, sui rapporti di parentela.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta Lévi-Strauss continua le sue pubblicazioni, sempre con maggiore successo. Al suo ritorno in Francia lavora come amministratore del Centre National de la Recherche Scientifique, al Musée de l’Homme, all’École Pratique des Hautes Études, alla sezione di Religious Sciences, in precedenza fondata da Marcel Mauss e rinominata Comparativie Religion of Non-Literate Peoples.
Nel 1955 viene pubblicato Tristi Tropici, sorta di diario di viaggio nel quale lo studioso annota le sue impressioni miste a una serie di considerazioni sul mondo primitivo amazzonico risalenti agli anni Trenta, ovvero agli anni del suo espatrio dalla Francia. Nel 1959 diventa titolare della cattedra di Antropologia sociale presso il Collége de France. Dopo qualche tempo pubblica Structural Anthropology, con una raccolta dei suoi saggi. In quel periodo sviluppa un programma che comprende una serie di organizzazioni - come il Laboratory for Social Anthropology - e un nuovo giornale, L’Homme, sul quale pubblicare i risultati delle sue ricerche.
Risale al 1962 la pubblicazione di quello che, secondo molti studiosi, viene considerato il suo lavoro più importante, Pensée Sauvage, nel quale vengono delineate la teoria della cultura della mente e - nella seconda parte del lavoro - la teoria del cambiamento sociale: la seconda parte coinvolgerà Lévi-Strauss in un acceso dibattito con Jean-Paul Sartre riguardo alla natura della libertà umana.
Ormai diventato molto popolare, Lévi-Strauss dedica la seconda metà degli anni Sessanta alla realizzazione di un grande progetto: quattro volumi di studi dal titolo Mythologiques. In essi, Lévi-Strauss analizza tutte le variazioni dei gruppi del Nord America e del Circolo Artico esaminando, con metodologia rigorosamente strutturalista, le relazioni di parentela tra i vari elementi. L’ultimo volume di Mythologiques viene pubblicato nel 1971, e nel 1073 Lévi-Strauss viene accolto dall’Académie Française. Sarà anche membro dell’American Academy of Arts and Letters. Nel 1973 riceve l’Erasmus Prize, nel 2003 il Meister-Eckhart Prize per la Filosofia, e riceve una laurea honoris causa dalle Università di Oxford, Harvard e dalla Columbia Unibversity.
* la Repubblica, 3 novembre 2009
l’Unità 4.11.09 Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo occidentale di Bruno Gravagnuolo
La scomparsa Il padre dell’antropologia si è spento in Borgogna nel fine settimana a quasi 101 anni La vita Le spedizioni, i «Tristi Tropici», lo strutturalismo: così ha cambiato il modo di vedere l’uomo Ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Dalle spedizioni in Amazzonia negli anni ’30 fino all’indagine sul simbolico, ritratto di uno dei più grandi studiosi del ’900. I suoi funerali si sono già svolti in Borgogna. Avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Ma non ce l’ha fatta. In compenso ha traguardato il secolo di vita, con un’attività intellettuale lucida fino all’ultimo. E con un’opera ciclopica, che ha cambiato il nostro «sguardo» sul mondo. Eppure Claude Lévi-Strauss di suo era un temperamento mite e sembrava destinato a un tranquillo insegnamento nei licei, al più all’Università. Figlio di un pittore, con entrambi i genitori francesi, era nato in Belgio nel 1908 e passò infanzia e giovinezza a Parigi. Laureato in filosofia nel 1931, dopo un breve insegnamento alle superiori, concorre per una cattadra di Sociologia all’Università di San Paolo in Brasile, dove avviene la svolta della sua vita. Una svolta chiamata «antropologia», nel segno dell’etnografia «americanistica», compiuta con due spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia. Due libri da quelle due spedizioni: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, e Le strutture elementari dela parentela (1948 e 1949). Tra l’esperienza brasiliana e il primo viaggio negli Usa nel 1940 c’è intanto la prima rivoluzione di Lévi-Strauss. La connessione tra antropologia americana e linguistica. Dunque tra la lezione di F. Boas, e quella del linguista russo Roman Jacobson, che aveva conosciuto a New York, sospinto dall’interesse per la fonologia. Sta qui il nucleo più profondo dello «strutturalismo», l’invenzione più importante del grande antropologo. Non solo, proprio a partire di qui Lévi-Strauss introdurrà in Europa il frutto più maturo delle scienze umane statunitensi: «l’antropologia culturale». Piccolo inciso. Proprio mentre rivoluziona lo sguardo occidentale sulle «culture» come sistemi, Progresso e «primitivi», lo studioso è del tutto inconsapevole della tragedia che incombe sull’Europa. Di ritorno dagli Usa, tenterà addirittura di tornare ad insegnare nel suo vecchio liceo parigino, prima di essere messo sull’avviso da un funzionario ai permessi di Vichy, che gli dirà: «Professore, con un nome così!. Segno non solo di un temperamento da studioso assorbito dai suoi lavori, ma anche di un certo motato come ministro della pubblica istruzione (non se ne fece nulla).
Ma torniamo alla sua rivoluzione epistemologica, consegnata a opere quali, Strutture elementari di parentela; Razza e Storia; Tristi Tropici; Antropologia strutturale; Il crudo e il cotto. Da un lato c’era la «cultura», in quanto sistema di relazioni sociali. «Unica», nelle sue varietà geografiche e storiche, secondo la linea di Boas. E cultura riletta con gli occhi di Durkheim, risposta «funzionale» ai bisogni di produzione e riproduzione del mondo. Dall’altro però c’era il linguaggio. Ma non tanto come lingua parlata, bensì come modello: sistema di segni alla Saussure. E segni coincidenti con le «strutture di parentela». Con i riti e i miti, le abitudini alimentari. Ecco la rivoluzione: il linguaggio come sfera del simbolico. Codificato in invarianti, inclusioni ed esclusioni, tabù e procedure consentite/obbligate. Era la famosa «struttura». Atemporale, inconscia, sovrapersonale. Irriducibile ad altre strutture di altre culture, benché confrontabile, sul piano metodologico.
LA POLEMICA CON SARTRE
Stanno qui le radici della famosa disputa tra storicisti e strutturalisti, la polemica con Sartre e l’ esistenzialismo. Se gli storicisti rivendicavano il ruolo dell’umano e della storia, lo strutturalismo mirava alla struttura tendenzialmente non modificabile, se non per rotture, «coupures» epistemologiche. Come quelle dei «paradigmi linguistici» in Foucault o in Althusser, o in storici della scienza come Kuhn. E il punto affermato da Lévi-Strauss era questo: nelle società primitive era il «simbolico» a fungere da tecnica produttiva. Cioè l’incesto e la sua proibizione, le regole familiari e claniche. E l’economia era riproduzione culturale e non «economica». Come accade nello «scambio simbolico» del dono teorizzato da Marcel Mauss, tra i maestri di Levi-Strauss. All’opposto, con la modernità occidentale, è l’economia a fare cultura, almeno in una prospettiva marxista o post-marxista (anche in Weber). Ne derivava non solo un’intera scuola di pensiero: Lacan, Foucault, Baudrillard. Ma un nuovo criterio interpretativo del vivere sociale, dove l’immaginario inconscio e rappresentativo è inseparabile dall’economia, anche nelle società moderne. La sfida teorica che Levi Strauss ci lascia è allora questa: il potere dei segni come forza produttiva di ogni società e di ogni relazione. Ieri come oggi.❖
L’ultima intervista
«I miei Tristi Tropici, come un romanzo»
di Anna Tito
2005, nel cinquantenario di quella sua opera, concesse a l’Unità una delle sue ultime rare interviste. La ricerca sul campo, l’odio per i viaggi, l’ebraismo, Hitler, la politica. Ecco cosa ci disse
Nel 2005 Claude Lévi-Strauss concesse a l’Unità una delle rare interviste dei suoi ultimi anni. Ecco ampi stralci di quel colloquio.
In occasione dell’Anno del Brasile in Francia, Lévi-Strauss accetta di tornare con noi sul suo rapporto con il Paese dal legno color brace. Ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Tristi Tropici, un romanzo più che un testo scientifico, dedicato agli indios del Brasile, che ha segnato un’epoca e che tuttora seduce e intriga: «Lo scrissi per diversi motivi spiega -: in primo luogo perché mi ero appena sposato per la terza volta e la mia vita era cambiata, poi perché l’editore Plon mi aveva chiesto un libro per lanciare una nuova collana, e infine per cimentarmi nella narrativa». (...) «Il Brasile rappresenta l’esperienza più importante della mia vita, specie per la lontananza e il contrasto. La natura mi appariva tanto diversa da quella che conoscevo. Me ne andai nel 1939 e vi tornai, per pochi giorni, nel 1985. Quel viaggio mi sconvolse: San Paolo, scomparsi i residui dell’epoca coloniale, era ormai una città spaventosa».(...) Dopo il Brasile abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: (...) «Io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo... Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”».
Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista». (...) Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno». (...) Ricorda ridendo che: «nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato! ».(...) Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni». E poco lo interessava il sionismo (...). Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco (...)».
È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione (...). La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo. Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente: «il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».❖
Le lezioni di un mestro che reinventava il mito
di Marino Niola
Insegnava al Collège de France e venivano ad ascoltarlo da tutto il mondo La sua opera è ricaduta come una pioggia benefica su tutti i campi del sapere
Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l’ironia tagliente e l’erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l’amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un’atmosfera gelidamente silenziosa.
Eppure era questo stile d’altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell’uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L’effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l’urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell’Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell’Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell’Occidente. In un nuovo modo di pensare l’uomo. Facendo così dell’antropologia il fondamento di una critica radicale dell’Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava.
L’uomo che ha inventato l’antropologia ha incarnato in pieno l’ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell’umanità. In questo senso l’autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane. Nessun antropologo ha esercitato un’influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall’arte alla musica contemporanea, l’opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell’uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell’astrazione pura che parla dell’uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa.
È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.
Dalla delusione per la filosofia all’incontro con i popoli selvaggi
La fuga dall’occidente alla ricerca dell’altro
di Umberto Galimberti
Dopo l’avventurosa peregrinazione nel Mato Grosso si chiede: "Cosa sono venuto a fare qui?"
Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po’ perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissionoe incaricata di organizzare l’università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.
In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell’Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell’antropologia del Novecento.
Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un’inquietudine che rode l’anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.
Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d’origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un’avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c’è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell’orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l’esistenza dell’Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.
Agli "antipodi" dell’Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?».
Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l’Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l’ha promossa, l’intenzione profonda che l’ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.
La mente sistematica di un cuore selvaggio
di Enrico Comba (il manifesto, 04.11.2009)
«Odio i viaggi e gli esploratori», una frase indimenticabile, che apre il volume forse più letto e conosciuto di Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (1955), una frase che rimane impressa indelebilmente anche nei lettori che non odiano affatto i viaggi e gli esploratori e che prediligono quella letteratura di viaggio al cui genere l’opera da cui è tratta nonostante tutto appartiene e che ha stimolato generazioni di viaggiatori e di ricercatori che si sono avventurati alla ricerca di tropici più o meno tristi. Una frase paradossale, dunque, che sembra riassumere i molteplici paradossi che caratterizzano l’opera e il pensiero di Lévi-Strauss: probabilmente l’antropologo più celebre e influente del Novecento, che tuttavia ha lasciato più critici che allievi, la cui opera è guardata con venerazione e rispetto ma per lo più scorsa frettolosamente dalle generazioni più recenti di studiosi.
L’antropologo francese ha avuto la singolare fortuna di poter assistere, nel corso della sua lunga vita, non solo al culmine della propria notorietà e del prestigio accademico e scientifico, ma anche al declino dell’interesse per le proprie opere, fin quasi alla tacita emarginazione, e infine alla lenta riscoperta e rivalutazione che si è fatta strada solo negli ultimi anni.
Sotto il segno dell’universale
L’opera immensa e straordinaria di Lévi-Strauss riscuote spesso reazioni contrastanti e diametralmente opposte: alcuni lo ammirano senza riserve e sono affascinati dallo stile raffinato ed elegante, mentre altri rimangono infastiditi e insofferenti di fronte al linguaggio a volte oscuro e a un argomentare fluido e sfuggente.
Eppure la figura di Lévi-Strauss segna una profonda trasformazione nella storia dell’antropologia: la disciplina, dopo aver assorbito gli stimoli e le sollecitazioni dovuti alla sua opera, non è stata più la stessa di prima. Il pensiero dell’autore di Tristi Tropici ne ha modificato la fisionomia, ne ha trasformato il ruolo e le prospettive, ne ha rinnovato l’autorevolezza e la notorietà. Lévi-Strauss ha rappresentato un genere di antropologia diversa da quella resa celebre, per esempio, da Malinowski: una ricerca dettagliata e approfondita di una singola realtà etnografica attraverso la ricerca lunga e sistematica sul terreno, lo sforzo di vivere come un nativo e di narrarne il significato e le implicazioni.
L’antropologia lévi-straussiana è piuttosto una ricerca comparativa di ampio respiro, che si propone di esplorare l’ampio spettro delle differenze e delle somiglianze tra le società umane per mettere in luce ciò che di universale le accomuna e le sottende. La sua opera sulle Strutture elementari della parentela (1949) ha costituito per oltre mezzo secolo un riferimento obbligato per gli studi antropologici e ha segnato una svolta nel modo di affrontare lo studio dei sistemi sociali. Quello che appariva come un caotico groviglio di usanze, costumi, regole e proibizioni estremamente variabili da una cultura all’altra comincia a prendere forma, sotto il rigoroso e sistematico esame dell’antropologo, mostrando l’esistenza di una serie di principi fondamentali che stanno alla base di tutta una vasta serie di fenomeni.
