LAMPO DI GENIO, ARRIVA SE SIETE ’DISTRATTI’
Se volete che vi si accenda la ’lampadina di Archimede’ permettendovi di risolvere un problema ostico, meglio non concentrarsi troppo sul ’busillis’: è proprio quando siamo meno concentrati sul problema stesso che arrivano le soluzioni giuste.
Lo rivela uno studio di Joydeep Bhattacharya dell’Università di Londra pubblicato sulla rivista PlosOne. I neurologi hanno infatti visto che se nel cervello di un gruppo di volontari impegnati a risolvere un problema si registrano le onde cerebrali ’gamma’, che indicano forte concentrazione, non si arriva mai alla soluzione giusta; viceversa se compaiono le onde ’alfa’, tipiche delle situazioni di rilassamento e minore concentrazione, la soluzione arriva.
Le onde cerebrali rappresentano l’attività elettrica del cervello registrabile con l’elettroencefalogramma e sono la somma dei segnali elettrici provenienti da milioni di neuroni. Ci sono diversi tipi di onde cerebrali, diverse per frequenza, e a ciascun tipo corrisponde un’azione precisa del cervello: le Alfa, registrabili in situazioni di veglia rilassata e prima di addormentarsi; Beta: registrabili in fase cosciente; Delta, negli stadi di sonno profondo; Theta, registrabili nelle fasi del sonno senza sogni; infine le Gamma, che compaiono nei momenti di meditazione profonda o di attenzione focalizzata su un ’oggetto’ specifico. Gli esperti hanno chiesto ad un gruppo di individui di risolvere problemi di natura verbale mentre i ricercatori monitoravano l’attività elettrica del loro cervello.
Se i volontari non erano in grado di risolvere l’enigma, veniva dato loro un indizio per aiutarli. Ebbene è emerso che quando la soluzione non arriva, cioé si ha un blocco mentale, il cervello è dominato dalle onde gamma, vale a dire che è troppo concentrato, fissato, sul problema da risolvere. Quando la soluzione arriva, improvvisa, il cervello è invece dominato dalle onde alfa, ’sintomo’ di minor concentrazione e maggior rilassatezza. "Questi risultati indicano che se la concentrazione al problema è eccessiva il cervello è meno ricettivo e avrà più difficoltà a trovare la soluzione - conclude Bhattacharya - meglio quindi avere la mente aperta e ricettiva", e la soluzione arriverà ’da sola’.
* Ansa» 2008-02-01 17:51
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CON KANT E FREUD, OLTRE. LA DECISIVA INDICAZIONE DI ELVIO FACHINELLI...
IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL....
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Serendipity in un libro sulla conchiglia di San Giacomo
Scritto dal biogeochimico Laurent Chauvaud per Add Editore è il racconto di una sentinella dell’Oceano incredibile, che nuota, parla, scappa dall’acqua inquinata e dalle alghe tossiche e che è un simbolo che ci tramandiamo dall’antichità
di FABIO POZZO (La Stampa, 09 Novembre 2021)
Serendipity: sono stato in Galizia di recente, sto approfondendo alcuni argomenti che riguardano questo lembo di Spagna e mi capita di leggere un libro che avevo lasciato indietro su una conchiglia e che scopro essere quella di San Giacomo. La Pecten jacobaeus, che in Italia conosciamo anche come capasanta. E’ la conchiglia della Venere di Botticelli, è il simbolo del Cammino di Santiago.
Il libro “Storia della conchiglia pellegrina”, scritto dal biogeochimico e ricercatore francese Laurent Chavaud per Add Editore, è l’esempio di quello che dovrebbero essere i libri di divulgazione scientifica. Anzitutto, lievi. Quindi, divertenti. Poi, ricco di deviazioni. Nelle pagine, tanto per dire, sono disseminati rimandi a pezzi musicali molto interessanti, molto vari, da Quincy Jones ai Ramones, che mi ero proposto di setacciare e di trasformare in una playlist (perché non l’hai fatta, Laurent? Ci stava a fine libro). Infine, un libro deve raccontare una bella storia e quella di questa conchiglia lo è.
La conchiglia di San Giacomo è presente in tutto il mondo. Si muove, nuota sputando l’acqua che incamera. A fatica, quasi controvoglia: lo fa per sfuggire a condizioni di vita impossibili o a un predatore, come la stella marina. Sarebbe spuntata 25 milioni di anni fa nell’Atlantico del Nord, si sarebbe spostata verso Sud, nelle acque fresche grazie all’upwelling (la risalita di acque più fredde verso la superficie) del Marocco e della Mauritania e da qui avrebbe continuato il suo viaggio verso il Sudafrica, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Antartide e ancora la Norvegia.
Pecten che si trasforma in conchiglie cugine, che misura il trascorrere del tempo con le sue striature quotidiane e con gli anelli che s’incidono a ogni fine inverno, che è un rivelatore dell’inquinamento. Una conchiglia che parla: quando respira e si ventila, emette un soffio prolungato, che varia se qualcosa non va: acqua contaminata, un’acqua tossica e persino il rumore emesso dalle attività dell’uomo. Dal quale la conchiglia rifugge rimettendosi in moto: il suo muscolo riparte, a fatica, consumando un’enorme quantità di energia e facendola dimagrire.
In Francia ne sono ghiotti. Il consumo è record, pari a 2,5 chili pro capite l’anno. Ovviamente, laddove difetta la natura, ci pensa l’uomo, con l’acquicoltura. La produzione mondiale totale di conchiglia di San Giacomo è di 2,4 milioni di tonnellate, di cui due terzi sono coltivate. Le noci, cioè la carne bianca, arrivano nei supermercati soprattutto dall’Asia.
Non ci dovete pensare, però, perché sennò vi rovina la magia. Le sue bivalve nella Preistoria erano d’un uso ornamentale, avevano un valore di talismano. Poi, anche come recipiente. Nel Medioevo le due valve erano associate alle opere di bene, rappresentavano i due precetti della carità: l’amore di Dio e quello per il prossimo. Ed erano il simbolo dei pellegrini, che camminavano sino alla tomba di San Giacomo, a Santiago, dove le sue ceneri sono giunte dentro una conchiglia. Non erano, le conchiglie, benedette all’inizio del Cammino, perché erano raccolte sulla spiaggia alla fine del percorso. Erano indossate come simbolo, ma anche come amuleto contro la stregoneria e la malasorte.
Quelle antiche rotte sono ancora oggi contrassegnate dalla conchiglia di San Giacomo. I pellegrini le portano ovunque. E così sono marchiate anche le proprietà della Chiesa a Santiago. Oltre che le migliaia di gadget e souvenir in tema di Cammino. Allora le sue bivalve diventano di pietra, plastica, ceramica, argilla e parrebbe pure un controsenso, se si pensa che è stata proprio l’assenza di progresso in Galizia a farle prosperare sui fondali. Gadget che magari sono made in China. Ne sta facendo, di strada, questa conchiglia pellegrina.
