COMUNICATO STAMPA
SOLIDARIETA’ ALL’AVV. EZIO MENZIONE
Nella mattina del 26 maggio l’Avv. Ezio Menzione, che da anni si batte in prima fila per la difesa dei diritti fondamentali e per la ricerca della verità sui fatti di Genova, ha ricevuto pesanti minacce anonime con cui gli si intimava “Lasciate stare a Placanica, sennò vi faremo saltare in aria"
Il giorno prima, in un’udienza davanti al Tribunale genovese per un processo contro alcuni manifestanti, l’Avv. Menzione aveva chiesto e ottenuto che fosse convocato come teste Mario Placanica, affinché narrasse la sua versione dei fatti di Piazza Alimonda, durante i quali venne ucciso Carlo Giuliani.
Dopo i silenzi, le reticenze e le menzogne con cui si tenta di nascondere la verità su quanto è accaduto a Genova nel > 2001 ecco ora le minacce di morte contro chi nelle aule dei tribunali si impegna perchè sia resa giustizia alle vittime della violenza di stato.
L’AED (Avvocati Europei Democratici) ed il Legal Team Italia esprimono la massima solidarietà all’Avv. Menzione ed assicurano che il loro impegno per la difesa e lo sviluppo dei diritti fondamentali dopo questo gesto criminale sarà ancora più forte.
Chiediamo a tutti gli avvocati e agli amanti della verità e della giustizia di manifestare il loro sostegno a Ezio Menzione e a mobilitarsi per respingere questo grave attacco alla libertà di difesa.
Milano, 28/5/2007
Avvocati Europei Democratici
Legal Team Italia
*** Genova. Sei anni dopo siamo ancora qui ***
Sei anni dopo il G8, siamo ancora per le strade di Genova. Siamo a piazza Alimonda a ricordare l¹omicidio di Carlo Giuliani e in via Tolemaide a denunciare le cariche a un corteo autorizzato. Siamo alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto, con le immagini delle torture ancora davanti agli occhi.
Siamo a Punta Vagno con Rita Sieni, la manifestante sarda massacrata dalla polizia e che sul nuovo numero di Carta racconta la sua storia, come la sua vita è cambiata da quei giorni e come è riuscita a far condannare lo Stato a pagarle i danni. Ma siamo ancora lì anche da un altro punto di vista.
Amato era presidente del consiglio nel 2001 e oggi è ministro dell¹interno. E il ministro dell¹interno dei giorni del G8, Claudio Scajola, è presidente della commissione parlamentare di controllo dei servizi segreti. Per non parlare del capo della polizia, Gianni De Gennaro, che è stato promosso a capo di gabinetto di Amato e che ha lasciato il posto al suo vice, Antonio Manganelli.
Intanto, Mediaset sta preparando una fiction sulla scuola Diaz: chi e cosa racconterà? Trovate tutto questo sul nuovo numero di Carta settimanale.
Intanto, continuano ad arrivare decine di adesioni all¹appello promosso da Carta per l¹istituzione di una commissione parlamentare d¹inchiesta per far luce sui fatti del G8 di Genova.
Tra i primi firmatari:
Haidi Gaggio Giuliani,
Giuliano Giuliani,
Vittorio Agnoletto,
Raffaella Bolini,
Anna Pizzo,
Pierluigi Sullo,
Alberto Zoratti,
Gabriele Polo e
Piero Sansonetti.
Il testo completo dell¹appello
e l¹elenco di tutti i firmatari sono su
Le adesioni vanno inviate a
http://www.carta.org/rivista/settimanale/2007/27/sommario.htm
* Firma l¹appello *
http://www.carta.org/editoriali/2007/070615.htm
* Le iniziative a Genova *
http://ww2.carta.org/notizieinmovimento/articles/art_12764.html
Fonte: La no-news-letter di Carta. Settimana dal 21 al 27 luglio
Torture e polizia, la credibilità è tutta da ricostruire
G8 Genova 2001. Ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni del pm Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende
di Lorenzo Guadagnucci (il manifesto, 07.04.2018)
Pochi giorni fa il pm Enrico Zucca è stato sottoposto a un durissimo attacco mediatico e istituzionale per avere ricordato alcune antipatiche verità riguardanti il G8 di Genova del 2001. Nel Palazzo non piace che si ricordino le vicende di quel tragico luglio e soprattutto i processi che ne sono seguiti.
Ma non esiste al momento un silenziatore abbastanza efficace da cancellare i fatti e ora tocca alla Corte dei Conti ricordarci la disfatta morale, politica e anche economica causata dai responsabili istituzionali con la loro scellerata gestione del dopo G8. La magistratura contabile ha condannato 28 persone - fra personale medico-sanitario e appartenenti a polizia, carabinieri e polizia penitenziaria - a risarcire i circa sei milioni di euro pagati alle parti civili nel processo per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto e solo un malizioso cavillo normativo - definito a suo tempo «irragionevole» dal procuratore ligure Ermete Bogetti - ha impedito di contestarne altri 5 per il danno alla reputazione dello Stato. Il pm, nel chiedere la doppia condanna, aveva specificato che le violenze sui detenuti a Bolzaneto «hanno determinato un danno d’immagine che non ha pari nella storia della Repubblica».
Sono parole molto dure ma anche molto simili a quelle scritte dai giudici di Cassazione il 5 luglio 2012 nella sentenza che ha condannato in via definitiva 25 funzionari e dirigenti di polizia nel processo Diaz: «(...)una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociandosi così da una condotta che aveva gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero e di rimettere in libertà gli arrestati, avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze».
Non vanno poi dimenticate le parole spese dalla Cassazione nel motivare il no alla richiesta di affidamento ai servizi sociali presentata da Gilberto Caldarozzi, condannato nel processo Diaz e oggi vice direttore della Direzione investigativa antimafia; la Cassazione in quel documento biasima il «dirigente di polizia, tutore della legge e della legalità che si presta a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici» e ricorda, con riferimento alla Diaz, «il clamore provocato dalla vicenda e il conseguente discredito internazionale caduto sul nostro paese».
Dovremmo tenere a mente tutti questi passaggi ogni volta che si parla di dignità e credibilità delle nostre forze di polizia, l’una e l’altra gravemente danneggiate dalle scelte compiute dai vertici istituzionali non solo durante ma anche dopo il G8 del 2001. La Corte europea per i diritti umani ha rimarcato come nel processo Diaz «la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria»...
Che c’è di peggio, per un apparato dello Stato, di un giudizio del genere?
Il capo della polizia Franco Gabrielli l’altro giorno ha definito «oltraggiose» le affermazioni di Enrico Zucca, tutte riprese da sentenze passate, sulla debole «statura morale» della nostra polizia, dimostrando di non aver compreso, o di non voler accettare, la dura verità che scaturisce dal G8 di Genova. In quei giorni e negli anni successivi fino a oggi, con l’inopinato reintegro dei condannati nel processo Diaz, abbiamo assistito a un pervicace rifiuto di tutelare l’onorabilità dei corpi di polizia nell’unico modo possibile: ammettendo le proprie colpe, allontanando i responsabili degli abusi, facendo opera di prevenzione (do you remember i codici sulle divise?), chiedendo scusa - ma davvero, non con la mezza e tardiva frase di Antonio Manganelli - a tutti, proprio a tutti: le vittime dirette delle violenze, i cittadini italiani, i lavoratori onesti dei corpi di polizia.
Oggi è troppo tardi e la credibilità perduta è tutta da ricostruire: perciò ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni di Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende.
*Comitato Verità e Giustizia per Genova
Bolzaneto, poliziotti e medici dovranno risarcire lo Stato
G8. La Corte dei conti di Genova condanna 28 persone a risarcire l’Italia per le violenze del 2001
di Eleonora Martini (il manifesto, 07.04.2018)
Che fu «tortura», perpetrata su donne e uomini inermi e spesso feriti, lo ha definitivamente stabilito, poco più di cinque mesi fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto a 61 persone recluse nella caserma di Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova, il diritto ad essere indennizzate dallo Stato italiano. Ora la Corte dei conti del capoluogo ligure a sua volta ha condannato 28 esponenti delle forze dell’ordine e personale medico sanitario a risarcire lo Stato per i danni materiali (ma non quelli d’immagine davanti al mondo) causati all’Italia da quella barbarie.
Tra i poliziotti, i carabinieri, gli agenti e i dirigenti della polizia penitenziaria, i medici e i sanitari che dovranno restituire ai cittadini italiani 6 milioni di euro in totale, ci sono anche personaggi come il dottor Giacomo Toccafondi, coordinatore delle attività sanitarie del sito penitenziario di Bolzaneto, il generale Oronzo Doria, ex capo area della Liguria dei poliziotti penitenziari chiamato al pagamento - in via sussidiaria - di 800 mila euro, e l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma, Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dap, che, sempre in via sussidiaria, dovrà pagare un conto di circa un milione di euro. Sabella, raggiunto dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza.
Una condanna che segue di poco quella inflitta a fine gennaio, dagli stessi giudici contabili della Liguria, all’ex comandante del VII Reparto Mobile di Bologna, Luca Cinti: 50 mila euro per i danni di immagine causati alla Polizia per alcuni arresti eseguiti in Piazza Manin, sempre durante le giornate del G8 di Genova.
Nella sentenza di ieri la Corte ha accolto solo in parte la richiesta della procura, formulata durante l’udienza di un anno fa, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro per i danni patrimoniali recati alle 252 persone che transitarono in quei giorni nelle celle di Bolzaneto, e altri 5 milioni per il danno di immagine all’Italia. A conti fatti, il danno reale è stato poi quantificato in “soli” 6 milioni, che graveranno soprattutto sui vertici delle istituzioni coinvolte. Coloro che, secondo i giudici, «erano necessariamente consapevoli delle violenze commesse», quelle fisiche e quelle psichiche commesse su persone inermi, minacciate di morte e di stupro.
Dal punto di vista penale il processo per le violenze di Bolzaneto si era concluso con 33 prescrizioni, 8 condanne e 4 assoluzioni, ma le amministrazioni di appartenenza degli imputati avevano dovuto ugualmente risarcire le parti civili. Ma da un altro punto di vista, come aveva sottolineato in udienza la procura contabile, quei giorni di Genova «hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica». Ecco perché a pagare è stato condannato anche Alfonso Sabella, malgrado la sua posizione giudiziaria fosse stata archiviata. L’ex dirigente Dap infatti avrebbe dovuto controllare e vigilare per evitare abusi. Tanto più in una situazione così inusuale, con una caserma trasformata di fatto in carcere.
Durante l’udienza di un anno fa, il procuratore contabile Claudio Mori aveva però spiegato come fosse più facile punire per danno d’immagine il dipendente pubblico che lascia il posto di lavoro per recarsi al bar di fronte l’ufficio piuttosto che gli agenti e i militari protagonisti delle violenze di Genova. «Con l’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile - aveva spiegato Mori - forse si andrà oltre». E invece nel conteggiare il risarcimento dovuto allo Stato la Corte dei Conti non ha inserito il danno d’immagine. Quello, continueremo a pagarlo tutti, cittadini e istituzioni italiane.
Genova 2001, una storia da raccontare per intero
La lettera. In risposta all’articolo «La credibilità della polizia è da ricostruire» di Lorenzo Guadagnucci
di Franco Gabrielli (il manifesto, 08.04.2018)
Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza
Gentile Direttore,
ho letto con attenzione l’articolo «La credibilità della polizia è da ricostruire» perché tocca uno degli aspetti che ritengo fondamentali nel rapporto tra Stato e cittadino. Quello della credibilità delle Istituzioni.
La mia storia personale, ancor più professionale, ruota tutta intorno a questo principio. Se le Istituzioni non sono credibili, se i cittadini non si riconoscono nelle Strutture che li governano, non vi può essere alcun virtuoso rapporto tra essi.
Ne ho fatto una sorta di mantra in tutte le mie esperienze professionali che hanno toccato gli aspetti della Sicurezza nelle sue molteplici accezioni. Da direttore dell’Agenzia di intelligence interna, a Capo del Dipartimento della protezione civile e, da ultimo, ora quale Capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza.
Ho espresso parole chiare e nette sulle responsabilità di quanto accadde nel corso del G8 di Genova. L’ho fatto in modo convinto, perché ho sempre ritenuto, per dirla con una iperbole, che non vada condannato chi dà la manganellata (o perlomeno non solo, se vi sono abusi), bensì chi ordina la carica. E queste parole le ho pronunciate, non come spesso accade nell’ambito ristretto di Uffici del Palazzo, per usare le parole del giornalista, bensì in pubblico e le ho anche consegnate alla carta stampata.
Parole che avrei potuto evitare (da noi si dice che non è importante farsi amici, quanto evitare di farsi nemici) perché io a Genova non c’ero e non c’era nessuno dell’attuale vertice della Polizia di Stato. Ma poiché chi è a Capo di una struttura deve farsi carico anche del passato di essa, ho ritenuto necessario prendere le distanze una volta e per tutte da quella vicenda.
E quelle parole non sono rimaste petizioni di principio. Molte delle persone condannate per quell’avvenimento sono ormai andate in pensione. Altre hanno abbandonato l’Amministrazione.
Le restanti sono state reintegrate, così come prevede la legge, con mansioni proporzionate alle qualifiche ricoperte.
Nessuna promozione è stata conferita. Nessun avanzamento in carriera. Nessun posto di prestigio o di responsabilità, anticamera per future progressioni.
Nel frattempo, abbiamo percorso chilometri di strada. Abbiamo modificato i criteri di assunzione, formazione, aggiornamento, progressione in carriera. Tra le file dei nostri poliziotti, anche nelle qualifiche di base, ci sono percentuali di laureati in passato inimmaginabili. Abbiamo costituito anche un Ufficio Affari Interni, per il controllo del nostro personale. Insomma posso affermare, senza tema di essere smentito, che siamo migliori di quanto eravamo. Ed è per questo che tra le Istituzioni pubbliche, le forze di Polizia sono ai primi posti per indice di fiducia dei cittadini.
Però la credibilità delle Istituzioni passa anche attraverso una rappresentazione veritiera del suo agire. Il continuare a rappresentare il G8 di Genova come una vicenda esclusivamente limitata alla Polizia mi pare profondamente ingiusto e riduttivo.
A Genova non c’erano solo poliziotti. C’era tutto lo Stato, nelle sue molteplici articolazioni. Del resto la magistratura contabile ha condannato 28 persone, tra cui magistrati, medici e componenti di altre amministrazioni. Di essi solo 9 erano poliziotti (nessuno dei quali, tra l’altro, con compiti di responsabilità) e Bolzaneto, citato nell’articolo, lo ricordo a me stesso, non era una struttura sotto la direzione della Polizia di Stato. Noi, grazie anche ai mass media, il nostro processo per il superamento di quella vicenda lo abbiamo affrontato. I nostri poliziotti sono stati condannati ed hanno scontato interamente le pene irrogate. Forse è giunto il tempo per una stampa, attenta e consapevole, quale si è dimostrata nei nostri confronti, di affrontare quella pagina della nostra storia in tutta la sua complessità. Perché altrimenti sorge il sospetto che quella che vada ricostruita non è solo la credibilità della Polizia.
Giustizia & Impunità
Scuola Diaz: “Blitz della polizia fu tortura”. Corte europea condanna l’Italia
La decisione dopo il ricorso di Arnaldo Cestaro, 62enne all’epoca del pestaggio avvenuto il 21 luglio 2001 al termine del G8 di Genova. I giudici: "Legislazione inadeguata rispetto agli atti di tortura e assenza di misure dissuasive". Riconosciuto risarcimento di 45mila euro
di "Fatto Quotidiano" ( F. Q. 7 aprile 2015).
Il blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, “deve essere qualificato come tortura”. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia non solo per quanto commesso nei confronti di uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. La Corte ha dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 sul “divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti“. Il ricorso, a quanto emerge dal sito della corte, è stato presentato da Arnaldo Cestaro, 62enne all’epoca del pestaggio, militante vicentino di Rifondazione comunista che dalla Diaz uscì con diverse fratture che hanno richiesto numerosi interventi chirurgici negli anni successivi. Cestaro è poi diventato un attivista del Comitato verità e giustizia per Genova. La Corte ha stabilito che lo Stato dovrà risarcirgli 45mila euro.
“La Corte - si legge nel documento pubblicato sul sito della Corte di Strasburgo - ha riscontrato una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, a causa dei maltrattamenti subiti da Cestaro e di una legislazione penale inadeguata per quanto riguarda sanzioni contro gli atti di tortura e misure dissuasive che prevengano la loro reiterazione”. “Dopo aver sottolineato il carattere strutturale del problema - si legge ancora - la Corte ricorda che, per quanto riguarda le misure per rimediare, gli obblighi positivi che spettano allo Stato italiano in merito all’articolo 3, possono compore un quadro giurico appropriato, anche attraverso disposizioni penali efficaci”.
La notte del 21 luglio 2001, quando sia il vertice dei “Grandi della terra” che le manifestazioni di protesta erano terminate, alcune decine di agenti della Polizia di stato fecero irruzione nel complesse scolastico Diaz-Pertini, che era diventato un dormitorio per i cosidetti “no global”. Sul 93 persone arrestate, con l’accusa di appartenere al “black bloc” protagonista degli scontri più duri delle due giornate precedenti, oltre 60 rimasero ferite nel pestaggio seguito all’irruzione, di cui almeno due in modo grave. La posizione dei 93 fu poi archiviata dalla Procura di Genova qualche anno più tardi, mentre il processo contro dirigenti e agenti protagonisti dell’irruzione è terminato nel 2012 con 25 condanne. Il processo ha inoltre documentato che la polizia costruì prove false per incastrare i manifestanti, a cominciare da due bottiglie molotov portate nella scuola dagli stessi poliziotti e poi esibite alla stampa tra gli oggetti sequestrati.
Nel ricorso presentato il 28 gennio 2011, Cestaro aveva invocato gli articoli 3,6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che i responsabili delle violenze nei suoi confronti non erano stati sanzionati in maniera adeguata, in particolare per la sopraggiunta prescrizione di alcuni reati, per le riduzioni di pena di cui alcuni imputati hanno beneficiato e dell’”assenza di sanzioni disciplinari” verso agenti e dirigenti coinvolti (che anzi fecero carriera fino alla sentenza di Cassazione, con conseguente interdizione dai pubblici uffici).
“Che tristezza, deve essere una ‘entità esterna’ come la Corte di Strasburgo a spiegarci che a #Diaz e #Bolzaneto ci fu tortura”, ha twittato Daniele Vicari, regista del film ‘Diaz - Don’t Clean Up This Blood’, ricostruzione cruda ma realistica di quei fatti. Alla corte di Strasburgo sono pendenti diversi ricorsi riguardanti le violenze subite dai fermati nel centro di detenzione di Bolzaneto. In quel caso furono gli stessi pm che condussero l’inchiesta a mettere nero su bianco che a Bolzaneto ricorsero gli estremi della tortura, secondo le definizioni del diritto internazionale, ma che in Italia il reato non esisteva.
La verità e la vergogna
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 3 ottobre 2012)
Sulla notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica.
Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese.
La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà.
Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno.
Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime».
La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola.
Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”.
Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana.
Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana.
C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie.
Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora - nota la sentenza della Cassazione - “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.
Confermate le condanne per il massacro alla Diaz, azzerati i vertici della polizia Per i dirigenti della Polizia scatta l’interdizione, lo ha promesso il ministro Cancellieri dopo la conferma in Cassazione delle condanne per le violenze durante il G8 di Genova. Prescritti i reati di lesione per gli agenti
di Claudia Fusani (l’Unità, 06.07.2012)
ROMA La notte in cui in Italia fu sospesa la democrazia adesso ha dei colpevoli. Undici anni dopo giustizia è fatta. In nome del popolo italiano e di quei 93 ragazzi e ragazze ridotti in fin di vita. Il sangue della scuola Diaz adesso può essere lavato dai termosifoni e dalle pareti della scuola che nei giorni del G8 di Genova ospitava il quartier generale del Genoa social forum. Non può essere lavato dalla memoria, perchè le mattanze con l’alibi della divisa non possono mai essere ammesse in un paese civile. Ma, almeno, dalla lista dei conti in sospeso. Adesso si può tutti guardare avanti, le vittime, i magistrati, anche i condannati che non pagheranno con il carcere ma con l’interdizione dai pubblici uffici (per 5 anni) oltre ai risarcimenti. A suo modo, anche questa, una rivoluzione: tra i condannati in via definitiva per falso aggravato ( arresto arbitrario e calunnia sono già prescritti), ci sono infatti i vertici della polizia, il capo del DCA (divisione centrale anticrimine) Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, uno dei suoi collaboratori più stretti.
Si tratta degli uomini, ottimi investigatori, che tre settimane fa hanno consegnato alla giustizia l’attentatore di Brindisi, solo l’ultimo dei successi di una squadra di investigatori che ha segnato la storia dell’antimafia e dell’anticrimine ma che quella notte del 21 luglio 2001 a Genova ha sbagliato tutto, non l’ha mai ammesso e l’errore più grave non ha mai chiesto scusa. Condannato in via definitiva anche Gianni Luperi, capo sezione analisi dell’Aisi (ex Sisde), Filippo Ferri (oggi capo della squadra mobile di Firenze), Fabio Ciccimarra (numero 1 della Mobile a L’Aquila). Sono i “pezzi grossi” tra i 27 imputati che annoverano anche la manovalanza e i quadri intermedi dei reparti mobili che quella notte decisero e fecero l’irruzione nella scuola alla ricerca di pericolosi black bloc armati di molotov e spranghe e invece si trovarono davanti solo ragazzi e ragazze che stavano dormendo nei loro sacchi a pelo esausti dopo tre giornate d’inferno. Eppure, nonostante l’evidenza dell’errore, quegli agenti non si fermarono.
Nessuno esulta alle sette di sera nell’aula magna della Cassazione quando il presidente della V sezione Giuliana Ferrua legge il dispositivo dopo nove ore di camera di consiglio segnate dal caldo e dal nervosismo. Assenti, come sempre in questi anni, gli imputati. Delusione tra i banchi dei legali. Ma non c’è voglia di esultare neppure tra i pochi protagonisti di quella notte. Ci vuole tempo per comprendere il verdetto. E forse lo si capisce di più e prima guardando le facce degli avvocati dei poliziotti. Lorenzo Guadagnucci è un giornalista di QN, quella notte era nel suo sacco a pelo al primo piano della scuola e ne uscì in barella con altri 92. È il protagonista del film «Diaz» (interpretato da Elio Germano) nonchè l’autore di due libri-testimonianza, Noi della Diaz (2002, ed Altra economia) e L’eclisse della democrazia (Feltrinelli, insieme con Vittorio Agnoletto). Temeva, come molti, il peggio: assoluzioni parziali, soluzioni piolatesche, qualche rinvio in Appello, altre dilazioni che avrebbero significato la pietra tombale su un processo già sbranato dalla prescrizione. «Ringrazio la Cassazione dice per aver scritto parole di giustizia nonostante le condizioni di estrema pressione. La Corte è l’unica istituzione che ha saputo e voluto cogliere quest’ultima chance dopo undici anni in cui tutte le altre istituzioni, Governo, Parlamento, Polizia di stato, hanno sempre deciso di stare dalla parte sbagliata accettando la copertura e nascondendo l’evidenza che quella notte c’è stata una spaventosa lesione dei diritti umani».