Le varie forme di prescrizione matrimoniale, che stabiliscono chi si può (o si deve) e che non si può (o non si deve) sposare, rimandano a un numero limitato di principi strutturali riconducibili al modello dello scambio. L’apparente disordine e confusione della variabilità culturale trova la propria giustificazione e possibilità di spiegazione attraverso l’individuazione di un nucleo di principi strutturali universali. Forse un meccanismo troppo semplice per spiegare adeguatamente la molteplicità dei fenomeni e delle situazioni empiriche, come è stato messo in evidenza dagli studi successivi, tuttavia il salto di qualità che quest’opera ha consentito di fare è stato immenso e ha fornito argomenti di discussione e di riflessione per i successivi cinquant’anni di studi e di ricerche.
Per Lévi-Strauss, questa ricerca di ordine nel caos delle percezioni e delle rappresentazioni è un’esigenza che si manifesta non soltanto nel lavoro dell’antropologo, ma più in generale in ogni sistema culturale umano. L’uomo è essenzialmente un «animale simbolico», la sua caratteristica fondamentale e universale consiste nel costruire un sistema di categorie attraverso cui dare ordine e significato al mondo che lo circonda. Così come ogni lingua si fonda su una particolare articolazione e scelta dei suoni, ciascuna cultura elabora un complesso sistema di classificazione della realtà, che si basa anch’esso su un numero limitato di regole e di principi ma che può dare luogo a un’immensa varietà di rappresentazioni.
È grazie all’opera di Lévi-Strauss, in particolare al suo volume sul Pensiero selvaggio (1962), che si è affermato ampiamente il principio secondo cui i popoli extra-europei non sono semplicemente dominati da un pensiero «magico», da superstizioni e credenze assurde e irrazionali, da concezioni empiricamente infondate, ma dispongono di complessi e articolati sistemi di classificazione e di descrizione del mondo. La conoscenza del mondo naturale, degli animali, delle piante, del territorio manifestata da molti popoli indigeni si rivelava, grazie alle pagine dell’antropologo francese, di un’inaspettata profondità e accuratezza. Non solo, ma questa propensione a classificare, osservare, descrivere, è stata ricondotta da Lévi-Strauss a una universale qualità intellettiva dell’uomo, che è indipendente dalle esigenze immediate di ordine materiale.
La famosa frase, rivolta in modo critico alla teoria utilitaristica di Malinowski, in cui si afferma che gli animali per il pensiero indigeno sono non tanto «buoni da mangiare» quanto soprattutto «buoni da pensare», costituisce per l’antropologia un momento di svolta decisivo: viene di colpo restituita a tutta l’umanità, anche a quella più lontana ed esotica, la dignità intellettuale, la capacità di interrogarsi e di osservare, la curiosità di indagare e di scoprire, la necessità di porsi delle domande e di cercare delle risposte. A molti antropologi della seconda metà del Novecento questa enfasi posta da Lévi-Strauss sulla dimensione intellettiva della cultura è sembrata eccessiva e squilibrata: lo si è accusato di mentalismo e di intellettualismo, di trascurare in modo indebito gli aspetti più materiali dell’esistenza, come i condizionamenti ecologici e le esigenze della produzione economica, la dimensione corporea e le pratiche ad essa collegate. Tuttavia, rimane a Lévi-Strauss l’indiscutibile merito di aver portato una ventata di aria fresca in un settore che era rimasto a lungo intriso da radicati pregiudizi e da prospettive obsolete.
La sua insistenza sul fatto che il pensiero umano funziona dappertutto secondo meccanismi identici e che gli uomini «hanno sempre pensato altrettanto bene» ha contribuito in modo decisivo ad abbandonare l’idea che vi fossero differenze sostanziali nelle facoltà intellettive e nelle capacità riflessive tra le società umane.
Nel regno del mito
A partire dagli anni Cinquanta, i principali lavori teorici di Lévi-Strauss si sono rivolti a un campo di studi particolare e alquanto inconsueto: quello dei miti. La scelta sembra apparentemente bizzarra: perché interessarsi per tanti anni e con tanto impegno a quel coacervo di storie improbabili, a quei racconti apparentemente incoerenti e fantasiosi provenienti dalle lontane foreste dell’Amazzonia o dagli altopiani delle Montagne Rocciose?
Tuttavia, anche in questo caso, Lévi-Strauss è stato in grado di mostrare come dietro quell’insieme caotico di eventi e di narrazioni, che raccontano di incesti e di assassini, di uomini e di animali, di luoghi misteriosi e di poteri sovrumani, esisteva un ordine, un disegno nascosto. Sovrapponendo e confrontando fra loro una versione con l’altra, un racconto con un altro, cominciavano a emergere alcune linee guida che dimostravano come i creatori di quelle narrazioni avessero cercato di rispondere ad alcune importanti questioni, che riguardano anche noi, uomini e donne del XXI secolo.
L’analisi delle mitologie delle Americhe conduce Lévi-Strauss a individuare un sistema di pensiero in cui la distinzione tra la natura e la cultura svolge un ruolo centrale. In realtà, secondo Lévi-Strauss, questo tema è fondamentale per l’umanità nel suo complesso: come spiegare altrimenti la spontanea facilità con cui tendiamo a distinguere in modo netto e reciso tra noi umani e gli altri animali? Perché abbiamo la tendenza a porre una barriera tra l’uomo e, poniamo, il cane e lo scimpanzé e caso mai siamo disposti a riconoscere una certa affinità maggiore tra noi e il nostro cagnolino piuttosto che con una scimmia abitatrice delle foreste, quando la distanza genetica che ci separa da quest’ultima è molto più piccola di quella esistente tra noi e il cane e quando la distanza tra cane e scimmia è molto più grande di quella tra gli uomini e i primati?
Per rispondere a tali interrogativi occorre prendere in considerazione il ruolo del pensiero simbolico come fonte per la costruzione di un ordinamento del mondo in cui l’uomo vive. Tuttavia, le diverse società umane risolvono in modo diverso gli stessi interrogativi fondamentali e l’analisi delle mitologie amerindiane consente di mettere in luce proprio le modalità attraverso le quali quelle società hanno sviluppato il rapporto tra la natura e la cultura. Nella definizione del mondo umano e nella sua contrapposizione al mondo circostante, molte culture americane hanno sottolineato non tanto la radicale separazione e incommensurabilità tra una dimensione e l’altra, quanto piuttosto le varie forme di mediazione che rendono possibile il passaggio tra natura e cultura, tra animalità e umanità, tra continuo e discontinuo.
Nei lunghi percorsi tortuosi che si addentrano nell’intrico delle mitologie americane e si snodano nei quattro ponderosi volumi delle Mythologiques (1964-1971), l’autore mostra come ogni mito richiami altri miti, della stessa popolazione e di altre popolazioni, più o meno vicine, in un continuo processo di rifrazioni e di trasformazioni. Dal sovrapporsi e intersecarsi dei motivi mitici comincia poco a poco a delinearsi un certo ordine, in cui il tema della cucina costituisce il fattore ricorrente. Il fuoco infatti costituisce un elemento di distinzione per eccellenza tra gli uomini, che padroneggiano il fuoco e mangiano cibi cotti, e gli altri animali, che fuggono impauriti alla vista del fuoco e che si nutrono di cibi crudi. Il fuoco costituisce così un essenziale strumento di trasformazione: è grazie all’impiego del fuoco che gli uomini sono in grado di trasformare il cibo crudo, prodotto della natura, in cibo cotto, risultato dell’intervento della cultura. I miti che narrano l’origine del fuoco sono poi connessi, in vario modo, con altri miti che raccontano l’origine dei maiali selvatici, che costituiscono la fonte principale di cibo ottenuto attraverso la caccia, e quindi la materia prima su cui si esercita l’arte della cucina. Questi a loro volta richiamano altri due elementi: il tabacco e il miele.
Che cos’hanno in comune il miele, il tabacco e il fuoco da cucina? Lévi-Strauss mostra, con un talento e una raffinatezza di riflessione ineguagliabili, come il miele costituisca una sorta di alimento già «cotto», cioè preparato, allo stato di natura, quindi senza l’intervento dell’uomo. Il tabacco, invece, richiede, per essere consumato, di venire bruciato: si ha così una sorta di eccesso di intervento culturale, che pone il tabacco in relazione con gli esseri soprannaturali. Così mentre il miele è un prodotto elaborato da esseri non umani (le api), il tabacco è un prodotto il cui consumo culturale implica la sua distruzione, per aspirarne il fumo. Tutti questi racconti finiscono quindi per parlare delle stesse cose e per elaborare in vari modi il tema delle molteplici forme di passaggio dal mondo naturale al mondo culturale e viceversa.
Allievo e testimione dei primitivi
Le analisi di Lévi-Strauss sono complesse, intricate, si sviluppano per centinaia di pagine e non sono quindi facilmente ripercorribili. Molti autori le considerano elaborazioni cervellotiche e infondate. Tuttavia, il lettore che abbia la pazienza di scorrere quelle pagine ne rimarrà affascinato e coinvolto: non potrà sfuggire alla sensazione che quelle storie, apparentemente strane e sconnesse, devono essere prese sul serio e, con esse, i loro lontani e remoti creatori. E allora il ricordo corre inevitabilmente alla lezione inaugurale, tenuta nel 1960 al Collège de France, al termine della quale l’antropologo francese volle tornare con il pensiero ai popoli della foresta tropicale presso i quali aveva svolto le sue prime ricerche e di cui si definì «loro allievo e loro testimone». Generazioni di antropologi si sono sforzati e ancora si sforzeranno in futuro di sviluppare le profonde conseguenze e implicazioni di questa affermazione, per alcuni aspetti sorprendente, di Claude Lévi-Strauss.
Gente
Noi indigeni
di Bartholomäus Grill - Die Zeit, Hamburg, 11 settembre 2008 n° 38
http://www.zeit.de/2008/38/OdE47-Volk?page=all
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
«Popolo» può essere un sinonimo di «massa»; i nazisti intendevano con questo termine una comunione di sangue. E l’etnologo Claude Lévi-Strauss nell’incontro con la stirpe dei Nambikwara volle comprendere meglio la sua propria cultura. Una ricerca di tracce nel cuore del Brasile.
E alla fine scorgiamo il Rio Papagajo, che è largo circa cento metri e la cui acqua è così chiara che nonostante la profondità se ne può vedere il fondo roccioso. Sull’altra sponda del fiume scorgiamo due figure nude: i Nambikwara.
È il 17 giugno 1938, un giorno di ardente calura, quando la Spedizione della Sierra do Norte incontra i primi rappresentanti di questa tribù india. L’impresa scientifica è guidata da Claude Lévi-Strauss, l’antropologo francese è in cammino verso i popoli «primitivi» nel cuore dell’America meridionale. Egli vuole studiare la loro cultura, i cicli della vita da nomadi, i rituali, i tabù, la rappresentazione della natura, il rapporto fra i sessi, l’organizzazione sociale. I Nambikwara popolano la Chapada dos Parecis, un altopiano inospitale e a quei tempi ancora completamente sconosciuto nell’ «ovest selvaggio» del Brasile. Lévi-Strauss con la sua tropa, la sua carovana tirata da buoi, segue la traccia di Cândido Rondon, un ambizioso generale d’armata che aveva impiantato in questa terra incognita una linea telegrafica. È una carovana faticosa, accompagnata da numerosi contraccolpi, accessi di collera, incertezze e da quel senso di sconforto che suscita un paesaggio desolato e monotono. Ma lo spirito del ricercatore spinge avanti Lévi-Strauss, l’inestinguibile curiosità e la volontà del moderno etnologo non soltanto di studiare popoli stranieri, ma di meglio comprendere la propria cultura nel loro incontro.
Lungo mille chilometri abbiamo seguito l’itinerario di Lévi-Strauss, da Cuiabà, la capitale della provincia del Mato Grosso, su in alto in quel mitico altopiano dal quale nascono molti affluenti del Rio delle Amazzoni. La selvaggia regione di un tempo si è trasformata in un mare sterminato di monocolture. Soia, miglio, cotone, girasoli, canna da zucchero fino all’orizzonte, milioni di ettari, i campi grandi quanto qui da noi [ndt.: in Germania] un intero distretto governativo. Frattanto in questa regione infuria la battaglia fra produttori più grande al mondo, qui è il centro della nuova potenza agricola mondiale, il Brasile, e il territorio è altrettanto desolante, anche se in altro modo, quanto una steppa, la cui monotonia depresse Lévi-Strauss e i suoi compagni di viaggio.
Settant’anni dopo il loro arrivo alla meta, quasi nello stesso preciso giorno di giugno vi è di nuovo grande afa, scivoliamo su una zattera sulla cristallina acqua verde smeraldo del Rio Papagajo. Siamo accompagnati da due indio, dal cacicco Torcilo Zomoi Zokae, capo del villaggio di Utiariti, e da suo figlio diciottenne Waldinei. Essi non vogliono per alcun motivo corrispondere al quadro che il mondo esterno si è immaginato, fantasticando sugli ultimi abitanti della foresta vergine. Il padre porta short e flipflop, dalla T-shirt verde brillante del figlio Spongebob mostra la lingua. I due ci guidano a una stazione, caduta in rovina, di missionari gesuiti che un tempo vollero convertire i «selvaggi». Di questo loro posto avanzato non è rimasto molto: un paio di tombe trascurate, il boschetto di mango, inselvatichito, le rovine della chiesa e delle case nelle quali abitavano i Padri. Nel villaggio restano ancora in piedi un paio di pali del telegrafo della linea Rondon, fra gli isolatori di porcellana proliferano i nidi di termiti. Proprio sotto alla missione il rio Papagajo cade per una profondità di novanta metri. È come se il passato fosse sprofondato in un eterno rombo di tuono.
Ma dove troviamo i Nambikwara? Ma questo piccolo popolo esiste poi ancora? Oppure è stato stritolato dal rullo compressore della modernizzazione, come Lévi-Strauss aveva profetizzato già negli anni ’30?