La storia della conchiglia pellegrina, Laurent Chauvaud, 160 pp, 16 euro
Psicoanalisi in treno
Annamaria Testa, esperta di comunicazione*
Salgo trafelata sul treno. Il vagone è pieno. Mi tocca fare lo slalom inciampando tra valigie e persone che si incrociano nel corridoio. Trovo il mio posto. Ci sono un soprabito e un bagaglio. Il tavolino è interamente occupato dalle carte, i libri e gli appunti di un tizio che se ne sta a capo chino e scrive, a mano, su un grande foglio.
Cominciamo bene, penso. “Scusi”, sussurro.
Il tizio alza lo sguardo e in un battibaleno sposta il bagaglio e tutto il resto, lasciandomi con millimetrica precisione e ammirevole senso di simmetria l’esatta metà di tavolino che mi spetta, né di più né di meno. Operazione non facile data la quantità delle carte. Riabbassa lo sguardo.
Così va meglio, penso.
Ma mentre prendo possesso della mia porzione di territorio, scaraventando con una certa soddisfazione computer e giornali sulla mia metà del tavolo, il tizio si riscuote.
“Lei è Annamaria Testa?”.
“Sì?” dico, aggiungendo un punto di domanda bello grosso. Non è che mi succeda ogni due per tre, di essere riconosciuta da qualcuno: di solito mi muovo nel mondo protetta da una confortevole trasparenza anagrafica, come qualsiasi mia altra coetanea che non sia la signora Macron.
“Lei si occupa di creatività e quindi dell’inconscio”, dice. “Abbiamo un interesse in comune”. Questa sì che è bella, penso.
Il tizio è psicoanalista e psicoterapeuta. Si chiama Nicolò Terminio. Lavora sulle dipendenze e sui nuovi sintomi. Sta andando a Roma per intervenire a un convegno: ecco il perché di quel grande foglio di appunti.
Mi rendo conto che ho un sacco di buoni motivi per trascurare i quotidiani (pessime notizie, peraltro) e cominciare a chiacchierare. Ma dopo poco la conversazione si trasforma in una sfilza di domande, e così accendo il computer e chiedo se posso essere io, a prendere qualche appunto.
Qui di seguito potete leggere alcune delle cose che ho imparato, in modo del tutto fortuito, nel corso di un viaggio tra Milano e Firenze. Del resto, un sacco di fatti interessanti si scoprono per caso.
Che c’entra la creatività con la psicoanalisi?
Il sintomo è l’espressione di una coazione a ripetere sempre gli stessi schemi. Una cura psicoanalitica cerca di trasformare un funzionamento ripetitivo in un funzionamento creativo. Provi a pensare all’inconscio come al campo magnetico che determina il comportamento della limatura di ferro sul tavolo, dandole forma. Noi non siamo padroni dell’inconscio, così come la limatura di ferro non è “padrona” del campo magnetico.
Restando in metafora: per modificare il campo magnetico, cioè per ottenere un risultato terapeutico, che si fa?
La psicoanalisi lavora sulle narrative. L’intervento terapeutico consiste nel cambiare la maniera in cui una persona parla del proprio modo di essere, e quindi pensa al proprio modo di essere, lo costruisce e lo rappresenta. La differenza di condizione tra persone che abbiano subìto un trauma sta non tanto nella gravità del trauma in sé, ma nella possibilità di vivere o meno l’esperienza del flow, così come l’ha teorizzata quel tizio col nome impossibile.
Sì, certo: il flow, il flusso creativo (a questo punto sfoggio il nome dell’autore, Mihály Csíkszentmihályi, e la pronuncia, che è, più o meno, Cìcksentmiai). Succede quando una persona si dimentica di se stessa ed è completamente assorbita, focalizzata e felice per quanto sta facendo.
Mentre il sintomo è un modo per tenere a bada l’inconscio, la terapia asseconda ciò che l’inconscio ha da dire. Lei sa che le nuove idee nascono quando la mente si trova libera di vagare, per esempio mentre stiamo guidando, preparando la cena o lavando i piatti. Nel setting psicoanalitico, il metodo delle associazioni libere “manda il paziente a lavare i piatti”, ed è allora che si lavora creativamente sul sintomo, in una situazione di flow. Una persona va dall’analista per fare quell’esercizio lì: ricostruire e ricombinare elementi che costruiscono una nuova trama di senso.
Posso capire anche questo: Poincaré dice che creatività è combinare elementi esistenti in forme nuove e utili. E anche Umberto Eco parla di creatività come ars combinatoria.
C’è un altro punto importante. L’inconscio ha un linguaggio che si esprime non solo attraverso combinazioni di segni ma, per esempio, attraverso il ritmo del corpo. Una persona non si porta dietro solo quello che Freud per primo ha chiamato romanzo familiare, ma anche un lessico familiare, quello di cui scriveva Natalia Ginzburg, e le cui parole valgono per quello che evocano più che per quello che significano. Pensi, per esempio, a un uomo che, a differenza di come è solita chiamarlo la moglie, si sente chiamare dall’amante con il nomignolo che usavano sua madre e sua nonna quando lui era piccolo, e che evoca sensazioni di accudimento e felicità, che sono anche sensazioni fisiche. Lacan diceva che la parola è il segno assoluto, il significante prima che gli abbiano messo in bocca il sasso del significato.
Mmh... ma possiamo dire che la creatività è una medicina?
È, piuttosto, un modo di essere che cura. Non dobbiamo pensarla come un apparato esterno, o una pratica. Pensi a un uomo su un gommone: è un esempio che mi ha fatto una volta un mio paziente. Vuole andare da una piccola isola a un’altra, e a un certo punto si trova in mezzo al mare, e non vede più né da dov’era partito né dove vuole arrivare. Per essere creativi, anche in un setting terapeutico, dobbiamo salire sul gommone. Cioè, dobbiamo espropriarci di quello che crediamo di essere, senza sapere ancora che cosa potremmo essere: solo allora passiamo dalla ripetizione all’invenzione. In altre parole: dobbiamo distaccarci e affrontare qualcosa che è un buco nel sapere. Un modo di essere in cui si guarda a viso aperto ciò che ancora non si sa, e si ama ciò che non si sa. È un processo che lavora sul versante femminile.
Ehi, fermo, fermo... si comincia così, con un cenno a margine, e si finisce con far coincidere “femminile”, “spaesato” e “irrazionale”, confezionando un bel discorso sessista.