Una sentenza inattesa quella della V sezione. Molti, quasi tutti, erano convinti che la Suprema Corte non avrebbe mai avuto il coraggio di confermare la sentenza di Appello che nel maggio 2010 aveva condannato tutti gli imputati ribaltando il verdetto di primo grado (novembre 2008) che aveva assolto quasi tutti, tranne gli agenti che avevano materialmente alzato i manganelli. Come se non ci fossero stati ordini superiori a farli alzare, quei manganelli. Ordini superiori che invece hanno deciso a tavolino di fare quel blitz a freddo, nei modi e nei tempi della mattanza. I giudici dell’Appello avevano sentenziato che per quei fatti dovevano essere ritenuta colpevole tutta la scala gerarchica, i capi e gli esecutori, chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti. E, sempre l’Appello, aveva anche deciso che non potevano scattare le attenuanti (che avrebbero già fatto scattare la prescrizione) perchè «dai servitori dello Stato si deve pretendere un comportamento integerrimo sempre, anche durante il processo». Invece in questi anni ci sono state omissioni, reticenze, 20 imputati su 28 non hanno voluto testimoniare in aula.
È questo alla fine che ha pesato di più: l’atteggiamento di sufficienza, non aver mai preso coscienza e consapevolezza di quello che era successo. Quando ricopri certi ruoli, quando sei responsabile della sicurezza di un Paese, l’assunzione di responsabilità è un obbligo morale prima ancora che giudiziario. «La catena di comando è stata condannata e questo è un grande risultato. La Diaz però pagina nera per la democrazia italiana e il Parlamento non ha mai voluto una Commissione per individuare le responsabilità politiche» dice l’avvocato Francesco Romeo. Una sentenza severa. Dura. A suo modo beffarda: gli otto capisquadra del VII Nucleo Speciale della Squadra Mobile di Roma, i primi e gli unici ad essere condannati in primo grado per lesioni, si sono salvati grazie alla prescrizione che non fa scattare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
Ora scatta l’obbligo del ricambio dei vertici della polizia. «Attueremo il dettato della Cassazione» dice il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per cui la sentenza «chiude una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite in queste undici anni». Ma, aggiunge Vittorio Agnoletto all’epoca portavoce del Genoa Social Forum, «se sono stati condannati il numero 2, 3 e 4 della polizia dell’epoca, come è possibile che non ci siano conseguenze per l’allora n ̊1 Gianni De Gennaro che oggi è addirittura sottosegretario del governo?». De Gennaro non è mai stato imputato per questo processo. Aveva delegato La Barbera (scomparso nel 2002). Lui, Il Capo, seguiva e concordava ogni passo da Roma.
Amnesty International
Importante, ma nessuno ha ancora chiesto scusa
l’Unità, 06.07.2012
«Una sentenza importante, ma resta l’amaro in bocca perché nessuno ha chiesto scusa». Così Amnesty International sulla sentenza della Corte di Cassazione su quanto avvenuto a Genova nel luglio 2001. «Finalmente e definitivamente dice Amnesty , anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello Stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere».
Tuttavia, Amnesty ricorda che i fallimenti e le omissioni dello Stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l’amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all’accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.
di Oreste Pivetta (l’Unità, 06.0720.12)
La sentenza riguarda quanto avvenne nella notte alla scuola Diaz: quattrocento agenti a caccia di no global, giovani, ragazzi e ragazze, anche qualche signore e qualche signora di mezza età, tutti coricati nei loro sacchi a pelo sul pavimento della palestra della scuola Diaz. Accanto ad ognuno di loro la borsa, con gli indumenti di ricambio, lo spazzolino da denti, i biscotti, i barattoli di marmellata, qualche libro, qualche giornale. Questa la scena del delitto: una «scena» che secondo i «vertici» di polizia e carabinieri meritava l’assalto, lo sfondamento dei cancelli (aperti) con i gipponi, le botte, le manganellate, il sangue... Nel cuore della notte. Davanti al mondo intero. La coraggiosa sentenza, che certifica falsificazioni, bugie, i soliti tentativi di insabbiare, dice molto. Non tutto però. Undici anni dopo ancora non sappiamo perché. Ricordo le parole, il giorno dopo, di un appuntato della pubblica sicurezza, non più giovane, uno che, agente in strada, aveva seguito tanti cortei, tante manifestazioni, dal nostro Sessantotto in poi: «Qui hanno perso tutti la testa». Ricordo quanto ancora testimoniò, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma: «Sembrava una macelleria messicana».
Mi è capitato di assistere alla macelleria messicana, di raccogliere le voci delle vittime e quelle di chi, dalle case attorno, risvegliate nel cuore della notte, vi aveva assistito e la mattina dopo constatava di persona: la palestra ridotta a un tappeto di banali oggetti di ogni giorno; i caloriferi, alti termosifoni di ghisa, impiastrati di sangue; i gradini delle scale allo stesso modo sporchi di sangue, mentre qui e là ciocche di capelli erano l’evidenza di un corpo trascinato giù per le scale; le porte dei gabinetti, un ingenuo rifugio nel caos, sfondate; i computer di un’aula tecnica rovesciati a terra; fino alla staccionata che chiudeva il corridoio, perché dall’altra parte era aperto il cantiere di un’ala dell’edificio in ristrutturazione (non è un particolare da poco, perché due mattine più tardi, per la conferenza stampa dei carabinieri, erano stati esposti come corpi di reato, martelli da carpentiere, chiodi da carpentiere, qualche asse spezzata).
Tutto nella sequenza di quei giorni, dagli scontri ai primi cortei delle “tute bianche” alla morte di Carletto Giuliani in piazza Alimonda, dall’assalto alla Diaz all’ultimo attacco alla manifestazione popolare, alle violenze nella caserma di Bolzaneto, ai cori fascisti, tutto continua a stupire, scandalizzare, inorridire, perché dai tempi di Scelba, dei caroselli con le jeep, delle cariche a cavallo, dei morti in strada (l’altro luglio, quello del Sessanta), malgrado il terrorismo, malgrado le bombe e i depistaggi, malgrado le perdite di memoria di ministri e generali, qualcosa sembrava cambiato nel rapporto tra istituzioni, forze dell’ordine, cittadini, e nel segno della democrazia. Genova, piazza Alimonda, la Diaz, Bolzaneto furono un salto nel buio di un passato, un salto cercato, voluto, pensato, come una rivincita e una vendetta, rispetto al quale non teneva e non tiene una giustificazione che si richiama alle tensione di quei giorni, alla forza dei “neri” spacca vetrine. Come se invece si fosse cercata la “lezione”. Per questo un conto sono i poliziotti o i carabinieri violenti, un conto sono quanti hanno armato quei poliziotti e quei carabinieri, quanti li hanno “istruiti”, anche ingigantendo le paure e le minacce.
Molti, giudicando quelle vicende, si sono chiesti che cosa avesse ordinato Berlusconi; quali disposizioni avesse dato il ministro Scajola; che cosa ci facessero a Genova tra i tavoli dei comandi dei carabinieri o della polizia Fini e il suo parlamentare Filippo Ascierto. Loro potrebbero raccontare, dire, ricordare, aiutarci a dissolvere la nebbia, che le condanne non hanno dissolto, perché certo si possono indicare le responsabilità dirette della “catena di comando”, ma siamo lontani dal dare un nome e un cognome a chi architettò quell’esplosione di violenza sotto gli occhi del mondo e per quale ragione.
Dopo undici anni, si potrebbe (e qualcuno lo farà) organizzare il bilancio dei condannati e degli assolti (la maggioranza), sommare gli anni di pena, contare le prescrizioni, elencare quanti non hanno visto neppure le porte di un tribunale. Si potrebbero confrontare le accuse (per lo più falso aggravato, calunnia, lesioni gravi). Si potrebbero citare quanti hanno fatto carriera. Qualcuno è andato in pensione. Molti abbiamo imparato a conoscerli: Gratteri, Luperi, Mortola, Canterini (ha lasciato per limiti d’età), eccetera eccetera. Si potrebbe... Resta inevasa quella domanda: perché? Cioè, di chi fu la responsabilità politica. Resta, dopo undici anni, una pagina oscura, scritta con impressionante e imperscrutabile (per noi) determinazione.
Sangue di Stato
“Non li teniamo più i ragazzi”. E allora gli agenti che dovrebbero difendere i cittadini si trasformano in aguzzini: il film “Diaz” in sala dal 13 aprile ripropone brutalmente i fatti di 10 anni fa - teste spaccate, calci in faccia, la “macelleria messicana” - e sveglia dall’incubo dell’“è successo davvero?”. Sì, è successo t di Malcom Pagani (il Fatto, 29.02.2012)
Il cancello della scuola Diaz di Genova sembra di cartapesta. Il blindato lo piega e lascia strada all’orda. Trecento uomini al servizio dello Stato. Trasformati in bestie in una notte di luglio del 2001. I volti coperti da un fazzoletto rosso. I caschi senza numerazione. Il G8 è finito, ma c’è ancora qualche anonimo conto da regolare. Il bilancio è in passivo. Bisogna rimediare. I loro capi avvertono i superiori: “Non li teniamo più i ragazzi”. E complici, abbandonano i manovali al dialetto: “Mò s’annamo a divertì” e al lavoro sporco. Ai tempi supplementari in cui si infanga la divisa e impuniti, ci si spoglia della pietà.
Anche se dalla “macelleria messicana” (come alla fine, soltanto nel 2007, uno dei protagonisti del blitz, il Vice-questore aggiunto Michelangelo Fournier si decise ad ammettere in aula) sono passati 10 anni e certe ferite non si rimarginano “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale” secondo Amnesty arriva al cinema e lo fa con la straordinaria forza dell’inedito. Abusi, pestaggi, violenze, urla e sadiche violazioni da dittatura sudamericana diventate ora con Diaz, già premiato dal pubblico di Berlino, un film eccezionale. Gli agenti che hanno giurato fedeltà alla Repubblica dovrebbero liberare un edificio dal “blocco nero” che ha devastato la città, ma sono nervosi ed eccitati. Incontrano un giornalista sulla porta. Sventola il tesserino. Lo accerchiano in venti. Lo lasciano a terra. “Sei un block-bloc”. Bastonate e calci in faccia. Poi risalgono le linee. Abbattono chiunque. Senza chiedere permesso. “Non li teniamo più i ragazzi”. Spaccano gambe, denti e teste di pensionati e ventenni capitati lì per caso. Caschi blu contro cittadini inermi avvolti nel sacco a pelo. Tedeschi, spagnoli e finlandesi chiedono aiuto.
Radiografia di un potere
Fuggono per le scale e cercano scampo nei cessi o nelle aule. Inseguiti, trovano l’inferno. “Non li teniamo più i ragazzi”. In dieci contro uno, brandendo il Tonfa (il famigerato manganello in dotazione alla Ps durante il G8) per il solo gusto di ascoltare il cupo suono della rivincita e dell’abuso di potere tardivo. Senza una logica, animati da una frustrazione che odia, morde: “Questo è l’ultimo G8 che fai, bastardo” e offre ai vampiri in divisa sangue che nessuno potrà lavare. Diaz è un atto d’accusa di oltre due ore per cui non le giustificazioni non bastano. Un’immersione senza apnea in cui gli occhi si costringono a guardare per mancanze d’alternative. Altri già hanno girato la testa. Continueranno. Accade quando i fatti superano l’immaginazione. Capita quando anche i racconti di chi ha subìto disegnano uno scenario troppo duro da sopportare.
È successo davvero? Sì, è successo. Non nell’Argentina di Videla. Ma nelle vie borghesi di una città portuale, mentre i governanti dormivano nella zona rossa e qualche chilometro più in là, verso la collina, nella prigione di Bolzaneto andava in onda il secondo tempo di un horror di cui il regista Daniele Vicari offre un sunto sfortunatamente indimenticabile. Dando forma agli incubi. Accompagnandoli senza compiacimenti verso una riproposizione brutale, ma oggettiva dei fatti. Interpolando documento, memoria e finzione. Sacrificando la materia alla realtà e l’indignazione allo stralcio da processo. Mai niente di simile prima d’ora nel panorama nazionale. Mai uno schiaffo così preciso al potere. Come era normale all’epoca di Rosi, Petri e Pontecorvo e come credevamo i produttori di casa nostra avessero definitivamente rinunciato a fare.
Dopo aver ricevuto rifiuti, consigli a recedere, silenzi e alzate di spalle (Rai, Medusa, i colleghi) Domenico Procacci di Fandango ha scelto di finanziare Diaz - in uscita il 13 aprile - in prima persona (partecipazioni romene e francesi per Mandragora e La Pacte). Sette milioni di cui 400.000 euro del Mibac. Pochi soldi, ma ben spesi questa volta anche se è prevedibile che il Parlamento (dopo aver affossato la commissione d’inchiesta sul G8) fingerà di indignarsi e le polemiche che hanno sfiorato in stagioni diverse La Prima Linea di De Maria o Acab di Sollima, sembreranno rugiada di fronte alla tempesta. Il capo della Polizia Antonio Manganelli si è rifiutato di visionare la sceneggiatura. Vicari è pronto. Ha scelto di non mettere i veri nomi di poliziotti e manifestanti: “Perché carnefici e vittime sono comunque riconoscibili e in ogni caso, mai come in questa occasione, a contare sono i fatti e non le parole”. Non gli interessano “le ideologie” - in Diaz non ci sono tesi né bandiere stancamente trascinate - “ma le dinamiche che precedono un’azione”.
Così senza artifici, troviamo psicologie, responsabilità e identità. Vincenzo Canterini, il comandante del settimo reparto di Roma che alla Diaz si distinse. “Liberiamo un manufatto occupato da pericolosi anarcoinsurrezionalisti”. Il “celerino” di destra, Fournier appunto: “Io con questi macellai non ci lavoro più” dice un bravo Claudio Santamaria, capace di indignarsi e di urlare “basta” ma non fino in fondo: “Lascia stare, facciamo colazione” sussurra a un collega sulla porta di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera (Mattia Sbragia), arrivato per esautorare la polizia locale e i funzionari che chinano il capo senza apparenti reazioni: “Predispongo, predispongo”.
Anatomia di un massacro
E poi i gregari, i capifiliera, le comparse. Funzionali a un falso di Stato, a una bugia costruite con dolo. Le finte coltellate ottenute da un agente all’ingresso della scuola, con tanto di intervista commossa. O il carico di molotov surrettiziamente portato dentro la Diaz per poi orchestrare una conferenza brezneviana senza domande, risposte o dubbi. Vicari li ha covati e con la sceneggiatrice Laura Paolucci ha lavorato 2 anni. Un viaggio tra le carte e le diffidenze. Un percorso onesto. Lasciando sedimentare le emozioni in modo analitico. Escludendo alla radice la narrazione di tutto ciò (o quasi) che a Genova era avvenuto prima della Diaz (echi della morte di Giuliani appena accennati) ma non dimenticando la prima buona regola di ogni film riuscito. Circoscrivere il campo d’azione. Togliere anziché aggiungere. Rispettare la verità con la certezza dei dati. Al di là di un complesso lavoro di regìa e di equilibrio in cui il personale trasmuta in universale, Vicari non ha aggiunto né inventato nulla. Ha assemblato tasselli, convinto che nella Storia, per dirla con Marc Bloch. “Le cause non si postulino, ma si cerchino”. Trasportando le testimonianze dal tribunale allo schermo e le preghiere delle vittime dall’oblìo all’eternità.
Escluso Fournier, l’unico senza medaglie per gli “eroismi” genovesi tutti, ma proprio tutti gli altri poliziotti con le stellette coinvolti nel massacro sono stati promossi. Condannati per pestaggi o per “falso” come Francesco Gratteri allora capo dello Sco e passati ad altri importanti incarichi. Forse la Ps non è e non sarà più quella della Diaz, ma il film di Vicari è qui per questo. Per impedire che i fantasmi ritornino, le zone d’ombra ingialliscano e in una questura italiana, sotto il ritratto del presidente, si possa ancora ascoltare una nenia: “Un, due, tre, viva Pinochet” così simile al suono triste delle canzoni di Pietrangeli: “Eran 1.000 scalmanati / noi 200 baschi blu / son bastati due o tre morti / non si son sentiti più”.
L’orrore in una notte a Bolzaneto
Black Block
Il documentario di Carlo A. Bachschmidt raccoglie le voci e le testimonianze dei manifestanti del G8 di Genova che furono le vittime inermi della polizia prima nella scuola Diaz e poi nella famigerata caserma
di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 08.09.2011)
Il G8 di Genova dieci anni dopo. Quando il movimento è stato soffocato nel sangue. Le immagini dei pestaggi sui manifestanti inermi, la violenza della polizia culminata col corpo di Carlo Giuliani martoriato dai cingoli del blindato, dopo il colpo di pistola che l’ha lasciato a terra per sempre, sono diventate icone indelebili. Di quelle immagini, tante sono servite come prove ai processi contro le forze dell’ordine. Ma anche e soprattutto sono diventate repertorio per i molti documentari di denuncia che hanno testimoniato di quei giorni da golpe. Eppure quella pagina nera della nostra storia, per la quale si attende ancora giustizia, resta materia viva di indagine. E ieri, proprio qui a Venezia, un altro tassello è stato aggiunto.
Stiamo parlando di Black Block, il documentario di Carlo A. Bachschmidt che Fandango porterà in libreria dal prossimo 15 settembre. Mentre proprio oggi termineranno le riprese di Diaz il film di Daniele Vicari. Ecco, sono proprio le vittime di quel blitz i protagonisti di Black Block. Sette ragazzi stranieri che raccontano in prima persona gli orrori compiuti dalla polizia nella scuola e poi le torture subite nella caserma di Bolzaneto.
Bachschmidt, responsabile del Genoa Legal Forum, ha voluto raccontare così quei giorni, attraverso la «scelta precisa - spiega di dare voce solo ai manifestanti, al racconto delle parti offese. Racconti fatti anche durante i processi, ma che i media non hanno diffuso». E il risultato è scioccante. Ecco Lena, per esempio, studentessa di Amburgo evocare i calci e i pugni dei poliziotti che le hanno fracassato le costole, mentre veniva trascinata giù dalle scale per i capelli. «Cercavo di proteggermi il volto - racconta - appoggiando le mani ai gradini per non battere la testa. Ma un poliziotto me lo impediva, mentre un altro mi sputava addosso». Daniel, inglese, racconta dello sgomento nell’istante dell’irruzione. Improvvisa, inimmaginabile. Coi poliziotti in assetto anti sommossa correre su per le scale della scuola, sfondare le porte. Panico, grida, calci, pugni, bastonate. Poi il passaggio in ospedale, prima dell’arrivo a Bolzaneto, dove continuano le torture. “«i hanno fatto spogliare mentre i dolori delle infinite fratture mi toglievano il respiroricorda Niels, tedesco -. Quando non ce la facevo più, ho segnalato il punto del dolore più lancinante. Un poliziotto mi si è avvicinato e mi ha bastonato ancora, proprio lì». «Ho vissuto nella realtà -, dice ancora un ragazzo inglese di origini ebraiche, i racconti dei miei nonni torturati dai nazisti».
Sono state 93 le vittime di quella notte. Di cui il 70% ragazzi stranieri, venuti da tutto il mondo. Tantissimi dall’Europa tra cui i protagonisti di questo film, ritornati a Genova più volte per testimoniare ai processi. Tra loro c’è Muli che oggi vive a Berlino e ha fondato, dopo i fatti di Genova, un centro di sostegno per le persone che hanno subito traumi violenti. Lo choc di quella notte, infatti, ha segnato la sua vita. E ce n’è voluto, racconta, per tornare alla normalità. Per lui come per gli altri. Eppure, nonostante tutto, nessuno di loro ha «deviato» il suo percorso politico. C’è chi continua nell’impegno contro il nucleare, chi nel movimento ecologista, chi nel mondo dei media indipendenti. «Magari non sono più in prima linea in tante manifestazioni - dice Muli -, ma quello che voglio fare continuerò a farlo. Dentro quella scuola non ce l’hanno fatta a rompere questa cosa dentro di me». Ecco chi sono quelli che i media hanno definito Black Block.
La menzogna di Stato
di Francesco Merlo (la Repubblica, 18.06.2010)
Gianni De Gennaro non è un uomo qualunque, è da moltissimi anni un pezzo importante dello Stato italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello. Ma proprio per questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo alle quali purtroppo stiamo invece assistendo.
Un servitore dello Stato, un ex capo della Polizia oggi Signore dei servizi segreti, non può apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza ma ha il dovere di liberare lo Stato dalla fosca ombra che lo sovrasta. Non sappiamo cosa De Gennaro deciderà, ma abbiamo fiducia nella sua coscienza, nel suo spirito di servizio, nel suo alto senso dello Stato che, mai come oggi, coincide con la sua dignità di insospettabile.
E però, più inquietante della sentenza c’è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito", del ministro dell’Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l’apparire come una prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell’idea rigorosa di Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia assoluta? Neppure De Gennaro è, secondo noi, solidale con se stesso come Maroni e Alfano lo sono con lui. E se fosse stato direttore del Tg1 o del Tg5 di sicuro De Gennaro avrebbe evidenziato nei titoli la notizia che invece Minzolini e Mimun hanno nascosto. Come si fa a non capire che delegittimare o malcelare una sentenza così rilevante finisce con il rafforzarla, con il fornire ulteriori argomenti alla colpevolezza?
Insomma, più grave della sentenza c’è la complicità politica con il reo, l’idea che la politica possa annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello lo scontato crucifige ideologico dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si tratta in fondo di pezzi di un’opposizione d’antan e tribunizia di pochissimo peso istituzionale. Ben più indecente è l’amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità che somigliava - ci è parso - allo sconcerto trattenuto, allo scandalo dissimulato. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato, magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il suo operato vulnera l’istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando invece è un pezzo di Stato?
Ma voglio essere ancora più chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle costruite a freddo contro degli inermi. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C’è una nobiltà nella ignobiltà che ha commesso.
Ma la solidarietà dei ministri degli Interni e della Giustizia sconfessa l’operato dei giudici in maniera sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l’amicizia rendono innocente anche un reo condannato. L’impunità è la peggiore delle sporcizie di Stato.
G8 GENOVA
De Gennaro condannato a un anno e 4 mesi
Maroni: "Continuo ad avere fiducia in lui"
E’ colpevole di istigazione alla falsa testimonianza. Ha convinto l’ex questore del capoluogo ligure ad "aggiustare" la sua testimonianza sul blitz nella scuola Diaz. Alfano: "Ha servito lo Stato"
di MASSIMO CALANDRI *
GENOVA - Il prefetto Gianni De Gennaro è stato condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione dalla corte d’appello del tribunale di Genova, che lo ritiene colpevole di istigazione alla falsa testimonianza. Secondo il tribunale De Gennaro convinse il vecchio questore del capoluogo ligure, Francesco Colucci, ad "aggiustare" la sua testimonianza durante il processo per il sanguinario blitz nella scuola Diaz, ultimo capitolo del G8 del 2001. Il governo, però, si schiera al suo fianco. "Ha la mia piena e totale fiducia: fino alla sentenza definitiva non cambia nulla, attendiamo fiduciosi nell’esito del ricorso in Cassazione. Per De Gennaro, come per tutti, vale la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva" dice il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. "La sua innocenza, fino a condanna definitiva è sancita dalla Costituzione" aggiunge il ministro della Giustizia Angelino Alfano.
