Richard Rorty, uno dei più noti filosofi Usa delle ultime generazioni, si è spento venerdì scorso nella sua casa di Palo Alto, California, dopo una lunga malattia. Era nato a New York il 4 ottobre 1931. Era stato professore a Princeton, in Virginia e a Stanford.
Nell’antologia La svolta linguistica (1967) Rorty anticipò alcuni dei temi che sarebbero divenuti dominanti nella sua filosofia, sviluppati in maniera sistematica in La filosofia e lo specchio della natura (1979). Un libro che in molti sensi fece epoca, giacché segnava quella vera e propria svolta che fu l’oltrepassamento della filosofia analitica in direzione del neopragmatismo, ristabilendone anche il legame profondo con la tradizione propria del pensiero americano. L’opera - nella quale Rorty presentava anche la tesi, per molti scandalosa, secondo cui i grandi filosofi del Novecento erano stati Dewey, Heidegger e Wittgenstein - inaugurò una nuova stagione di dialogo tra pensiero post-analitico nordamericano e ermeneutica europea.
Proprio del novembre 1980 è la dedica che Rorty mi scrisse sul frontespizio del suo libro, quando ci conoscemmo a un colloquio sulla postmodernità a Milwaukee.
Gli anni che seguirono furono per me segnati da un dialogo continuo e da una sintonia crescente. Il «pensiero debole» nacque anche per effetto dei nostri incontri. In cui erano sempre presenti, in persona o in spirito, Gadamer, Derrida e le tradizioni di cui ognuno era portatore. Quanto al mio personale dialogo con lui, un momento decisivo è stato la preparazione e pubblicazione di Il futuro della religione (curato dal comune allievo Santiago Zabala); è in occasione di quel dibattito che Rorty parlò per la prima volta con una certa ampiezza di religione e specificamente di cristianesimo.
Peraltro, tra le sue tesi più conosciute c’è la visione del nostro mondo come di un mondo post-filosofico e post-religioso. Ma come questo non gli ha mai impedito di continuare a fare filosofia, sia pure in un modo profondamente diverso da quello della tradizione che si concepiva come ricerca di essenze e fondamenti, così mi piace pensare che anche l’esperienza religiosa potesse ancora avere un senso per lui, sebbene senza alcun compromesso con qualunque forma di teologia dogmatica. Ciò che gli piaceva della religione, e della versione «debole» del cristianesimo, era la riduzione di tutto alla carità. Lui preferiva parlare di «solidarietà»: proprio questo valore propose di sostituire a quello della oggettività a cui ha sempre cercato di ispirarsi la ricerca filosofica del vero.
Coerentemente con la lettura pragmatista della filosofia analitica e post-analitica, Rorty pensa che le proposizioni a cui attribuiamo valore di verità non possono che essere provate da altre proposizioni, per cui in qualche senso il mondo come lo conosciamo si «riduce» al linguaggio. Del resto, già per Aristotele vero e falso sono valori che si danno solo nel giudizio, cioè in una proposizione. Vuol forse dire - per un pragmatista, poi - negare che c’è il mondo esterno a noi? Certo che no; Rorty pensa solo che il mondo è una faccenda che implica cose e persone, non c’è niente come un astratto rapporto del «soggetto» con l’«oggetto», come lo pensava la filosofia moderna da Locke a Cartesio e poi a Kant e a Husserl. Questo è il tema del grande libro su La filosofia e lo specchio della natura e delle opere che vi hanno fatto seguito, da Conseguenze del pragmatismo (1982) a La filosofia dopo la filosofia (1990) a Verità e progresso (1998). L’unico modo di sapere se sono nel vero o nel falso non è tanto guardare «obiettivamente» le cose (ma poi, come farei?), bensì mettermi d’accordo su quelle cose con la comunità in cui vivo.