Tranquilla. Non è una questione di anatomia dei corpi, e nemmeno di genere. La psicoanalisi identifica come non creativa la logica fallica, secondo la quale il linguaggio ha l’ultima parola sulla vita e pretende di saturare tutto l’esistente. È la logica dell’avere e della competizione, e del pensare che c’è un individuo che si rivolge alla vita come se questa fosse un oggetto da possedere. È una logica di dominio. E, attenzione: molte donne seguono questa logica, e, perfino, molte donne applicano al corpo femminile uno sguardo che è squisitamente maschile. La logica della creatività, invece, è “femminile” in quanto generativa. Apprezza il mistero e ciò che si può solo evocare. E riguarda anche il lasciarsi essere il corpo che si è. Il maschio che va in analisi è quello che sperimenta il fallimento di una logica basata sulla prestazione. Un paziente mi raccontava di aver nascosto la testa nel cuscino per evitare che la moglie lo vedesse piangere “come una femminuccia”. Ecco: in una logica maschile, e secondo gli insegnamenti del padre, quello che non si padroneggia è una minaccia alla propria identità. Essere capaci di salire sul gommone vuol dire saper vivere la propria emotività lasciandosi alle spalle quegli insegnamenti: non si riesce a essere creativi senza lasciarsi possedere e trasportare. Il flow, per la psicoanalisi, è quella cosa lì: lasciarsi possedere dal desiderio. Tra l’altro, i casi di impotenza maschile possono essere connessi proprio con la difficoltà a lasciarsi prendere da se stessi, e da una parte di se stessi che non si controlla. È quello, l’inconscio.
Lei prima ha citato Lacan.
Ho una formazione lacaniana. Ma si può essere lacaniani anche senza saperlo. Lei, per esempio, scrive alcune cose lacaniane.
Devo preoccuparmi? Non ho mai capito mezza riga di quel che dice Lacan.
Le discipline che si occupano del linguaggio, psicoanalisi compresa, sono diversi dialetti di una stessa lingua, che non esiste. Lei parla un dialetto differente da quello psicoanalitico, ma può dire le stesse cose. Per Lacan, il soggetto è un parlessere che prova a gestire il linguaggio, e fallisce quando trascura il ritmo del corpo e la musica del corpo. Parla di questo un bel testo sull’improvvisazione nel jazz e nella quotidianità. L’ha scritto Davide Sparti, che insegna a Siena.
D’accordo. La comunicazione non è solo linguaggio verbale. E il linguaggio analogico, quello dei gesti, del corpo, è più potente del linguaggio verbale. Tanto che, in caso di contraddizione tra messaggi, a vincere è quello espresso nel linguaggio del corpo.
Le faccio un altro esempio di vicinanza: nel tango, l’inciampo non è un errore, ma la sorgente di un nuovo movimento, inatteso e liberato dal ritmo. Per essere creativi bisogna amare l’inciampo: quello che è nuovo viene dall’ostacolo.
Anche il mio dialetto dice che alla base di un gesto creativo c’è sempre un trauma, un ostacolo e un desiderio.
Nel 1998, Aldo Carotenuto scrive un libricino importante. S’intitola Lettera aperta a un apprendista stregone. Carotenuto dice che, per l’analista, obiettivo di un lavoro di cura è trasformare una ferita in una feritoia: cioè ottenere la possibilità di affacciarsi alla vita in un modo nuovo. E dice che proprio attraverso la cura l’analista acquisisce e sviluppa il suo metodo. In sostanza, la psicoanalisi non è un’ortopedia del soggetto, che va “aggiustato”. Noi psicoanalisti siamo di fronte alla creatività del paziente come se fosse una pianta che sboccia. Non è che in tutte le sedute succeda questo, ma quando succede se ne accorgono entrambi, l’analista e il paziente.
Quanto spesso succede?
Ci sono vari gradi. Al termine della cura la trasformazione riguarda l’intero modo di essere, ma possono esserci stadi intermedi in cui la persona impara, per esempio, a non drogarsi, o a non tagliarsi. Lo dico ancora: la ripetizione va intesa come sintomo, e in un’analisi si impara a essere creativi e a interrompere la ripetizione. Una persona finisce la cura quando è soddisfatta del suo cambiamento. Ma non ci sono criteri né check-list. L’importante, e qui torniamo al tango, è continuare a ballare.
Mi fa un esempio?
Parliamo di una cosa di cui mi occupo: le dipendenze patologiche. Già è un successo intercettare persone che sono tossicodipendenti da trent’anni, metterle in un contatto più profondo con la musica che hanno sempre sentito e coinvolgerle nel capire finalmente che cosa vogliono dire i testi inglesi delle canzoni. È un successo convincere un giocatore d’azzardo a rinunciare all’istante magico della vincita, e a sostituire il gioco con la ricerca dei funghi in un bosco, e l’istante con la scoperta del fungo. È un esempio vero. E la scossa può essere altrettanto potente: c’è un libro di Peter Handke che ne parla.
La ringrazio di questi racconti.
Provi a pensarci: in questo dialogo, lei ha sostenuto il ruolo dell’analista, mettendo me nella condizione di analizzare alcuni aspetti della mia esperienza. Io le ho parlato del mio sintomo, che è la psicoanalisi. E, insieme, cercando coincidenze tra dialetti diversi, abbiamo costruito un discorso che ha arricchito entrambi.
Fili di pensiero e buchi di memoria. Immanuel Kant e l’Alzheimer
Nell’ultimo decennio della sua vita il filosofo fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria: l’intervento di Francesca Rigotti per l’Alzheimer Fest
di FRANCESCA RIGOTTI *
Parleremo di Alzheimer e di filosofia concentrandoci sulla figura di un filosofo che fu presumibilmente colpito da questa sindrome. Un filosofo che alcuni hanno studiato a scuola, altri solo orecchiato: Immanuel Kant, che nell’ultimo decennio della sua vita fu affetto da confusione mentale e perdita di memoria.
Kant visse tra il 1724 e il 1804, ottant’anni giusti tutti trascorsi a Königsberg, allora nella Prussia orientale, ora Kalinigrad, enclave russa. Alla locale università seguì le lezioni di filosofia, matematica, fisica e dogmatica. È l’autore delle tre critiche (della Ragion Pratica, della Ragion Pura, del Giudizio). Nel campo della morale ha elaborato una dottrina deontologica molto rigorosa basata sul dovere di comportarsi in modo tale che il proprio agire possa diventare massima dell’agire universale (in contrasto con l’utilitarismo e con la dottrina del male minore, capolavoro etico di Tommaso d’Aquino, quella che consiglia di ingoiare tu il rospo piccolo prima che il rospo grande ingoi te). Nel campo teorico-conoscitivo, la dottrina di Kant ha messo al centro della conoscenza il soggetto e le peculiarità del suo apparato conoscitivo categoriale attraverso il quale viene letto e interpretato il mondo.