De Gennaro, che nove anni fa era il capo della polizia ed oggi è al vertice del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, era stato assolto in primo grado perché le prove di colpevolezza nei suoi confronti non erano state ritenute sufficienti. Alle 14, dopo quattro ore di camera di consiglio, la corte presieduta da Maria Rosaria D’Angelo (giudici a latere Paolo Gallizia e Raffaele Di Gennaro) ha ribaltato la decisione. Il prefetto è colpevole e con lui anche Spartaco Mortola, attuale questore vicario di Torino e durante il G8 numero uno della Digos genovese. Mortola è stato condannato ad un anno e due mesi di reclusione per lo stesso motivo: pure lui avrebbe "suggerito" a Colucci la versione da fornire in aula, raccontando in una maniera diversa quello che era stato il coinvolgimento di De Gennaro nella discussa operazione. Per l’assalto ai 93 no-global della scuola, massacrati di botte ed arrestati illegalmente, Mortola è già stato condannato in appello a 3 anni e 6 mesi di reclusione. In questo secondo processo invece De Gennaro non è mai stato nemmeno indagato. "Siamo sconcertati, esterrefatti. Andremo in Cassazione", è stato il primo commento di Piergiovanni Lunca, avvocato di uno degli imputati. "Finalmente è stato possibile dimostrare che siamo tutti uguali davanti alla legge", gli ha risposto la collega Laura Tartarini, parte civile in questo procedimento.
Vale la pena di ricordare che le sentenze di secondo grado per i maxi-processi del G8 si sono tutte chiuse con pesanti condanne nei confronti della polizia. Tutti colpevoli i 44 imputati (funzionari, agenti, ufficiali dell’Arma, generali e guardie carcerarie, militari, medici) per i soprusi e le torture nella caserma di Bolzaneto, dove transitarono almeno 252 no-global fermati durante gli scontri di piazza. Colpevoli anche i picchiatori e i mandanti del massacro nella scuola, a partire dai vertici del Ministero dell’Interno come Giovanni Luperi, attuale responsabile dell’Aisi, l’ex Sisde, condannato a quattro anni di reclusione e Francesco Gratteri, oggi capo dell’Antiterrorismo (stessa pena). Tre anni e otto mesi sono stati inflitti a Gilberto Caldarozzi, che catturò Bernardo Provenzano e ora dirige il Servizio centrale operativo, cinque anni a Vincenzo Canterini, allora numero uno di quella "Celere" romana.
* la Repubblica, 17 giugno 2010
G8
Diaz, condannati i vertici della polizia L’appello ribalta sentenza di primo grado
Condanne per un totale di 85 anni di carcere a 25 dei 27 imputati. Tra loro tutti i massimi esponenti delle forze dell’ordine. Nel primo grado di giudizio, nel 2008, erano stati assolti in 16
GENOVA - I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Genova hanno ribaltato la sentenza di primo grado 1 per i disordini e l’irruzione alla scuola Diaz del luglio 2001 a Genova. Tutti i vertici della polizia che erano stati assolti hanno subito condanne comprese tra 3 anni e 8 mesi e 4 anni unitamente all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Nel complesso le pene superano gli 85 anni. In totale sono stati condannati 25 imputati sui 27.
Il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri è stato condannato a quattro anni, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque anni, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (oggi all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna) a quattro anni, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) a tre anni e otto mesi, l’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi.
Altri due dirigenti della Polizia, Pietro Troiani e Michele Burgio, accusati di aver portato le molotov nella scuola, sono stati condannati a tre anni e nove mesi. Non sono stati dichiarati prescritti i falsi ideologici e alcuni episodi di lesioni gravi. Sono invece stati dichiarati prescritti i reati di lesioni lievi, calunnie e arresti illegali. Per i 13 poliziotti condannati in primo grado le pene sono state inasprite.
Il procuratore generale, Pio Macchiavello, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per i 27 imputati. In primo grado furono condannati 13 imputati e ne furono assolti 16, tutti i vertici della catena di comando. I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini avevano chiesto in primo grado 29 condanne per un ammontare complessivo di 109 anni e nove mesi di carcere. In primo grado furono assolti Francesco Gratteri, ex direttore dello Sco e oggi capo dell’Antiterrorismo, Giovanni Luperi; Gilberto Caldarozzi e Spartaco Mortola.
* la Repubblica, 18 maggio 2010
La sentenza d’Appello per i reati commessi da poliziotti e medici nella caserma della celere
Il primo grado le condanne furono solo 15. Salvati dalla prescrizione, ma dovranno pagare
Violenze a Bolzaneto, 44 condanne
Reati prescritti, le vittime saranno risarcite
Lo Stato dovrà pagare più di 10 milioni di euro. Solo in 7 casi non viene applicata la prescrizione
Il Comitato "Verità e giustizia" chiede la sospensione dal servizio e una legge sulla tortura
di MASSIMO CALANDRI *
La lettura della sentenza d’appello per i fatti di Bolzaneto GENOVA - Nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 dell’estate 2001, i no-global furono picchiati, umiliati, sottoposti a "trattamenti inumani e degradanti". Ci fu tortura, e gli imputati sono colpevoli. Generali della polizia penitenziaria, guardie carcerarie, ufficiali dell’Arma e militari, agenti e funzionari di polizia, persino quattro medici: questa sera la Corte d’appello del tribunale di Genova li ha condannati tutti e 44. A nove anni dai fatti la maggior parte dei reati è prescritta, ma i responsabili pagheranno comunque risarcendo le vittime delle violenze. E con loro metteranno mano al portafogli anche i ministeri di appartenenza (Giustizia, Interno, Difesa), che dovrebbero sborsare una cifra superiore ai dieci milioni di euro.
Sono state inflitte sette condanne a complessivi dieci anni di reclusione nei confronti di quattro guardie carcerarie responsabili di falso - reato non prescritto - , e di tre poliziotti che avevano rinunciato alla prescrizione. I sette imputati condannati sono: l’assistente capo della Polizia di stato Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e il medico Sonia Sciandra (2 anni e 2 mesi). Pene confermate a 1 anno per gli ispettori della Polizia di Stato Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi.
"Sono stati accolti tutti i motivi del nostro appello e della procura generale", hanno commentato soddisfatti i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. "Questa sentenza è due volte importante, perché fatti come quelli accaduti a Bolzaneto non dovranno ripetersi. Mai più". Alla fine della lettura della sentenza un imputato presente in aula ha inveito contro i giudici - "Avete voluto condannare tutti e basta, senza fare distinzioni" - ed è stato allontanato.
La sentenza di primo grado è stata completamente ribaltata. Allora, nel luglio del 2008, erano state pronunciate 15 condanne e ben 30 assoluzioni. Il reato di "tortura", non previsto dal nostro codice penale, era stato indirettamente riconosciuto con la condanna a 5 anni di reclusione di Biagio Antonio Gugliotta, sottufficiale della polizia penitenziaria. Dei "simbolici" 76 anni di prigione chiesti dalla procura ne era stato riconosciuto meno di un terzo.
I giudici si sono riuniti in camera di consiglio alle 9:40 di questa mattina. Per i 44 imputati autori delle violenze nella caserma di Bolzaneto avvenute nel luglio del 2001 a Genova durante il G8, la pubblica accusa aveva chiesto 36 prescrizioni e 8 condanne.
Immediata la presa di posizione del comitato "Verità e giustizia" che da anni segue le vicende del G8 di Genova. Il comitato ha chiesto la sospensione per tutti gli imputati: "Il messaggio dei giudici d’appello, con le 44 condanne per i maltrattamenti e le torture su decine di cittadini detenuti nella caserma-carcere di Bolzaneto nel luglio 2001, è chiarissimo e dev’essere colto immediatamente dalle istituzioni. Tutti i condannati nelle forze dell’ordine devono essere immediatamente sospesi dagli incarichi, in modo che non abbiano contatti diretti con i cittadini; gli Ordini professionali devono agire sui propri iscritti con la sospensione: non è più possibile restare nel terreno dell’ambiguità... Se buona parte delle pene è caduta in prescrizione è solo perché in Italia non ha una legge sulla tortura (reato che per la sua gravità non prevede prescrizione), nonostante l’Italia si sia impegnata oltre vent’anni fa ad approvarne una. Il Parlamento ora non ha più scuse: la sentenza di oggi dimostra che abbiamo assoluto bisogno di quella legge".
© la Repubblica, 05 marzo 2010
Secondo l’accusa, chiese al questore di mentire sui fatti della Diaz nel 2001
Sul banco degli imputati anche l’ex capo della Digos. Sentenza a settembre
G8 Genova, il pm: condannate De Gennaro
Per l’ex capo della Polizia chiesti 2 anni
Gianni de Gennaro, ex capo della Polizia, oggi direttore Dipartimento Informazioni per la Sicurezza
GENOVA - Il pm ha chiesto due anni di reclusione per l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Sul banco degli imputati, insieme all’attuale direttore del Dipartimento della Informazioni per la Sicurezza Dis, l’ex capo della Digos di Genova Spartaco Mortola - oggi questore vicario di Torino - per il quale l’accusa ha chiesto 1 anno e 4 mesi.
"Istigazione a falsa testimonianza". Avrebbero indotto l’ex questore Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza sulla sciagurata e sanguinosa irruzione nella Diaz occupata dai no-global durante il G8 del 2001. Il processo si svolge a porte chiuse. Durante l’udienza, il pm ha letto in aula le intercettazioni che dimostrerebbero la colpevolezza di De Gennaro e Mortola. La parola passa ora alle parti civili (alcune persone fisiche e l’associazione giuristi democratici). Il 15 luglio sarà la volta delle difese, mentre la sentenza è prevista per settembre.
Le due versioni di Colucci. La vicenda nasce da un interrogatorio dell’allora questore che inizialmente ammise un coinvolgimento indiretto dell’ex capo della Polizia nei fatti della Diaz. In seguito, durante il dibattimento, Colucci fece però un passo indietro e sostenne che De Gennaro era all’oscuro di quelle violenze. Da qui la richiesta dei pm di falsa testimonianza per Colucci e di istigazione alla falsa testimonianza per De Gennaro e Mortola che avrebbero indotto l’ex questore a ritrattare. Ambedue gli imputati respingono gli addebiti e saranno processati con rito abbreviato, mentre Colucci ha preferito optare per quello ordinario.
L’intercettazione: "Ho parlato con il capo". L’accusa si fonda su una telefonata registrata tra la prima e la seconda versione dell’ex questore. Colucci chiama Mortola e gli dice: "Ho parlato con il capo. Devo fare marcia indietro". Il "capo" cui fa riferimento sarebbe proprio De Gennaro. L’intercettazione finisce per caso nell’inchiesta avviata dopo la misteriosa sparizione delle bottiglie molotov che erano state falsamente attribuite ai no-global arrestati. E scatta l’incriminazione per il vertice della Polizia.
I pm: "De Gennaro sapeva". Tutto ruota intorno alla presenza nella scuola Diaz di Roberto Sgalla, responsabile delle pubbliche relazioni per la Polizia di Stato. Colucci aveva in precedenza giurato che De Gennaro gli aveva detto di avvertire Sgalla e inviarlo alla Diaz per seguire l’irruzione. Secondo gli inquirenti, questo dimostrerebbe che anche i massimi vertici dell’Interno erano perfettamente a conoscenza di quanto era accaduto nell’istituto. Ma chiamato a testimoniare in aula - e dopo la telefonata intercettata - il questore cambiò versione: "Sono stato io - disse Colucci - a chiamare Sgalla. E’ stata una mia iniziativa".
* la Repubblica, 1 luglio 2009
Famiglia Cristiana: commissione parlamentare sul G8 di Genova
Famiglia Cristiana in edicola questa settimana chiede al Parlamento, attraverso un «commento» dell’ex magistrato genovese Adriano Sansa da tempo collaboratore del settimanale, di fare luce sui gravi fatti accaduti alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. La sentenza di primo grado ha condannato 24 operatori della Polizia di Stato e penitenziaria: «Tra i condannati, vicequestori, un commissario capo e comandanti di nucleo: non uno o due facinorosi o fragili ragazzi che hanno perduto la testa, ma interi gruppi che avrebbero insieme torturato - questa è la parola - e poi mentito e imbrogliato». La decisione, però, ha deluso chi si aspettava la sanzione di responsabilità più elevate: «ma il processo penale condanna dove prova i reati degli accusati» e «gli ostacoli frapposti all`accertamento della verità dalla polizia stessa, le calunnie e le falsificazioni sono stati così sciaguratamente efficaci da nascondere altri colpevoli».
«Ma», si chiede il settimanale «se tutto questo è oggettivamente stabilito, perché non si sono attuati i mezzi che la legge stessa prevede, e la responsabilità politica e morale impongono? Se tanti operatori e funzionari hanno commesso crimini, qualcuno, pur al di fuori del processo deve rispondere, dopo i controlli e a seguito della vigilanza che ciascun corpo pubblico esercita per non autodistruggersi». «Nessuno invece ha pagato, tra quelli che dirigevano a più alti livelli: incapaci, distratti, indegni. Anzi tutti sono stati promossi, alcuni a ruoli di elevatissima responsabilità».
«Nessuno chiede scusa, nessuno ha offerto risarcimenti adeguati alle vittime, traumatizzate per la vita. Nessuno accenna a inchieste imparziali o a rimuovere gli indegni andati avanti in carriera. Forse così il Governo pensa di apparire «amico della polizia». Ma ne distrugge l`immagine tra i cittadini, ne insulta la parte leale. Anche il Parlamento, ultima istanza solenne di una democrazia che soffre, tace. Eppure l`inchiesta parlamentare è l`ultima possibilità per fermare finalmente il tradimento di Genova».
Lapidaria (e insolente) la risposta di Maurizio Gasparri, presidente del Pdl al Senato, al direttore di "Famiglia Cristiana": «Si rassegni: la commissione parlamentare sul G8 non si farà mai. Basta con l’attacco alle forze dell’ordine».
* l’Unità, 28 Nov 2008
LA LETTERA
I nostri agenti onorano tutti i giorni la Costituzione
Caro Direttore,
leggo che Repubblica si aspettava (anche) dai vertici della Polizia segnali di fedeltà alla Costituzione. Il vertice della Polizia è uno solo. Sono io. Credo perciò di doverle una pacata spiegazione. Metterei intanto da parte il richiamo alla fedeltà alla Costituzione che è assai suggestivo mediaticamente, ma anche questione troppo seria per essere messa in discussione dalla vicenda che trattiamo. Oltre 150 anni di storia, i nostri morti e il lavoro diuturno per il bene dei cittadini di migliaia di persone sottopagate onorano la Costituzione ogni giorno. Non credo perciò che nessuno abbia bisogno di essere rassicurato sulla fedeltà alla Costituzione delle forze di polizia.
Credo invece, e sono d’accordo con Repubblica, che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L’Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali.
Si muove, e si muoverà, inoltre, con i fatti. Dall’inizio del mio mandato, ad esempio, mi sto adoperando per approfondire, e anche correggere, tutte le modalità di intervento "in piazza" anche avviando la costituzione della prima scuola di polizia per la tutela dell’ordine pubblico che sarà inaugurata il prossimo 3 dicembre. Abbiamo ai vertici dei reparti, investigativi e operativi in genere, persone pulite. Dal luglio dello scorso anno, io sono il loro garante e mi assumo, come ho già fatto, la responsabilità per gli errori che possano commettere.
Caro direttore, sto scrivendo l’ultimo capitolo della mia storia professionale e non lo macchierò certo per reticenza, per viltà o per convenienza.
Antonio Manganelli
* la Repubblica, 16 novembre 2008
Abu Ghraib a Genova
di Barbara Spinelli (La Stampa, 16/11/2008)
Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001 a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu dell’84, non cambia la sostanza del delitto.
Nessuno nega ormai che a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati, minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate, braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.
Queste cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come - poco dopo - a Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere», è già accaduto.
Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a Abu Ghraib, a Guantanamo.
I massimi responsabili non hanno pagato, perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un «grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti, senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi - con Berlusconi - promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra. Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia al vertice del G8 di Genova.
Il questore Vincenzo Canterini ha scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier, anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita. Visto che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo: oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria) prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.
È una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati. (...) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti». Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato: «Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio, coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche quando non lo diranno».
Esiste dunque la possibilità di servire lo Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati (censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.
Quando cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce» di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove. Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per cominciare a far bene le cose.
Manganelli: spiegherò cosa avvenne al G8: "Pronto a farlo nelle sedi istituzionali"
Il coraggio della verità
Sarebbe desolante se ora la disponibilità del Capo della Polizia a ricostruire quei fatti non venisse raccolta
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 16.11.2008)
Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall’altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz ? come le torture di Bolzaneto ? sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell’ordine e una giovane generazione.
Una macchia nella storia dell’istituzione che governa. È un’ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare «senza alcuna riserva» per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un’opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.
Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro («sottopagato») al servizio della sicurezza dei cittadini. E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell’establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che «realmente accadde a Genova» deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un’aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici. Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare («correggere») il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a «persone pulite». In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora «la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere». Già è accaduto che, dopo «l’avventatezza» omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell’area di servizio di Badia al Pino Est dell’A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un’arrogante lettera di velate minacce, di richiami all’omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano. Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: «? il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l’istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali».
Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire ? al di là dell’accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) ? quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.
Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L’opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l’Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d’inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all’insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d’inchiesta: «Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell’ordine». Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell’innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l’opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell’interesse di una riconciliazione tra le forze dell’ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo?
INTERVISTA
"Questa sentenza è una vergogna"
L’agente pentito della scuola Diaz:
«Assolti i mandanti del massacro»
di ALESSANDRA PIERACCI (La Stampa, 15/11/2008)
ROMA. La Diaz è stata la vergogna della polizia, ma questa sentenza è la vergogna della magistratura. Le assoluzioni hanno creato un clima che non è bello, potrebbe provocare qualche testa calda. Se ne sono oltraggiato io, figuriamoci gli altri, i feriti, i no global». Luigi Fazio, 56 anni, ne ha passati oltre trenta in polizia, sempre operativo, ma poi ne è venuto via «disgustato», per ritirarsi in campagna, a Roma.
Ha partecipato all’irruzione «sbagliata», quella alla scuola Pascoli, accanto alla Diaz, dove si trovava il media center dei no global: è stato condannato a un mese per aver «strattonato e piegato un braccio e colpito al volto con una manata un giovane che era nella scuola, con l’aggravante di essere un sovrintendente di polizia».
Perché la decisione dei giudici la indigna?
«Perché un ladro di polli prende tre mesi, mentre chi ha deciso e ordinato l’irruzione nulla. Sono rimasti i poveracci. Sono stato forse io a fare tutto da solo, sono stati Canterini e gli altri? C’ero io alla riunione in questura per dare il via a un’operazione sconsiderata? Allora anche la magistratura ha dimenticato quel massacro, se oggi 10-15 capi d’imputazione sono sfumati. Al mio legale, l’avvocato Diego Perugini, il pm ha detto che io ero quello che c’entrava meno di tutti, ma lui non poteva permettersi di perdere i pezzi. Beh, ora hanno perso tutto.Tra pubblico ministero e giudici hanno fatto un pasticcio».
Ma lei non è pentito di quella notte?
«Io non ho il manganello insanguinato e sono certo che se fossi entrato alla Diaz avrei cercato di fermare chi picchiava. Anzi, se avessi avuto io responsabilità di una decisione, mai avrei autorizzato un’irruzione nelle scuole in quella situazione, nel clima di quei giorni. Però non mi sono potuto rifiutare. All’inizio avevo pensato che ci fosse stato magari un buon servizio di intelligence. Invece niente, un fallimento. Adesso voglio essere onesto: mi sono pentito anche di essere entrato alla Pascoli, però c’ero solo io? C’erano due funzionari responsabili, commissari, ispettori capo. Alla fine tutto a tarallucci e vino, paga solo Fazio, per un riconoscimento per di più sbagliato».
Che cosa ricorda di quelle ore?
«I feriti che uscivano o venivano portati fuori. In un primo momento ho pensato davvero che ci fossero stati degli scontri, con i poliziotti che, attrezzati e addestrati, avessero avuto decisamente la meglio. Ma sanguinavano a decine, poi ci sono stati giornali e tv, non credevo ai miei occhi. Così mi sono vergognato, io che in tutta la mia carriera non ho mai sparato un colpo, nemmeno quando ho catturato rapinatori di banche. Quella non era la mia polizia. E dopo questa sentenza non so che dire, mi sto perdendo, non riesco a capire. E’ come se i giudici avessero deciso che quel massacro non c’è stato. Durante l’inchiesta, mi sono sentito dire da qualche dirigente che era meglio non partecipassi a operazioni di ordine pubblico, vista la mia posizione... Avevo già cominciato a pagare solo io. Così me ne sono andato. Meglio la mia campagna, coltivare l’orto come faceva mio padre in Calabria. Io no, io a 16 anni scaricavo cemento a Torino. Oggi mi godo la mia bambina e qualche amico. Ho una pensione da 1600 euro. Polizia e magistatura non sono stati buoni con me, ma Dio sì».
Diaz Irae
di Ida Dominijanni (il manifesto, 14.11.2008)
Il passaggio del testimone, fra la generazione politica massacrata sul nascere a Genova nel 2001 e quella che oggi torna in piazza per difendere l’istruzione pubblica, è affidato alla memoria politica e non alle aule di giustizia. Sarebbe però competenza delle aule di giustizia rendere la memoria politica il più possibile serena, sgombrando il campo da sospetti, detriti, conti in sospeso, ansie di vendetta. Competeva infatti alle aule di giustizia del tribunale di Genova sgombrare il campo dal sospetto che, nella democrazia costituzionale italiana, «la più grande sospensione dei diritti umani verificatasi in Europa dopo la seconda guerra mondiale», come Amnesty International ha definito il massacro nella scuola Diaz, potesse restare impunita, o essere trattata con troppa indulgenza. E che in futuro possa dunque ripetersi, confidando di restare impunita o di essere trattata con la stessa indulgenza. Il tribunale di Genova non l’ha fatto. La sentenza sul massacro alla Diaz non rende giustizia alle vittime e non getta nel discredito i carnefici. Il campo non è sgombro, la memoria politica è inquinata. E quel massacro è autorizzato a ripetersi, come quell’altro del giorno dopo alla caserma di Bolzaneto, oggetto della stessa indulgenza nella sentenza del luglio scorso. Al tribunale di Genova non mancavano le prove necessarie per concludere più decentemente un processo durato tre anni e duecento udienze. Della vergognosa sequela di menzogne infilata una dietro l’altra dai vertici della polizia per giustificare il suo delinquenziale blitz notturno sui ragazzi inermi, non una era stata confermata nel processo. Non c’era stata nessuna pattuglia assaltata dai manifestanti in via Cesare Battisti, come la polizia aveva scritto e sottoscritto. Non ci fu, nella scuola invasa dai poliziotti, nessuna resistenza armata di spranghe bastoni e catene da parte dei ragazzi. Non c’era, in quella scuola, nessuna molotov pronta per l’uso dei manifestanti: fu la polizia a portarcene due, per giustificare il massacro a cose fatte.
Ostacolato dai grandi accusati, che nello stile della viltà di Stato si sono sottratti al dibattimento, impossibilitato a dare un nome ai volti della maggior parte degli agenti coinvolti, il tribunale di Genova avrebbe dovuto fare una sola cosa: punire i vertici della polizia, che invece hanno un volto e un nome. Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Gilberto Calderozzi, nel frattempo promossi come si conviene ai galantuomini ad alto incarico, cioè rispettivamente a direttore dell’ anticrimine, a dirigente dell’intelligence, a capo dello Sco. E Spartaco Mortola e altri con loro. E dietro di loro, la sagoma dell’intoccabile Giovanni De Gennaro.