In questo tratto di terra vivono ancora indios, ma come Tarcilo e suo figlio appartengono alla stirpe dei Paressi. Abitano in case di mattoni con acqua corrente ed elettricità. Davanti alla veranda del cacicco vi sono un’antenna satellitare e una Chevrolet Conquest rosso vino, un pick-up, del quale lui è molto orgoglioso. «Se volete trovare Nambikwara dovete andare avanti ancora per un paio di centinaia di chilometri».
Di nuovo la strada passa attraverso monocolture quasi infinite. Per i popoli primitivi non vi è più spazio, sono d’intralcio al progresso. I loro vasti spazi vitali si sono ristretti alle terras indigenas, alle riserve indie. Prima di giungere alla città di Comodoro, nei pressi degli argentei scintillanti silos della multinazionale agraria americana Cargill deviamo su un sentiero cespuglioso e dopo otto chilometri raggiungiamo il primo villaggio dei Nambikwara. Tuttavia villaggio non lo si potrebbe proprio definire, vi sono un paio di capanne di legno, ripari e scompigliate protezioni antivento, che ricordano piuttosto un campo per profughi. Fra gli alloggi sono sparsi tutt’attorno ogni sorta di arnesi, paletti, stuoie e ceste, dalla cui struttura di vimini riconosciamo l’artigianato Nambikwara.
Improvvisamente l’affabilità si muta in aperta ostilità
Non siamo benvenuti, perché oggi ha luogo una grande festa. Perciò non si vogliono avere fra i piedi i brancos, nessun bianco, che già di solito qui non si fanno mai vedere. Tre donne, che non ci degnano di uno sguardo, schiacciano tuberi di manioca, dalla cui bianca poltiglia ricavano un succo che chiamano chicha. All’ombra di un assito se ne stanno accovacciati un paio di ubriachi - cachaça, acquavite di canna da zucchero. Due tipi portano in testa ornamenti di magnifiche penne di pappagallo. Ci squadrano diffidenti. Uno ci affronta senza salutare. «Io sono Erdo». Erdo, il cacicco. Ha lasciato dietro a sé i suoi anni migliori, ma la sua pelle tesa e senza rughe splende come quella di un adolescente; è tinta di rosso fuoco con l’ urucum, una tintura vegetale. Al collo gli pende una collanina di perle nere, le braccia sono ornate nella parte superiore da fasce di rafia. Dal suo labbro superiore sporge ad angolo retto una barretta decorativa di lunghezza e spessore di un bastoncino di Mikado [ndt.: gioco diffuso in Europa settentrionale].
«Festeggiamo le nostre ragazze, adesso sono in età da marito», spiega il cacicco. Poi si volge immediatamente verso altri interlocutori, se ne va, ritorna. Racconta che dal 1955 qui si sono stabilite tre tribù Nambikwara. Che un tempo avevano vissuto sulle rive del Rio Juruena e cacciato nella steppa. Quindi si volge ancora altrove e accende un rotolino di foglie grigioverdi. Fuma. Tace. Ci guarda fisso. «Nella foresta la vita era migliore», dice dopo una lunga pausa pensosa. «La soia e tutte queste cose sono pericolose. Non è buona cosa stabilirsi nei dintorni delle fazendas. A causa dei concimi velenosi». Non possiamo parlare molto a lungo col capo villaggio perché un giovanotto, con uno sguardo alquanto aggressivo, ci interrompe. «Se volete saperne qualcosa portatevi appresso cento litri di carburante diesel!». La voce si fa improvvisamente tesa e noi facciamo esperienza di ciò che tutti i visitatori dei Nambikwara sanno: la loro timida gentilezza si gira all’improvviso in aperta ostilità. Calmiamo l’adirato giovane e ci accordiamo per un dono da ospiti: venti litri di diesel da consegnare l’indomani dopo la festa.
Lettura serale dei resoconti di ricerca di Lévi-Strauss. Irrita il fatto che egli classifichi i Nambikwara nella categoria «popolo». Che cosa è precisamente in realtà, un popolo? Non vi è alcuna definizione precisa, il concetto ha molti significati, è vago - e fatale, se viene esagerato demagogicamente. Nel linguaggio corrente «popolo» è usato come sinonimo di vasta massa o di gente «semplice». In un contesto relativo alla visione del mondo definisce un grande gruppo di persone che comprendono loro stesse come unità omogenea e fanno discendere il loro passato collettivo dalle profondità dei tempi più remoti. Condividono origine, eredità culturale, lingua e costumi, la fede e i miti. Si tratta di una costruzione ideologica che genera il nazionalismo in nuce - ogni popolo vorrebbe distinguersi e delimitarsi da tutti gli altri. Lo «Stato più naturale» sarebbe «un popolo con un carattere di nazione», proclamò Johann Gottlieb Herder. Dal parlottare di popolo di questo tedesco, filosofo della storia, una linea di tradizione spirituale conduce notoriamente all’urlo da dominatori ariani dei nazisti, alla comunione di sangue «di razza pura»: un popolo, un Reich, un Führer.
Nella società multietnica della fine del XX secolo concetti come «popolo» o «stirpe» sono divenuti obsoleti - e nello stesso tempo celebrano il risollevare la testa del barbarico. Nella Jugoslavia in dissolvimento, creazione statale artificiale, modelli di identità etnica furono storicamente sovralimentati e strumentalizzati in chiave di potere politico - il risultato fu una guerra di autoannientamento con «pulizie etniche». In Ruanda l’«etnografia immaginaria» dei padroni colonialisti, che per un centinaio d’anni divisero la popolazione nei «ceppi» degli Hutu e dei Tutsi è sfociata in un genocidio. «Assassinio di popoli» chiamiamo noi in Germania questi crimini; così la parola «popolo» venne riservata per definire in modo politicamente corretto le vittime.
Oggetto della moderna etnologia è l’etnia, espressione con la quale gli scienziati definiscono una popolazione di persone che condividono storia e cultura e vivono insieme su un determinato territorio. Tuttavia i ricercatori sul campo parlano come prima di popoli primitivi, popoli naturali o popoli indigeni - come se la pluralità e la trasparenza degli oggetti di studio potessero eliminare l’indeterminatezza del concetto. Gli etnologi, che hanno buttato via la zavorra ideologica e non vogliono più chiamarsi Völkerkundler [ndt: equivalente a etnologo ma con diversa composizione], si liberano dalla percezione eurocentrica, dal buio razzista dei padri fondatori, che hanno suddiviso l’umanità in civilizzati e barbari, ma si tirano dietro i termini tradizionali ed equivoci. Popolo, stirpe, etnia. Anche Lévi-Strauss li ha nel suo bagaglio intellettuale. E noi pure, i giornalisti.
In tutto il mondo esistono ormai soltanto 5.000 di queste comunità primitive
Il giorno seguente gli abitanti dell’accampamento se ne stanno pigri nelle amache o sulla terra fortemente calpestata fra le capanne. Soltanto i bambini schiamazzano in giro, alcuni hanno il ventre gonfio, segno di malnutrizione. Si rotolano sul suolo, la loro pelle è ricoperta da una crosta di polvere e cenere, perché nelle notti fredde dormono molto vicino al fuoco. I piccoli hanno l’aspetto come se fossero cresciuti dalla terra. Oggi veniamo accolti più amichevolmente. Carlos Sul Kithaulu, un insegnante disoccupato che ha studiato a Porto Velho, ci saluta. Lévi-Strauss? «Quello lo conosco. Alcune cose che ha scritto su di noi sono giuste». Scarabocchia nella polvere con un bastoncino i contorni della riserva dei Nambikwara. Poi vi traccia gli spazi vitali dei diversi clan. «Così, siamo ancora circa 1.400».
Nell’anno 1915 devono esserci stati, nella steppa cespugliosa, ancora 20.000 Nambikwara. Nel primo terzo del secolo scorso furono decimati da devastanti epidemie, morbillo, vaiolo o influenza, che i coloni bianchi avevano portato con sé. Il sistema immunitario degli indios non fu in grado di difendersi da questi agenti patogeni. I loro discendenti dovettero prima o poi rinunciare alla vita nomade. Essi si trasferirono nelle favelas, nei quartieri-miseria delle grandi città, oppure andarono a finire in una riserva, dove su piccoli appezzamenti coltivano manioca, patate dolci, zucche, mais e canna da zucchero, tengono pollame, raccolgono verdure selvatiche, pescano nei fiumi e cacciano nella boscaglia cinghiali, scimmie e pappagalli, talvolta anche armadilli e formichieri. Ma in sostanza hanno tutti bisogno di assistenza sociale e di loro si occupano i funzionari statali dell’Ente Protezione Indios (Funai).
Si unisce a noi un cacicco di un insediamento vicino, che si presenta come Jaime. Ha 41 anni, un uomo robusto meticcio, con un ciuffo nero come la pece, i cui tozzi occhiali forniti dalla Cassa Malati formano un bizzarro contrasto con il bastoncino, della lunghezza di un fiammifero, che attraversa il suo setto nasale. «I vecchi tempi erano molto migliori», dice Jaime. «Avevamo la nostra cultura. Per ogni popolo è una sciagura se perde la sua cultura». Ai Nambikwara mancano le qualità per sussistere nel mondo dei conquistatori; essi non conoscono lo «spirito di competizione e non vogliono posizioni di potere, constata Lévi-Strauss.
Quando Rondon costruì la sua linea telegrafica e un numero sempre maggiore di cercatori d’oro, seringueiros [ndt.: raccoglitori di caucciù], cercatori di diamanti e allevatori di bestiame occupò la terra degli indios, questi cominciarono a difendersi. Nel 1933 i Nambikwara uccisero sei persone nel centro missionario protestante di Juruena - un atto di disperata autodifesa. All’arrivo dei dominatori coloniali europei sul continente vivevano cinque milioni di indios, oggi sono ormai circa 350.000. Gli etnologi, come «scopritori» e studiosi dei popoli primitivi, sono sempre anche i cronisti del loro tramonto. In tutto il mondo esistono ancora all’incirca 5.000 di queste comunità, ovunque sono minacciate dallo sfruttamento delle risorse naturali, vengono scacciate, trasferite a forza o sterminate. L’etnografo se ne sta di fronte alla rovina di antiche culture come l’astronomo davanti alle stelle che si allontanano da lui, scrive Lévi-Strauss. Tutte le etnie che egli ha analizzato sono più che mai a rischio: per le malattie «bianche», l’alcol e la tossicodipendenza, per gli squadroni della morte dei latifondisti avidi di terre.
La moderna etnologia è l’autointerpretazione nello [straniero] sconosciuto
Di recente fece il giro del mondo la spettacolare immagine di una «tribù» presumibilmente non ancora scoperta. In una radura della foresta vergine si vedeva un paio di uomini, rilucenti di rosso rame; scagliavano frecce contro un elicottero che sorvolava proprio i tetti delle loro capanne. Essi rifiutano la nostra civilizzazione, vogliono vivere come hanno vissuto da tempo immemorabile.
Una tromba d’aria spazza l’accampamento e nel risucchio del suo imbuto fa turbinare in aria l’immondizia. «Fa le pulizie», dice Jaime e ride. Davanti alla capanna lì accanto crepita un fuoco, tre pietre e sopra un tegame - la cucina all’aperto, immutata dai tempi del neolitico. Poiché questo accade in tutte le popolazioni primitive, senz’altro facciamo entrare a forza in esse la felice età infantile dell’umanità e le “romanticizziamo” come «sopravvissute dell’età della pietra». Come Lévi-Strauss, anche noi ci abbandoniamo a un«fascino malaticcio». Lévi-Strauss era rapito dalla «soddisfazione ingenua e incantevolmente istintiva» dei Nambikwara.
Ma le persone che incontriamo casualmente non sembrano in genere felici e soddisfatte. Nella loro povertà disadorna si annidano indifferenza e abbandono e noi avvertiamo ciò che Lévi-Strauss già aveva sentito: compassione per queste «persone schiacciate al suolo da una inesorabile catastrofe». Questo sentimento costituisce il colore di fondo della sua magnifica opera principale, Tristes tropiques, nella quale racconta la sua spedizione presso gli indios. È il libro più bello e più triste che l’etnologia ci ha regalato. Lévi-Strauss smaschera la nostra percezione del «nobile selvaggio» come pura proiezione - che ha molto più a che fare con la nostra propria nostalgia che con la sua realtà sociale. Alla fine non si sa se la strabiliante cognizione che Lévi-Strauss si era conquistata in Brasile non sia una consolazione: se La pensée sauvage, il pensiero dei selvaggi, segua la logica universale dello spirito umano. Essi pensano come noi e noi pensiamo come loro. «Io ho un intelletto neolitico», postula Lévi-Strauss. Egli ha dimostrato ciò che prima di lui molti etnologi intuivano ma rimuovevano: che l’osservazione di altre culture sempre rinvia alla nostra propria. La moderna etnologia è interpretazione di sé stessi nello straniero.
Chiediamo al cacicco Jaime quale sia il suo più grande desiderio. Egli non capisce la domanda. Oppure non ci riesce la traduzione nella sua lingua, che lui chiama Yainjausu. Per farlo avevamo fatto ricorso a Curt Unckel di Jena, il primo etnologo che cent’anni fa aveva vissuto fra i Nambikwara e parlato la loro lingua. Lévi-Strauss ne comprendeva soltanto un paio di frasi fatte, eppure fu in grado di documentare con precisione le loro strutture sociali e religiose. Ma l’antica cultura dei Nambikwara è morta e una nuova non è stata formata. Gli aborigeni sono in condizioni di abbandono e immersi in una almanaccante melanconia nella terra di nessuno fra la tradizione e la modernità. Il leggendario esperto di indios Sidney Possuelo fa il bilancio: in 508 anni nessuna stirpe delle nostre è stata in grado di adattarsi veramente alla civilizzazione.
Lasciamo l’accampamento e passiamo di nuovo davanti ai silos della Cargill, a queste cattedrali di acciaio dell’industria agraria. Quando pieghiamo sulla strada asfaltata ci passa per la mente la frase conclusiva di Lévi-Strauss: «Avevo cercato una società ridotta alla sua espressione più semplice. Quella dei Nambikwara era così semplice che in essa ho trovato soltanto persone».