Una comunità è anche sempre unita nell’accettazione di paradigmi, presupposti, tradizioni, in base a cui sorgono e vengono accettate o rifiutate ipotesi e interpretazioni diverse, che non hanno certo tutte lo stesso valore. Rorty non è affatto scettico; rivendica però, con coerenza, la qualifica di relativista, perché - come Heidegger, come Nietzsche, come lo stesso Hegel - sa che non può guardare al mondo «da nessun luogo», è sempre coinvolto in una situazione storica e in un punto di vista particolare. Non riconoscerlo significa esporsi al rischio di tutti i fanatismi e fondamentalismi. Ma è chiaro che la ricerca della solidarietà con altri esseri ragionevoli non ha niente da fare con l’arbitrio e l’abbandono di ogni sforzo di ricerca.
La scienza sperimentale, dunque, sebbene non possa pretendere di conoscere definitivamente le cose «come sono», ha i suoi criteri paradigmatici e può certo decidere sul vero e il falso. La filosofia, però, è piuttosto un genere letterario, un discorso che propone interpretazioni del mondo che dialogano con altre interpretazioni. Nel dialogo si produce quella «edificazione» in cui consiste la cultura che dà senso all’esistenza. Con questa idea, Rorty instaura un altro legame che a lungo è parso un’eresia allo scientismo del pensiero anglosassone, quello della filosofia con la letteratura e anche con la politica. Ma, come spesso accade con le eresie, è proprio su questo terreno che la cultura filosofica sembra oggi avviata a svilupparsi, confermando il valore della sua eredità.
di Gianni Vattimo
La pragmatica di un liberale ironico
La scomparsa di Richard Rorty. Protagonista della scena intellettuale statunitense, ha considerato la filosofia una conversazione poco impegnativa e d’intrattenimento
di Stefano Petrucciani (il manifesto, 12.06.2007)
Se si volesse caratterizzare in poche battute la posizione di Richard Rorty nella filosofia del Novecento, si potrebbe dire che Rorty è stato il pensatore con il quale si è pienamente dispiegata la crisi interna della filosofia analitica e la transizione al postmodernismo. Rorty infatti, che era nato a New York nel 1931 ed è scomparso l’8 giugno, si era formato proprio all’interno della filosofia analitica nordamericana, ma aveva cominciato molto presto a metterne in luce le difficoltà e le aporie.
Il grande risultato di questo lavoro autocritico, con il quale Rorty si afferma come un protagonista sulla scena intellettuale, è il libro del 1979 La filosofia e lo specchio della natura. In quest’opera ambiziosa il pensatore americano demolisce tutta la concezione tradizionale della filosofia, dalla quale anche la corrente analitica, con le sue pretese di rigore, non si era affrancata. Mette sotto accusa le pretese della filosofia di costruire un sapere argomentativo e fondazionale; esorta il filosofo ad abbandonare il ruolo di «giudice» della validità dei saperi e delle scienze (Kant aveva parlato del «tribunale» della ragion pura di fronte al quale le pretese di validità dovevano essere difese); e soprattutto rifiuta quella concezione speculare o rappresentativa della conoscenza secondo la quale questa deve sforzarsi di rappresentare nel modo più adeguato possibile il mondo reale che sta «là fuori», come se non avesse altro modello che quello dello «specchio», che restituisce pura e netta la verità di ciò che gli si para davanti. Per Rorty non c’è niente di più falso. Dopo la «svolta linguistica» (di cui egli era stato sostenitore) è per lui acquisito che non ci sono oggetti reali, ma tutt’al più interpretazioni e sistemi simbolici: il terreno del filosofo sono le nostre contingenti pratiche discorsive, nelle quali egli deve calarsi senza pretese di superiorità e, soprattutto, liberandosi dall’ansia nevrotica di ricercare solide certezze e argomenti ben fondati.