Il tribunale di Genova ha preferito siglare, coprire, derubricare quella vergognosa sequela di menzogne, tolta quella delle molotov ormai palesata urbi et orbi dall’inchiesta della Bbc anticipata l’altro ieri, limitandosi a punire con la modica quantità di tre e due anni di carcere Pietro Troiani e Michele Burgio, i due zelanti agenti che per l’appunto si occuparono di portare nella scuola le due molotov e di attribuirne il possesso ai ragazzi, con quattro anni Vincenzo Canterini, capo del reparto che si distinse nel massacro, con due Michelangelo Fournier, il suo vice che in extremis ammise, nel processo, che sì, alla Diaz c’era stata «una macelleria messicana». E con altri spiccioli altri nove agenti. Tredici mele marce. Sedici assolti. Trentacinque anni e sette mesi di carcere in tutto, contro i centootto chiesti dall’accusa.
L’onore della polizia di Stato è salvo. Quello del governo Berlusconi, responsabile politico della mattanza del 2001, anche. L’opposizione abbozzerà, come ha già fatto per Bolzaneto. Lo Stato di diritto, che nelle stesse ore di ieri si affermava con la sentenza sul caso Englaro, di fronte ai celerini si è autosospeso. Le chiacchiere da talk show sulla legalità delle occupazioni universitarie e dintorni vengano per decenza sospese di conseguenza. Per il giudizio politico, resta il tribunale della storia.
Nessuna condanna per i dirigenti che firmarono il verbale di perquisizione
Gratteri, Luperi e Calderozzi.
Riconosciuti colpevoli i componenti del Settimo nucleo mobile
Sentenza Diaz, assolti vertici di polizia
13 condanne. L’aula grida: "Vergogna"
L’avvocato Biondi difensore di due imputati: "Sconfitto il teorema della procura" *
GENOVA - Sono stati assolti i vertici della polizia per i fatti avvenuti il 21 luglio 2001 all’interno della scuola Diaz durante il G8 di Genova. Nessuna condanna, dunque, per Giovanni Luperi, attuale capo del Dipartimento di analisi dell’Aisi (ex Sisde), nel 2001 vice direttore dell’Ucigos e Francesco Gratteri, attuale capo dell’Anticrimine, all’epoca dei fatti direttore dello Sco e Gilberto Calderozzi, oggi a capo dello Sco.
La difesa. "E’ sconfitto il teorema della procura", ha commentato a caldo l’avvocato Alfredo Biondi, difensore del vicequestore Pietro Troiani e del funzionario di polizia Alfredo Fabbrocini. Il pm non ha voluto rispondere alla domanda se farà appello alla sentenza.
Gli assolti. In totale erano 28 i poliziotti sul banco degli imputati, ma il collegio presieduto da Gabrio Barone ha deciso di emettere 13 condanne, esclusivamente nei confronti dei responsabili delle violenze all’interno della scuola. Sono state inflitte condanne per 35 anni e sette mesi, rispetto agli oltre 108 anni chiesti dall’accusa.
Assolti, dunque, i funzionari di polizia che firmarono il verbale di perquisizione e cioè Gratteri, Luperi e Calderozzi. E insieme a loro Filippo Ferri, Massimiliano Di Bernardini, Fabio Ciccimarra, Nando Dominici, Spartaco Mortola e Carlo Di Sarro. Per ognuno di loro la pubblica accusa aveva chiesto 4 anni e 6 mesi ritenendoli colpevoli di calunnia, falso ideologico e arresto illegale.
Il tribunale ha assolto inoltre per non aver commesso il reato o perché il fatto non sussiste Massimo Mazzoni, Renzo Cerchi e Davide Di Novi. Per loro la pubblica accusa aveva chiesto 4 anni ritenendoli colpevoli di calunnia, falso ideologico e arresto illegale. Assolti anche da ogni responsabilità Massimo Nocera, Maurizio Panzieri e Salvatore Gava. Massimo Nocera era accusato di aver Simulato un finto accoltellamento e il pm aveva chiesto per lui 4 anni di carcere.
I condannati. La totalità delle condanne riguarda i componenti del Settimo nucleo mobile di Roma, del suo capo dell’epoca Vincenzo Canterini condannato a 4 anni e accusato di calunnia, falso ideologico e lesioni, e dai suoi sottoposti Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti e Pietro Stranieri, condannati a 3 anni e accusati di lesioni aggravate in concorso. Il vice di Canterini, Angelo Forniè è invece stato condannato a due anni di reclusione.
Per la vicenda delle molotov introdotte all’interno della scuola, invece, Pietro Troiani è stato condannato a 3 anni e Michele Burgio a 2 anni e 6 mesi, ambedue erano imputati di calunnia, falso ideologico e violazione della legge sulle armi. Infine Luigi Fazio è stato condannato a un mese di reclusione.
Pene accessorie. Il tribunale ha anche comminato la pena accessoria di sospensione nei pubblici uffici a tutti gli imputati condannati per l’ammontare della stessa pena e ad un anno per Fazio. Al ministero dell’interno è stata poi comminata una provvisionale a favore delle oltre 70 parti civili per le lesioni riportate dai ricorrenti da un minimo di 5mila a un massimo di 50mila euro.
"Vergogna". Alla lettura della sentenza, dopo 11 ore di camera di consiglio, si è levato il grido ’vergogna, vergogna!’ dai settori del pubblico che affollava l’aula. Presenti anche gli altri magistrati della procura di Genova: tra loro i pm del processo per i fatti di Bolzaneto, Petruzziello e Ranieri Miniati, oltre ad altri quattro che si sono occupati della Diaz. In aula c’era solo un imputato: il capo della squadra mobile di Parma, Alberto Fabbrocini per il quale i pm hanno chiesto l’assoluzione.
Tra il pubblico era presente anche Mark Covell, giornalista inglese di 40 anni presente nella scuola durante l’irruzione e il sindaco di Genova Marta Vincenzi: "Spero che con questa sera si chiuda una ferita che è rimasta aperta per sette anni", aveva detto prima della lettura della sentenza.
Gli altri processi. Ora restano da discutere alcuni processi-satellite. Il primo è quello a carico di Vincenzo Canterini, durante il G8 comandante del VII nucleo sperimentale antisommossa del I reparto mobile di Roma, imputato di lesioni personali aggravate e di violenza privata per aver spruzzato gas urticante contro alcune persone radunate in corso Buenos Aires.
Il secondo riguarda la carica avvenuta in piazza Manin: in questo processo sono imputati 4 poliziotti del reparto mobile di Bologna. Un terzo processo riguarda l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, accusato di aver istigato l’ex questore di Genova a rendere false testimonianze nel corso della deposizione al processo sull’irruzione della Polizia della scuola Diaz. Con lui sono indagati l’ex capo della Digos di Genova Spartaco Mortola e l’ex questore Francesco Colucci. In questo caso l’ udienza preliminare è fissata per il 25 novembre.
I processi già celebrati. Il primo processo ad essere celebrato per i fatti di Genova è stato quello per le violenze di strada che si è concluso il 14 dicembre 2007 con la condanna a pene tra i 5 mesi e gli 11 anni per 24 no global. Il secondo è stato invece quello per le violenze e i soprusi avvenuti nella caserma di Bolzaneto. In questo caso, il 14 luglio 2008 il tribunale ha condannato 15 persone (tra poliziotti e civili) a pene variabili tra 5 mesi e 5 anni.
Diaz, la notte nera della democrazia
il giorno del giudizio per 29 poliziotti
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 10.11.2008)
«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell’ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
«Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell’ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici». Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
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Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso. Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l’accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un’arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: «può uccidere», se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia ? subito dopo ? contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: «You are black bloc, we kill black bloc» («Tu sei un black, noi ti uccidiamo»).
Covell cade finalmente a terra. E’ semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall’indifferenza, in quell’angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E’ ancora aperta l’indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L’accusa: tentato omicidio).
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Distruggere. Annientare. E’ con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, «un vecchietto», è sulla destra dell’ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i "tonfa". Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un’ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: «Noi siamo pacifici, niente violenza». «Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?», dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida «Basta!». Raggiunge la ragazza. «La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un’autoambulanza». (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: «Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C’era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch’io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello». Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: «Dì, che sei una merda». Mentre colpiscono gridano: «Frocio!», «Comunista!», «Volevate scherzare con la polizia?», «Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!». Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. «Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero». La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. «Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata». Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).
* * *
Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: «Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all’autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All’atto dell’irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini». Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell’ingresso della scuola, «nella disponibilità degli occupanti».
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Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all’epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l’assalto (la «perquisizione») fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c’è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c’è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di «alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant’altro». Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati «abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio». Nella scuola non c’è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c’erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.
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In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo. E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell’assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte «criminali» a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l’omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un «diritto di polizia». Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell’ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l’altro diventa un «nemico» da annientare.
la Repubblica 10.11.2008
Prove false e omertà duecento "picchiatori" restano senza nome
di Massimo Calandri
GENOVA. Alla vigilia della sentenza la procura del capoluogo ligure ha svelato un altro "mistero". Un’altra vergogna, per dirla con le parole dei magistrati. Il mistero dell’agente Coda di Cavallo, picchiatore impunito: riconosciuto solo dopo sette lunghissimi anni, nonostante l’omertà di colleghi e superiori. Non è purtroppo l’ultimo degli enigmi di questa scomoda storia, ma ormai non c’è più tempo per fare chiarezza. La prima sezione del tribunale di Genova, presieduta da Gabrio Barone, entrerà in camera di consiglio giovedì mattina. Qualche ora dopo sapremo. Per i protagonisti della sciagurata irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 del luglio 2001, i pubblici ministeri hanno chiesto 109 anni e 9 mesi complessivi di reclusione. Gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti. Responsabili a diverso titolo del massacro ingiustificato e ingiustificabile di 93 no-global, arrestati illegalmente con un verbale farcito di prove false.
Sotto accusa ci sono anche e soprattutto i vertici del ministero dell’Interno. Prima complici "di una della pagine più nere nella storia della Polizia di Stato". Poi, sempre secondo i pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, ispiratori e registi della "sistematica corruzione per una nobile causa". Menzogne e versioni concordate, che tra l’altro sono costate un procedimento parallelo a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia accusato di aver istigato a mentire il vecchio questore di Genova, Francesco Colucci.
Si chiude un processo inquieto ed inquietante che l’altro giorno stava finendo in rissa, in un paradossale ribaltamento dei ruoli: con gli avvocati difensori ? le cui parcelle, in caso di assoluzione, ammonteranno in tutto a circa dieci milioni di euro: pagherà il ministero - ad aggredire verbalmente i pm, accusandoli di aver violato sistematicamente il codice. E quelli a denunciare le "minacce" subìte. Si chiude un processo che ha sfiancato la procura, costretta a fare i conti con il catenaccio degli imputati. Nel corso del dibattimento quasi nessuno degli accusati si è presentato in aula per spiegare, chiarire. Nessuno dei Grandi Accusati. Non Francesco Gratteri, ora ai vertici dell’Antiterrorismo. Non Gilberto Cadarozzi, protagonista della cattura di Bernardo Provenzano. Chi ha scelto di parlare lo ha fatto solo per offrire "dichiarazioni spontanee", senza contraddittorio. Come Giovanni Luperi, attuale direttore dell’Aisi, l’ex Sisde. Che davanti ai giudici ha ammesso: "La Diaz è stata una pagina orribile", ma incalzato dai pm ha detto che quella notte era stanco, che non partecipò attivamente all’organizzazione dell’intervento perché più che altro pensava a dove portare a cena i colleghi. Se l’era presa con "quel vigliacco che ha portato le bottiglie incendiarie nella scuola", e ricordava di aver passato il sacchetto con le molotov ? quando ancora erano nel cortile - ad una funzionaria. Che a sua volta le aveva passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Che le aveva portate nell’istituto. E che naturalmente è scomparso. Una versione tra Ionesco e De Filippo, come ha ironizzato Alfredo Biondi, avvocato di Pietro Troiani, il vice-questore bollato come l’ "uomo delle molotov". Il fotogramma-simbolo di questa storia è stato estrapolato da un filmato depositato nel corso del dibattimento il mese scorso. In lontananza, sulla sinistra, si vede il fantomatico ispettore che entra dalla porta laterale della scuola, con il sacchetto azzurro in mano. La regina delle prove false.
Falsa come la successiva collaborazione nelle indagini da parte della stessa polizia, sostiene la procura. Che cita l’ultimo emblematico caso. Coda di Cavallo, appunto. E’ un agente in borghese, viene filmato mentre ai piani superiori della Diaz prende a manganellate alcuni ragazzi inermi. Il volto è inquadrato in primo piano, e poi ci sono i capelli, raccolti in quella inconfondibile coda di cavallo. I magistrati chiedono ai poliziotti di dare un nome al loro collega. L’immagine per sette anni e mezzo fa il giro di tutte le questure d’Italia. Nessuno risponde. E però, nei giorni scorsi arriva il colpo di scena. Sono gli stessi magistrati a dargli un nome, perché l’agente Coda di Cavallo, con i capelli debitamente tagliati, ha l’arroganza di prendere posto tra il pubblico nel corso di alcune udienze. Di chi si tratta? Di un sottufficiale della Digos di Genova. L’ufficio incaricato di identificare i protagonisti della sciagurata irruzione. A proposito: la maggior parte di loro, oltre duecento, resta senza nome. Come senza nome sono i poliziotti che all’esterno dell’istituto sfondarono a calci i polmoni ad un giornalista inglese, Mark Cowell, uno dei 93 che poi risultò "ufficialmente" essere stato catturato nella scuola. Il fascicolo per tentato omicidio nei suoi confronti resta a carico di ignoti. Ed ignota è ancora la quattordicesima firma nel verbale d’arresto dei 93 no-global: un documento pieno di bugie che è costato il processo a 13 dei 29, ma non a quello che vigliaccamente ? non essendo possibile decifrare la sua scrittura ? ha preferito rimanere nel buio, un altro mistero di una notte vergognosa. La notte più buia della polizia che i pm riassumono amaramente: "Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa. Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali".
Sette anni dopo migliaia a Genova per Carlo Giuliani *
Sette anni dopo a piazza Alimonda. In un migliaio hanno partecipato al corteo per ricordare Carlo Giuliani, ucciso il 20 luglio del 2001 durante il G8.
Tra gli altri, erano presenti i genitori del giovane, Heidi e Giuliano Giuliani, quindi don Gallo, Mark Cowell, il manifestante britannico picchiato nel corso dell’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz e ricoverato in ospedale in condizioni serie, l’ex ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista) insieme al collega di partito ed ex senatore Giovanni Russo Spena.
Presente anche Vittorio Agnoletto, parlamentare europeo e all’epoca portavoce del movimento no global. Ad animare la commemorazione, una banda musicale di rom e, a più riprese, con la sua chitarra Andrea Rivera.
Allo scoccare delle 17.25, ora in cui venne ucciso Carlo, è stato osservato un minuto di silenzio mentre il padre del giovane ucciso 7 anni fa da un carabiniere ha ricordato quella tragedia: «Sette anni fa furono sparati due colpi diretti, non in aria. Uno dei due prese Carlo sotto l’occhio sinistro. Poi si è tentato di inventare il peggio, la pietra che fece deviare il proiettile e così via, ma la verità resta quella e vogliamo che sia affermata e diciamo ancora una volta, per questa battaglia di verità, grazie Carlo, grazie Carlo». A queste parole è scoppiato un lungo applauso dei manifestanti.
Pochi istanti dopo, in piazza è riecheggiata la voce di Carlo Giuliani che, ancora molto giovane, aveva letto alcune lettere di condannati a morte della strage del Turchino compiuta dalle SS nel 1944: «Tredici anni fa - ha spiegato il padre Giuliano - per un servizio televisivo sulla resistenza, preparammo un documento sul Sacrario del Turchino e pensammo fosse giusto e importante leggere le lettere dei condannati a morte, molti dei quali giovanissimi. Per questo chiedemmo a Carlo di leggere quelle lettere. Quel filmato - ha concluso - lo abbiamo conservato e vi facciamo ascoltare alcune lettere che Carlo lesse per quel servizio».
Su un lato della piazza sono stati sistemati gli striscioni, di Emergency, di un gruppo tedesco con la scritta «Carlo Giuliani è stato assassinato il 20 luglio del 2001, nessuna criminalizzazione dei movimenti di emancipazione», un altro su cui erano state pitturate impronte di mani colorate con la scritta «prendeteci anche queste!», un altro ancora del "Comitato Piazza Carlo Giuliani".
Vicino agli striscioni sono stati appesi anche piccoli quadri, parte della mostra sui tragici fatti del G8 allestita al Munizioniere di Palazzo Ducale, e alcune lettere, in italiano e in inglese, di ragazzi che si trovavano nella Diaz la notte del 21 luglio o che furono portati alla caserma di Bolzaneto.
Sui fatti del G8 di Genova «prima o poi la verità verrà fuori tutta». Ne è convinto Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, che esattamente sette anni fa perse la vita durante gli scontri con le forze dell’ordine nel capoluogo ligure. Giuliani rileva che «qualcosa è stato fatto», ricorda la recente sentenza su Bolzaneto e la requisitoria nel processo per il blitz alla scuola Diaz: «Sono state condanne tiepide e richieste contenute - rileva - ma le forze dell’ordine sono state messe sotto accusa per il loro comportamento. Anche se tra gli accusati manca un pezzo: i reparti speciali dei Carabinieri. Non vorrei fossero considerati intoccabili», conclude Giuliani.
Genova sarà candidata a diventare sede di un’agenzia europea per i diritti dell’uomo: è quanto si propone il sindaco del capoluogo ligure Marta Vincenzi che ha incontrato nella sede del Comune, alla presenza di una cospicua parte della sua giunta, alcune parti civili dei processi del G8 per la Diaz e Bolzaneto, per offrire un «risarcimento morale alle vittime» da parte delle istituzioni.
Il sindaco ha spiegato l’incontro come «la volontà del Comune di offrire un riconoscimento morale a coloro che sono stati in quei giorni, vittime, perchè pur non avendo compiuto alcun gesto, nemmeno lontanamente avvicinabile ad un gesto di violenza contro la città, in questa città hanno subito limitazioni di diritti fondamentali. Vogliamo riconoscerlo non solo per commemorarlo - ha detto - ma anche perché diventi occasione per il futuro di Genova».
«Il fatto che siano stati fatti processi e arrivino sentenze contribuisce a chiudere una fase e restituisce molte verità, ma occorrono anche atti simbolici - ha aggiunto Vincenzi -. Oggi col pensiero che Genova possa diventare sede di un’agenzia internazionale per i diritti dell’uomo, si chiude il trauma, si pone fine all’elaborazione del lutto e come città si individua una possibilità di superamento nella proposta che sul tema dei diritti Genova possa essere punto di riferimento anche nel futuro».
* l’Unità, Pubblicato il: 20.07.08, Modificato il: 21.07.08 alle ore 11.55
Assalto alla Diaz, i pm: 109 anni di carcere ai poliziotti
Dopo la sentenza “mite” su Bolzaneto, si spera che questa richiesta di condanne abbia un seguito più duro. Perché quello che accadde nella scuola Armando Diaz di Genova nel luglio di sette anni fa non può finire con un pugno di mosche. I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini che hanno chiuso giovedì la requisitoria ne sono certi: per questo hanno chiesto 28 condanne e una sola assoluzione per i 29 agenti delle forze dell’ordine accusati di falso, calunnia e arresti illegale. Sanno che i ventinove poliziotti che hanno di fronte «non sono rimasti dietro la scrivania ad aspettare ma sono generali scesi in campo con casco e manganello a fianco della truppa».
Quella della Diaz fu una delle pagine più buie del G8 che sconvolse Genova nel 2001: la polizia fece irruzione nella scuola che era stata attrezzata a dormitorio dei partecipanti al Social Forum. Svegliò giovani nel pieno della notte e giustificò il blitz come la reazione ad una sassaiola di cui i magistrati non hanno mai trovato traccia. Poi li portarono alla caserma di Bolzaneto, quella che uno degli indagati ha descritto come una «macelleria messicana».
Ora, se le richieste di condanna dovessero venire accolte, ventotto poliziotti dovranno scontare pene che vanno dai sei mesi ai quattro anni. Cinque anni sono stati invece chiesti per Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver portato due molotov nella scuola. E di aver detto che stavano già là. Complessivamente le richieste di condanna ammontano a 109 anni e 9 mesi: richiesta di condanna di 4 anni e 6 mesi è stata avanzata per Vincenzo Canterini, all’ epoca comandante del I Reparto Mobile di Roma, per Gilberto Caldarozzi, all’epoca vice direttore dello Sco, per Filippo Ferri, dirigente della squadra mobile della Spezia, Massimiliano Di Bernardini, romano, vice questore aggiunto, Fabio Ciccimarra, vice questore aggiunto, napoletano, Nando Dominici, capo della squadra mobile di Genova, Spartaco Mortola, dirigente all’epoca della Digos di Genova e Carlo Di Sarro vice questore aggiunto presso la Digos di Genova. Per il vice di Canterini, Michelangelo Fournier, i pm hanno chiesto 3 anni e 6 mesi. Per l’agente scelto Massimo Nucera e il suo superiore Maurizio Panzieri, che avallò nel verbale il finto accoltellamento, i pm hanno chiesto 4 anni di reclusione a testa.
Quattro anni di reclusione sono stati chiesti inoltre per il commissario capo Salvatore Gava, l’ispettore Massimo Mazzoni (Sco), il sovrintendente Renzo Cerchi e l’ispettore superiore Davide Di Novi. Stessa pena è stata chiesta per Michele Burgio, autista di Troiani, il poliziotto che portò le molotov alla scuola Diaz a bordo del Magnum della polizia. Per gli otto capisquadra del I Reparto mobile di Roma, Basili, Tucci, Lucaroni, Zaccaria, Cenni, Ledoti, Stranieri e Compagnone, al comando di Vincenzo Canterini, secondo l’accusa responsabili di non aver impedito i pestaggi dei no global, il pm ha chiesto 3 anni e 6 mesi di reclusione. Per Luigi Fazio, sovrintendente Ps, accusato di percosse, i pm hanno chiesto tre mesi di reclusione.
L’assoluzione invece è stata chiesta per il commissario Alfredo Fabbrocini, accusato di perquisizione arbitraria, violenza privata, danneggiamenti e peculato nell’ ambito dell’ irruzione nella scuola Pascoli, sede del media center.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.07.08, Modificato il: 17.07.08 alle ore 19.42
I giudici ciechi di Bolzaneto
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 16.07.2008)
Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un «campo» dove esseri umani - provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali - possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative.
Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato «entro stasera vi scoperemo tutte». Agli uomini, «sei un gay o un comunista?». Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C’è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un «trauma testicolare». C’è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l’altro piede». C’è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.
Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». Percuotono S. D. «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti». S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere - tranne che in un caso - l’inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo. Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l’ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere - contro i custoditi - atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.
È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo - in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione. Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico. Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti - governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune - di archiviare il caso come un imponderabile «episodio» (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa «degli altri». Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell’autentica posta del processo fin dal primo momento. «Bolzaneto è un "segnale di attenzione"», hanno detto. È «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».
I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l’ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l’attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, «tutto è possibile». Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi». È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato. Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti». E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c’è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati - dove i corpi vengono rinchiusi - dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto). L’invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti - e soprattutto le istituzioni - a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d’eccezione che lasciano cadere l’ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell’epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.