Un grandissimo filosofo insomma, che proprio perché tale non sfugge allo sport preferito dai piccoli filosofi, che è quello di sparare al grande filosofo. È uno sport di tutti i tempi e di tutte le età, che ai nostri tempi è stato praticato contro Platone (trasformato in fautore dello stato autoritario); Marx (unisono o quasi: «in soffitta, in soffitta!»); Hegel e l’idealismo tedesco (che alcuni professori tedeschi vorrebbero cancellare dal programma di filosofia); Heidegger (ancora quasi un unisono: il bersaglio è facile data l’indulgenza di Martin verso il nazionalsocialismo). Ultimamente ci si è accaniti contro Kant, dapprima attaccando i suoi scritti gnoseologici cui si è voluto dare un bel «good bye», ora rivolgendosi anche alla roccaforte dei suoi scritti etici, troppo rigorosi per la nostra edonista società. Io però sono convinta che lassù, nel cielo dei filosofi, a Platone, Hegel, Marx, Kant, Heidegger e compagni quelle cannonate facciano il solletico.
Anche Kant, dicevo, è oggetto proprio in questi giorni di pesanti bordate che mirano a demolire nientemeno che il suo apparato etico, rigoroso e cogente, non adatto a un’epoca di grandi opportunisti e edonisti di bassa lega pronti a chinarsi a soluzioni di comodo. Ma che cosa c’entra tutto questo con l’Alzheimer? C’entra, c’entra, o almeno vorrei farcelo entrare io mostrando come, se un vero nemico di Kant ci fu, esso fu proprio questa malattia subdola e strisciante che venne a guastare gli ultimi anni di vita del grande pensatore di Königsberg.
Conosciamo bene la biografia di Kant e in particolare gli anni della vecchiaia grazie a ben tre biografie scritte da suoi conoscenti e amici, Borowski, Jachmann e Wasianski, e a un testo letterario del 1827 di Thomas de Quincey, Last days of Immanuel Kant, da cui è stata tratta la suggestiva versione cinematografica, del 1993, del regista francese Philipp Collin, Les derniers jours d’Emmanuel Kant, che purtroppo non posso mostrarvi, neanche un pezzettino. Se siete interessati potete guardarla integralmente su YouTube. Vedrete un anziano signore con parrucca, redingote e scarpini con la fibbia, dagli occhi azzurrissimi (che si possono soltanto immaginare perché il film è in bianco e nero), a volte ancora splendenti di intelligenza, più spesso offuscati dalla malattia che quell’intelligenza si stava portando via. Vedrete un uomo minuto e segaligno, anche se meno magro di come viene descritto nel libro (non portava mai calze nere per non far apparire i polpacci ancora più secchi), vittima del proprio rigore di abitudini di vita, che si autocostringeva a seguire rituali rigidissimi quanto ridicoli per quanto riguarda il dormire (impacchettato strettissimamente tra lenzuola e coperte), il vestirsi, il mangiare, lo scrivere, il fare le passeggiate...
Ma torniamo al Kant filosofo. Oltre che del pensiero critico Kant si interessò, tra l’altro, di estetica, di cosmologia, di antropologia. In relazione a quest’ultimo ambito scrisse nel 1798 una Antropologia dal punto di vista pragmatico, l’ultima opera pubblicata in vita anche se redatta nel corso di anni precedenti . Un’opera senile nella quale Kant tratta, forse non a caso, di memoria e oblio (e qui apro una parentesi per mandare un saluto ossequioso al grande Harald Weinrich, lo studioso autore del più bel libro sull’oblio che sia mai stato scritto e che qui mi ha molto aiutato: Lete. Arte e critica dell’oblio, chiusa parentesi).
Ebbene Kant, che aveva sempre goduto di ottima memoria, trattandone egli stesso teoricamente scriveva che la memoria è importante per prendere parte alle vicende della cultura e della scienza, e per questo la si deve esercitare fin dalla più tenera età. La collega poi ai principi della ragione, soprattutto quella che definisce la terza forma della memoria. La prima infatti, (memoria meccanica), è una specie di facoltà minore, quasi animalesca, con la quale si immagazzina materiale e basta; la seconda (memoria ingegnosa), è un metodo per ricordare attraverso associazioni che non hanno nulla a che fare con il concetto da memorizzare; al gradino più alto sta la memoria giudiziosa, che permette di esercitare scelte opportune e ragionate sui contenuti di memoria, tramite sistemi di classificazione, per es. dei libri delle biblioteche come delle specie naturali; scelte giudiziose perché basate su principi di ragione.
Eppure al teorico della memoria verranno a mancare, paradossalmente, tutte le forme di memoria, condizione che il suo maggior biografo, Wasianski, diacono della chiesa di Tragheim a Königsberg e amico personale e devoto di Kant, tentò di minimizzare e giustificare: «a poco a poco lo colsero le debolezze della vecchiaia, tra cui la mancanza di memoria...». E così continua la descrizione che l’amico diacono effettua delle trasformazioni del filosofo: cominciò a ripetere i suoi racconti più volte nello stesso giorno; vedeva le cose più lontane del suo passato vive e precise davanti a sé, ma il presente, come avviene nei vecchi, gli restava meno impresso; sapeva recitare lunghe poesie tedesche e latine, brani dell’Eneide, senza intoppo, mentre gli sfuggivano le cose apprese un momento prima. Si era accorto anche lui che la memoria gli si affievoliva, sicché annotava le cose su foglietti, buste usate, informi pezzetti di carta. Oltre alla perdita di memoria incominciò a elaborare teorie strampalate, per esempio attribuendo la morìa di gatti a Basilea, Vienna e Copenhagen, a una particolare elettricità dell’aria. Si sentiva debole, astenico. Si addormentava per fiacchezza sulle seggiole, fuori orario; non era in grado di badare al suo denaro, perse la nozione del tempo, talché un minuto gli sembrava esageratamente lungo; l’appetito era sregolato e degenerato (ingollava avidamente bocconi di pane spalmati di burro e premuti su formaggio inglese grattugiato). Si esprimeva in modo sempre meno adeguato e divenne incapace di scrivere il suo nome né riusciva più a figurarsi la forma delle lettere. Il suo linguaggio diventò improprio anche se cercava di spiegarsi con affinità e analogie (parlava di mare e scogli per intendere minestra e bocconi di pane); non riusciva a farsi capire su cose comunissime, poi cominciò a non riconoscere chi gli stava intorno. Non si raccapezzava e allora gridava con voce stridula. Si consumò, e morì il 12 febbraio 1804. La diagnosi di Alzheimer per la «debolezza senile» di Kant venne proposta da Alexander Kurz nel 1992, e poi ripresa e descritta da altri, in particolare Fellin, nel 1997.