Bibliografia su questo tema:
Bartolomé de las Casas: Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie
[ndt.: questi due riferimenti, frutto di una ricerca superficiale, possono essere integrati con altro materiale esistente in Internet]
http://www.geocities.com/Paris/Concorde/8914/
http://www.mexicoart.it/Ita/azttest.htm
Claude Lévi-Strauss: Tristi tropici
Il saggiatore, Milano, 1982
Nigel Barley: Die Raupenplage [Il flagello dei bruchi]
Von einem, der auszog, Ethnologie zu betreiben; dtv 1998; 190 S., 19,50 €
Etnologia
Noi barbari
di Thomas Assheuer
Die Zeit, Hamburg, 20.11.2008
http://www.zeit.de/2008/48/Levi-Strauss-100?page=all
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Questo articolo è corredato da un’illustrazione visibile al link:
http://www.zeit.de/popups/bildungskanon/popup-volk (ci si sposti con le frecce)
Claude Lévi-Strauss compie oggi 100 anni. Il suo pensiero è attuale come non mai.
Nessun altro ha descritto con altrettanta lucidità la forza distruttiva della nostra civilizzazione.
In questi giorni la comunità degli studiosi comincia con gli allestimenti per la sua immortalità. Claude Lévi-Strauss compie cento anni e gli oratori ufficiali moltiplicheranno lo splendore purpureo della sua celebrità e di lui diranno ciò che vi è da dire: che egli è l’etnologo vivente più importante e anche l’antropologo più significativo, il testimone sommo del XX secolo, un intellettuale eminente. E naturalmente un illustratore della scienza, colui che con i suoi indimenticabili libri ci ha fatto conoscere i «popoli primitivi».
Tutto questo è giusto e tuttavia è soltanto la mezza verità. In realtà il festeggiato ha fatto anche un’altra scoperta, che mette i panegiristi in imbarazzo. Nei suoi viaggi di esplorazione Lévi-Strauss si imbatté in una cultura tribale che gli apparve irritabile ed estremamente pericolosa. Essa ha depredato la natura, devastato intere regioni, venerato idoli vanesi, massacrato i propri simili ed era malfamata per le sue storiche carneficine. Frattanto questa esotica cultura tribale ha messo in fuga tutti i rivali e domina il mondo. Il suo nome è «civilizzazione».
Anche il secondo messaggio, con il quale Claude Lévi-Strauss ha fatto parlare di sé negli anni ’50, fu una provocazione. L’Uomo, lasciò intendere, è una «macchina» con «miliardi di cellule nervose sotto il termitaio del cranio». In contrasto con l’animale guidato dall’istinto la macchina umana ha uno svantaggio innato. Per cavarsela nella giungla dei fatti e delle contraddizioni ha bisogno di aiuti simbolici e di miti esplicativi.
A prima vista i miti, che da millenni gli uomini si raccontano, sono di sconcertante molteplicità; ma in realtà, così sostiene Lévi-Strauss, essi seguono invisibili modelli e strutture invarianti. Quasi tutte le culture conoscono la storia del misterioso Gral e quasi tutte si raccontano la storia del figlio che desidera ardentemente la madre e che vuole togliere di mezzo il padre. O la storia della donna cui il giaguaro dà la caccia nella foresta vergine e che è salvata da una voce di bambino. In simili storie la figure sono intercambiabili, non deve esserci necessariamente né un giaguaro né un bambino. Tuttavia sono identiche le strutture che si nascondono sotto la superficie narrativa. Tutto questo può soltanto significare: non già le persone pensano loro stesse nei miti, ma i miti si pensano nelle persone. E la nuova teoria che ha portato alla luce le leggi della struttura si chiama - strutturalismo.
Ora, prima di fare a Lévi-Strauss il rimprovero, secondo gli usi accademici, della «avversione per l’individuo», si dovrebbe riflettere su un punto: il metodo strutturale, sviluppato nei quattro volumi della Mythologica, era innanzitutto un atto di equità, una riabilitazione e un tardivo riconoscimento delle culture non occidentali. Quindi, se tutte le società «cavalcano» le medesime strutture, se l’intrecciato cosmo immaginario dei «primitivi» è complesso in modo simile a quello della civiltà progredita, la civilizzazione occidentale perde in un sol colpo la sua superiorità culturale. «La ricchezza e l’audacia nelle invenzioni estetiche dei melanesiani, la loro facoltà di includere nella vita sociale i prodotti più oscuri dell’attività inconscia dello spirito, formano una delle più alte vette che gli uomini abbiano mai raggiunto in questo campo. Il «selvaggio» non è un essere vivente arretrato, ma è un partecipante con parità di diritti nella rappresentazione teatrale dell’umanità, che ebbe inizio da tempo immemorabile su questo pianeta “graziato” da una combinazione cosmica e che prima o poi, esaurito dalla sua stessa opera, giungerà alla sua fine naturale.
Ritratto
Claude Lévi-Strauss
L’etnologo nasce il 28 novembre 1908 a Bruxelles, figlio di genitori ebrei francesi. Studia filosofia e diritto a Parigi, insegna come professore al ginnasio e diviene professore di sociologia all’Università di San Paolo (Brasile) nel 1935. In questo periodo si collocano lunghi viaggi di esplorazione nel centro del Brasile. Nel 1939 è richiamato nell’esercito francese e nel 1941 si rifugia negli Stati Uniti. Dopo il suo ritorno Lévi-Strauss insegna Antropologia sociale al Collège de France. Le sue opere sono pubblicate in tedesco dalle Edizioni Suhrkamp. Thomas Reinhardt ha scritto un’eccellente monografia per le Edizioni Junius.
Mentre l’astro del razionalismo lentamente si offusca, Lévi-Strauss fa risplendere il genio delle culture orali, l’incantesimo del culto e della magia. A rilucere iniziano anche le età derise in quanto «infantili», per esempio la «rivoluzione neolitica», che«ebbe ugualmente il suo Pasteur come anche le altre». In tutti i tempi «gli uomini hanno amato, odiato, sofferto, ricercato e lottato. Nella realtà non vi sono popoli infantili; sono tutti adulti, anche quelli che non hanno scritto alcuna cronaca della loro infanzia».
Del «cuore» teoretico dello strutturalismo oggi poco è rimasto e da metodo rigoroso divenne una moda buffa, che presto diede sui nervi perfino al suo inventore. Anche lo charme provocatorio si è sbiadito. Nessuno più trascurerà oggi con noncuranza la distinzione di mito e religione o susciterà l’impressione che la libertà umana sia in conclusione un incidente irrilevante nel teatro strutturale della natura, né tanto meno una dolce finzione che si dipinge sulla parete della prigione, per meglio sopportare l’umana miseria.
Pierre Bourdieu, un tempo suo ammiratore, si distaccò per questo leggermente da Lévi-Strauss; Jean-Paul Sartre lo accusò di «oblio della storia». Non era del tutto sbagliato. In effetti Lévi-Strauss nei passi più foschi della sua opera trasforma la storia del mondo in una messa in scena naturale, in un corteo di maschere dai segni mitici, che si trascina sul globo terrestre fino alla fine di tutti i giorni. «Naturalizzazione dei rapporti» gridavano gli studenti nel Maggio 1968 a Parigi e malignavano: «Le strutture non corrono in giro per la strada».
Per quanto sconvolgente fosse, la controversia rimase stranamente in superficie. Perché l’impegno sul campo del ricercatore, nel frattempo divenuto celebre, era di altra natura, era molto più radicale di quanto i rivoluzionari potessero immaginarsi. Infatti Lévi-Strauss studiò non soltanto il «pensiero selvaggio» dei «popoli naturali»; si pose allo stesso tempo come un etnologo del Moderno - come qualcuno che si vede costretto a esaminare profondamente la «natura» della civilizzazione. Perché in qualunque luogo i suoi viaggi lo conducessero, passo passo si scontrò negli orridi marchi a fuoco dell’Occidente, mentre il «primitivo», l’incontaminato e autentico è introvabile, o nel migliore dei casi oscuro e opaco.
«Ciò che i viaggi ci mostrano è la sporcizia con la quale abbiamo lordato il volto del genere umano». Il pugno di indios con i quali ancora entra in contatto sono degli scampati, sopravvissuti al loro sterminio. Sempre più il «luogo selvaggio» diventa lo specchio che gli svela la verità sulla sua propria, abbrutita età. «Come l’indio nel mito sono anch’io corso tanto lontano quanto la Terra lo permette e, giunto alla fine del mondo, ho interrogato gli esseri e le cose e ho conosciuto la sua medesima delusione».
La frase è tratta da Tristi Tropici, il racconto, di trascinante scrittura, su un viaggio in Brasile, pubblicato nel 1955, che nello stesso tempo è tutto: un’elegia romantica, un incomparabile monumento della cultura occidentale, di cui preannuncia il tramonto - e una malinconica lettera d’addio, il cui destinatario non è altri che l’intera umanità.
I tropici per Claude Lévi-Strauss sono desolati in molti sensi. La loro vita non vive più, sono predisposti al distacco e segnati dall’approssimarsi della loro morte. Non ci vorrà molto prima che la resistenza maestosa della foresta pluviale venga infranta e le stirpi indie del Mato Grosso si estinguano o vegetino nelle periferie cittadine, catturati dai missionari del razionalismo, che corrono attraverso la boscaglia con la fiaccola dell’età dei lumi e ne riducono in cenere i segreti. «Mai più i viaggi, scrigni pieni di promesse fantastiche, ci sveleranno incontaminati i loro tesori. Una civilizzazione sovreccitata disturba per sempre la calma dei mari. Una fermentazione di odori equivoci guasta i profumi dei tropici e la freschezza degli esseri viventi». Le «isole della Polinesia soffocano nel cemento», le baraccopoli «corrodono l’Africa».
Il mondo è cominciato senza uomini. E così anche finirà.
Questa è l’infinita, straziante melodia di Tristi tropici, mai sdolcinata, un requiem alla cultura occidentale, la «grande creatrice di tutti i prodigi, dei quali ci rallegriamo» - una cultura alla quale non è riuscito «produrre questi portenti senza il loro rovescio della medaglia». Quanto miserabile è il suo mito di eterno progresso, il riciclaggio senza visione della propria vacuità - e quanta memoria è insita nei rituali dei «selvaggi», che ricevettero il loro passato in vita e in ogni albero incontrarono il loro antenato. L’Occidente non ha alcuna intuizione che la sua presunzione è provinciale, il suo raziocinio imperiale e il suo benessere vacuo. «Noi non comprendiamo perché principi, che sono stati fruttuosi per il nostro sviluppo, non siano apprezzati dagli altri tanto da indurli a prenderli per il loro proprio uso».
Non è già che per Lévi-Strauss i selvaggi siano le persone migliori. Anch’essi hanno commesso pesanti peccati, soprattutto gli Aztechi con la loro «sete maniacale per il sangue e la tortura». Eppure nella gara per la distruzione del mondo le società occidentali, non importa se capitaliste o comuniste, occupano il primo posto - per quanto riguarda i rituali della crudeltà, la somma dei massacri e delle atrocità le si dovrebbe paragonare agli Aztechi. Di nuovo, il modo nel quale le culture arcaiche si comportano con la rottura delle regole sociali pretese da lui profondo rispetto. L’Occidente chiude i suoi criminali a migliaia dietro le sbarre e ne fa marcire i corpi ancora vivi - gli stessi antropofagi si comportano più umanamente. «Alla maggior parte delle società, che noi chiamiamo primitive, questo uso avrebbe provocato profondo disgusto e ci avrebbe impregnato ai loro occhi della stessa barbarie che noi cerchiamo di addossare loro».
Anche il modo occidentale di concepire l’economia gli appare singolarmente esotico. Esso dice: «Tutto quello che tu fai - deve avere una ricompensa». Esso è stregato dalla magia-vodoo della crescita ed è pazzamente invaghito dell’insulsa accumulazione di beni e capitale. La sua essenza è l’eccesso, il forzato «incremento di energia». I suoi stregoni hanno ricompensato passioni che le culture arcaiche disprezzano profondamente, soprattutto eccesso e cupidigia. E i «primitivi»? Essi vivono in equilibrio con la creazione, vogliono dono e danno dono in contraccambio.
Infine i tropici sono tristi perché suscitano nel viaggiatore il presagio della certezza che la civilizzazione ha tagliato il legame con la natura e si è estraniata per sempre dal ciclo del Divenire e della Trasgressione, della nascita e della morte. Soltanto un filosofo ha visto arrivare la sventura, Jean-Jacques Rousseau, «il nostro maestro, il nostro fratello, al quale [tutti] noi non abbiamo dimostrato altro che ingratitudine». Attraverso tutta la propria opera Lévi-Strauss lo porta in palmo di mano, lo venera [ndt: gli è ai piedi], perché Rousseau lo aveva saputo: per l’umanità sarebbe stato meglio aver mantenuto la via mediana, l’equilibrio fra l’ «inerzia della condizione primitiva» e l’ «attività irruente del nostro amor proprio». Adesso «è troppo tardi», la surriscaldata civilizzazione non può mantenere le sue fondamenta naturali e scomparirà come quei «giganteschi animali preistorici», la cui diffusione era incompatibile con i «meccanismi interiori della loro esistenza». Ciò che segue è la stasi e l’entropia. L’uomo lavora con successo alla «dissoluzione dell’ordine [naturale] primitivo», caccia la «materia organizzata in una condizione d’inerzia» e «distrugge miliardi di strutture per spostarle in uno stato nel quale esse non si lasciano più integrare». Vi è un conforto nel cuore delle tenebre? Vi è. «Il mondo è iniziato senza gli uomini e finirà anche senza di loro».