«Bolzaneto» è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della «sicurezza», dell’«ordine pubblico», del «pericolo concreto e imminente», della «sicurezza dello Stato» si potesse configurare un’inattesa zona d’indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio. Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un «diritto di polizia» che prevede - anche per i bambini - lo screening etnico, la nascita di «campi di identificazione» che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il «campo». Avverte che in questi luoghi «fuori della legge», dove le regole sono sospese come l’umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.
Sette anni dopo i fatti di Genova, il verdetto del tribunale: chiesti 80 anni, condannati 24
Tra indulto e prescrizione, nessuno in prigione. I ministeri dovranno risarcire i danni
G8, a Bolzaneto non fu tortura
Solo 15 condannati, trenta assolti
ROMA - A sette anni dalle violente nel "carcere provvisorio" di Bolzaneto, i giudici di Genova pronunciano la sentenza contro i 44 ufficiali, guardie carcerarie e medici imputati di aver sottoposto a sevizie più di duecento no global. Dopo dieci ore di camera di consiglio, il verdetto cancella l’ipotesi di crudeltà e tortura sostenuta dalla Procura. Assolve trenta imputati, ne condanna solo 15. Contro una richiesta di poco meno di 80 anni di reclusione, i giudici ne hanno inflitto solo 24 e, grazie alla prescrizione e all’indulto, nessuno dei condannati finirà in galera.
LE RICHIESTE DEI PM E LA SENTENZA
Alessandro Perugini, l’ex numero 2 della Digos genovese, imputato in un altro procedimento perchè sorpreso dall’obiettivo di un fotografo mentre tirava un calcio in faccio ad un adolescente, la Procura aveva chiesto tre anni e mezzo. E’ stato condannato a 2 anni e 4 mesi. Un altro vice-questore genovese, Anna Poggi, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi contro i 3 anni e mezzo richiesti dal pm. Giacomo Toccafondi, il medico coordinatore del servizio sanitario a Bolzaneto, ha subito una condanna ad un anno e 2 mesi contro i 3 anni e mezzo richiesti dall’accusa. La sentenza più pesante è stata inflitta a Antonio Gugliotta, l’ispettore di polizia penitenziaria responsabile della sicurezza nella caserma: cinque anni, come richiesto dall’accusa, per aver picchiato con il manganello i giovani no global. Accolta la richiesta della Procura anche per Massimo Pigozzi l’agente accusato di aver lacerato la mano ad uno degli arrestati: 3 anni e 2 mesi contro i 3 anni e 11 mesi richiesti dai pm.
Risarcimenti per quindici milioni. Tra gli assolti, l’attuale generale della polizia penitenziaria, Oronzo Doria, all’epoca dei fatti colonnello, che la Procura voleva condannato a 3 anni e mezzo. Condannato il ministero degli Interni e quello della Giustizia a pagare i danni materiali e morali subito dalle parti civili. In media, settantamila euro per ognuno delle 209 vittime accertate. In totale circa quindici milioni di euro.
La Procura: "Qualcosa di grave è successo". Laconico e imbarazzato il commento della Procura alla sentenza shock: "E’ stato riconosciuto che qualcosa di grave nella caserma di Bolzaneto è successo", ha detto il pm Vittorio Ranieri Miniati che, insieme a Patrizia Petruzziello, ha sostenuto l’accusa. "Il tribunale - ha proseguito il magistrato - ha ritenuto di assolvere diversi imputati. Leggeremo la sentenza e valuteremo se fare appello. E’ stata comunque riconosciuta l’accusa di abuso d’autorità".
* la Repubblica,14 luglio 2008.
G8, i pm: nessuna giustificazione, alla Diaz fu un massacro *
Botte e insulti. Alla Diaz fu un «massacro». I pm ripercorrono la tragica notte del luglio del 2001 quando 29 poliziotti fecero irruzione nella sede del Genoa Social Forum picchiando a sangue 93 manifestanti che dormivano nella scuola Armando Diaz.
L’accusa contesta agli agenti delle forze dell’ordine la violenza privata, le lesioni, il falso e la calunnia, nonché la perquisizione arbitraria e il porto d’armi da guerra di quella notte. Loro - anzi, i loro avvocati, visto che nessuno dei poliziotti si è presentato in aula - si difendono parlando di una «sassaiola» inscenata dai manifestanti, che sarebbe stata la causa scatenante della loro sanguinosa irruzione. Ma i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini replicano che quel lancio di pietre non è mai esistito: «Fu un pestaggio, e non venne mai fornita alcuna prova che vi fosse una giustificazione al comportamento degli uomini che entrarono alla Diaz. Non fu posta alcuna resistenza da parte dei manifestanti, non ci fu alcun lancio di oggetti e non c’è alcuna prova sul luogo specifico del ritrovamento di armi all’interno della scuola. Anzi - ha sottolineato Cardona - abbiamo provato la provenienza esterna delle due molotov».
Il pm si riferisce alle due bottiglie incendiarie che la polizia sostenne di aver ritrovato nella scuola, ma che invece furono appositamente piazzate all’interno della Diaz. Per questo i poliziotti sono accusati di falso e calunnia. E quanto alle violenze gratuite, i pm hanno dalla loro decine e decine di testimonianze nonché i referti medici che ne attestano l’incompatibilità «con qualsiasi possibile resistenza». I pm hanno poi ricostruito, sulla base dei tabulati telefonici e dei filmati, la cronologia degli eventi, dallo sfondamento del cancello da parte dei poliziotti all’apertura del portone centrale, prima, e di quello laterale, poi, come mostrato dalle riprese video effettuate da alcuni cineoperatori dal tetto della scuola Pascoli, sede del centro stampa, di fronte alla Diaz. In quelle immagini si vede chiaramente che il primo ad entrare è «un agente del 7’ Nucleo Sperimentale di Roma, riconoscibile dalla divisa blu e dal casco».
I pm emetteranno le loro richieste di condanna il prossimo 10 luglio, mentre la sentenza di primo grado non arriverà prima di ottobre. Ma a far cadere tutto potrebbe arrivare quella norma voluta dal premier per bloccare il suo processo per corruzione in atti giudiziari: la blocca processi infatti sospenderebbe tutti i procedimenti per reati “minori” compiuti prima del giugno 2002. Dunque, Diaz compresa. Ma quella pagina nera della nostra storia non può essere archiviata così. Per questo il Comitato verità e giustizia per Genova l’8 luglio parteciperà alla manifestazione promossa da Colombo, Pardi e Flores D’Arcais contro le intenzioni del governo Berlusconi in materia di giustizia. «Ci pareva già tutto molto grave - dicono - ma questo sarebbe un colpo di mano indegno di una democrazia minimamente decente. La sospensione - concludono - sarebbe una beffa per chi aspetta giustizia, ed un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni».
* l’Unità, Pubblicato il: 04.07.08, Modificato il: 04.07.08 alle ore 16.56
G8 Genova, assolti 13 no global
la richiesta era 50 anni di carcere
COSENZA - Sono stati assolti i 13 no global della Rete del sud ribelle accusati di associazione sovversiva per la presunta organizzazione degli incidenti accaduti nel 2001 durante il G8 di Genova ed il Global Forum di Napoli. Il dispositivo della sentenza è stato letto dal presidente della Corte d’assise Maria Antonietta Onorati.
Tra gli imputati l’ex deputato Francesco Caruso ed il leader delle tute bianche, Luca Casarini. Il pm Domenico Fiordalisi aveva chiesto 50 anni complessivi di reclusione, più pene accessorie. L’avvocatura dello Stato ha inoltre chiesto un risarcimento di 5 milioni di euro per danni materiali. La decisione è arrivata dopo un’ora e mezza di camera di consiglio
* la Repubblica, 24-04-2008.
Ansa» 2008-03-29 11:37
G8: CHIESTO IL RINVIO A GIUDIZIO PER DE GENNARO
GENOVA - I pubblici ministeri che indagano sui fatti del G8 di Genova hanno chiesto il rinvio a giudizio dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro per aver istigato l’ex questore di Genova Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza durante il processo per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz.
La notizia, anticipata dal ’Corriere della Sera’, è stata confermata all’ANSA dal procuratore aggiunto Mario Morisani. Il procuratore capo di Genova, Francesco Lalla che, secondo il ’Corriere della Sera’ non avrebbe firmato il provvedimento in disaccordo con i suoi pm, interpellato dall’ANSA, pur affermando di non essere a conoscenza dell’iniziativa dei suoi pm, ha negato presunti dissidi.
Mario Morisani, nel confermare il deposito della richiesta di rinvio a giudizio per De Gennaro, ha sottolineato che non è necessaria la firma del capo della Procura. De Gennaro era stato raggiunto dall’avviso di fine indagini a fine novembre scorso. L’ex capo della polizia, ora commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, aveva depositato il 18 gennaio scorso in procura una memoria difensiva in cui aveva ribadito di non aver mai indotto Francesco Colucci a rendere falsa testimonianza.
Come punire quelle torture
di Antonio Cassese (la Repubblica, 20.03.2008)
Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l’Italia aveva contribuito ad elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, il Patto dell’Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell’Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.
I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all’Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli ’sentimenti costanti di angoscia, inferiorità ed umiliazione’. Anche tenere ventidue ore al giorno più detenuti in celle anguste, senza servizi igienici, costituisce trattamento disumano e degradante - come fu rimproverato all’Inghilterra.
Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, ed inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell’anima, ma anche ad offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l’inferno", è quel che un grande scrittore americano fa dire ad un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l’inferno nel corpo o nell’anima. È tortura l’uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento), o picchiare con forza e a lungo sul capo di una persona con un elenco telefonico, fino a provocare capogiri o svenimenti. Queste e tante altre forme di violenza sono state concordemente considerate tortura da autorevoli giudici internazionali.
A Bolzaneto quasi tutti i 200 e passa arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell’incisivo reportage di D’Avanzo pubblicato su questo giornale. Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che - cito D’Avanzo - «arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella ’posizione della ballerina’ [in punta di piedi]. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di ’rompergli anche l’altro piede’. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano ’Comunista di merda’». Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: «Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due ’fino all’osso’. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede ’qualcosa’ Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare». Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l’effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).
Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte Europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt’al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell’Italia e condannare il nostro Governo a risarcire i danni morali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell’Onu del 1984 ne impone l’emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia - benché ben 20 progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996.
Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche ad una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella penultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all’improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008. Se i giudici confermeranno la ricostruzione dei fatti e le tesi dei pubblici ministeri, si avranno due conseguenze, già sottolineate da altri: taluni fatti non verranno chiamati per nome e cognome (tortura), ma con termini generici, inadatti a rifletterne la gravità, come «abuso di ufficio» e «violenza privata»; e i reati cadranno presto in prescrizione.
Per il futuro, non ci resta che sperare che il prossimo Parlamento sia meno inefficiente. E che le «autorità amministrative competenti» traggano le debite conseguenze da condanne di funzionari dello Stato che infangano il buon nome delle forze dell’ordine, la cui stragrande maggioranza rispetta e tutela i diritti umani. E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.
Le pene indicate dai pm variano da 5 anni e 8 mesi a 6 mesi di reclusione
Tra i reati attribuiti abuso d’ufficio e abuso d’autorità contro i detenuti
Bolzaneto, le richieste di condanna
Per le violenze della polizia 76 anni
I pm chiedono inoltre il carcere da tre anni e mezzo e tre mesi per i 5 medici presenti *
GENOVA - Condanne pesanti per la polizia violenta. per i giorni violenti di Bolzaneto e del G8 di Genova. Sono quelle richieste dal pm al processo contro gli agenti e i funzionari impeganti quel giorno nel capoluogo ligure. Condanne complessive a 76 anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione. Per i 44 imputati. Per uno solo dei 45 imputati, Giuseppe Fornasiere, è stata chiesta l’assoluzione. Le pene variano da 5 anni, 8 mesi e 5 giorni a 6 mesi di reclusione. Chiesta inoltre la condanna detentiva per i cinque medici presenti nell’area sanitaria.
Nella caserma di Bolzaneto, secondo i pm, furono inflitte alle persone fermate "almeno quattro" delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell’uomo chiamata a pronunciarsi sulla repressione dei tumulti in Irlanda negli anni Settanta, configurano "trattamenti inumani e degradanti". Atti di tortura, insomma, ma le leggi italiane in materia non prevedono questo reato, i pm hanno dovuto ripiegare su accuse meno gravi.
La pena più pesante, 5 anni, 8 mesi e 5 giorni di reclusione, è stata chiesta per Antonio Biagio Gugliotta, ispettore della polizia penitenziaria, in servizio nella struttura di Bolzaneto nei giorni del G8 del 2001 come responsabile della sicurezza. E’ accusato di abuso d’ufficio e abuso di autorità contro detenuti, per aver agevolato e comunque non impedito la condotta degli altri poliziotti come avrebbe dovuto e potuto fare nella sua veste di responsabile alla sicurezza. In particolare avrebbe percosso con calci, pugni, sberle e anche con il manganello in dotazione gli arrestati e i fermati per identificazione.
Pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione anche nei confronti di Alessandro Perugini, ex numero due della Digos di Genova, il funzionario più alto in grado presente nella caserma, accusato di abuso d’ufficio e di abuso di autorità contro i detenuti. Stessa richiesta di condanna per Anna Poggi, commissario capo di polizia, per il generale della Polizia Penitenziaria Oronzo Doria (all’epoca colonnello), responsabile del coordinamento e dell’ organizzazione, per gli ufficiali di custodia cap. Ernesto Cimino e cap. Bruno Pelliccia, che devono rispondere degli stessi reati. Complessivamente i capi d’accusa contestati dai pm sono stati 120.
Quanto ai medici, per Giacomo Toccafondi, coordinatore, accusato di abuso di atti d’ufficio e di diversi episodi di percosse, ingiurie e violenza privata, i pm hanno chiesto la pena di 3 anni, 6 mesi e 25 giorni di reclusione; per Aldo Amenta 2 anni, 8 mesi e 15 giorni; per Adriana Mazzoleni, 2 anni, e 3 mesi; per Sonia Sciandra, 2 anni, 8 mesi e 25 giorni per Marilena Zaccardi, 2 anni, 3 mesi e 20 giorni.
* la Repubblica, 11 marzo 2008.
Chi si vergogna di Bolzaneto?
di Ida Dominijanni (il manifesto, 26.02.2008)
In piedi per ore, nudi e con le mani alzate, o a fare il cigno o a piroettare come ballerine o ad abbaiare come cani per essere meglio derisi e insultati dalla polizia, dai carabinieri, dai medici. Intimidazioni politiche e intimidazioni sessuali, schiaffi, colpi alla nuca. Un salame usato come manganello, o agitato per meglio rendere le minacce di sodomizzazione. Gentili epiteti come «troia» e «puttana» alle ragazze, «nano di merda», «nano pedofilo», «nano da circo» a un disabile, costretto per sovrappiù a farsela addosso dal sadico rifiuto di accompagnarlo in bagno. Una mano divaricata e spezzata. Nuche prese a schiaffi e a colpi secchi. Piercing strappati, anche dalle parti intime. Promesse di morte, al grido di «Ne abbiamo ammazzato uno, dovevamo ammazzarne cento». Nella caserma di Bolzaneto, in quel di Genova 2001, dopo l’assassinio di Carlo Giuliani e l’assalto alla scuola Diaz, questi furono i fatti, secondo la ricostruzione dei pm al processo che si sta svolgendo in questi giorni. Lo sapevamo dalle testimonianze, adesso lo sappiamo, come si dice in gergo, dalla raccolta degli elementi probatori sottoposti a riscontri. Fu dunque tortura a tutti gli effetti, con tutto il carico di sadismo, sessismo, pornografia di cui la tortura è fatta.
Conviene non volgere lo sguardo e leggere attentamente questa macabra descrizione: non solo a Abu Ghraib, non solo a Guantanamo, non solo nelle carceri dove «spariscono» le vittime delle «rendition» americane, la tortura è tornata ad essere uno strumento ordinario dello stato d’eccezione permanente in cui viviamo. «Standard Operation Procedure», normale procedura, come dice il titolo del documentario su Abu Ghraib di Errol Morris meritoriamente premiato alla Berlinale, come meritoriamente Hollywood ha premiato ieri «Taxi to the Dark Side», il documentario di Alex Gibey su sevizie e morte di un tassista afgano nella base americana di Bagram, caso d’avvio dell’uso della tortura da parte dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. E certo, rivisto adesso - e non da adesso - il film di Genova appare una sinistra anticipazione su scala locale di quello che pochi mesi dopo, con l’11 settembre e la guerra al terrorismo, si sarebbe scatenato su scala globale. Una prova generale, come del resto a molti fu chiaro fin da subito.
Conviene non volgere lo sguardo e non rimuovere il fatto che a Bolzaneto quei gesti sono stati eseguiti, quelle parole sono state dette, quei piercing sono stati strappati, quei corpi sono stati denudati e derisi e colpiti, da quelle forze dell’ordine che dovrebbero presidiare lo stato di diritto. E’ accaduto, e niente ci garantisce che non possa riaccadere. E fin qui, il discorso pubblico si è ben guardato dal seminare qualche parola immunitaria. Genova è sepolta nella memoria, riemerge solo nelle requisitorie dei pm e nelle sentenze dei giudici.
Storia giudiziaria, questione di ordine pubblico: non entrerà nei comizi elettorali, come non è mai entrata nell’agenda politica; non è tema «eticamente sensibile», non c’entra con la Vita né con la Morte, non è fatta di maiuscole, non sta a cuore al Vaticano, non agita i teo-con, non si intona col pensiero positivo del Pd. Alla prima del suo film a Berlino, Errol Morris ha detto che l’ha girato per dire quanto si vergogna del suo paese. Qualcuno in sala ha commentato che è troppo poco, che la vergogna è messa in conto nel gioco delle opinioni della democrazia americana e non impedirà alle «standard operating procedure» di ripetersi. Può essere, ma chi si vergogna in Italia di Bolzaneto? Abu Ghraib, sostiene Errol Morris, forse non fu opera di qualche «mela marcia», come l’amministrazione Bush ha sostenuto assolvendosi; forse fu il picco di una prassi di abusi sistematica, e certo fu il sintomo del degrado della tavola dei valori della democrazia americana. Di che cosa fu sintomo Bolzaneto quanto alla democrazia italiana, di che cosa picco, chi autorizzò le «mele marce» di quella caserma, chi ci garantisce che altre mele non marciscano? Un processo istruisce queste domande, ma sta alla politica, e a noi tutti, rispondere.
«anche l’infermeria è diventata un luogo di ulteriore vessazione»
G8, la caserma di Bolzaneto
descritta come un girone infernale
La requisitoria dei pm al processo per le violenze del G8 contro 45 tra vertici delle forze dell’ordine e medici
GENOVA - La caserma di Bolzaneto trasformata in un luogo di torture fisiche e psicologiche. Quasi come un girone dell’inferno in cui ragazzi e ragazze arrestati durante le manifestazioni del G8 di Genova furono picchiati, tenuti ore e ore in piedi con le mani alzate, accompagnati in bagno e lasciati con le porte aperte, insultati, spogliati, derisi e minacciati di guai peggiori, tra cui la sodomizzazione. Non ha risparmiato particolari inquietanti la seconda parte della requisitoria dei pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, iniziata lunedì mattina, che si protrarrà per altre quattro udienze, al processo per le violenze nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001 a Genova. Gli imputati sono 45 vertici apicali appartenenti al personale della polizia penitenziaria, polizia di stato, carabinieri e medici.
RAGAZZE NUDE E COMMENTI BRUTALI - Stare in piedi per ore e ore, fare la posizione del cigno e della ballerina, abbaiare come cani per poi essere insultati con minacce di tipo politico e sessuale, schiaffi e colpi alla nuca e anche lo strappo di piercing anche dalle parti intime: questo il genere di vessazioni subite dagli arrestati all’interno della caserma di Bolzaneto. Molte le ragazze obbligate a spogliarsi, a fare piroette con commenti brutali da parte di agenti presenti anche in infermeria. «L’infermeria - ha denunciato il pm Miniati - che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza è diventata un luogo di ulteriore vessazione».
LE TESTIMONIANZE - Non sono mancati nella requisitoria di Ranieri Miniati i riferimenti alle testimonianze più salienti delle parti lese durante il processo. Tra queste quella di Massimiliano A., 36 anni, napoletano, disabile al cento per cento. «Gli agenti mi hanno preso in giro - aveva raccontato al processo - per la mia bassa statura, insultandomi con "Nano buono per il circo", "Nano di merda", "Nano pedofilo"». Il pm ha anche ricordato che Massimiliano per un’ora non riuscì a farsi accompagnare in bagno, per cui si fece addosso i suoi bisogni e rimase sporco a lungo perchè gli impedirono di pulirsi.
* Corriere della Sera, 25 febbraio 2008
Agli atti i colloqui fra l’ex questore Colucci e il funzionario Mortola
L’ex capo della polizia De Gennaro verso il rinvio a giudizio
"Ho parlato con il capo
devo fare marcia indietro"
di MASSIMO CALANDRI *
GENOVA - "Ho parlato con il capo. Devo fare marcia indietro". Siamo alla fine dell’aprile scorso. Francesco Colucci, già questore di Genova, tra poco testimonierà nel processo per il blitz della polizia nella scuola Diaz, durante il G8. Il "capo" cui fa riferimento sarebbe Gianni De Gennaro, allora numero uno della polizia italiana: che la procura di Genova vuole processare per "induzione alla falsa testimonianza". Di Colucci, appunto.
Il funzionario è al cellulare con Spartaco Mortola, imputato nello stesso procedimento. I due non sanno di essere intercettati: i magistrati hanno infatti aperto un’altra inchiesta, dopo la misteriosa sparizione delle bottiglie molotov che erano state falsamente attribuite ai no-global arrestati.
Colucci viene registrato in almeno due occasioni: nell’altra ammette di aver letto le dichiarazioni che a suo tempo De Gennaro aveva reso sulla sciagurata operazione del luglio 2001. "Devo modificare quello che avevo già detto", spiega il questore al suo interlocutore. Tutto ruota intorno alla presenza nella scuola, al termine dell’intervento, di Roberto Sgalla, responsabile delle pubbliche relazioni per la Polizia di Stato. Colucci aveva in precedenza giurato che De Gennaro gli aveva detto di avvertire Sgalla e inviarlo alla Diaz.
Secondo gli inquirenti, questo dimostrerebbe che anche i massimi vertici dell’Interno erano perfettamente a conoscenza di quanto era accaduto nell’istituto (per quel blitz sono sotto processo 29 tra agenti e super-poliziotti). Ma chiamato a testimoniare in aula - e dopo la telefonata intercettata -, il questore cambierà versione: "Sono stato io, di mia iniziativa, a chiamare Sgalla". Per gli inquirenti sarebbe stato lo stesso De Gennaro ad indurlo al "ripensamento".
Le intercettazioni telefoniche fanno parte del fascicolo aperto dalla procura genovese nei confronti di De Gennaro, Colucci e Mortola. In questi giorni ai tre sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Hanno venti giorni di tempo per presentare memorie difensive, nuovi elementi o farsi interrogare. trascorso questo periodo la procura potrà chiederne il rinvio a giudizio.
* la Repubblica, 26 novembre 2007.