Nel volume Conseguenze del pragmatismo (un libro dell’82 che in Italia è tradotto nell’86), Rorty sviluppa in positivo la sua prospettiva neopragmatista, storicista ed ermeneutica, e ne traccia anche la genealogia nel pensiero dell’Otto e Novecento. I suoi punti di riferimento sono nell’Ottocento Hegel, ma poi soprattutto Dewey, Wittgenstein e Heidegger, che ciascuno a suo modo hanno dissolto i quadri tradizionali del sapere. Egli li usa (stravolgendoli completamente, a mio modo di vedere) per portare acqua al suo mulino, e cioè per metter capo ad una visione della filosofia «post-filosofica» e «post-argomentativa»: la pratica filosofica diventa una specie di conversazione tutta interna allo spirito del tempo, dove, come scrive lo stesso Rorty, si «passa rapidamente da Hemingway a Proust a Hitler a Marx a Foucault», intrattenendosi su «vantaggi e svantaggi dei diversi modi di parlare inventati dagli uomini». Un filosofia, insomma, poco impegnativa e di intrattenimento, che Rorty svilupperà ed espliciterà ancora nel libro dell’89 Contingenza, ironia e solidarietà.
Coerentemente con queste premesse filosofiche, Rorty si viene caratterizzando sul piano politico come un «liberale ironico», che sposa i principi tradizionali della democrazia americana, quelli di libertà e di eguaglianza, ma insiste al tempo stesso sulla loro contingenza. La sua tesi è che bisogna battersi a favore di essi, pur restando consapevoli che si tratta di principi elaborati da una tribù particolare (quella appunto dei maschi, bianchi, liberali, occidentali) e che perciò non hanno nessuna pretesa di verità e non possono essere in alcun modo fondati. Contro la filosofia politica di eccessive ambizioni, Rorty difende quello che chiama il «primato della democrazia sulla filosofia» e, accentuando sempre più i suoi interessi politici, non manca di proporre i suoi buoni consigli alla sinistra nel libro Una sinistra per il prossimo secolo (pubblicato da Garzanti nel 1999), e di muovere critiche severe alla presidenza Bush e alla guerra in Iraq.
In fondo, Rorty è stato certamente un filosofo rappresentativo della vicenda intellettuale che si è consumata tra la fine degli anni Settanta e oggi: la sua critica della filosofia fondativa, delle sue pretese di rigore e di scientificità, che negli anni Settanta poteva ancora fare scalpore, è diventata un luogo comune; per non parlare dei grandi progetti della sinistra, che sono morti e sepolti molto più di quanto non si sarebbero augurati i loro critici postmoderni. Ma anche se i filosofi del tipo di Rorty hanno avuto ragione su tutta la linea, ciò non vuol dire che i conti, alla fine, tornino. Non tornano dal punto di vista politico, perché un pensiero liberal, peraltro molto estenuato, non sembra davvero in grado di offrire prospettive a una sinistra le cui malattie sono troppo gravi per poter essere curate con questi rimedi. Ma ancora di meno i conti tornano da un punto di vista filosofico. Adduco solo due ragioni molto semplici, che però a me sembrano inoppugnabili. Primo: da Platone se non da prima, lo sforzo e il fascino della filosofia è consistito nel tentativo di produrre buone argomentazioni: argomentazioni contro la sfida scettica, ragionamenti sulla giustizia, sul buon ordine della polis, su come vivere bene... ma pur sempre argomentazioni. Se l’argomentazione non piace, ci sono altri linguaggi, molto più suggestivi: la poesia, l’arte, la religione. Ma una filosofia senza argomentazioni è una filosofia privata di se stessa, inutile. Allora, molto meglio lasciar perdere.
In secondo luogo, però, la rinuncia all’argomentazione implica un’altra e inquietante conseguenza. Chi argomenta, chi cerca di formulare un ragionamento rigoroso, si espone alla critica: lo si potrà sempre inchiodare alla sua incoerenza o alle sue fallacie. In questo senso, l’argomentazione è democratica: se il tuo argomento sia buono o no, ognuno lo può giudicare. La filosofia come la intende Rorty, come conversazione, invece, è incriticabile: dice lei stessa che non ha pretesa di verità; dunque, con chi te la vuoi prendere? Ecco perché i conti della filosofia post-moderna, che Rorty ci ha raccontato così bene, sono, alla fine, truccati: sembra che ci sia il massimo di apertura, che tutto possa andar bene, che si rinunci ad ogni pensiero fondativo e autoritario. Ma in realtà si costruisce un castello intellettuale dove non resta neanche il più piccolo spazio per la critica.