Il sogno della vita buddista e delle meditazioni sull’indicare [mostrare, insegnare]
Con il viaggio nell’estraneo la civilizzazione si «strania» in una cultura tribale divenuta selvaggia, che ricopre tutto con le sue piaghe o si impone con i suoi patterns. A partire dal colonialismo, «questo peccato mortale», l’Occidente disprezza l’incontaminato e «vi sarà quiete soltanto quando l’arcobaleno delle culture umane sarà affondato definitivamente nell’abisso della nostra furia». Un’ultima volta la foresta vergine amazzonica gli apre gli occhi sulla tragedia della cultura occidentale, sull’epidemia dell’insensatezza: essa volle libertà, ma resta soffocata dalla mancanza di libertà - come schiava della sua propria forma di vita giacque nelle catene della costrizione materiale e misurata su questo la vita dei selvaggi era di paradisiaca libertà. O in una formulazione più grandiosa: la Modernità tappa le «fessure aperte nel muro della necessità» - per «completare la sua opera nel medesimo istante in cui chiude a chiave la sua stessa prigione».
Certamente, questa era la critica della cultura degli anni ’50, il pessimistico incantesimo di una prosa sull’offuscamento del mondo, che poteva rappresentarsi il futuro soltanto come rovina, come arroccata tristesse, come grigio sul grigio di progressione e uniformità senza senso, in breve: come «umanità astratta», che «è avida di Agfacolor» e «inserisce tutto il vivente nel circuito mercantile». In direzione opposta l’etnologo sogna di una Modernità altra, «buddistica», nella quale svanisce la «distinzione fra il senso e la mancanza di senso [ndt: qui come significato]» e che è riempita dalle «meditazioni sull’essere ai piedi dell’albero».
Questa è la sua più bella contraddizione, la più filantropica. Lévi-Strauss «esotizza» la civilizzazione e la descrive dal punto di vista della sua fine - e precisamente per questo essa gli diviene nuovamente familiare e riconquista la sua benevolenza. Con questa mossa del suo pensiero l’etnologo conclude la sua avventura intellettuale, per definire la quale una grande parola è abbastanza grande: la riflessione su di sé della Modernità, l’avventuroso tentativo di pensare il tutto come Tutto. Tutto è perduto, si dice ora, «ma nulla è perso (al gioco). Noi possiamo ricominciare tutto da capo». Non ci sarà un altro mondo e in ciò sussiste il compito dell’uomo, difendersi dal declino e mettere in opera il sogno di una «umanità fraterna». Già per questo concetto si può celebrare chi oggi compie cento anni.
Il grande antropologo compie cent’anni il 28 novembre
Lévi-Strauss, una rivoluzionaria idea di uomo
Il padre dello strutturalismo non è diventato famoso per aver descritto popoli primitivi, ma per le implicazioni generali del suo pensiero che incidono profondamente sul rapporto natura-cultura aprendo strade del tutto nuove
Il suo è un attacco frontale alla concezione antropocentrica dell’universo
Ad essere scardinata è la storia della metafisica e dei suoi concetti
di Marino Niola (la Repubblica 21.11.2008)
Il 28 novembre si festeggia il centesimo compleanno di Claude Lévi-Strauss. L’ultimo dei maîtres à penser. L’uomo che ha fatto dell’antropologia quel che Freud fece della psicoanalisi, cioè uno dei grandi saperi del Novecento. Non solo una disciplina specialistica, per pochi esploratori di mondi esotici, ma un nuovo modo di vedere l’uomo.
Nessun antropologo ha esercitato un’influenza altrettanto vasta al di fuori del proprio campo. Con questo moralista classico in presa diretta sullo stato d’urgenza planetaria l’antropologia va fuori di sé per diventare scommessa filosofica in grado di revocare in questione l’opposizione tra natura e cultura, e la definizione stessa dell’umano. A differenza di altri grandi antropologi come Franz Boas, Bronislaw Malinowski, Margaret Mead e Gregory Bateson, il padre dello strutturalismo non è divenuto celebre per aver descritto popoli primitivi ma piuttosto per le implicazioni generali del suo pensiero. E proprio in questo ampio respiro stanno il fascino e la sfida dell’impresa teorica levistraussiana.
L’antropologo francese non è stato il primo né il solo a sottolineare il carattere strutturale dei fenomeni sociali, ma la sua originalità sta nel prendere questo carattere sul serio e trarne imperturbabilmente le conseguenze. È naturale che una ricerca di questo tipo abbia suscitato discussioni e polemiche non fosse altro che per il fatto di condurre ad una messa in discussione di certe categorie tipiche dell’umanesimo occidentale, non ultimi i concetti di «uomo» e di «umanità». E d’altra parte in un celebre passo del Pensiero selvaggio Lévi-Strauss ha affermato che «il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l’uomo ma nel dissolverlo».
La conoscenza dell’alterità, che rappresenta il compito dell’etnologia, è solo la prima tappa di un itinerario di ricerca delle invarianti che consentono di riassorbire «talune umanità particolari in una umanità generale». E dunque di «reintegrare la cultura nella natura e, in sostanza, la vita nell’insieme delle sue condizioni fisico-chimiche». Il vero oggetto della polemica levistraussiana è con tutta evidenza quell’umanismo che fonda i diritti dell’uomo sul carattere unico e privilegiato di una specie vivente, quella umana, anziché vedere in tale carattere un caso particolare dei diritti di tutte le specie. Più che di una professione di antiumanesimo si tratta di un attacco frontale portato alla sua declinazione antropocentrica, alla metafisica umanistica del soggetto. A questo insopportabile enfant gaté delle scienze umane, il grande antropologo oppone una concezione dell’uomo «che pone l’altro prima dell’io, e una concezione dell’umanità che, prima degli uomini, pone la vita». In questo senso è stato osservato che Lévi-Strauss ha contribuito a decostruire «la convinzione giudaico-cristiana e cartesiana secondo la quale la creatura umana è la sola ad essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio».
Se si chiede ad un Indiano americano cosa sia un mito, ci sono molte probabilità che risponda: «una storia dei tempi in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti». Questa definizione appare a Lévi-Strauss di grande profondità perché «malgrado le nuvole d’inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana per mascherarla, nessuna situazione pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di una umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l’usufrutto e con le quali non può comunicare». Affiora qui il pessimismo dell’autore di Tristi Tropici che all’idea prometeica dell’uomo che assoggetta la natura, sostituisce una visione tragica del soggetto e di una natura entrambi mutilati, perché separati dall’altra parte di sé.
Un decentramento del soggetto che riflette l’idea di un rapporto non strumentale con la natura in cui, per dirla con Adorno, questa non è mero oggetto, Gegenstand, ma piuttosto partner, Gegenspieler. Già nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologista in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l’antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico, e per ciò stesso etnocentrico, che dimentica i diritti del vivente in nome di un’idea astratta della vita, che fa dell’uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura. In questo senso Michel Maffessoli ha ritenuto di poter accostare la denuncia levistraussiana del saccheggio del mondo alla critica heideggeriana della devastazione della terra da parte della metafisica.
Per Derrida la nascita stessa dell’antropologia è stata possibile a condizione di questo decentramento del soggetto che ha inizio «nel momento in cui la cultura europea - e di conseguenza la storia della metafisica e dei suoi concetti - è stata scardinata, scacciata dal suo posto, costretta quindi a non considerarsi più come cultura di riferimento». La critica dell’etnocentrismo, che è stata, e resta, la condizione stessa dei saperi antropologici è, per l’autore de La scrittura e la differenza, contemporanea, addirittura simultanea alla distruzione della storia della metafisica.
In un celebre testo dedicato a Jean-Jacques Rousseau, Lévi-Strauss istituisce una relazione tra l’identificazione agli altri, e addirittura «al più "altro" fra tutti gli altri, l’animale», e il rifiuto di tutto ciò che può rendere accettabile l’io. Il rifiuto insomma di quella trascendenza di ripiego che resta, a suo avviso, profondamente insediata nell’umanesimo. In molte occasioni il padre dello strutturalismo rimprovera infatti ai filosofi, in particolare agli esistenzialisti, di aver operato un rovesciamento prospettico, dando prova di un’autentica perversione epistemologica, pur di costruire un rifugio per l’io «nel quale quel misero tesoro che è l’identità personale tenda a essere protetto e dato che le due cose insieme sono impossibili essi preferiscono un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto». In questa idea di una razionalità senza soggetto affiora proprio quel «kantismo senza soggetto trascendentale» attribuito a Lévi-Strauss da Paul Ricoeur a proposito dell’analisi dei miti con la quale il grande antropologo ha offerto la formulazione più radicale delle sue tesi sull’accordo esistente tra cultura e natura, fra spirito e mondo.
E a quei filosofi che lo accusano di avere abolito il significato dei miti e di averne ridotto lo studio a sintassi di un discorso che non dice niente, Lévi-Strauss, nelle ultime pagine de L’uomo nudo, riserva una risposta a dir poco tranchante. Le mitologie, egli afferma, non nascondono nessuna verità metafisica né ideologica ma in compenso ci insegnano, per un verso, molte cose sulle società che le tramandano e per l’altro verso ci offrono l’accesso a certe modalità operative dello spirito così stabili nel tempo e ricorrenti nello spazio da poterle considerare basilari. E conclude con una suprema sprezzatura: «lungi dall’averne abolito il senso, la mia analisi dei miti di un pugno di tribù americane ne ha tratto più significato di quanto se ne trovi nelle banalità e nei luoghi comuni a cui si riducono, da circa duemilacinquecento anni, le riflessioni dei filosofi sulla mitologia, a eccezione di quelle di Plutarco».
Molti hanno rimproverato allo strutturalismo un atteggiamento antistorico, ma in realtà Lévi-Strauss ha sempre tenuto a distinguere nettamente la storia, alla quale attribuisce un’importanza straordinaria, dalla filosofia della storia à la Sartre, una pseudo-storia che, in ogni sua versione, laica o confessionale, evoluzionista o storicista, costituisce un tentativo di sopprimere i problemi posti dalla diversità delle culture pur fingendo di riconoscerli in pieno. Tale filosofia della storia - che appare a Lévi-Strauss della medesima natura del mito - deriva dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico che si muta in teoria del progresso. Il vizio costitutivo di tale filosofia, che rivolge verso il futuro il concetto classico di istorein e trasforma il racconto del passato in previsione del futuro, un futuro oggetto di un’attesa fideistica. In questo senso Lévi-Strauss non si limita a respingere l’accusa di antistoricismo ma, quel che più conta, rivendica all’antropologia un modo tutto proprio di interrogare i materiali storici, con quell’attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana che fa degli etnologi gli «straccivendoli» della storia, quelli che rimestano nelle sue pattumiere.
E una vera e propria eterologia quella messa in opera da Claude Lévi-Strauss, in grado di farci cogliere quanto di noi stessi c’è nell’altro e quanto di altro si trova in fondo a noi stessi. Quel fondo che ci fa tutti parenti perché tutti differenti e che qualcuno continua a chiamare umanità.
Cosa vuol dire ragionare in termini di millenni
Un pomeriggio col professore
di Bernardo Valli (la Repubblica, 21.11.2008)
Prima di raggiungere l’appartamento del Sedicesimo Arrondissement, a due passi dalla Senna e dalla Maison de la Radio, sfogliai Tristi Tropici, e ne rilessi alcuni passaggi. Non avevo detto a Claude Lévi-Strauss il motivo dell’incontro. Né lui si era dimostrato curioso. Era un puntuale collaboratore di Repubblica (era stato Pietro Citati a convincere lui e il medievalista Georges Duby a scrivere per le nostre pagine culturali), e con la redazione parigina, che faceva da tramite, aveva ormai un rapporto se non assiduo garbato. È dunque approfittando di questo modesto legame che quel giorno di dicembre andai a casa di Lévi-Strauss armato di numerose e ambiziose intenzioni.
Avrei voluto anzitutto che mi parlasse del romanzo che aveva cominciato a scrivere a Parigi, di ritorno dal Brasile nei mesi precedenti alla guerra del ?39. Romanzo che avrebbe probabilmente avuto come titolo Tristi Tropici, lo stesso adottato quindici anni dopo per il saggio, in cui la magia della scrittura fa dimenticare facilmente che non si tratta di una fiction. Nelle prime pagine del romanzo abbandonato figurava la descrizione del tramonto («... ces cataclysmes surnaturels...») osservato dal ponte della nave diretta nell’America del Sud, descrizione poi recuperata, insieme al titolo, nel saggio pubblicato nel ?55. Lévi-Strauss trovò che le prime pagine del romanzo erano «un pessimo Conrad» e abbandonò per sempre l’idea di lanciarsi nella narrativa pura. La trama immaginata e gettata nel cestino era la vicenda di un viaggiatore che in Oceania usa un grammofono per ingannare gli indigeni e farsi passare per un dio.
Mi sarebbe piaciuto descrivere il «mancato Conrad» diventato uno dei grandi intellettuali del secolo. La prima domanda che mi proponevo di rivolgergli era dunque già pronta: «A trent’anni lei voleva usare i suoi viaggi tra gli indiani kaingang, caduveo e boroboro, come Conrad usò i suoi viaggi di mare nei romanzi? In questo caso, se avesse avuto successo come romanziere, il suo destino sarebbe radicalmente cambiato?». Mi affascinava appunto l’idea del mancato romanziere che per ripiego si dedica interamente all’etnologia, sia pur scrivendo, per nostra fortuna, anche di musica, di pittura, oltre che di letteratura. Qualche volta di poesia. Un Lévi-Strauss che ha rinunciato a inventare trame esotiche, ritenendo di non avere un talento adeguato, e che ha invece raccontato scientificamente civiltà «selvagge», traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell’uomo: peccato che consiste «nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell’espediente».
La mia ambizione si è sgonfiata in pochi secondi quando mi sono trovato davanti Lévi-Strauss, più che novantenne, ironico, forse divertito, del mio iniziale, prolungato silenzio, durante il quale valutavo l’opportunità di affrontare un tema tanto remoto e intimo. In definitiva gonfiato dalla mia immaginazione. Lasciai dunque cadere, saggiamente, il tema del mancato Conrad, e scivolai nel contrario: cioè nella stretta, banale attualità. Gli chiesi cosa pensasse della moneta unica europea che in quei giorni entrava o stava entrando in servizio.