Genova, il corteo dei no global
"Vogliamo sapere la verità sul G8"
L’ira di Don Gallo: «I responsabili sono stati promossi». Gli organizzatori: siamo cinquantamila
GENOVA Sono oltre cinquantamila, secondo gli organizzatori, i manifestanti al corteo che sta sfilando a Genova. Il serpentone di dimostranti è lungo oltre due chilometri. Dalla questura, per ora, si preferisce non parlare di cifre. *
L’ira di Don Gallo
«I veri responsabili del G8 di Genova sono stati promossi ai vertici dello Stato». Lo ha detto Don Andrea Gallo, prete genovese e anima del corteo no global di oggi, leggendo alcuni stralci di un messaggio del frate comboniano Alex Zanotelli. Don Gallo, salito su una camionetta in testa al corteo, ha rivolto il suo appello «a tutti i compagni e le compagne, i fratelli e le sorelle» e citando Zanotelli ha parlato di una «palude politica», chiamando in causa sia la destra che la sinistra, e dei 25 «capri espiatori su cui è stata fatta ricadere la responsabilità dei fatti di Genova». Evidente riferimento ai 25 no global attualmente sotto processo penale a Genova.
Don Gallo ha invitato la folla, che lo acclamava urlando "Genova Libera", a «non lasciarsi provocare dai figli di puttana: se non ci aiutiamo da noi, qui mi sa che non ci aiuta un cazzo di nessuno. Questa non è democrazia».
I no global bloccati in stazione
Proteste dei no global diretti a Genova, rimasti per oltre un’ora bloccati sul treno all’interno della stazione ferroviaria della Spezia. Non ci sono stati danneggiamenti alle cose ma sit-in e contestazioni ad alta voce. «Il fermo - spiegano alla stazione - è scattato perchè Genova appariva congestionata dai troppi treni in arrivo, con numerose persone a bordo, tanto che anche l’intercity ha subito lo stesso ritardo». Risulta tuttavia che accanto a questa motivazione ufficiale, vi fossero persone a bordo senza biglietto ed abbiano litigato per questo con il personale. La polizia ferroviaria è intervenuta solo come servizio d’ordine, ma «la decisione di fermare il treno non è stata assunta dalle forze dell’ordine, ma da Trenitalia».
"Chi rompe paga, chi uccide no"
In coda al corteo genovese per il G8 sfilano striscioni, bandiere, sigle, al ritmo delle musiche più diverse; qualcuno canta e balla, c’è chi parla e chi ricorda. L’Unione Studenti inalbera uno striscione con scritto «Chi rompe paga, chi uccide no» e un altro con la scritta «Colpevoli di sognare». Il gruppo di «Sinistra Critica» balla la musica degli Inti Illimani e scandisce «El Pueblo unido...». Dietro di loro i gruppi della «Sinistra Europea» della «Sinistra Democratica» e di «Arcilesbica», di «Emergency» e della «Rete 28 Aprile - Cgil». Chiudono il corteo come previsto la Fiom, il Partito dei Comunisti Italiani e gli iscritti di Rifondazione Comunista.
* La Stampa, 17/11/2007 - 14:24.
-G8, la testa del corteo a metà percorso
slogan e cori ma niente incidenti
E’ già arrivata a metà del percorso senza incidenti la testa del corteo di protesta contro la richiesta dei pm liguri di una condanna a 225 anni complessivi per alcuni manifestanti protagonisti del G8 di Genova del 2001.
Gli ultimi manifestanti sono partiti da poco dalla stazione marittima. E’ già guerra sui numeri: per la questura i partecipanti sarebbero 30 mila, per gli organizzatori oltre 100 mila
17,38 - Formisano (Idv): "Non ci opponiamo alla commissione d’inchiesta". "L’Italia dei Valori non si oppone alla commissione di inchiesta sul G8. Si oppone ad una commissione preconfezionata che serva solo ad accisare la Polizia di Stato". Lo dichiara Nello Formisano, capogruppo dell’Italia dei Valori a palazzo Madama. " Siamo disponibili, invece, - conclude Formisano - ad un acommissione che serva ad accertare la verità dei fatti, senza straumentalizzazioni e senza preordinazioni".
17,35 - Migliore: "L’aula della Camera dirà sì alla commissione". "Quella di Genova, senza incidenti nè scontri, è stata la manifestazione di chi vuole verità e giustizia e noi le aspettiamo. In Parlamento la commissione d’inchiesta l’approveremo, appena il provvedimento giungerà in aula". Lo ha detto allo speciale de La7 sulla manifesatzione di Genova per la verità sui fatti del G8 il capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, Gennaro Migliore.
17,32 - Caruso: "Trenitalia ha boicottato la partecipazione alla manifestazione". "La vicenda inquietante di oggi è solo una: da una parte questa grande partecipazione e dall’altra una società privata che decide il bello e il cattivo tempo, chi può esercitare il diritto costituzionale a manifestare, come e quando e in un certo senso fomenta la tensione". A dirlo è Francesco Caruso, ai tempi del G8 leader dei ’disobbedienti’ e oggi deputato di Rifondazione Comunista. "Spero che questo non succeda mai più, perchè siamo in un Paese democratico e non può essere una società privata che decide chi e quando può manifestare. Trenitalia - ha proseguito l’ex leader dei ’disobbedienti’ - ha boicottato in tutti i modi la partecipazione e lo svolgimento pacifico di questa manifestazione, ha costretto migliaia di giovani, che avevano pagato il biglietto a vivere sui treni un’esperienza allucinante, stipati come in carri bestiame senza luce nè acqua, a dover protestare per una carrozza in più. Io - ha concluso Caruso - ho dovuto dormire sopra il portapacchi".
17,29 - Donadi (Idv): "Una commissione che indaghi a 360°". "Lo abbiamo detto e lo ribadiamo, non siamo affatto contrari ad una commissione di inchiesta che indaghi sui fatti del G8, quello che abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere è che questa sia una commissione che la verità la cerchi davvero indagando a 360 gradi, accertando non solo le responsabilità delle forze dell’ordine, ma anche dei ’black block’ e soprattutto dei loro mandanti politici". Lo dice Massimo Donadi, capogruppo alla Camera di Italia dei valori.
17,28 - Ferrovie: "Treni predisposti su indicazione degli organizzatori". Con un comunicato, le Ferrovie dello Stato hanno informato che "in occasione della manifestazione di Genova gli organizzatori hanno acquistato due treni charter, in partenza da Napoli e da Padova. La composizione di questi treni, ossia il numero di carrozze, è stata predisposta seconda espressa indicazione degli organizzatori in relazione al numero di viaggiatori da loro previsti, come sempre avviene in transazioni commerciali di questo tipo". Fs ha anche aggiunto che gli orari erano concordati con l’organizzazione e che le carrozze "erano dotate di impianti di illuminazione e di riscaldamento funzionanti ed erano regolarmente rifornite di acqua e che si rende disponibile a verificare con il cliente gli eventuali disservizi lamentati da alcuni viaggiatori".
17,23 - Caruso: "Partecipazione dimostra solidarietà verso inquisiti". "Questa manifestazione con una straordinaria partecipazione di oltre centomila persone è la dimostrazione di una solidarietà diffusa nei confronti dei 25 inquisiti e di coloro che oggi sono sotto i colpi della repressione". Lo ha detto Francesco Caruso, ai tempi del G8 leader dei ’disobbedienti’. "Credo che sia un segnale politico importante che dimostra come Genova sceglie di stare dalla parte di coloro i quali subirono le violenze della Diaz, di piazza Alimonda, di via Tolemaide e sceglie di stare anche dalla parte di coloro che oggi, come capri espiatori, vengono scelti per punire e zittire i movimenti presenti e futuri. La storia non si riscrive nelle aule di tribunale", ha concluso Caruso.
* la Repubblica, 17.11.2007 - ripresa parziale
Giustizia anche per la Diaz
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 1/11/2007).
Nel processo contro venticinque manifestanti accusati di devastazione e saccheggio per i fatti accaduti nel 2001 in occasione del G8, i pubblici ministeri di Genova hanno chiesto, qualche giorno fa, la condanna degli imputati a duecentoventicinque anni complessivi di reclusione. Una richiesta pesante, per reati contro l’ordine pubblico comunque molto gravi, giustamente puniti dal codice penale con pene di rilievo: da otto a quindici anni di carcere. Facendo la media, circa nove anni per ciascuno degli imputati, in realtà neppure il massimo della pena prevista dalla legge. Comunque, una richiesta di severità non usuale nelle nostre aule di giustizia.
Le reazioni degli imputati, dei loro difensori e dei loro amici non si è fatta attendere. Nei siti no global si è immediatamente gridato allo scandalo: si è denunciato il processo politico contro i movimenti, si è protestato con rabbia contro l’asserita repressione del dissenso, si è parlato di vergognose richieste di condanna destinate a trasformare in anni di galera le manifestazioni di piazza, si è fatto appello alla mobilitazione, invitando coloro che erano a Genova il 19, il 20 e il 21 luglio 2001 a tornarci tutti insieme il 17 novembre prossimo per una grande manifestazione di protesta. Speriamo soltanto di protesta.
Lucia Annunziata, commentando sulle pagine di questo giornale la richiesta dei pubblici ministeri di Genova, ha affermato che si tratta invece, finalmente, di un episodio di buona giustizia, accaduto in un processo nel quale, con un ragionamento forte, due magistrati hanno avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: devastazione e saccheggio, poiché i manifestanti non si erano limitati ad esprimere dissenso ma avevano spaccato, demolito, incendiato, rubato, asportato merci e masserie. Un modo di chiamare le cose con il loro nome, senza ambiguità, con realismo e sincerità. Un modo trasparente e concreto di fare giustizia.
Parole sacrosante, che condivido appieno. Si è trattato di una richiesta assolutamente esemplare, giustificata dalle argomentazioni sviluppate dai due pubblici ministeri nella loro requisitoria. Ce ne fossero tante nelle aule dei nostri Tribunali! A questo punto è necessaria tuttavia una riflessione ulteriore. A Genova, come è noto, vi sono state le devastazioni e i saccheggi di alcune frange estremiste di manifestanti. Vi sono stati tuttavia, altresì, i vergognosi pestaggi, le violenze e gli abusi della polizia nella caserma di Bolzaneto ed il sanguinoso assalto alla scuola Diaz. Per ragioni processuali che ignoro, il processo contro i manifestanti e quello contro le forze dell’ordine sono stati separati, e procedono in aule distinte con pubblici ministeri e giudici diversi. Le velocità dei due processi non sono uguali. Nei confronti dei manifestanti si è comunque già arrivati alla fase della requisitoria dei pubblici ministeri, mentre nei confronti dei poliziotti il processo, pure in corso, è comunque più lento, forse perché più complesso.
Una cosa è comunque certa, che sarebbe vergognoso se i no global fossero chiamati a rispondere delle loro violenze con la severità dimostrata dai pubblici ministeri, mentre i poliziotti dovessero godere di un trattamento meno intransigente. La Procura della Repubblica di Genova farà sicuramente il suo dovere e se riscontrerà prove di colpevolezza a carico dei pubblici ufficiali imputati non si tirerà indietro e chiederà la loro condanna con altrettanto rigore. È importante che i cittadini siano comunque pronti a protestare, a gridare allo scandalo, questa volta assolutamente giustificato, se dovesse accadere che indulti e prescrizioni o, magari, imprevisti atteggiamenti benevoli, falcidiassero in qualche modo le responsabilità comprovate di chi ha pestato, violentato, assaltato, o ha ordinato di farlo.
Preoccupazioni realistiche? In uno Stato di diritto (come è il nostro) preoccupazioni di questo tipo non dovrebbero esistere. Se c’è la prova di efferatezze compiute, i responsabili dovrebbero essere sicuramente puniti con severità come è previsto dalla legge. Il nostro è tuttavia Paese peculiare, e più d’una volta si sono verificati fatti che non avrebbero dovuto accadere. Proprio con riferimento alle vicende relative al G8, la commissione Affari costituzionali della Camera ha inopinatamente bocciato, l’altro ieri, la proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta, addirittura prevista dal programma di governo dell’Unione. Hanno votato contro, insieme con la destra, esponenti di maggioranza facenti capo ai gruppi centristi Idv e Udeur. Qualcuno era assente ed il voto è terminato in parità, ventidue contro ventidue. Proposta respinta. In chi ha votato contro c’era, si dice, la deliberata intenzione di bloccare sul nascere un’indagine parlamentare che, se condotta seriamente, avrebbe potuto contribuire a fare finalmente luce su fatti, misfatti e responsabilità per episodi lontani nel tempo, ma non ancora chiariti soprattutto nei loro risvolti politici.
A questo punto, per avere qualche chiarezza non rimane che fare affidamento sulle decisioni dei magistrati di Genova ai quali è stato assegnato il processo contro i poliziotti imputati di violenze ed abusi a Bolzaneto ed alla scuola Diaz. Per i magistrati, una grande responsabilità, diventata ancora più grande dopo l’improvvida decisione della commissione Affari costituzionali della Camera che ha annullato la prevista commissione parlamentare d’inchiesta. Per noi, la speranza di potere fra qualche tempo affermare, per la seconda volta, che ci si trova di fronte ad un caso di buona giustizia, con la condanna esemplare dei poliziotti responsabili delle violenze.
VELTRONI: «NON DOBBIAMO AVERE PAURA DEI FATTI»
«Commissione G8, ricerca verità continui»
Prodi: «E’ un impegno preso con il programma di governo che non intendiamo disattendere» *
ROMA - «La ricerca della verità continui». La Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del G8 di Genova «è un impegno preso con il programma di Governo che non intendiamo disattendere». Lo dice il presidente del Consiglio, Romano Prodi dopo la bocciatura in commissione alla Camera la di una Commissione di inchiesta sui fatti del 2001 a Genova. «Il voto parlamentare che ha portato alla mancata istituzione di una Commissione di inchiesta sui fatti del G8 di Genova non deve fermare il lavoro degli inquirenti e di tutti coloro che esigono chiarezza e giustizia a 360 gradi per gli atti e i comportamenti che hanno provocato vittime, funestato la città di Genova e leso l’immagine del Paese» ha aggiunto Prodi, che considera la «collaborazione» tra le forze politiche «necessaria».
VELTRONI - In precedenza prima del presidente del Consiglio era intervenuto il neoleader del Partito Democratico. «La scuola Diaz, la caserma di Bolzaneto, piazza Alimonda e Carlo Giuliani. Sono passati sei anni, ma sono davvero ferite non ancora rimarginate». In una lettera inviata al sindaco di Genova, Marta Vincenzi, il leader del Pd, Walter Veltroni, ricorda così i fatti del G8 di Genova. E afferma di condividere la delusione del primo cittadino ligure. Il segretario del Partito Democratico scrive: «Cara Marta, interpretando i sentimenti della tua città, hai detto che Genova sta vivendo la battuta d’arresto subita dalla Commissione d’inchiesta sui fatti del G8 con profondissima delusione, come un’offesa, con il dolore che viene da ferite profonde che non si sono ancora rimarginate. Hai perfettamente ragione - aggiunge Veltroni -, ed io da Sindaco sento il bisogno di esprimere innanzitutto la mia solidarietà a te e, attraverso te, alla tua città, a tutti i genovesi».
UN INCUBO - «Nessuno di loro, nessuno di noi, può dimenticare quei giorni. Furono un incubo - ammette il leader del Pd -: scontri tra manifestanti e polizia, ragazzi picchiati, la città devastata da bande di black block. Luoghi di Genova strappati alla vostra serena consuetudine e consegnati alle cronache di tutto il mondo con immagini di violenza e purtroppo anche di morte, di una giovane vita spezzata: la scuola Diaz, la caserma di Bolzaneto, piazza Alimonda e Carlo Giuliani. Sono passati sei anni, ma sono davvero ferite non ancora rimarginate». Ferite «per le quali non c’è che una cura: l’accertamento della verità, di tutta la verità su quanto accadde in quei giorni. È questa l’unica strada, questo l’unico modo».
PIENA LUCE - «Lo disse già allora il presidente Ciampi - ricorda Veltroni - chiedendo si facesse ’piena luce su quanto accaduto a Genova’, sottolineando come a volerlo non fosse solo lui, ma ’tutti gli italiani, senza distinzione alcuna’. Hanno chiesto verità, in tutti questi anni, le persone che si sono rivolte alla Magistratura denunciando di aver subito violenze e soprusi da parte di esponenti delle forze dell’ordine, sottoposti a giudizio insieme a coloro che sono accusati di avere, in quegli stessi giorni, devastato e saccheggiato la città. La Magistratura sta portando avanti il suo lavoro, che come è giusto non può che essere incentrato su precisi episodi e su singole persone. La Commissione d’inchiesta avrebbe dovuto, dovrebbe, fare altro: ricostruire i fatti, tutti, e chiarire le responsabilità, quelle che ci furono e quelle che vennero meno. Non dobbiamo avere paura dei fatti. Nella storia di questo Paese per troppo tempo, e per troppe volte, la verità su alcune delle pagine più delicate e oscure della nostra vita pubblica non è mai arrivata, o è arrivata frammentata, distorta, opaca. Per confondere, non per chiarire. Per conservare, non per cambiare e crescere. Oggi - prosegue Veltroni - anche su questo, dobbiamo voltare pagina. Si può fare, ci sono le condizioni per farlo. La trasparenza, il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini è interesse di tutti».
I partiti di Di Pietro e Mastella ancora una volta si distinguono dall’Unione
e la maggioranza va sotto anche alla Camera. Un deputato della Rnp non arriva in tempo
Idv e Udeur votano con la Cdl
Salta la commissione d’inchiesta sul G8
ROMA - La proposta di legge per istituire una commissione di inchiesta sul G8 di Genova non è stata approvata in prima commissione della Camera. Con 22 voti contrari e 22 voti favorevoli la commissione non è riuscita ad affidare il mandato al relatore a riferire in aula. La Cdl, accorsa in massa a votare, ha salutato il risultato con un lungo applauso. Con la Cdl hanno votato anche Idv e Udeur.
In particolare il deputato dipietrista Carlo Costantini ha detto ’no’, mentre l’altro esponente dell’Idv, il capogruppo alla Camera Massimo Donadi, non si è presentato. I due esponenti della Rosa nel Pugno, Cinzia Dato e Angelo Piazza, non hanno preso parte alle votazioni. E l’unico deputato dell’Udeur ha votato contro.
Mezz’ora prima che si arrivasse al voto i parlamentari del centrosinistra erano in sovrabbondanza. Nessuno temeva per il peggio visto che mancavano all’appello sette esponenti di Forza Italia. Pochi minuti prima della conclusione dei lavori si è presentata in commissione una nutrita ’pattuglia’ di deputati azzurri guidati dal capogruppo Elio Vito. E il loro arrivo ha fatto la differenza. A quel punto anche nell’Unione si è cominciato a telefonare freneticamente agli assenti per vedere di non andare sotto su un provvedimento tanto delicato.
Ma non c’è stato nulla da fare perché l’ultimo "convocato" dell’Unione è arrivato troppo tardi, subito dopo il voto. Il ’ritardatario’ che non è riuscito a votare era l’esponente della Rosa nel Pugno Lello Di Gioia, che avrebbe dovuto sostituire in commissione uno dei due "titolari" del gruppo. Su 44 votanti 22 hanno detto sì e 22 ’no’ e quando si arriva alla parità, per regolamento, il mandato al relatore a riferire in Aula non viene conferito. La Cdl ha esultato per questa bocciatura, mentre la maggioranza ha lasciato la commissione piuttosto delusa.
All’ultimo momento, insieme ai rinforzi ’azzurri’ è arrivato di corsa anche il deputato dell’Udc Carlo Giovanardi. Mentre il presidente della commissione Affari costituzionali Luciano Violante non ha votato. "Io non prendo mai parte alle votazioni" ha spiegato al termine dei lavori di commissione lo stesso Violante.
* la Repubblica, 30 ottobre 2007.
Sul governo ho sbagliato
di Antonio Di Pietro *
Caro Travaglio,
la sua rubrica su l’Unità di ieri a me dedicata dal titolo «Quo vadis, Tonino» mi ha fatto molto riflettere. Potrei sostenere con mille presumibili buone ragioni la posizione presa da me e dall’Italia dei Valori in merito al nostro voto sulla società Ponte sullo Stretto di Messina (ponte che, sia chiaro, nemmeno io voglio fare né sto facendo fare) e più ancora sulla istituzione di una Commissione d’inchiesta sul G8 di Genova (che condividiamo, purchè ad essa non vengano attribuiti anche poteri giudiziari che dovrebbero spettare solo ai giudici e purchè si stabilisca che si deve occupare non solo di valutare i misfatti commessi dalla Polizia, ma anche quelli commessi dai black bloc e soprattutto dai loro mandanti politici). Commissione che lei stesso annovera tra quelle che definisce «...enti inutili, anzi dannosi, non essendo mai servite a nulla se non a produrre verità di maggioranza e di minoranza, cioè balle di partito, a insabbiare le colpe dei nemici e ad esaltare i meriti degli amici, a confondere le idee anche a quei pochi che pensano di averle chiare...» (Mitrokhin e Telecom Serbia docent!).
Presumibili buone ragioni che chi ha voglia di valutarle può leggerle sul mio blog www.antoniodipietro.it.
Ma il punto è un altro e lei l’ha giustamente centrato (forse rovinandomi la digestione, ma certamente aprendomi gli occhi e di questo la ringrazio): io ed il mio partito ci siamo ritrovati di fatto allineati sulle stesse posizioni del partito di Berlusconi e di quello di Mastella. So nel mio intimo che non è questo quello che volevo e voglio (e mi scuso con gli elettori per l’imbarazzo creato). Ma purtroppo questo è il messaggio che è passato e la colpa, devo ammetterlo, non è solo delle strumentalizzazioni altrui (che peraltro ci sono state e ci sono a iosa) ma anche mia.
Ho sbagliato nel comunicare male e tardi quelle che io ritengo essere - forse sbagliando ma certamente in buona fede - le mie «buone ragioni di merito». Ho sbagliato soprattutto nel non essere riuscito a trovare una soluzione politica nell’ambito della coalizione su materie che - con il dialogo e la reciproca comprensione - potevano trovare una giusta soluzione (per esempio, intervenendo sulla stesura del testo della legge istitutiva della Commissione di inchiesta, in modo da assicurare che essa non debordasse in un «processo» ai processi giudiziari in corso e che fossero stabiliti precisi paletti e garanzie di funzionamento).
È vero anche che nemmeno gli «altri» della coalizione hanno voluto far nulla per trovare un punto di mediazione, ma il loro errore non annulla il mio.
Una cosa è certa, però e di questo la ringrazio di averne dato atto: in materia di politica giudiziaria, l’Italia dei Valori sta facendo il proprio dovere, tanto è vero che siamo riusciti da ultimo a far inserire nel «pacchetto sicurezza» importanti norme quali il ripristino del reato di falso in bilancio e le eliminazione della legge ex-Cirielli sulla prescrizione.
Vorrei continuare in questa direzione e quindi rispondo alla sua domanda «Quo vadis, Tonino?» nell’unico modo possibile: vado diritto per la mia strada, ma - d’ora in poi - con più attenzione ai compagni di viaggio.
Non capita tutti i giorni che un ministro risponda alle critiche di un giornale. E non capita quasi mai che lo faccia per dire «ho sbagliato». Da cittadino, gliene sono grato. E credo che gliene siano grati anche i lettori e gli elettori.
m.trav.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.07, Modificato il: 02.11.07 alle ore 15.58
Dopo una lunga requisitoria le richieste del pm a Genova
Pene variabili fra sei e sedici anni. La madre di Giuliani: "Quei ragazzi sono capri espiatori"
G8, la procura chiede 225 anni per 25 no global
Il pm: "Fu devastazione e saccheggio" *
GENOVA - Duecentoventicinque anni di prigione ai venticinque no global che parteciparono alle distruzioni e ai saccheggi di Genova durante i G8 di sei anni fa. La Procura del capoluogo ligure usa la mano pesante: è una richiesta che evoca le requisitorie dei maxi processi per mafia quella pronunciata nelle ultime otto udienze dai due pm genovesi Andrea Canciani e Anna Canepa. Da 6 a 16 anni di reclusione hanno chiesto i magistrati per ognuno degli inquisiti: "Dobbiamo avere il coraggio di chiamare quei fatti con il loro nome: devastazione e saccheggio", ha detto il pm Canciani. "Al tribunale chiediamo quindi pene severe".