Nella sua Antropologia, a proposito della smemoratezza, che Kant chiama obliviositas, il filosofo usa una immagine, per descriverla, con la quale sembra parlare di sè: la smemoratezza è lo stato in cui la testa è come «una botte piena di buchi» (ein durchlöchertes Fass). Per quanto la riempi, rimane sempre vuota, e questo è un grandissimo male (ein größeres Übel). I contenuti versati nella testa scorrono fuori dai buchi come fili d’acqua da un setaccio, e questa perdita rende la mente vuota, sterile.
Come il vaso che nel mito greco delle Danaidi le spose assassine erano condannate a riempire nell’al di là. E ora racconterò un meraviglioso mito che spiega molte cose di ora e di allora perché il mito tratta di ciò che non è mai e fu sempre.
Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danaos, re dell’Argolide, regione a nord del Peloponneso, che il padre aveva destinato spose, contro la loro volontà, ai cinquanta figli di Aigyptos, Egitto. Ma durante la prima notte di nozze le ragazze, tranne una, uccisero i loro sposi prima che il matrimonio venisse consumato. Nell’al di là le Danaidi dovevano riempire continuamente d’acqua un recipiente dal fondo bucherellato.
Io vi leggo un mito di infertilità, desiderata dalle fanciulle ma punita dalla società. Vedo fili d’acqua che escono dai buchi del corpo come vedo, nella metafora kantiana, fili di pensiero che escono dai buchi della mente rendendola sterile e improduttiva come non riproduttivo fu il ventre delle Danaidi.
Nel caso del filosofo sono fili di ragionamento che il vecchio professore (Kant aveva insegnato Logica e metafisica nell’Università di Königsberg), non riesce più a annodare, a intrecciare, nemmeno a districare, come si si esprime Kant in un’altra metafora per parlare dello stesso problema. Scrivendo nel 1794 all’allievo Sigismund Beck, Kant così scriveva: «Neppure io riesco a capire...me stesso, e le farò le mie congratulazioni se sarà in grado di mettere in chiara luce uno a uno questi esili fili della nostra facoltà conoscitiva...Districare fili così sottili non fa più per me».
Con queste parole Kant fornisce almeno due indicazioni; che la sua facoltà di ragionare è carente già nel 1794, e che i pensieri sono fili, nel suo e nel nostro immaginario, che pensa alla mente come a una matassa ingarbugliata (lo «gnommero» del commissario Ingravallo nel Pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda), come a un ciuffo di lana di pecora infilato sulla rocca che attende di essere dipanato e filato dalla mano del pensiero in forma di fili continui, filati, lineari, pronti per essere intrecciati in un tessuto-testo (teXtus).
Che cosa succedeva nella mente bucherellata di Kant, da cui uscivano fili che non potevano più essere razionalmente intrecciati? Che essa continuava a lavorare e a pensare, ma in maniera bizzarra. Lo mostra l’episodio del licenziamento del domestico Lampe, Martin Lampe (Lampe è la lampada in tedesco), che aveva seguito e servito il filosofo per quarant’anni, assistendolo in tutte le occasioni, dalla sveglia al mattino alle 5 con il lume a candela, al servizio del pranzo (preparato da una cuoca), all’accompagnamento nelle sue passeggiate ossessive sulle quali la gente di Königsberg regolava le sue attività. Non che Kant fosse molto interessato alla vita privata di Lampe, tant’è che ignorava che fosse stato sposato per diversi anni, e il giorno che il domestico indossò la marsina gialla invece della livrea bianca (e Kant si arrabbiò moltissimo) era perchè andava a risposarsi.
Ebbene nel 1802 Kant decise di separarsi da questo servo a causa del suo cattivo contegno insorto negli ultimi anni: esigeva supplementi di salario, litigava con la cameriera, e poi commise qualcosa di grave che non ci è dato sapere e su cui Kant così sentenzia: «Lampe ha commesso una tale mancanza che mi vergogno di nominarla». Lampe fu dunque dimesso e al suo posto venne assunto un tale Johann Kaufmann, con il quale il filosofo entrò in
sintonia - dopo un po’ di attrito perché le cose dovevano essere disposte e porte dal domestico sempre nello stesso modo, la teiera/caffettiera, la tazza di caffé/tè, la pipa. A questo punto, decide Kant, «il nome di Lampe va assolutamente dimenticato». E per dimenticarlo meglio che cosa fa? Lo annota su un foglietto di appunti: «dimenticare Lampe». Ma a differenza di quei pensieri che scappavano dai buchi della mente, il nome Lampe non riusciva a uscirgli dalla testa. Weinrich prova a interpretare questo imperativo categorico come un esercizio dell’arte dell’oblio, non dell’arte della memoria, dal momento che proprio le cose che si scrivono (si registrano, si mettono nella memoria, nostra o del computer) possono essere dimenticate. In qualche modo lo scrivere le cose, l’immagazzinarle nella memoria, le consegna all’oblio. Una volta scritte, possiamo anche dimenticarle e di fatto le dimentichiamo. Lo pensava del resto anche Platone, che definisce la vecchiaia l’età della smemoratezza (τό ληθης γηρας, to létes ghêras).
Nel dialogo Fedro infatti, a proposito dell’invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, che presenta la sua invenzione come medicina per la memoria e per la sapienza, così commenta il saggio re Thamus, le cui opinioni riflettono quelle di Platone: «Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti e chi invece di giudicare quale danno o quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. E ora tu, che sei il padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa infatti, (la scoperta della scrittura) produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché fidandosi della scrittura non fanno esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da se stessi».
Se consegno la nozione allo scritto, insomma, la tolgo dalla memoria, la dimentico, e in più indebolisco la memoria stessa. Dimentico, faccio cadere fuori dai buchi della testa, dalla mente, de-mente, demente.