Rise. «Cosa c’entra un antropologo? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a uno storico? Io mi occupo di selvaggi», si schernì. Per difendermi ricordai un vecchio testo di Merleau-Ponty, il filosofo amico di Lévi-Strauss, scritto in occasione della nomina di quest’ultimo al Collège de France. In quel testo si parlava di un’opera fondamentale per l’antropologia sociale: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss. Il tema ricorre ovviamente nelle opere di Lévi-Strauss. Perché non recuperare l’argomento e allacciarlo alla vita d’oggi?
Alla mia candida, ingenua reazione il padrone di casa venne in mio soccorso. Mi disse: «Allo scoppio della guerra, nel ?14, avevo sei anni e andai in banca a offrire le monetine che possedevo per la difesa della patria. I franchi erano allora d’oro». Per lui la svolta nel rapporto col denaro è avvenuta quando si è passati dalle monete metalliche a quelle di carta. Quella è stata la vera rottura. Quanto a una moneta indipendente dai governi nazionali, era a suo avviso una fortuna. Può darsi che tutto finisca in un disastro, ma non sarà un disastro peggiore di quello provocato puntualmente dai politici sul piano monetario.
«Vede - aggiunse - il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla. Immagini tra venti o trentamila. Pensiamo a tante cose come importanti ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino».
Gli chiesi allora cosa era stato fatto, ad esempio, di tanto importante decine di migliaia di anni fa da esserlo ancora oggi. Disse: «Certamente l’invenzione del vasellame, della ciotola per prima, e del tessuto che usiamo ancora. Sono cose più importanti di quelle che si scoprono adesso e di cui non sappiamo se resteranno tali, cioè importanti, nei millenni a venire». Neppure la bomba atomica con la quale l’uomo ha costruito qualcosa che può distruggere l’umanità? «Non sono sicuro che sia vero. Anche se si fanno esplodere tante atomiche insieme non sono certo che si distruggerebbe l’umanità intera». Non resteranno neppure le scoperte nella genetica? «Si, penso che resteranno. Ma via via che si faranno delle scoperte ci si accorgerà che è molto più complicato di quel che si immaginava. Il mondo, la vita sono assai più misteriosi oggi di quanto lo fossero uno o due secoli fa. Perché allora si pensava che fossero semplici».
E la cosiddetta globalizzazione, che rimpicciolisce il mondo, sul piano economico e su quello dell’informazione, diventata simultanea sull’intero pianeta? «Non è una cosa che mi rallegra - mi disse Lévi-Strauss-. Penso che le differenze siano più interessanti. Quando era tutto molto diverso, il cinese poteva aspettarsi molte cose da noi, e noi da lui. Adesso che siamo quasi uguali possiamo aspettarci molto poco uno dall’altro. Immagino che tante differenze riaffioreranno. Presto». Il mondo rimpicciolito dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, ha ucciso, per lui, anche il viaggio esotico, come esisteva un tempo. Era già minacciato al tempo di Tristi Tropici.
Il secolo DI LÉVI-STRAUSS
IL SUO STRUTTURALISMO SALVA L’ANTROPOLOGIA
Oggi compie cent’anni il più grande antropologo vivente,«allievo e testimone» di lontani popoli sperduti.
Si è battuto perché l’antropologia ottenesse uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia
di Francesco Remotti (il manifesto, 28.11.2008)
Che lo si voglia o no, le celebrazioni di Lévi-Strauss che in questi giorni fioriscono sui mezzi di comunicazione, finiscono con l’essere un tentativo di valutazione di un’eredità: al di là della sua «inattualità» e della sua solitudine, che cosa è vivo del lavoro di Lévi-Strauss, che cosa è recuperabile, e che cosa invece si può o si deve tralasciare? A sentire per radio le dichiarazioni di alcuni antropologi (come per esempio Marc Augé) o leggerne i commenti sui quotidiani (come quello di Enrico Comba, qui accanto), si ha l’impressione che ciò che non è più proponibile sia proprio il nucleo metodologico della sua antropologia, cioè il suo strutturalismo. In effetti, sono talmente tanti, ricchi e profondi gli aspetti del pensiero di Lévi-Strauss da recuperare e riproporre, che si sarebbe indotti ad abbandonare al suo destino storico, come una sorta di relitto, proprio ciò su cui Lévi-Strauss ha giocato la credibilità scientifica della sua antropologia. Ebbene, nello spazio che mi è concesso, intendo compiere un’operazione di recupero dello strutturalismo di Lévi-Strauss (la parte più «inattuale» del suo lavoro). Per giungere a ciò, occorre ricordare in primo luogo la critica di Lévi-Strauss alle varie forme di storicismo, che vincola le potenzialità dell’antropologia alla considerazione esclusiva dei rapporti storici e al privilegiamento di società influenti o di civiltà storicamente dominanti. Contro lo storicismo, Lévi-Strauss ha sostenuto per l’antropologia la possibilità di stabilire connessioni di intelligibilità tra fenomeni e forme culturali anche lontani nel tempo e nello spazio e comunque a prescindere dall’esistenza di relazioni storiche. Fin dall’inizio del suo strutturalismo, Lévi-Strauss ha rivendicato la legittimità di un’analisi che ponga in connessione, per esempio, l’arte dei Kwakiutl della costa americana di nord-ovest con quella dei Maori della Nuova Zelanda. Ciò non significa negare l’importanza delle relazioni storiche là dove si sono verificate; significa invece ottenere per l’antropologia uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia.
Vale la pena a questo punto ricordare che è tipico dello strutturalismo di Lévi-Strauss rifiutare di far coincidere il concetto di struttura con quello di sistema locale, storicamente condizionato: la struttura viene invece intesa come l’insieme delle possibilità di connessione che collegano un sistema locale con una molteplicità di altri sistemi. Questo fascio di connettibilità è ciò che Lévi-Strauss ha più volte chiamato «gruppo di trasformazioni». La struttura, la fonte di intelligibilità antropologica, non è dunque in un sistema particolare, ma è fuori dai sistemi: ovvero per capire un sistema (un fenomeno, una forma) occorre uscirne, conoscere altri sistemi altrettanto particolari e porli in connessione tra loro, farli dialogare. La struttura perciò non è una realtà storicamente data: è invece il fascio di possibilità di cui i sistemi concreti e storici non sono altro che realizzazioni particolari. L’antropologia ha il compito di ricostruire questo quadro più ampio, non lasciandosi intrappolare dalla logica dei sistemi particolari. Per raggiungere questo obiettivo e per garantirsi una connettibilità strutturale più sicura e veloce, lo strutturalismo di Lévi-Strauss ha compiuto due passi: un lavoro di forte astrazione dei fenomeni e la chiusura del numero delle possibilità, passi che oggi gli antropologi non si sentono di compiere, o perlomeno non sempre e non del tutto. E allora il problema si pone in questi termini: con il suo strutturalismo Lévi-Strauss ha indicato una via di salvezza per l’antropologia, un modo per sfuggire alla morsa della profezia di Frederic William Maitland (1899): «ben presto l’antropologia dovrà scegliere di essere storia o di non essere niente». La soluzione di Lévi-Strauss è di praticare un’antropologia come sapere trasversale, un sapere che pone in comunicazione forme diverse di intendere famiglie, matrimoni, politica, arte, umanità.
Il compito di risalire la corrente
Oggi, queste forme ci appaiono assai meno nitide: si presentano ai nostri occhi come tentativi, abbozzi, brandelli di umanità, modelli appannati, sporchi, frantumati e che si situano in un orizzonte di possibilità più vago e indeterminato. In queste condizioni, è comunque proponibile la connettibilità transculturale? È lecito pensare ancora a un’antropologia come sapere trasversale, anche se si tratta di una trasversalità faticosa, rallentata da ostacoli e dal peso dell’esperienza vissuta dei soggetti che vi partecipano? Per chi scrive, la risposta è sì, se si vuole che l’antropologia sopravviva come sapere accademico e nel contempo come una sorta di paradigma per le nostre società interconnesse, per le quali la convivenza si gioca appunto sulla capacità e sulla disponibilità non solo a capire gli altri, ma a capire noi stessi attraverso e grazie agli altri, anche gli altri più lontani e miserevoli, i rifiuti della storia, come appunto direbbe Lévi-Strauss, quelle «periferie dell’umanità» (Marshall Sahlins), pattumiere e fogne «ai margini del mondo capitalistico e industriale» (Eric Wolf) frequentate dagli antropologi. Qui non si tratta semplicemente di possibilità «altre», da capire nella loro pura diversità. Si tratta invece di quelle forme di umanità che la nostra civiltà ha calpestato: la loro miseria e la loro marginalità, il loro stesso scomparire parlano non soltanto di loro; parlano di noi, si connettono a noi, facendoci vedere - secondo una celebre frase di Tristi Tropici - la «nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità». Ma, oltre la denuncia di queste nefandezze, l’insegnamento di Lévi-Strauss si traduce in un atteggiamento che qualifica ulteriormente la ricerca antropologica: è un andare à rebours, un ricercare forme di umanità prima dello scempio e dello sfacelo, perché sarà pur vero che da sempre le società si sono ibridate e trasformate (Jean-Loup Amselle), ma ciò non deve farci dimenticare che il cataclisma antropologico contemporaneo non ha analoghi nella storia e che l’antropologia - se vuole salvaguardare la sua missione - ha il compito di risalire la corrente e, con il suo sapere etnologico, di conservare la memoria delle forme di umanità che abbiamo distrutto per sempre.
ANTROPOLOGIA · Un saggio critico di Mondher Kilani
Vittime sacrificali sull’altare della pace
di Alberto Burgio (il manifesto, 06.09.2008)
La buona critica passa per lo straniamento. Implica la produzione di punti di vista che permettono sguardi alternativi, spiazzamenti di prospettiva. In questo senso la buona critica è rovesciamento , proprio come la dialettica. Un esempio di buona critica è l’ultimo libro di Mondher Kilani, antropologo culturale, professore a Losanna, noto al pubblico italiano soprattutto per avere collaborato con René Gallissot e Annamaria Rivera alla nuova edizione (2001) de L’imbroglio etnico , tra i più lucidi contributi della recente letteratura antirazzista. Argomenti di Guerra e sacrificio sono le pratiche sacrificali, i loro contesti e i loro corredi simbolici.
La tesi centrale è netta: l’assunto corrente secondo il quale i sacrifici sarebbero appannaggio delle culture «primitive» è destituita di fondamento. I sacrifici persistono nella pratica sociale e politica della modernità. Non sono alcunché di primordiale. Non costituiscono eredità dell’arcaico. Rappresentano a pieno titolo liturgie della civilizzazione.
Menzogna e dissimulazione
Tra civilizzazione e violenza sussistono insomma relazioni non meno intime di quelle che caratterizzano le culture premoderne. Ed è subito evidente qui un primo nesso tra sacrificio e razzismo, che l’ideologia corrente rappresenta come «barbarie» e che è invece un portato della modernizzazione. Quanto alle violenze sacrificali, Kilani osserva che è semmai tipico delle culture «primitive» disporre pratiche compensatorie della violenza perpetrata nei confronti delle vittime, animali compresi.
E i conti tornano, se pensiamo che l’empatia col vivente (la pitié ) è un tratto cruciale dell’antropologia positiva di quel formidabile critico della modernità che fu Jean-Jacques Rousseau. A ben guardare, oggi i sacrifici dilagano. Costituiscono aspetti essenziali della costituzione materiale della politica, purché li si sappia riconoscere al di là di rappresentazioni rituali necessariamente mutanti. Si apre così il discorso centrale dell’analisi: la questione del rapporto tra sacrificio e guerra, che l’antropologia apologetica (eurocentrica) suole impostare in termini alternativi (e autoassolutori).
Anche a questo proposito la critica opera un rovesciamento, suggerendo di leggere nel conflitto bellico l’ apoteosi del sacrificio e demistificando le retoriche della guerra come strumento di giustizia o di democrazia. Emergono a tal fine insospettati elementi di continuità tra guerra e sacrificio e denominatori comuni, a cominciare dalle strategie di dissimulazione tese ad accreditare la guerra quale mezzo di pace, così come il sacrificio reclama per sé funzioni conciliative e riparatorie.
Kilani dedica al tema pagine importanti e convincenti, concentrate su un aspetto-chiave del discorso pubblico - il paradossale gioco linguistico tra menzogna e dissimulazione - scandagliato a fondo e con originalità anche da un bel libro uscito in questi giorni presso DeriveApprodi, La fabbrica del falso di Vladimiro Giacché ( il manifesto del 30 Luglio).
Vittime senza diritti
Non sottraendosi alla sfida di produrre un’ipotesi definitoria coerente con il proprio lavoro critico, Kilani propone di considerare sacrificio ogni violenza che laceri un quadro di regole per negare diritti alla vittima e de-umanizzarla. Torna qui il nesso con il razzismo (che è, nella sua essenza, disumanizzazione). Ma soprattutto il sacrificio - cifra della guerra - diviene così una chiave per leggere la stessa violenza immanente ai processi sociali e alle logiche della riproduzione.
Cos’altro sono, se non vittime di liturgie sacrificali all’altezza dei tempi, gli scarti che le nostre società riproducono in continuazione, i soggetti a vario titolo esclusi dalla cittadinanza e per questa via di fatto de-umanizzati? Lungi dal rimanere confinata nella rassicurante oleografia dell’arcaico, la «ragione sacrificale» rivela così tutta la propria inquietante attualità. Forse non è un caso che leggendo questo libro vengano alla mente svariati episodi del nostro passato recente.