Per Massimiliano Monai, l’uomo che poco prima della morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda fu ripreso vicino al Defender dei carabinieri con una trave in mano, è stata chiesta una condanna a nove anni di carcere. La pena più pesante, 16 anni, la procura l’ha richiesta per Marina Cugnaschi, 41 anni di Lecco, "l’eroina" anarchica del centro sociale milanese Villa Okkupata, ripresa in un video mentre lancia una bottiglia incendiaria contro il portone di ingresso del carcere di Marassi.
"Queste richieste di condanna - ha commentato Haidi Giuliani, senatrice di Rifondazione e madre di Carlo Giuliani, morto quel tragico 20 luglio 2001, il giorno degli scontri per cui sono indagati i 25 no global - non tengono minimamente conto del contesto in cui sono avvenuti i fatti". Quei 25, la senatrice, li definisce "capri espiatori": "Se chi si difende da violenze ingiustificate, o ruba un prosciutto, merita 225 anni di carcere, quantise ne dovrebbero pretendere per chi ha rotto teste, denti, costole, per chi ha torturato, per chi ha ucciso? Continuo a ribadire la mia piena solidarietà ai 25 accusati", ha concluso Haidi Giuliani.
La sentenza per il processo dei no global è prevista prima di Natale. Entro la prossima estate è atteso invece il pronunciamento del tribunale sulle violenze e gli arresti ingiustificati ordinati dai poliziotti: sui 29 dirigenti e poliziotti della Celere inquisiti per il "massacro nella scuola Diaz", come l’ha definito il pm Canciani e sui 45 agenti sospettati di soprusi e violenze sui 300 ragazzi rinchiusi nella caserma di Bolzaneto.
* la Repubblica, 23 ottobre 2007.
Le richieste di risarcimento ai 25 disobbedienti accusati di danno all’immagine e incidenti
in città. Intanto i no-global organizzano un manifestazione di protesta il 17 novembre
G8 di Genova, lo Stato presenta il conto
"Centomila euro a testa dagli imputati"
di MASSIMO CALANDRI *
GENOVA - Dopo la durissima requisitoria dei pm Anna Canepa e Andrea Canciani, che hanno chiesto complessivamente oltre due secoli di carcere, arrivano anche le domande di risarcimento da parte dello Stato. I 25 no-global imputati di aver devastato e saccheggiato Genova durante il G8 rischiano di pagare 100 mila euro a testa per i danni di immagine alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (nel luglio 2001 il capo del governo era Silvio Berlusconi), e ai ministeri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa. E poi ci sono i risarcimenti per l’incendio del carcere di Marassi (oltre 82 mila euro), per i danni ai blindati e alle camionette di polizia e carabinieri (20 mila euro) durante la guerriglia urbana, per le lesioni provocate ad agenti e militari negli scontri di strada
Luca Finotti e Massimiliano Monai, che insieme ad altri assaltarono in piazza Alimonda un Defender dei carabinieri, sono stati chiamati a pagare 6 mila euro per il danneggiamento del fuoristrada ma anche per le ferite provocate ai carabinieri Filippo Cavataio, Mario Placanica (che quello sciagurato 20 luglio sparò, uccidendo Carlo Giuliani) e Dario Raffone. Le richieste sono state presentate in udienza da Ernesto de Napoli, per l’Avvocatura dello Stato. Sono in corso le istanze delle altre parti civili: alcuni istituti di credito, le cui agenzie furono assaltate durante il vertice internazionale di sei anni fa, chiesero sostanziosi risarcimenti e tanto per cominciare una provvisionale - per ognuno degli imputati - di diecimila euro
Per protestare contro la richiesta di condanna della Procura di Genova, giudicata "vergognosa" e "fascista", i Disobbedienti hanno organizzato una grande manifestazione di piazza nel capoluogo ligure, invitando a partecipare tutti i trecentomila e passa no-global che erano presenti nel luglio 2001. L’appuntamento è per il 17 novembre, lo stesso sabato in cui - a Roma - Silvio Berlusconi chiederà con i gazebo di Forza Italia di "sfrattare" il governo
* la Repubblica, 26 ottobre 2007.
Articolo tratto dal portale Indymedia al link:
http://piemonte.indymedia.org/article/8908
Scoop: Ecco come il Sismi spiava Roppo & Canepa (nonché CARIGE e CIR)
SISMI: “Operazione Cavallo di Troia” ecco come il servizio segreto militare attenzionava centri sociali, alta finanza, avvocati, banche ed iraniani.
Palazzo di Giustizia di Genova, P.zza di Portoria 1. Lo stramaledetto “Armadio della vergogna”. continua a vomitare faldoni che dovrebbero rimanere sopiti per molto tempo ancora. Ecco come il Sismi attenzionava Roppo & Canepa nonché C&C (Carige & Cir e Coe & Clerici). A smascherare lo 007 del Sismi non i CC (Carabinieri) ma il duo inquirente Canepa & Canciani. Accidenti se li ha fregati. Li ha fregati tutti, quell’Altana.... L’agente del Sismi Altana Pietro sembra l’unico a custodire certezze in questa intricata spy story dove la realtà è tutto meno ciò che sembra, sfuggente come la sabbia di queste spiagge liguri. Li ha fregati tutti. Le banche, l’alta finanza, i centri sociali, gli iraniani. Forse anche i giudici. E ora tremano anche alcuni magistrati. L’armadio della vergogna è quel famoso archivio dove pare siano stati riposti per anni tutti quei fascicoli scomodi da tenere al riparo da occhi indiscreti. Almeno un ripiano dell’archivio segreto di P.zza Portoria, è proprio riservato a lui: Altana Pietro. La spia del servizio segreto militare che è andato a battere nei centri sociali in cerca di informazioni per il Sismi.
Qui una sintesi:
“Altana Pietro: lo 007 del SISMI che spiava i centri sociali (e non solo)” http://piemonte.indymedia.org/article/5620
Lo 007, all’anagrafe Altana Pietro, è conosciuto anche con alcuni strani pseudonimi come "Guglielmo Dabove" e/o “Franco Ugo Davolio” (“Diavolio” sarebbe più corretto). Ha 49 anni, look alla kojak (capoccia lucida e rasata) elegante e con la faccia da bravo ragazzo. Per alcuni non è che un Robin Hood in giacca e cravatta. Ma chi sia davvero, nessuno - neppure i giudici di palazzo di giustizia di Genova - possono dirlo con esattezza. La sua storia è la trama di un intrigo internazionale, un racconto che si snoda ricco di insidie tra spie e servizi segreti, depistaggi, presunti rapimenti, export di armi per l’Iran etc etc. Di sicuro si sa che Altana Pietro, esperto informatico nato a Torino da una famiglia di origini genovesi, doppio passaporto - italiano e americano - ha sottratto documenti riservati alle più importanti società italiane ed estere, nonché informazioni super-segrete a prestigiosi avvocati d’affari.
Di alcuni dossier scottanti abbiamo già dato conto in precedenti articoli proprio quì sul portale Indymedia. L’attività di intelligente dello 007 del Sismi però non s’è esaurita infiltrandosi nei centri sociali. Il primo tassello di questo intricato puzzle si rintraccia seguendo il filo di importanti società dell’alta finanza e aziende in odor di mafia e traffico d’armi.che l’agente Altana risulta aver spiato per lungo tempo.
Qui una sintesi:
“Scoop: Ecco come il Sismi doveva rapire Carlos Remigio Cardoen”. http://piemonte.indymedia.org/article/6564
Il capitolo più intrigante di questa incredibile storia concerne invece l’attività di intelligence dei servizi segreti militari nell’ambito di un certo tipo di studi legali. Per intenderci stiamo parlando di importanti avvocati d’affari (non certo di penalisti) nonché di avvocati fiscalisti di primissimo piano.
Dicevamo operazione “Cavallo di Troia”. Anche le città più fortificate possono essere conquistate senza dar battaglia. Come fece Ulisse. Ossia con una scaltra intrusione nella fortezza del nemico. Quello che ha fatto il Servizio segreto militare. S’è introdotta negli uffici delle migliori law firms genovesi per spiarne i (torbidi?) affari. Facendolo con grande fantasia e stile (bisogna ammetterlo). Per il tramite dell’agente del Sismi (alla bisogna anche del Sisde) Altana Pietro.
Milano Finanza e il quotidiano iIl Secolo XIX in una serie di articoli dedicati all’agente segreto hanno in parte già svelato l’arcano. Scrive il Secolo XIX nell’edizione del 5 novembre 2009: “...schedati a Genova banche e avvocati, si infiltrò nei centri sociali per il g8 Sentenza-choc: lavorava davvero per i servizi segreti, ma ha esagerato ...cercava documenti top secret, facendo l’addetto delle pulizie di alcune aziende genovesi ... poi una volta o due a settimana consegnava tutto al suo contatto, un maresciallo della Guardia di Finanza...”.
http://piemonte.indymedia.org/attachments/nov2009/articolo_stampa_altana_pietro_2.pdf
http://piemonte.indymedia.org/attachments/dec2008/rapporto_sismi_sisde.pdf
I giudici genovesi, che da tempo immemore vivono nella spicosi d’esser attenzionati dai servizi segreti, hanno indagato a lungo sullo 007 del Sismi scoprendo in parte che cosa ci cela davvero dietro questo thriller.
Ecco lo scoop. I servizi segreti hanno usato un’impresa di pulizie industriali per infiltrarsi negli studi legali d’alto bordo. L’impresa si chiama - o si chiamava - Altana Pietro Impresa Pulizie Industriali (che sforzo di fantasia). Specialità pulizie uffici (pare che li “ripulisse” anche bene). Altana Pietro, con il supporto logistico del Sismi, non ha difficoltà alcuna a dotarsi d’un background con in controfiocchi. In quattro e quattrotto riesce ad accreditare l’impresa “cavallo di troia” presso i migliori avvocati d’affari e studi legali. Acquisita la fiducia (e le chiavi degli uffici) fa scattare la trappola. Operazione “Cavallo di Troia” is ok!.
Semplicemente geniale. Non è forse più efficace un piano di lenta, ma pervasiva infiltrazione, rispetto ad una guerra guerreggiata? Alla stessa stregua d’un virus che attacca un organismo, insediandosi nella cellula ospite. Ecco la tattica del Sismi. Nella rete del Sismi/Altana cadono così, uno dopo l’altro - come birilli - nomi illustri e avvocati di primissimo piano. A Palazzo di Giustizia di Genova si registrano i nomi delle blasonate povere vittime: Bonelli Erede e Pappalardo (il Prof. Avv. Franco Bonelli è probabilmente il consulente legale più apprezzato da società dell’alta finanza quali ENI, FFSS, Impregilo, Fintecna, Telecom, Mediobanca, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Banca Intesa San Paolo, etc etc). Tra gli avvocati spiati figura anche il fiscalista Victor Uckmar (noto tributarista genovese consulente di Pesenti, Italcementi, PDS, Assofiduciaria, e di molte altre società). Viene approcciato ed infiltrato anche lo studio legale Carbone & D’Angelo, fondato dai Proff.ri Avv.ti Sergio Maria Carbone e Andrea D’Angelo (consulenti di riferimento di una miriade di società e banche tra cui Ansaldo e Banca Passadore).
Ma tra tutti spicca un altro nome illustre del panorama legale.
Lo studio legale “Roppo & Canepa”.
E’ una notissima aggregazione di avvocati fondata dall’avvocato Prof. Vincenzo Roppo e dall’Avv. Paolo Canepa. Anche l’avv. Vincenzo Roppo è consulente storico di importanti società e Banche. Tra queste i nomi del Gruppo C.I.R. (Roppo è salito alla ribalta della cronaca finanziaria per il noto contenzioso tra la Fininvest di Silvio Berlusconi ed io Gruppo C.I.R. di De Benedetti), ENI e Banca Carige. Il socio Avv. Paolo Canepa figura apparentemente più defilata, invece risulta essere forte di conoscenze significative, specie a Palazzo di Giustizia di Genova (il che non guasta). La sorella di Paolo Canepa infatti, Anna Canepa, è un magistrato molto noto a palazzo di giustizia di Genova e da tempo il suo nome compare in tandem in diverse inchieste con quello di Andera Canciani. Anna Canepa è anche uno degli esponenti di punta di Magistratura Democratica (attualmente in forza alla Direzione Nazionale Antimafia). Il nome di Anna Canepa è salito alla ribalta a Genova - purtroppo tristemente - insieme a quello del magistrato Andrea Canciani per le inchieste contro no-global e centri sociali relativamente ai fatti del G8.
Perché prendere di mira proprio Roppo & Canepa? Pare che il Sismi voglia gettare un’occhio su Banca Carige, su Giovanni Berneschi presidente della banca genovese), nonché Gruppo CIR e De Benedetti ed approfondirne un pò gli affari. Non c’è miglior avamposto di Roppo & Cenepa. Vincenzo Roppo oltrechè già membro del cda della banca risulta essere anche consulente legale di riferimento della stessa e del suo Presidente Giovanni Berneschi. Un colpo gobbo. Dapprima Roppo & Canepa vengono attenzionati per lungo tempo attraverso un’informatrice che lavora all’interno dello studio legale, l’agente “Luciana” (che pare sia anche il nome vero). Come nelle migliori spy story, la referente del Sismi è un’addetta alle pulizie (e a “ripulire” di documenti). I servizi segreti mettono le mani su una quantità impressionante di atti riservati della banca genovese. Il Presidente Berneschi conferisce regolarmente allo studio legale Roppo & Canepa carteggi sensibili (bozze di verbali, piani strategici, memorandum, agreement, scritture, atti giudiziari, appunti, atti del CDA etc etc). Lì è scritta (quasi) tutta la storia di Banca Carige. Altana, incaricato dal Sismi di fare da trait-d’union con l’agente “Luciana” lavora per anni con questo andazzo, sino a quando l’agente “Luciana” comunica ai servizi di non poter più continuare a fare la spia. E’ affetta da una grave forma di cancro. Forse le rimane poco tempo. Deve lasciare. Che fare? Dopo un consulto a Forte Braschi si decide per candidare al subentro l’impresa “Cavallo di Troia” che il Sismi impiega sotto la lanterna. Altana viene presentato dall’agente “Luciana” allo Studio Roppo & Canepa. Il “Cavallo di Troia” del Sismi sfonda con successo. Ma solo per poco tempo. Perché qualcosa và storto per l’agente segreto. Una importante shipping company attenzionata dal Sismi , Coeclerici Spa, s’accorge d’esser stata spiata ed intuisce lo schema del “cavallo di troia”.
continua su indymedia ...
Notizia tratta dal portale Indymedia al link: http://piemonte.indymedia.org/article/8988 “Eredità Maragliano: Giovanni Berneschi & Carige rimarranno in mutande” Famiglia Maragliano. Nobile e facoltosissima dinastia genovese di agiati e benestanti possidenti. Autentico sangue blu doc.. Tradotto in venali termini materiali significa appezzamenti di terreni a perdita d’occhio, prestigiosi edifici storici, oggetti/opere d’arte, fondi azionari e obbligazionari, titoli, denari a gogo. Una fortuna sterminata, incalcolabile, valutata in centinaia di milioni (se non miliardi) di euro e/o di palanche dei nostri giorni. Loro - i Maragliano d’oggi - sono ricchi sfondati, ma non lo sanno. O perlomeno non ne aveva coscienza. Sapevano ch’erano ricchissimi gli antenati, gli avi. Banca Ca.Ri.Ge. Spa invece era a conoscenza di questo immenso patrimonio. Perché l’ha incamerato nel tempo sin dal lontano 1735, data in cui gli eredi Maragliano hanno cominciato a depositare i loro beni presso la Banca genovese. Pian piano, attraverso le epoche - incredibile ma vero - i discendenti hanno gradualmente perso coscienza di questa colossale fortuna. A Genova interi palazzi portano ancor oggi la sigla dei Maragliano. A loro è pure intitolato un famoso e prestigioso Ospedale, celebre anche l’omonima centralissima via Maragliano. Insomma i Rockfeller sotto la lanterna. Gli attuali discendenti dei Maragliano non sapevano d’essere così ricchi ma avevano il sospetto d’esserlo. Perlomeno un tempo lontano. Quel tam tam del passa parola, di padre in figlio che favoleggiava di quell’immensa fortuna (dimenticata) lasciata presso le casse della banca vampira: il Banco di San Giorgio (confluito in Carige). Ci son 1000 modi per dissolvere e fagocitare un patrimonio colossale. Te n’aaccorgi quando vedi quelle strane compravendite, curiose donazioni. discutibili transazioni e atti notarili al limite della decenza (non dimentichiamo che con la storia della banca genovese s’intreccia spesso quella della chiesa e la Curia sempre in agguato). C’è anche il sospetto che la vicenda s’incroci con la spy story dell’agente del Sismi (servizio segreto militare) Altana Pietro che attenzionava Banca Carige. Pare che casualmente abbia messo anche lui gli occhi sullo scottante carteggio “Fedecommisseria Maragliano/Carige” (dicono che ne tenesse una copia nella sua cassaforte anche il vecchio Presidente Gianni Dagnino). La leggenda così pian piano prende consistenza. Divenendo certezza. Le voci poi, sapete com’è, ci mettono poco a circolare (Genova è piccola e pettegola). Così un giorno, MARIA, un’erede diretto di questa nobile famiglia rompe gli indugi e scrive alla direzione generale di Banca Carige chiedendo a Dracula quanti soldi e/o valori risulta che siano ancora depositati presso la banca genovese da quel lontano 1735. In tre secoli saranno diventati miliardi di euro! (perlomeno). La risposta di Giovanni Berneschi (presidente di Banca Carige) è lapidaria e sconcertante: risulta un saldo attivo di 127.522 lire “... la invitiamo a voler segnalare agli eredi la necessità che si presentino presso gli sportelli della suddetta ns. Agenzia muniti del titolo per procedere alla liquidazione del cespite”. Un quesito sorge spontaneo al duo B&B: Bancarige & Berneschi. Galantuomini per carità di Dio (che però curiosamente portano la stessa sigla della Banda Bassotti): e le terre, i quadri, le opere d’arte, i titoli, i palazzi, i soldi, gli averi, gli scudi, i genovini, gli zecchini, i talleri, i baiocchi, i ducati, le palanche? Dove sono finiti?. Quando lo scopriremo Bancarige & Berneschi rimarranno letteralmente in mutande. (pisciaturi & zipeppi) Doc. pdf: "Carige_Banca_ vampira": http://piemonte.indymedia.org/attachments/jun2010/carige_maragliano.pdf
http://piemonte.indymedia.org/article/2646
“ENI, "codice etico" e Servizi Segreti”
http://piemonte.indymedia.org/article/5520
“Tangenti Nigeria: ENI rischia grosso (e paga cash)”
http://piemonte.indymedia.org/article/8981
“VINCENZO ROPPO Story: notula da 14 milioni di Euro per CIR”
http://piemonte.indymedia.org/article/6348
“Sentenza CIR- MONDADORI - Il boomerang di Roppo”
http://piemonte.indymedia.org/article/6030
“C’è un avvocato infedele e traditore (uno solo?)”
http://piemonte.indymedia.org/article/8067
“Altana Pietro: lo 007 del SISMI che spiava i centri sociali (e non solo)” http://piemonte.indymedia.org/article/5620
"ALTANA PIETRO - Giornalista/Agente del SISMI e SISDE"
http://piemonte.indymedia.org/article/3566
“Scoop: Ecco come il SISMI spia i centri sociali”
http://piemonte.indymedia.org/article/6464
“GENOVA - SPY STORY AL PESTO - ECCO COME COECLERICI SPA SPIAVA - Desecretati dopo altre 8 anni documenti TOP SECRET”
http://piemonte.indymedia.org/article/1347
"Mafioso è bello" (parola di COECLERICI)”
http://piemonte.indymedia.org/article/1700
La Repubblica (CIR Group): ecco come funziona la fabbrica del fango”.
http://piemonte.indymedia.org/article/8579
“Scoop: Ecco come il Sismi doveva rapire Carlos Remigio Cardoen”.
http://piemonte.indymedia.org/article/6564
“Altana Pietro e il SISMI han ciulato gli Iraniani?”
http://piemonte.indymedia.org/article/6178
“SISMI e IRANIANI - Prima si spiano poi gli si tende la mano”.
http://piemonte.indymedia.org/article/5025
“IRASCO: ecco come gli iraniani hanno beffato gli USA”
http://piemonte.indymedia.org/article/7505
Genova, via libera alla commissione di inchiesta sul G8 *
«Verità per Genova», d’ora in poi non sarà più solo uno slogan. Si riaccendono i riflettori sulle pagine buie del G8 del 2001: la Camera ha dato mercoledì il via libera alla Commissione di inchiesta su Genova. Il provvedimento è stato votato dalla commissione Affari Costituzionali, che ha concluso l’esame degli emendamenti alla proposta di legge per istituire lo strumento di indagine sui fatti del 2001: contrari, oltre ai parlamentari della Cdl, anche i deputati dell’Italia dei Valori e dell’Udeur, che non si sono presentati in aula.
«Una forzatura», secondo Francesco Adenti, capogruppo dei Popolari Udeur in Commissione Affari Costituzionali, che crede che la commissione sia «più un’accusa alle forze dell’ordine che una legittima rappresentazione della necessità di fare chiarezza sulle tristi vicende di Genova». In realtà, obiettivo dell’inchiesta è quello di ricostruire la dinamica degli scontri per accertare se si sia verificata «una sospensione dei diritti fondamentali garantiti a tutti i cittadini dalla Costituzione» e per ricostruire «la gestione dell’ordine pubblico facendo luce sulla catena di comando e sulle dinamiche innescate che hanno provocato azioni violentemente repressive nei confronti dei manifestanti».
La commissione monocamerale sarà composta da 30 deputati e rappresenterà tutti i gruppi parlamentari. Il budget a disposizione ammonta a 50 mila euro. Dieci mesi di tempo a disposizione, nessuna possibilità di opporre il segreto di Stato, né quello di ufficio, professionale e bancario.
Intanto, battuta d’arresto per il processo in corso. Il procedimento contro alcuni dirigenti della Polizia accusati di aver compiuto violenze ed abusi nel corso della perquisizione alla scuola Diaz, è stato rinviato perché il nuovo difensore di Nando Dominici, all’epoca dirigente della Squadra Mobile di Genova, ha chiesto un rinvio per «i termini a difesa». L’avvocato ha infatti appena preso incarico, dopo le dimissioni del legale precedente.
* l’Unità, Pubblicato il: 17.10.07, Modificato il: 17.10.07 alle ore 12.09
G8: dirigente Digos non vide, non sentì, non parla *
Non ha visto violenze nella caserma di Bolzaneto: la situazione era difficile ma tutto è proceduto regolarmente. Ha anche comprato di tasca sua dell’acqua da distribuire ai fermati. Però qualche collega alzò la voce, qualcun altro spruzzò gas urticante nelle celle. Alessandro Perugini, vicecapo della Digos genovese durante le giornate del G8 a Genova nel 2001, respinge ogni addebito. È stato il primo dei 45 imputati - tra poliziotti, penitenziaria, carabinieri e personale medico - ad essere sentito nel processo appena aperto sugli episodi di violenza denunciati da decine di persone fermate e portate in quella caserma. Decine di testimonianze parlano di atmosfera da “dittatura cilena” ma tant’è. Quello che all’epoca era il massimo dirigente della polizia a Bolzaneto è accusato di abuso d’ufficio, abuso d’autorità contro detenuti o arrestati e di non aver impedito che alcuni manifestanti venissero picchiati o maltrattati.