Cent’anni dopo la morte di Kant il medico dei pazzi Alois Alzheimer diagnosticò il morbo che da lui prese il nome: un morbo preciso dunque, una malattia da curare. Non di generica debolezza senile soffriva Kant, quanto di una malattia specifica. Probabilmente qualcuno lo sospettò già prima, ma soltanto nel 1992 il sospetto venne scritto e assunse la forma di certezza. Cosa che apre un altro quesito filosofico riguardante l’attacco innescato pochi anni fa dai filosofi newrealisti contro i pensatori postmodernisti. Alcuni di questi (v. Bruno Latour) hanno sostenuto che il faraone Ramsete non potè morire di tubercolosi (come avrebbero provato alcune moderne autopsie) perchè il bacillo di Koch non era ancora stato isolato. Il che filosoficamente corrisponde a sostenere che «sapere che x» equivale a «essere costitutivo dell’essere x», ovvero afferma che Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora individuata e battezzata. Argomento che secondo alcuni discenderebbe direttamente dalla «rivoluzione copernicana» introdotta da Kant, il quale pose il soggetto/sole al centro della conoscenza/sistema solare, affermando che il soggetto comprende la realtà attraverso le proprie categorie e assegnando dunque al nostro intelletto un ruolo fortemente attivo nel metodo conoscitivo; sono i nostri schemi mentali che determinano il modo in cui un oggetto viene percepito. Ma mentre la prima conclusione (Kant non potè soffrire di Alzheimer perché la malattia non era stata ancora inventata/scoperta), è assurda, non lo è per nulla la seconda conclusione (la centralità del soggetto nella comprensione dei fatti e l’idea che le proposizioni scientifiche in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo non si limitano a recepire passivamente dei dati, ma sono di natura critica e deduttiva). Non possiamo però occuparci a fondo della diatriba perchè il discorso ci porterebbe troppo lontano. La lasciamo lì, insieme al marasma senile del povero Kant, e alle sue occupazioni delle ultime settimane di vita, quali togliere e riannodare continuamente la cravatta, abbottonare e sbottonare la veste, in uno stato di continua agitazione, finché, come scrive un altro biografo, Jachmann, «svanì a mano a mano il vigore del più grande filosofo fino alla sua completa impotenza intellettuale».
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
A scuola di Serendipity
Per molti si tratta soltanto di colpi di fortuna inattesi. Ma alcuni scienziati hanno cominciato a studiare l’arte di scoprire ciò che non stiamo cercando
Con risultati sorprendenti: spesso il fato è legato a poteri percettivi speciali
di Pagan Kennedy (la Repubblica, 05.01.2016)
Nel 2008, un inventore di nome Steve Hollinger lanciò a campanile una macchinetta digitale dall’altra parte del suo studio, in direzione di pila di cuscini. «Non stavo cercando di inventare niente », dice. «Stavo solo giocando». Mentre volava, la macchinetta scattò quella che generalmente si definirebbe una brutta foto. Ma quando a Hollinger cadde l’occhio su quell’immagine confusa, intravide possibilità nuove e dopo non molto era lì che costruiva una videocamera lanciabile a forma di palla da baseball, dotata di giroscopi e sensori. La Squito, come l’ha chiamata, può essere fatta rotolare dentro un’intercapedine o lanciata sull’altra riva di un fiume, offrendo una registrazione del mondo da ogni sorta di prospettiva «non umana». Oggi Hollinger detiene sei brevetti relativi a videocamere lanciabili.
È sorprendente la quantità di oggetti pratici della vita moderna inventati da qualcuno che si è imbattuto per caso in una scoperta o ha fatto tesoro di un incidente: il forno a microonde, il vetro di sicurezza, i rivelatori di fumo, i dolcificanti artificiali, le radiografie. Molti tra i farmaci più venduti del XX secolo sono nati perché un ricercatore, in qualche laboratorio, si era messo a lavorare su un dato “sbagliato”.
Studiando questo tipo di rivoluzioni, ho cominciato a chiedermi se la serendipità non sia qualcosa che si può insegnare. Come si fa a coltivare l’arte di scoprire quello che non stiamo cercando?
Per decenni Sanda Erdelez, scienziata informatica all’Università del Missouri, si è posta questa domanda. In Croazia, dov’è cresciuta, aveva sviluppato la passione di perdersi fra pile di libri e manoscritti ingialliti nella speranza di trovare qualcosa che la sorprendesse. Mi dice che in croato non esiste una parola che esprima il brivido della scoperta inattesa e che fu entusiasta quando scoprì (dopo essersi trasferita negli Stati Uniti con una borsa di studio Fulbright, negli anni 80) la parola inglese serendipity.
Oggi associamo questa parola a una sorta di colpo di fortuna inaspettato. Ma il suo significato originale era molto diverso: nel 1754, un letterato di nome Horace Walpole si mise seduto a una scrivania nel suo sfarzoso castello di Twickenham, a sudovest di Londra, e scrisse una lettera. Walpole era rimasto estasiato da una fiaba persiana su tre principi dell’isola di Serendip che possiedono capacità di osservazione sovrumane. Nella sua lettera, suggeriva che questo antico racconto conteneva un concetto fondamentale riguardo alla genialità umana: «Viaggiando, le loro altezze reali non facevano che scoprire, per accidente o per sagacia, cose che non stavano cercando ». E proponeva una nuova parola - serendipity - per descrivere questo principesco talento per il lavoro di indagine. Insomma, in origine la parola serendipità stava a indicare un’abilità, e non un casuale colpo di fortuna.
La Erdelez concorda con questa definizione. Lei vede la serendipità come qualcosa che le persone fanno. A metà degli anni 90, avviò uno studio su un centinaio di persone, per scoprire in che modo riuscivano (o non riuscivano) a crearsi una propria serendipità.
I suoi dati qualitativi - da indagini e interviste - dimostravano che i soggetti ricadevano in tre gruppi distinti. Il primo era quello dei «non incontratori», gente che vedeva tutto attraverso una visuale ristretta, come una fessura, e quando si trattava di cercare informazioni tendeva ad attenersi alla propria scaletta di cose da fare, invece di avventurarsi ai margini. Il secondo gruppo era quello degli «incontratori occasionali », che di quando in quando si imbattevano in momenti di serendipità. Il gruppo più interessante era il terzo, quello dei «super- incontratori», che riferivano di imbattersi in liete sorprese ovunque volgessero lo sguardo. I super-incontratori, per esempio, adoravano trascorrere un pomeriggio a rovistare dentro una rivista di epoca vittoriana sull’allevamento di bestiame, perché contavano di poter trovare tesori nascosti nei posti più strani. Erano talmente drogati di questo tipo di esplorazioni che spesso scovavano informazioni per amici e colleghi.
Secondo la Erdelez, si diventa super-incontratori anche perché si è convinti di esserlo: aiuta a dare per scontato che si possiedono poteri percettivi speciali, come un insieme di antenne invisibili che ti conducono agli indizi.
Negli anni ‘60, Gay Talese, all’epoca un giovane reporter, dichiarava che «New York è una città di cose che passano inosservate », e si delegò da solo a essere quello che le osservava. Trasformò l’isola di Manhattan nell’isola di Serendip: seguì le peregrinazioni dei gatti randagi, catalogò i lustrascarpe, scovò le statistiche sulle toilette dello Yankee Stadium e scoprì una colonia di formiche in cima all’Empire State Building. Pubblicò le sue scoperte in un libro intitolato “New York: A Serendipiter’s Journey”.