Come non rammentare, per far solo esempio, il ruolo svolto dal sacrificio nel lessico politico-economico coniato in occasione della conversione compatibilista del sindacato, che affidò alla moderazione salariale (ai «sacrifici», appunto) il compito di garantire lo «sviluppo» del Paese, cioè un gigantesco drenaggio di ricchezza in pro dei redditi da capitale, azzerando via via tutte le conquiste strappate dal movimento operaio tra gli anni Sessanta e Settanta? Sacrifici, dunque, quali messe in scena nobilitanti della violenza bellica, politica e sociale della modernità «avanzata».
Nondimeno, Kilani affida testardamente alla politica il compito di neutralizzare la violenza sacrificale riattivando la dimensione razionale del dialogo e del negoziato. Introducendo il libro, Annamaria Rivera gli obietta che tale riscatto della politica implicherebbe tuttavia il ripudio della sintassi guerresca («la logica dell’opposizione amico/nemico») che sembra ormai pervaderla.
Il discorso si apre qui, come ognun vede, su scenari teorici di smisurato rilievo. Evocarli è l’ultimo merito di questo libro. Che ci ha fatto venire in mente - potenza dell’inattuale - quella pagina del Libro delle svolte in cui il grande e dimenticato Bertolt Brecht definisce i classici (Marx, Engels e Lenin) «i più compassionevoli tra tutti gli uomini» proprio perché «non esitavano a contrapporre la violenza alla violenza».
LIBRI , MONDHER KILANI , GUERRA E SACRIFICIO, DEDALO , PP. 168 , EURO 15
Compirà cent’anni il prossimo 28 novembre. È considerato il padre moderno di una disciplina che guarda alle culture con una mentalità «relativistica». Dopo le ricerche in Brasile, elaborò una teoria che ha condizionato generazioni di studiosi
LÉVI- STRAUSS
L’antropologia senza centro
DI LUCETTA SCARAFFIA *
Claude Lévi-Strauss compirà cento anni il prossimo 28 novembre, e la Francia si prepara a festeggiare quello che è stato, senza dubbio, il più importante intellettuale francese del Novecento. Anche il fatto che stia per raggiungere una età così significativa e rara gli conferisce un’aura speciale, un’aura che si aggiunge a quella di monumento vivente alla cultura del secolo, di cui ha impersonato al meglio la pretesa di trovare una spiegazione ’scientifica’ a tutto.
Si tratta di uno status che il grande antropologo ha raggiunto già da mezzo secolo: si può considerare, infatti, che la sua consacrazione sia avvenuta il 5 gennaio 1960, giorno della lezione inaugurale al Collège de France, che non solo lo accoglieva fra i suoi membri, confermando ufficialmente il suo statuto di grande studioso, ma si apriva alla disciplina da lui - in un certo senso - inventata, l’Antropologia strutturale. Egli realizzava così, finalmente, la sua ambizione di estendere il dominio dell’antropologia fino a comprendere tutte le scienze umane, studiate con metodi scientifici analoghi a quelli delle scienze naturali. Lévi-Strauss, profeta della morte del soggetto e papa della modernità trionfante, si presenta quindi ai suoi contemporanei come colui che svelerà loro il senso di quello che sembrava solamente disordine.
Il suo immenso successo non è solo di natura accademica: se oggi pensiamo che non esistono le razze, ma solo le differenze culturali, se crediamo che non si possono fare differenze di valore fra le culture, se pensiamo che un mito Hopi sia interessante e importante come un Vangelo, è solo grazie all’influenza esercitata dal suo pensiero. Un’influenza non solo positiva: come ha scritto un suo contemporaneo e critico, il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, «l’ateismo moderno, non è la negazione di Dio, ma l’indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto al giorno d’oggi, il più disorientato e il più disorientante ». Nato nel 1908 da una famiglia ebraica ormai assimilata nella società francese, laureato in filosofia, trova la sua strada nella ricerca etnologica grazie alla possibilità di insegnare per un periodo all’università di San Paolo, in Brasile.
La scelta dell’etnologia - racconta nelle sue interviste - è stata quasi casuale: per alcuni anni, infatti, si era impegnato soprattutto in politica, con il partito socialista e il sindacato e forse, se le occasioni fossero state altre, la sua vita avrebbe preso una direzione diversa. Gli anni trascorsi a San Paolo, e soprattutto i mesi di vacanza dall’università passati a fare ricerca fra le popolazioni indigene meno contaminate dalla civiltà occidentale - e questi saranno gli unici periodi di ricerca diretta sul campo della sua lunga vita di studioso - costituiranno invece il suo battesimo come etnologo e gli faranno scoprire l’intensa attrazione per l’esotico e il diverso.
L’esilio obbligato a New York durante il regime di Vichy lo mette in contatto con l’antropologia anglosassone, allora all’avanguardia, e gli consentirà di tessere relazioni durature e importanti anche con la comunità degli intellettuali esiliati là durante la guerra. Particolarmente feconda la sua amicizia con il linguista russo Roman Jakobson, grazie a cui scoprirà la linguistica strutturale, che gli offre la possibilità di arrivare a un sapere oggettivo - come quello delle scienze naturali - in cui vedrà la chiave per ritrovare, sotto la superficie della storia e degli avvenimenti, la logica che porta il reale a essere quello che è. Egli si pone davanti al mondo come davanti a un testo, che bisogna imparare a leggere e comprendere direttamente.
L’applicazione dell’analisi strutturale ai sistemi di parentela delle tribù amerindie da lui studiate costituì il primo banco di prova di queste teorie innovative. La famiglia, per Lévi-Strauss, non è un fatto naturale, e ogni spiegazione naturalista non può arrivare a spiegare il suo funzionamento; l’unica spiegazione è quella culturale, che egli trova nei simboli della parentela. Un sistema di parentela, egli scrive, «esiste solo nella coscienza degli uomini »: oggi sappiamo bene quali effetti questa affermazione ha determinato nelle nostre società.
Il ritorno in Francia nel dopoguerra non fu facile, anche se quelli furono gli anni di una feconda collaborazione con l’Unesco, per cui scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Razza e storia, nel quale confutava l’esistenza delle razze, nonché quella di una gerarchia fra le culture. Intorno a questa tesi scoppiò un vivace dibattito: Roger Caillois, sociologo e scrittore, accusò Lévi-Strauss di relativismo, perché obbligava l’etnologo a essere coscienza critica dei valori della cultura da cui era emerso. Mentre, al contrario, per Caillois sarebbe proprio l’esistenza dell’etnologia a confermare la superiorità dell’Occidente sui ’primitivi’.
Un lungo viaggio in Estremo Oriente per l’Unesco lo metterà in contatto con le religioni orientali e con l’islam, verso cui proverà una manifesta antipatia; il suo agnosticismo radicale lo avvicina solo al buddhismo, che considera l’unica religione accettabile. Nel 1954 la sua fama cresce improvvisamente grazie a un libro non scientifico, una sorta di romanzo filosofico di viaggio, Tristi tropici, che lo fa conoscere in tutto il mondo, anche al di fuori degli specialisti.
L’ingresso nell’Ecole des Hautes Etudes non avviene, come lui voleva, fra le ’Scienze umane’ della VI sezione, dominata dagli storici, ma nella V, delle ’Scienze religiose’, composta, a detta dell’antropologo, di «poveri diavoli». In questo suo atteggiamento, è evidente non solo il disprezzo per le persone (uno dei colleghi era Dumezil!), ma per il tema stesso: egli non considererà mai la religione come tema autonomo di ricerca, ma solo come specchio dell’organizzazione sociale e culturale di un popolo.
Per questo, il suo interesse si indirizzerà ai miti, alla cui decifrazione dedicherà la seconda parte della sua vita di ricerca, mentre come saggista si cimenterà con i grandi temi dell’umanità, come il progresso, il rapporto con la matematica, la musica e l’arte, talvolta sollecitato dalle conversazioni con amici come Benveniste, Lacan, Merleau-Ponty. Il testo mitico, per lui, non appartiene alla sfera religiosa, ma deve essere decifrato come un linguaggio.
Ed è proprio sulla questione dell’analisi del mito che si concentra la critica di un altro antropologo francese, René Girard, che nella Francia ipnotizzata dal pensiero levistraussiano non trova spazio, ed è costretto ad emigrare negli Stati Uniti. Girard denuncia la tendenza, in Lévi-Strauss, a «mettere da parte la verità»; in particolare, per quanto riguarda il meccanismo della vittima espiatoria, lo strutturalismo «fa scomparire il sacro». Ma è soprattutto la magistrale analisi di Girard sui Vangeli come rovesciamento del meccanismo tradizionale del capro espiatorio a costituire la confutazione più chiara del relativismo culturale.
Oggi lo strutturalismo non è più di moda fra gli studiosi, ma gli effetti del pensiero di Lévi-Strauss sono evidenti e forti nell’opinione comune, nella costruzione di un ’politicamente corretto’ agnostico e relativista che sembra ormai avere contaminato ogni forma di pensiero.
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IL MEA CULPA
Il ripudio del «metodo» strutturalista
A una certa età, forse, chi ha una mentalità relativistica comincia a dubitare anche di se stesso. Qualche tempo fa il critico e teorico della letteratura Tzvetan Todorov aveva annunciato, per esempio, di prendere le distanze da quel ’formalismo’ che egli aveva contribuito a diffondere in Occidente lungo gli anni Sessanta del secolo scorso. Più clamoroso «mea culpa» sembra essere però quello di Claude LéviStrauss che qualche mese fa confidò a un professore della Sapienza di Roma, Umberto Melotti, in missione parigina per parlare col grande vecchio in vista appunto del suo prossimo traguardo dei cento anni, «di non essere più strutturalista» dopo aver condizionato generazioni di studiosi con questo metodo di approccio alle culture umane.
Melotti rendeva noto che Lévi-Strauss gli aveva confermato «di aver abbandonato quel metodo d’indagine» fino a considerare l’esperienza strutturalista «un momento d’enfasi dell’età giovanile». Confessione in fondo in linea con la sua «forma mentis» francamente scettica. Il primo a dimostrare sul campo l’infondatezza dell’«antropologia strutturale» (in quanto rea di giudicare le culture altre con schemi concettuali tipicamente occidentali) era stato un suo discepolo, Remo Guidieri, nel saggio «Il cammino dei morti», uscito nel 1988 da Adelphi.
* Avvenire, 24.07.2008
SE LÉVI-STRAUSS DIVIENE OSTAGGIO DELL’IDEOLOGIA
di LUCETTA SCARAFFIA *
Avrebbe potuto essere interessante una discussione sul ruolo esercitato da Lévi- Strauss nella cultura contemporanea e, come sempre, il confronto sarebbe stato tanto più interessante quanto più divergenti le opinioni fra chi scrive e l’antropologo Massimo Canevacci, che dalle colonne di « Liberazione » ha trovato non poco da ridire ( è un eufemismo) ad un articolo sull’opera del famoso intellettuale francese da me scritto per questo giornale.
Ma questa discussione non ci sarà. Non tanto per la povertà degli argomenti utilizzati da Canevacci, che riprendono stantie critiche anticristiane come quella contro i salesiani da decenni stabiliti fra i Bororo, accusati di distruggere la cultura indigena se non addirittura - orrore! orrore! - di evangelizzare i ’ poveri’ indios. Bensì per un motivo più generale: per il tono offensivo adoperato dal mio interlocutore il quale mostra di ritenere inconcepibile che chiunque professa la fede cattolica osi calpestare i Campi Elisi della cultura. E per il quale, quindi, non è necessario confutare con argomenti le opinioni di chi la pensa diversamente da lui: no, basta dargli razzisticamente del ’ cattolico’. Il procedimento di Canevacci si manifesta fin dalle prime righe, quando trova necessario qualificarmi come « devota di Francesca Cabrini » quasi che questa mia caratteristica - del tutto non professionale - dovesse, ovviamente ai suoi occhi e dei lettori di « Liberazione » - impedirmi di capire qualche cosa di Levi- Strauss.
Una sorta di attacco iniziale a cui segue una raffica di insulti, in uno stile che ricorda da vicino la pratica dei totalitarismi per i quali basta definire chiunque la pensa diversamente un nemico ideologico e così togliergli il diritto a parlare e avere ragione ( in apparenza) dei suoi argomenti . Tutto ciò mi impedisce, quindi, di prendere sul serio le pur poche e deboli argomentazioni che si accompagnano alla virulenza diffamatoria di Canevacci.
Del resto, argomentare non sembra essere necessario agli occhi del mio interlocutore perché lo scandalo, ai suoi occhi, sta proprio nel fatto che io, una ’ devota’ obbediente al Papa, abbia osato avvicinarmi e riflettere sul grande antropologo: questo è l’imperdonabile sacrilegio!
Come si capisce il problema va molto al di là di un caso personale. Finché la cultura che ama definirsi laica, specie la cultura di sinistra, si mostrerà incapace di interloquire alla pari con chi è portatore di un punto di vista differente, di non denigrare preliminarmente tale punto di vista giudicandolo intrinsecamente inferiore, finche ciò non accadrà, essa non solo si priverà del grande vantaggio del confronto e del dialogo, che di ogni discussione intellettuale dovrebbero essere l’anima vivificatrice, ma si darà da sola una patente di intolleranza e di pregiudizio che, mi sembra di ricordare, era proprio ciò che al suo inizio essa era solita rimproverare a qualcun altro.
Cento anni fa nasceva Claude Lévi-Strauss padre dello strutturalismo
L’antropologo dalle domande facili
In occasione del prossimo centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss e della ristampa della sua opera nella collana della Pléiade anticipiamo un articolo sul pensiero dell’antropologo francese che esce la prossima settimana su "Vita e Pensiero", il bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
di Lucetta Scaraffia *
Claude Lévi-Strauss compie 100 anni il 28 novembre 2008. Per festeggiarlo, la sua opera è stata ristampata nella Pléiade - soddisfazione rara per uno studioso di scienze umane - nella collana cioè che comprende i migliori scrittori francesi di tutti i tempi. Questa nuova tappa del suo successo sembra chiarire quale sia - a questo punto - il suo posto nella cultura francese: mentre lo strutturalismo che lui ha inventato e diffuso in tutto il mondo è oggi un metodo di ricerca passato di moda, egli viene consacrato come grande scrittore, e come tale vale ancora la pena di leggerlo. Si può considerare fondamentale, infatti, proprio la lettura della sua opera meno scientifica, Tristi tropici, che fin dalla sua comparsa fa parte del canone delle opere indispensabili nel curriculum di una persona colta. Un’opera che ha cambiato il modo di pensare e di sentire il rapporto con le culture diverse dalla nostra, quelle che abbiamo chiamato - prima di Lévi-Strauss - primitive, e che lui preferisce chiamare "selvagge", nel senso di non toccate dalla civiltà occidentale. Grazie a questo libro, infatti, il mondo occidentale non è più la norma assoluta, ma solo una maniera fra le altre di percepire il mondo o di entrare in contatto con esso.