Martin Chalfie, che ha vinto un premio Nobel per il suo studio sulla Gfp (la proteina fluorescente verde, quella che fa luccicare di verde le meduse), mi ha detto che lui e molti altri premi Nobel hanno beneficiato di una catena di casualità e incontri fortuiti sulla via che ha condotto alle loro rivelazioni. Alcuni scienziati sposano addirittura una sorta di metodo da free jazz, dice, improvvisando man mano che vanno avanti: «Ho sentito di gente che ha ottenuto risultati validi dopo aver fatto cadere per sbaglio i suoi preparati sperimentali per terra, averli raccolti e aver continuato a lavorarci nonostante questo». Quante idee nascono da un recipiente rovesciato, da un incidente, da un esperimento fallito, da un tentativo alla cieca? Un’indagine fra detentori di brevetti ha scoperto che addirittura metà dei brevetti era frutto di un processo che si potrebbe definire serendipità. Migliaia di partecipanti all’indagine hanno dichiarato che la loro idea era nata mentre stavano lavorando su un progetto non collegato. Ecco perché dobbiamo cercare di saperne di più sulle abitudini che trasformano un errore in una scoperta rivoluzionaria.
Alla fine degli anni 80, l’endocrinologo John Eng decise di approfondire lo studio di certi veleni animali che danneggiavano il pancreas, quindi ordinò per posta veleno di lucertole e cominciò a trastullarcisi. Il risultato di questo curioso esercizio fu la scoperta di un nuovo composto nella saliva di un mostro di Gila, che a sua volta condusse a una cura per il diabete.
È necessario, dunque, sviluppare un nuovo campo di studi interdisciplinare (studi sulla serendipità, potremmo chiamarli), che possa aiutarci a creare una tassonomia di scoperte in laboratori chimici, redazioni dei media, foreste, aule scolastiche, acceleratori di particelle e ospedali. Osservando e documentando le tante «specie» diverse di super- incontratori, potremmo cominciare a comprendere come funziona la loro mente.
Ovviamente, anche se riuscissimo a organizzare lo studio della serendipità, resterebbe sempre uno sforzo dall’esito incerto, considerando che abbiamo a che fare con un fenomeno di difficile definizione, incredibilmente variabile e assai complicato da esprimere sotto forma di dati. Gli indizi emergeranno senza dubbio dove meno ce lo aspettiamo, forse nelle muffe abbarbicate alle pareti di un parcheggio sotterraneo, o nelle abitudini di accoppiamento dei birdwatcher. Il viaggio sarà esasperante, ma le potenziali intuizioni sono profonde. E un giorno potremmo riuscire a imbatterci in qualche modo nuovo e più efficace per smarrirci.
© The New York Times 2016 ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Teoria della curiosità generale
«Cercate di meravigliarvi» è la ricetta che Einstein ripeteva alle ammiratrici
A cent’anni dalla relatività generale, l’eredità (anche morale) del grande fisico
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.01.2015)
«Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso». Così descriveva se stesso Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire. Di lui, entrato nel mito, girano moltissime citazioni, per lo più false, usate a proposito e sproposito per sostenere le idee più strampalate.
La pubblicazione della prima tranche delle sue opere complete è buona occasione per ricordare qualcuno dei suoi pensieri genuini, che ci mostrano l’intelligenza, ma sopratutto la profondità del grandissimo scienziato, e ci aiutano a comprendere le ragione per cui ha tanto affascinato il mondo.
Il punto di partenza di Albert Einstein, senza dubbio, è stato un rifiuto istintivo e assoluto dell’autorità. Ben prima di scrivere i suoi grandi lavori, ancora ragazzo, nel 1900, scrive con la spavalderia degli adolescenti: «Il rispetto dell’autorità non pensa ed è il più grande nemico della verità». La sottile ironia di essere arrivato, anni dopo, a rappresentare lui stesso l’autorità nella scienza non gli sfugge: nel 1930, divenuto famoso, scrive: «Per punirmi per il mio disprezzo per l’autorità il destino ha fatto un’autorità di me stesso». Ma dell’adorazione del pubblico Einstein diffida. Nel 1922 scrive all’amico Zangger: «Adorato oggi, attaccato o perfino crocifisso domani, questo è il fato di coloro dei quali - Dio sa perché - si impossessa l’annoiato pubblico».
La gioia Einstein la trova nello studio e nei risultati concreti. Traspare nei momenti del successo, come quella di un bambino che è riuscito a fare bene qualcosa. Nel 1919, la spedizione inglese guidata da Eddington fotografa un’eclisse totale e trova la prima spettacolare conferma delle predizioni della relatività generale. Einstein manda una cartolina alla mamma: «Cara mamma! Oggi una notizia gioiosa: Lorentz mi ha telegrafato per dirmi che la spedizione inglese ha veramente provato la deflessione della luce vicino al sole!».
Ma la soddisfazione più intensa non è nel successo, è nella strada: in una calda lettera al figlio, che andava a lezione di pianoforte, Einstein offre il miglior consiglio possibile a un giovane che studia: «Cerca sopratutto di suonare quello che piace a te, anche se l’insegnante ti dice di fare altro. È così che si impara meglio: quando stai facendo qualcosa con un tale piacere che non ti accorgi che il tempo vola».
È il 1915, l’anno in cui arriva a trovare le equazioni della relatività generale.. Non che Einstein non facesse anche lui fatica a imparare. A una bambina che gli scrive lamentandosi della difficoltà con i numeri, risponde: «Non ti angosciare per le difficoltà che hai con la matematica. Quelle che ho io sono ancora più grandi». E ancora a una bambina, che gli chiede se gli scienziati pregano, risponde con disarmante candore: «Gli scienziati pensano che tutte le cose che succedono, comprese le faccende umane, siano regolate dalle leggi della natura. Quindi uno scienziato non può essere incline a pensare che il corso degli eventi possa essere influenzato dalla preghiera».
Un’altra ragazzina gli scrive una prima lettera senza dire che è una ragazza e poi una seconda lettera scusandosi di esserlo, e dicendogli che essere femmina le pesa, avrebbe voluto fare la scienziata, ma come ragazza è difficile. La risposta di Einstein (siamo nel 1946, di donne nella fisica ce ne sono ancora davvero poche) è senza esitazione: «Che importanza ha per me che tu sia una ragazza? La cosa più importante è che non deve avere alcuna importanza per te. Non c’è alcuna ragione perché tu te ne preoccupi».
Nello stesso anno, nell’America di ben prima delle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta, quando ancora in tanta parte del paese i neri non potevano sedere negli autobus dei bianchi, Einstein, parlando alla Lincoln University non ha dubbi in proposto: «Esiste una separazione in America fra la gente di colore e i bianchi. Questa separazione non è una malattia della gente di colore. È una malattia della gente bianca». Se vi sembra un pensiero scontato, ripetetelo cambiando «America» con «Italia», «di colore» con «immigrati», e «bianchi» con «italiani».