Molto più del suo metodo - lo strutturalismo - egli ha influenzato la cultura contemporanea con la sua figura, il suo modello, le infinite interviste che ha rilasciato e attraverso le quali ha imposto un nuovo ruolo per l’antropologo: grazie al suo "sguardo da lontano", l’antropologo diventa uno dei più significativi interpreti e critici della civiltà a cui appartiene. Ma Lévi-Strauss ha fatto ancora di più: ha cambiato la definizione di essere umano, ha proposto una giustificazione scientifica per il relativismo, ha inventato l’ecologia. Come scrive il filosofo George Steiner nel saggio che gli ha dedicato, "impegna il termine antropologia nel suo significato antropologico completo: l’antropologia, propriamente intesa, altro non è che l’esaustiva "scienza dell’uomo"".
Steiner sottolinea inoltre come Lévi-Strauss abbia riconosciuto l’influenza determinante di Marx e di Freud sulla sua formazione, due grandi intellettuali ebrei con i quali condivide il proposito di creare quelle "costruzioni visionarie" che si presentano come "tre grandi mitologie che si propongono di spiegare la storia dell’uomo, la natura dell’uomo e il nostro futuro". Con la sua vita avventurosa - gli anni passati in Brasile e nella ricerca sul campo si aggiungono a quelli dell’esilio newyorkese durante la guerra, decisivi per la creazione di legami intellettuali con il mondo statunitense e con gli altri intellettuali esuli, dal surrealista André Breton al linguista Roman Jakobson - ma anche con la pioggia di riconoscimenti arrivati da tutte le università del mondo, con la sua straordinaria capacità di concentrazione e di lavoro, la sua passione per l’arte contemporanea e per la musica - ha scritto presentazioni delle opere di Wagner, di cui ammirava il coraggio nell’affrontare temi mitologici - Claude Lévi-Strauss costituisce il modello più completo di intellettuale del Novecento.
La sua modernità è evidente soprattutto nella ricerca di un metodo scientifico per le scienze umane, che permetta finalmente anche a questo tipo di scienziati di raggiungere risultati certi, risultati confermabili con strumenti logicomatematici: per lui il mondo è come un testo, tutto sta nell’imparare a leggerlo e a comprenderlo correttamente. L’etnologo non può accontentarsi di descrivere le società che studia, e di interpretarne gli elementi manifesti, ma deve cercare dei simboli - come i legami di parentela o i miti - e comprendere in virtù di quali regole inconsce essi si combinino. Come gli psicanalisti, che stima come Freud o frequenta come Lacan, anche lui lavora sui meccanismi inconsci, ma si tratta di meccanismi privi di soggetto umano: le strutture, appunto. Apprezza Freud per la sua attenzione al mondo mitico, ma considera le sue interpretazioni dei miti come una nuova variante degli stessi. Il mito infatti viene considerato dall’antropologo un oggetto autonomo, mosso da una logica propria. Per scoprire questa logica rimane legato alla linguistica, l’unica fra le scienze dell’uomo che può rivendicare lo statuto di scienza esatta, e che gli permette di elaborare il suo metodo, l’analisi strutturale. Questa aspirazione alla certezza scientifica lo ha portato, negli ultimi anni, a dire che la chiave del funzionamento dello spirito umano - quella che cercava di scoprire nell’analisi strutturale dei simboli culturali - oggi l’hanno i neurologi, perché è nel cervello dell’uomo.
Questo flirt con le neuroscienze può sembrare contraddittorio in un uomo che ha sempre sostenuto che tutto era cultura, ma corrisponde senza dubbio al suo materialismo di base e alla sua fiducia nell’evidenza scientifica. E del resto non è in contraddizione con la sua concezione di essere umano, lontanissima dall’idea dell’uomo come immagine di Dio, e con il suo rifiuto di ogni umanesimo. Il mondo esisteva prima di noi, egli scrive, ed esisterà anche dopo di noi: "Arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando all’una tutto quello che si toglieva all’altra, [l’uomo occidentale] apre un ciclo maledetto".
Nel 1976, invitato dal presidente francese Edgard Faure a proporre delle leggi sulle libertà, risponde che l’idea di libertà varia secondo i tempi e i luoghi, e che l’unico fondamento stabile è l’uomo, non considerato come essere morale, bensì come essere vivente. Questa posizione a favore della natura e dell’ambiente contro ogni intervento umano ne fa un ecologo ante litteram - "l’uomo sta distruggendo il suo ambiente e finirà per distruggere se stesso", egli scrive - come dimostra il fatto che nella conferenza che tiene, nel 1976, negli Stati Uniti, al Barnard College (Strutturalismo ed ecologia) il titolo segna la prima apparizione ufficiale del termine. Ripensando ai grandi miti prodotti dall’immaginazione umana, egli vi ritrova tracce della rottura culturale dell’uomo con il mondo naturale e del profondo disagio che tale rottura ha lasciato nella nostra anima. Disagio: Steiner collega questo concetto lévi-straussiano con quello espresso da Freud con il termine Unbehagen, da Marx con "alienazione". Un disagio che, secondo il pensiero pessimistico di Lévi-Strauss, ci porterà all’estinzione.
Modernità assoluta rafforzata da un irriducibile ateismo. Per Lévi-Strauss l’unica religione è la scienza, intesa soprattutto come spiegazione scientifica del reale, che sta fino alla fine al cuore del suo lavoro, mentre si rifiuta di estendere la sua ricerca al senso delle cose: "La questione del senso non è niente di più che un artefatto umano". Lo vediamo ad esempio in uno dei suoi saggi più interessanti, Babbo Natale giustiziato, in cui rivela con lucida intuizione la funzione dei riti folclorici di Natale ed Epifania, che individua nella paura dei morti che possono tornare presso i vivi nelle lunghe giornate buie, ma si guarda bene dall’approfondire il suo lavoro nella direzione della morte, e del rapporto che questa ha con la cultura degli esseri umani.
Infatti, Lévi-Strauss si è sempre tenuto lontano dalle domande di senso per eccellenza, quelle sulla vita e la morte, e sul rapporto degli esseri umani con Dio. Nelle migliaia di interviste che ha concesso negli ultimi decenni, spesso gli è stato chiesto quale fosse il suo rapporto con Dio: egli ha sempre cercato di far comprendere al suo interlocutore che la fede religiosa o l’esistenza di Dio sono per lui questioni prive di senso, che non si è mai posto e che mai si porrà: "L’arte, la conoscenza, l’amore della natura tengono un posto considerevole nella mia vita"; il mondo gli basta. La religione è un punto di fuga dalla realtà del mondo, dalla possibilità di conoscerlo scientificamente.
La sua ricerca di conoscenza si muove sempre dentro a un perimetro di rigore che vorrebbe riprendere dalle scienze esatte per acquistare maggiore certezza. Lo dispera l’indefinitezza delle scienze umane, e tutto il suo lavoro è stato quello di dar loro una pesantezza scientifica, una credibilità il più possibile simile a quella della scienza.
Lo strutturalismo - il metodo di analisi da lui elaborato - è stato infatti un tentativo di trovare modelli esatti, chiavi di interpretazioni sicure; si può ben comprendere, quindi, come proprio lo studioso che aveva attribuito alla cultura un’importanza assoluta, tanto da negare, in base a questa certezza, ogni esistenza di razza, cioè di differenza biologica fra uomini che vivono in società diverse e lontane, oggi si abbandona a un’ingenua fiducia per le neuroscienze.
Dopo gli anni Settanta, tutti i ricercatori in Scienze umane si sono confrontati con Lévi-Strauss, con il suo metodo. Lui invece non si è confrontato con nessuno: ha dato sempre le stesse risposte ai suoi critici, in sostanza sostenendo che le domande, in fondo modeste, che lui poneva al materiale di ricerca, erano le uniche legittime, cioè le uniche a garantire scientificità al processo di ricerca. Chi ne poneva delle altre cadeva in un terreno minato, non credibile, non scientifico, e andava emarginato dalla comunità scientifica.
L’influenza di questo approccio sull’antropologia, si sa, è stata immensa, ma forse ancora di più è stata quella obliquamente esercitata nelle altre discipline legate allo studio dell’uomo, ad esempio la storia. Per decenni, infatti, fra gli storici ha imperato la microstoria, la ricostruzione di reti sociali di microcosmi, con l’assoluto discredito per chi si poneva le grandi domande storiche che hanno segnato da sempre l’avanzare della consapevolezza umana. Ovviamente, le critiche più forti sono venute proprio a proposito della modestia delle sue domande, della rinuncia alla ricerca di un senso profondo. Pierre Bourdieu, nel suo Le sens pratique, sostiene come in questo modo gli sfugga "lo spessore della realtà". Se Sartre si limita a rimproverargli il poco posto lasciato al soggetto, più radicale è Emmanuel Lévinas, che pure avrebbe tanto in comune con lui - hanno la stessa età, provengono dallo stesso ambiente, e vivono per decenni a pochi isolati di distanza senza conoscersi mai - che denuncia il suo pensiero anonimo, la riduzione del linguaggio a un sistema di segni, a una formalizzazione matematica: "Il pensiero contemporaneo - scrive Lévinas a proposito dello strutturalismo di Lévi-Strauss - si muove così in un essere senza tracce umane, in cui la soggettività ha perduto il suo posto, nel mezzo di un paesaggio spirituale che si può comparare a quello che si offre agli astronauti che, per primi, misero piede sulla luna dove la terra stessa si mostra disumanizzata". In sostanza, sintetizza Lévinas con questa critica severa: "L’ateismo moderno non è la negazione di Dio, ma è l’indifferenza assoluta di Tristi tropici. Io penso che è il libro più ateo che sia stato scritto ai nostri giorni, il libro più disorientato e disorientante".
Anche se il ventaglio dei suoi interessi è stato molto ampio, dalle Americhe all’Estremo Oriente - per anni ha coltivato un forte interesse per la cultura giapponese -, dalle scienze umane all’arte, Lévi-Strauss non si è mai interessato alla tradizione giudaico-cristiana, limitandosi a qualche giudizio velenoso sulla nefasta influenza dei missionari sulle culture primitive (cosa che non gli ha impedito, però, di utilizzare spesso materiale etnografico raccolto dai missionari). Se fosse stato costretto a interessarsi a una religione, aveva detto, l’unica possibile sarebbe stata il buddismo.
In questo rifiuto ad affrontare le radici della cultura occidentale, cioè della sua cultura, sta in sostanza la profonda differenza che lo divide dall’altro grande antropologo francese, René Girard. Quest’ultimo si domanda il senso profondo di ogni testo, di ogni tradizione, e soprattutto affronta il nodo centrale della differenza fra la tradizione giudaico-cristiana e le altre religioni, arrivando a comprendere, così, il ruolo risolutivo e innovativo della figura di Gesù. Attraverso il suo lavoro di confronto antropologico, quindi, egli arriva a cogliere in che cosa consista questa differenza rispetto alle altre religioni: "Cristo si offre come vittima per rivelare la verità agli uomini. Invece di sacrificare altri - l’atteggiamento normale degli uomini - Cristo si offre come vittima per rivelarsi agli uomini così com’è, cioè completamente estraneo a ogni violenza". Questa aperta scelta cristiana lo mette in netta contraddizione con l’atteggiamento relativista tenuto da Lévi-Strauss nei confronti delle religioni primitive. Girard è l’opposto di Lévi-Strauss da ogni punto di vista, e si capisce bene come fin dai suoi primi libri abbia avviato una serrata critica contro il pensiero di Lévi-Strauss, a cui rimprovera di non avere avuto il coraggio di porre le vere domande al materiale raccolto: "Io mi interrogo da più di quarant’anni - scrive nell’ultimo libro, Achever Clausewitz - su questo rifiuto di tenere conto del reale. Questo sembra il disinteresse di fondo che Lévi-Strauss prova per i riti e i sacrifici, non volendo vedere che il mito è quello che egli chiama il "pensiero selvaggio": le sue costruzioni sono belle, ma estremamente fragili. Dal momento che io sento che il mito ci nasconde qualcosa, che c’è un cadavere sotto il pavimento, il mio orecchio si drizza e sono in attesa".
Lévi-Strauss non ha mai risposto alle pungenti critiche di Girard, probabilmente perché non considerava scientifici i suoi libri, ma solo letteratura. La cosa curiosa è che oggi, quando entrambi siedono fra gli "immortali" dell’Accademia di Francia, con la pubblicazione nella Pléiade l’opera di Lévi-Strauss viene in fondo salvata dalle mode considerandola letteratura, mentre i libri di Girard cominciano a suscitare discussione e consenso anche al di fuori della cerchia dei suoi seguaci, e mettono in crisi tanti anni di ricerca antropologica. Come scrive Girard, tutto è cambiato dopo l’11 settembre, e l’atmosfera apocalittica in cui - nolenti o volenti - viviamo, ci fa ritornare alle radici della nostra identità. Di questa imminenza della catastrofe, che va ben al di là della denuncia di un possibile disastro ecologico, Lévi-Strauss non ha mai voluto accorgersi. E non ha visto che essa viene proprio dalle forze che ha ignorato e insegnato a ignorare.
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(©L’Osservatore Romano - 8 novembre 2008)
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