Ancora più limpido è il suo rifiuto dell’idea di fedeltà a una patria, a una religione, a un gruppo: «Sono per eredità un ebreo, per cittadinanza uno svizzero, ma per natura un essere umano, soltanto un essere umano, senza speciale attaccamento ad alcuno stato, nazione, o entità qualunque». Splendido. Siamo nel 1918. L’Europa ha appena finito il suo primo conflitto sozzamente generale in nome delle patrie, e già si appresta al secondo, un paio di decenni dopo.
Molti anni dopo, nel 1950, in tarda età, questo suo genuino sentire è diventato più posato, più vasto, più profondo: «Un essere umano è parte del tutto, che noi chiamiamo Universo, parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli ha esperienza di se stesso, dei propri pensieri, dei propri sentimenti, come di qualcosa di separato dal resto - una specie di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e ad avere attaccamento solo per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere liberarci di questa illusione allargando il raggio della nostra compassione fino ad abbracciare tutte le creature e tutta la natura nella sua bellezza. Nessuno riesce a fare questo interamente, ma lo sforzo per farlo è già di per sé parte della liberazione e della fondazione della propria sicurezza interiore».
Questo è il punto dove era arrivato alla fine della sua vita l’uomo che era «solo appassionatamente curioso». L’anno prima di morire, nel 1955, chiude il cerchio dei suoi pensieri ritornando alla forza prima che lo ha portato attraverso la vita: «La cosa importante è non fermarsi mai di porre domande. La curiosità ha in sé la propria ragione di esistere. Non si può che non essere travolti dalla meraviglia contemplando i misteri del tempo, della vita, della meravigliosa struttura della realtà. È sufficiente se uno cerca semplicemente di comprendere un poco di questo mistero ogni giorno. Non perdete mai la curiosità. Non smettete mai di meravigliarvi».
PEDAGOGIA
Ragazzi, imparate a sbagliare
Festival dell’errore a Parigi
"Insegniamo l’importanza dei passi falsi". Se ne fa il bambino diventa un genio. Per gli esperti occorre spezzare il nesso logico tra risposte sbagliate e brutti voti
di ELENA DUSI *
ROMA - Dei 180 articoli scientifici pubblicati da Einstein, una quarantina contengono errori significativi. Se abbiamo penicillina e vaccini, lo dobbiamo agli sbagli commessi dai loro scopritori, che andavano in cerca di altro. La stessa evoluzione degli esseri viventi procede grazie ai piccoli difetti.
E se perfino il più grande scienziato della storia sbagliava spesso e volentieri, perché mai uno scolaro oggi dovrebbe trattenersi dall’alzare la mano e azzardare la risposta che ha in testa in quel momento, si chiedono gli organizzatori di "Détrompez-vous", il Festival dell’errore di Parigi. La manifestazione iniziata ieri nella sede dell’École normale supérieure per avvicinare i giovani alla scienza vuole incitare i più piccoli a osare, innovare, uscire dal seminato, proporre idee nuove. Perché errare, si spiega ai bambini, è una parola che nella radice significa deviare dalla solita strada. E non esiste grande scienziato che sia arrivato al successo senza salire su una gigante catasta di conclusioni sbagliate.
I passi falsi della storia della scienza sono il piatto forte del festival parigino, insieme alle false percezioni che il cervello ci suggerisce, insegnandoci ad accogliere con un sano scetticismo anche le osservazioni più evidenti. Che a una giusta conclusione si possa arrivare seguendo più strade, i visitatori del festival lo imparano cercando di combinare i vari ingredienti di una ricetta di cucina. "E per la maggior parte degli oggetti che ci circondano, non esiste un unico uso corretto. La fantasia e la capacità di innovare sono virtù importanti da coltivare" spiega Girolamo Ramunni, uno degli ideatori del festival e professore del Conservatoire national des arts et métiers.
La manifestazione francese, completamente gratuita, ha lo scopo di avvicinare i giovani alla scienza e frenare l’emorragia di studenti universitari di cui queste discipline soffrono. Per questo, nell’edizione di quest’anno, il suo obiettivo è spezzare il nesso logico fra errori e brutti voti e mostrare l’altro lato della medaglia di una risposta sbagliata: "Il potenziale fecondo che essa ha per il progresso della scienza", come recita la locandina della kermesse. La manifestazione è stata ideata proprio dopo un rapporto dell’Ocse che metteva in evidenza la paura degli scolari francesi di alzare la mano e rispondere a una domanda rischiando di essere presi in giro.
"Per scienza - precisa Ramunni - non intendiamo solo matematica e fisica, ma anche le discipline umanistiche. Pensiamo a quanta importanza abbia saper riconoscere i propri errori, riuscire ad ammetterlo con se stessi e con gli altri, il dire "mi sono sbagliato, devo cambiare strada". Il dialogo, la discussione e il confronto sono i mattoni basilari della scienza, ma anche uno degli ingredienti imprescindibili del vivere in comune".
Correggere un ragazzo che capovolge un cestino della carta per usarlo come sedia vuol dire, prosegue Ramunni, "sterilizzare la sua fantasia, costringerlo entro regole che si sono consolidate per pura e semplice pigrizia mentale. Troppo spesso l’insegnamento a scuola si limita alla ripetizione della "nozione esatta"". E i quiz a risposta chiusa sempre più utilizzati nella scuola in Francia ma anche in Italia sono quanto di peggio possa esistere per stimolare il pensiero creativo e fuori dalle righe. Per questo al festival degli errori e dei paradossi della logica nulla sarà impossibile, nemmeno realizzare un nastro senza il lato rovescio o riempire un bicchiere d’acqua senza versarvi nulla dentro.
* la Repubblica, 22 luglio 2010
Ansa» 2008-02-06 14:58
MORTO IN OLANDA IL GURU DEI BEATLES
ROMA - Maharishi Mahesh Yogi, il guru che introdusse i Beatles alla meditazione, è morto ieri nella città olandese di Vlodrop, dove viveva. Lo scrive il quotidiano olandese Die Volkskrant sul suo sito online. Lo Yogi aveva 91 anni ed aveva fondato il Movimento per la meditazione trascendentale. Inizialmente considerata con scetticismo come una sorta di misticismo hippy, la meditazione trascendentale si è gradualmente guadagnata una certa considerazione anche in ambienti scientifici. Maharishi aveva introdotto la sua tecnica negli Stati Uniti nel 1959, ma il movimento acquisì una notorietà internazionale dopo la visita che i Beatles fecero al suo ashram in India nel 1968.