«Non ho sentito urlare né ho visto episodi di violenza »
Durante l’interrogatorio del pm Patrizia Petruzziello, iniziato intorno alle 11 e 30 di martedì e durato poco più di due ore, Perugini ha risposto a tutte le domande. Dalle sue parole si ricaverebbe che nulla sia avvenuto in quelle stanze. Degli episodi gravissimi di umiliazioni e percosse ribaditi da decine di manifestanti italiani e stranieri insomma non ci sarebbe traccia. «Dalla mia postazione non ho sentito urlare nè ho visto episodi di violenza avvenire nei corridoi» ha dichiarato al magistrato. «All’inizio non era previsto un servizio di vigilanza dei fermati - ha spiegato - Nelle prime ore del venerdì pomeriggio (20 luglio 2001) arrivò una disposizione dell’ufficio di Gabinetto che ordinava agli agenti che accompagnavano i fermati anche di sorvegliarli. Sabato (21 luglio 2001) un contingente di carabinieri venne deputato alla sorveglianza e nella notte, quando andai via, non mi interessai più della questione».
«Non mi sono chiesto perché stessero volto e mani rivolti al muro»
Qualcosa però combacia con alcune deposizioni di chi si trovò in quelle celle. Perugini ricorda che durante tutte quelle ore trascorse a Bolzaneto solo «in due circostanze ho avuto accesso alle celle» e che, in entrambe le occasioni, «ho visto all’interno di ciascuna cella una decina di persone, con il volto e le mani rivolte verso il muro. Non ricordo di aver visto donne. Non mi sono chiesto il perchè stessero in quella posizione, non mi ha colpito quella circostanza».
Solo «un collega alzò la voce». E “altri” «spruzzarono gas urticante nelle celle»
«Ricordo un episodio in cui un collega stava alzando la voce contro un fermato e sono intervenuto per dirgli di calmarsi - ha ricostruito. - Non ricordo il nome del fermato. Doveva fare una inalazione per l’asma e dissi che non c’erano problemi. Mi chiesero l’autorizzazione e la diedi» ha spiegato.
Anzi, quando poteva dava una mano. Ricorda di aver soccorso un manifestante telefonando al padre col proprio cellulare, di essere intervenuto quando furono spruzzati gas urticanti in una delle celle dall’esterno. Anche se poi «non ho fatto nessun nota perchè nell’immediatezza c’erano tante cose da fare, ma informai la mia collega Anna Poggi».
Lui intanto acquistava di tasca propria bottigliette di acqua minerale per i fermati: «Ho fatto arrivare del cibo e dell’acqua per i nostri e ho fatto distribuire una cassa d’acqua, erano bottigliette da mezzo litro, anche ai detenuti nelle celle. Ho valutato da solo che ce ne fosse bisogno perchè faceva caldo».
Le identificazioni e i cittadini stranieri
Quanto alle denunce di tanti ragazzi stranieri che (come gli italiani) non hanno potuto chiamare il loro consolato, un avvocato o semplicemente a casa, Perugini precisa: «Se gli stranieri lo richiedevano venivano sempre avvisati i consolati con moduli plurilingue». Però ammette che ci furono dei ritardi protratti nell’identificazione, tant’è che per due giorni alcuni reclusi denunciano di essersi sentiti tagliati fuori dal mondo senza poter dare notizie di se all’esterno della caserma: «I tempi di identificazione dei fermati si allungarono in modo esponenziale rispetto alle nostre previsioni», ha detto e conclude: «Il clima era caldo».
«Ricordo solo Marco Mattana. Per motivi personali»
«La situazione era difficile ma conservavo la mia lucidità. Le persone venivano accompagnate sotto braccio. Ricordo di aver visto una persona ammanettata e di aver detto di togliergli le manette. Eravamo dentro la caserma e non c’era alcun pericolo di fuga - ha ripetuto Perugini. - Non ho mai visto neanche minorenni dentro la caserma, ricordo soltanto Mattana. Mi è rimasto impresso per motivi personali». Marco Mattana aveva 15 anni nel 2001, era uno studente di Ostia arrivato nel capoluogo ligure per manifestare. Le sue immagini hanno fatto il giro delle tv perché tra i pestaggi della polizia per le strade di Genova fu uno dei più agghiaccianti: il minorenne venne preso a calci da Perugini e da altri poliziotti il 21 luglio. Il ragazzo, con il volto tumefatto, alla fine riuscì ad uscire dal cerchio e si avvicinò supplicante alla videocamera che lo riprendeva.
Per qual pestaggio ingiustificato, documentato in più di un video, Perugini insieme ai colleghi è indagato anche in un altro procedimento.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.09.07, Modificato il: 25.09.07 alle ore 17.45
Promoveatur ut amoveatur o amoveatur ut promoveatur? *
De Gennaro, dopo sette anni da capo della polizia, è promosso capo di gabinetto del ministero degli Interni. Manganelli, il suo vice, è il nuovo capo della polizia. Nel comunicare le nomine in Parlamento, Prodi ha taciuto che De Gennaro, ora indagato per istigazione e induzione a falsa testimonianza, è il responsabile politico della violenza poliziesca di Genova 2001, esercitata non contro i violenti utili a quel governo, ma contro gli inermi. Amnesty International ha definito quei fatti la maggiore violazione dei diritti umani avvenuta in Europa dal 1945. Manganelli in quei giorni era in ferie, ma il 21 luglio, prima, durante e dopo l’irruzione alla Diaz, fu comunque in costante contatto con i dirigenti imputati, come lui stesso ha riconosciuto in tribunale testimoniando nel processo Diaz, i12 maggio 2007 Ora è pubblicata una sua testimonianza del 2002 in dissenso coi modi d’agire di quei giorni. Gli imputati più alti in grado per i fatti della Diaz e di Bolzaneto - ricorda il Comitato Verità e Giustizia per Genova - sono stati tutti promossi, questori, vice-questori, dirigenti: Gilberto Caldarozzi, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi, Spartaco Mortola, Filppo Ferri, Vincenzo Canterini, Alessandro Perugini. Il vice-questore Michelangelo Fournier ha definito ora in tribunale «macelleria messicana» i pestaggi alla Diaz, rivelando per la prima volta di avervi assistito, e ha detto di avere taciuto finora per «spirito di appartenenza»: così ha mostrato, indirettamente, la consegna all’omertà e alla menzogna all’interno della polizia.
Nel programma del governo Prodi c’era la commissione parlamentare d’indagine sui fatti di Genova, ancora non decisa. Dobbiamo disperatamente rassegnarci a che i delitti del potere - quello di Genova 2001 è un delitto di Stato, senza mezzi termini - chiunque vada al potere, li nasconde con menzogne e omissioni? La polizia, che vogliamo a difesa dei cittadini, è il cuore intoccabile del potere? C’è da disperare anche di quelli a cui avevi dato qualche fiducia? Succedere a Berlusconi per nasconderne i delitti, premiarne gli esecutori, calpestando verità e giustizia, a che serve? La carriera di un dirigente vale più dei diritti dei cittadini?
Nel processo Diaz, 27 imputati su 29, anziché testimoniare e assumersi le proprie responsabilità, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. È questo il rispetto per il tribunale e per l’amministrazione della giustizia da parte di funzionari dello stato? Un ex magistrato come Violante fa di tutto per ridimensionare i fatti di Genova, ignorando che episodi di quella gravità non possono avvenire per caso, e, anche dopo la testimonianza di Fournier, continua a opporsi alla commissione parlamentare di inchiesta. Celebrare in coro la continuità del potere, a che serve? Che senso ha privilegiare su tutto, anche sulla vita dei cittadini, la continuità delle istituzioni?
* "Il Foglio" è un mensile di "alcuni cristiani torinesi" (Come si legge a sinistra del frontespizio della rivista) che ricevo con regolarità e che leggo molto volentieri. Il numero 343 che ho ricevuto questa mattina, in prima pagina, riporta l’editoriale che vi allego voleniteri.
Buona lettura.
Aldo [don Antonelli]
Genova, gli avvocati delle parti offese depositeranno le comunicazioni oggi al processo per il blitz nella scuola Un agente della polizia dopo l’irruzione: "Qui ci sono teste aperte a manganellate"
G8, le telefonate tra poliziotti e centrale
"Speriamo che muoiano tutti, 1-0 per noi"
di MARCO PREVE *
GENOVA - C’è la poliziotta che scherza sulla tragedia di Carlo Giuliani ("speriamo che muoiano tutti... tanto uno già...1 a 0 per noi.."), il funzionario che impreca per i ritardi, l’agente che non sa che accade, l’altro che racconta di teste spaccate, il capoufficio stampa di Gianni De Gennaro "dimenticato" per strada, il capo della celere distrutto dalla nottata, quello della Digos che cerca di disfarsi delle due molotov. Sono le 26 telefonate che gli avvocati delle parti offese del processo per il blitz alla Diaz nel luglio 2001 - 29 tra funzionari e agenti imputati per lesioni, falso e calunnia - depositeranno nell’udienza di oggi, l’ultima prima della pausa estiva. Le comunicazioni sono quelle che intercorrono tra i poliziotti sul campo e la centrale operativa del 113 in questura.
Ore 21.35 l’irruzione deve ancora essere decisa ma vengono inviate pattuglie per verificare la situazione attorno alla scuola che ospita la sede del Genoa Social Forum. Una funzionaria della centrale operativa (Co) parla prima con una pattuglia della Digos: "In piazza Merani ci hanno segnalato questi dieci zecconi (i manifestanti ma anche i giovani di sinistra, ndr) maledetti che mettevano i bidoni della spazzatura in mezzo alla strada...". Alle 21.57 la stessa poliziotta parla via radio con un collega (R) il tono è rilassato e scherzoso.
R: "Ma guarda che io dalle 7 di ieri e di oggi sono stato in servizio fino alle 11, quindi... ho visto tutti ’sti balordi queste zecche del cazzo... comunque...". Co: "... speriamo che muoiano tutti...". R: "Eh sei simpatica". Co: "Tanto uno già va beh e gli altri... 1-0 per noi... tanto siamo solo sul 113 e registrano tutto".
A cavallo della mezzanotte, al 113, arrivano le telefonate allarmate di residenti della zona. Ore 23.58: "... via Cesare Battisti... guardi che è un macello... "; ore 23.59: "Lo sapete che hanno attaccato i ragazzi qui della scuola Diaz".
I primi feriti. Ore 00.17, l’agente al posto di polizia dell’ospedale San Martino chiama il 113: "Ascolta ha chiamato il 118 che sta arrivando una valanga di feriti, è possibile?". 113: "Sì no, guarda io non te lo so dire...".
Non hanno idea della situazione neanche gli agenti del reparto prevenzione mandati a piantonare i feriti all’ospedale. Alle 2.36 uno di loro chiama la Centrale operativa. "Sono 25 persone, uno ha problemi al torace... l’altro lo metti in chirurgia, l’altro in neurologia..", 113: "Sono in stato d’arresto?". Il poliziotto: "No devono essere accompagnati... si vede che questi sono i protagonisti degli scontri di oggi... però chi ha proceduto io non lo so". Co: "Guarda non lo so neanche io... ".
Alla stessa ora il poliziotto al San Martino spiega al 113, che chiede se ci sono ferite da taglio: "No, no teste aperte a manganellate". Uno degli imputati il commissario Alfredo Fabbrocini parla al telefono con il 113 che chiede informazioni su quanto accaduto alla Diaz. Co: "Allora scusami esatto... quante persone avete accompagnato voi a Bolzaneto?".
F: "Guarda ti direi una bugia, non lo so... c’era un tale caos, guarda, anche perché noi non accompagnavamo, noi facevamo la scorta... comunque c’era il funzionario della Digos, il funzionario della mobile". Co: "E lì ti fermi... perché non c’era altro". F: "Non lo so se non c’era altro, c’era qualche funzionario addetto della Digos, ce n’erano almeno tre o quattro.. c’era il dottor Sgalla, c’era anche Ciccimarra che li conosco, quella là più alta in grado non so chi era, comunque ce n’erano altri... ah c’era Gratteri, c’era il dottor Gratteri... loro hanno disposto il servizio, noi abbiamo fatto manovalanza...".
All’1.23 Lorenzo Murgolo alto funzionario della questura di Bologna, indagato e poi prosciolto, si infuria con il 113 perché non arriva un pullman per il trasferimento dei "prigionieri" arrestati: "Sono il dottor Murgolo porca... perché non rispondete porca.. è tutt’oggi che non rispondete a sto ca... di 113.. ". Cinque minuti dopo è ancora lui, in sottofondo si sente la gente che urla "assassini assassini". L’operatrice del 113 è in difficoltà di fronte alla rabbia di Murgolo e chiama un funzionario ma la musica non cambia: "Ma porca... ma mi volete dire dov’è ’sto pullman..". 113: "La navetta è sul posto...". M: "Mah.. io non la vedo".
Alle 2.07 Mario Viola funzionario collaboratore di Roberto Sgalla capo ufficio stampa del capo della polizia chiama ripetutamente il 113 per avere una volante che li riporti indietro perché tutti i mezzi sono partiti "scordando" i due dirigenti. Alle 2.44 richiama e dice che è stato accompagnato dal capo della mobile "perché se aspettavamo una volante stavamo ancora lì".
Mentre attendono di essere collegati dal centralino Viola parla con dei colleghi: "Che ha detto?... ha detto che non è stata proprio una bella cosa quella che abbiamo fatto" e un altro ribatte "che se ne andasse a fan... ".
Alle 3.05 Vincenzo Canterini ("... sai che non connetto più io.. dissociato.. davvero so dissociato...") capo della celere romana parla con un suo attuale coimputato, Spartaco Mortola, ex dirigente Digos di Genova che agli agenti nel suo ufficio dice: "Oh ragazzi le molotov non lasciatemele qui...". Sono le due bottiglie che, scoprirà la procura, furono introdotte nella Diaz dagli stessi poliziotti.
* la Repubblica, 6 luglio 2007
CAPO POLIZIA INDAGATO IN INCHIESTA G8 GENOVA
ROMA - Il capo della Polizia, Gianni De Gennaro, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Genova nell’ambito dell’inchiesta sul G8. A quanto si é appreso da fonti ufficiose ma autorevoli, l’iscrizione, alcuni giorni fa, sarebbe stata fatta per l’ipotesi di reato di istigazione alla falsa testimonianza. Non si e’ appresa la data esatta dell’iscrizione nel registro degli indagati del prefetto De Gennaro, che sarebbe pero’ di poco precedente o immediatamente successiva alla deposizione del numero due del reparto mobile di Roma, Fournier, sulla ’’macelleria messicana’’ alla scuola Diaz. La decisione della magistratura genovese, comunicata con avviso di garanzia al capo della Polizia, sarebbe stata motivo dell’ accelerazione della volonta’ politica di procedere a quell’avvicendamento alla guida del Dipartimento di pubblica sicurezza che era stato ipotizzato da tempo.
G8: CAPO POLIZIA INDAGATO, GLI SVILUPPI DEL PROCESSO DIAZ
GENOVA - La svolta nel processo per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz, durante il G8, che procedeva sonnacchioso e senza colpi di scena, si e’ avuta il 13 giugno con le dichiarazioni del vicequestore romano, Michelangelo Fournier, uno dei 29 poliziotti imputati. Fournier, all’epoca del G8, era il vice di Vincenzo Canterini, comandante del Settimo Nucleo antisommossa del primo Reparto mobile di Roma, a sua volta imputato di lesioni a carico dei manifestanti insieme a otto capi squadra dello stesso reparto. ’’Fu un intervento alla cieca - racconto’ Fournier - e quello che vidi sembrava una macelleria messicana’’. E per la prima volta, dopo sei anni, Fournier confesso’ davanti ai giudici del tribunale di aver visto ’’agenti di polizia, non pero’ del mio reparto, che picchiavano manifestanti inermi’’. Le dichiarazioni di Fournier contro i ’’picchiatori della polizia’’, e prima ancora di Francesco Colucci, all’epoca questore di Genova il quale disse come teste di essersi sentito un ’’convitato di pietra’’ dopo l’arrivo a Genova del prefetto Arnaldo La Barbera, inviato dal capo della polizia De Gennaro, avrebbero determinato nella pubblica accusa la decisione di scrivere nel registro degli indagati anche il capo della polizia per istigazione alla falsa testimonianza. Dalla sinistra piu’ radicale, dopo queste dichiarazioni, vennero nuovamente avanzate le richieste di dimissioni per De Gennaro e la costituzione di una commissione d’inchiesta. Intanto in procura si discuteva se iscrivere o meno De Gennaro nel registro degli indagati.
G8: CAPO POLIZIA INDAGATO, LE DICHIARAZIONI DI COLUCCI TESTE
GENOVA - L’ex questore di Genova, Francesco Colucci, dopo le dichiarazioni rese come teste il 3 maggio scorso nel corso del processo per la sanguinosa irruzione della polizia nella scuola Diaz, venne indagato dalla Procura per falsa testimonianza. La novita’ che Colucci racconto’ in tribunale fu che a coordinare l’irruzione dei poliziotti nella scuola, era stato Lorenzo Murgolo, all’epoca del G8 vicequestore vicario di Bologna. Murgolo, secondo Colucci, venne indicato dallo stesso Ansoino Andreassi, vicecapo della polizia, quale coordinatore e responsabile dell’ordine pubblico, con funzioni anche di polizia giudiziaria. Andreassi era il dirigente di polizia con il grado piu’ alto in quei giorni a Genova, con il prefetto Arnaldo La Barbera. Alla luce di questa rivelazione, venuta a distanza di sei anni dai fatti, i difensori commentarono che il processo era acefalo, in quanto a rispondere di quei fatti erano funzionari dirigenti che non avevano la responsabilita’ dell’irruzione.
* ANSA » 2007-06-21 01:22
Genova, la testimonianza del vicequestore, uno dei 28 poliziotti imputati per la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz
G8, Fournier: "Sembrava una macelleria"
"Non dissi nulla per spirito di appartenenza" *
GENOVA - "Sembrava una macelleria messicana": è con queste parole che Michelangelo Fournier, all’epoca del G8 del 2001 a Genova vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, descrive quello che vide al momento dell’irruzione nella scuola Diaz. Una descrizione ben diversa da quella che Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, fornì inizialmente. "Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza", ha confessato oggi in aula a Genova, rispondendo alle domande del pm Francesco Cardona Albini.
Nelle dichiarazioni rese inizialmente da Fournier ai pubblici ministeri Zucca e Cardona Albini, il poliziotto aveva raccontato di aver trovato a terra persone già ferite e non pestaggi ancora in atto.
"Arrivato al primo piano dell’istituto - ha detto - ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana".
"Sono rimasto terrorizzato e basito - ha spiegato - quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: ’basta basta’ e cacciai via i poliziotti che picchiavano", ha raccontato ancora Fournier.
Sollecitato dalle domande del Pm Cardona Albini, ha aggiunto: "Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze".
Fournier ha poi raccontato di aver assistito la ragazza ferita fino all’arrivo dei militi con l’aiuto di un’altra manifestante che aveva con sè una cassetta di pronto soccorso. "Ho invitato però la giovane - ha raccontato - a non muovere la ragazza ferita perché per me la ragazza stava morendo".
Fournier però ha anche cercato di ridimensionare in parte le responsabilità dei poliziotti: "Sicuramente nella scuola c’erano persone che hanno fatto resistenza, issato barricate, per cui non mi sento di dare la patente di santità a tutti gli occupanti dell’istituto". "Non posso escludere in modo assoluto che qualche agente del mio reparto abbia picchiato", ha detto ancora.
In merito poi all’episodio del vice questore Troiani, il poliziotto che avrebbe portato le due bottiglie molotov nella scuola, come prova a carico dei 93 no global, poi arrestati, Fournier ha raccontato di aver visto il collega vicino alla camionetta con addosso il casco del Reparto Mobile di Roma. "Casco e cinturone del nostro reparto - ha spiegato - erano stati distribuiti in occasione del G8 anche ad altri reparti mobili".
* la Repubblica, 13 giugno 2007
G8 Genova, prima deposizione di Placanica
di Gaia Rau *
«Voglio far vedere che non scappo, che non ho niente da nascondere». Per la prima volta, Mario Placanica ha accettato di deporre in aula, e di ricostruire quanto accadde il 20 luglio 2001 durante gli scontri del G8 di Genova a piazza Alimonda, dove rimase ucciso Carlo Giuliani.
Il carabiniere, ora in congedo, accusato dell’omicidio di Carlo, era stato prosciolto dal Gip per «uso legittimo delle armi». Placanica non ha parlato dunque da imputato, ma da testimone, nel corso del processo a carico dei 25 no global accusati di devastazione e saccheggio durante il G8. Lo ha fatto davanti al padre di Carlo, Giuliano Giuliani, anche lui presente in aula, rispondendo alle domande di Ezio Menzione, legale di uno degli imputati, che ha richiesto la sua deposizione.
Nella sua ricostruzione, l’ex carabiniere ha affermato di essere stato ferito alla testa mentre si trovava sul Defender, il mezzo dei Carabinieri, incastrato da un cassonetto in piazza Alimonda. A quel punto, avrebbe intimato ai manifestanti di andarsene, e avrebbe poi sparato due colpi verso l’alto, senza rendersi conto di aver colpito qualcuno. Soltanto dopo, in ospedale, gli sarebbe stata comunicata la notizia della morte del giovane.
Secondo Giuliano Giuliani la ricostruzione del carabiniere sarebbe del tutto inattendibile. «Placanica ha sostenuto di aver sparato in aria, e proprio questo avrebbe dell’incredibile», spiega Giuliani, perché «c’è un fotogramma che dimostra chiaramente che gli spari sono stati fatti ad altezza d’uomo, più o meno a un metro e 45 centimetri da terra, con la pistola orizzontale al terreno». Del resto, conferma Menzione, «quando gli è stata mostrata l’immagine del braccio protratto in avanti, Placanica non è stato più capace di replicare, ed è rimasto zitto».
Per Giuliani, si tratterebbe di un’operazione di «contraffazione della realtà orchestrata dai consulenti del Pm», per nascondere il fatto che, a uccidere Carlo, non fu un proiettile d’ordinanza, un calibro 9 parabellum, ma un proiettile speciale, truccato in modo tale da avere un effetto dum dum. «Per rendere credibile la cosa hanno detto addirittura che il proiettile ha incontrato un sasso in aria, per giustificare la sua scamiciatura prima che colpisse Carlo. Un fatto che ha del ridicolo». Ora, continua Giuliani, poiché «un ausiliario con soli sei mesi di servizio non usa un proiettile speciale, questo ci porta a pensare che sia stata un’altra persona a sparare».
Placanica ha anche sostenuto che quel giorno, in piazza Alimonda, Carabinieri e Polizia «sarebbero potuti intervenire per liberare il Defender dall’assedio dei manifestanti». Sarebbe questo, per l’avvocato Menzione, il secondo punto importante della ricostruzione: «Placanica non l’aveva mai messo a verbale fino ad ora. Il fatto che le forze dell’ordine presenti in piazza potevano rendere evitabile la tragedia, e non l’hanno fatto, getta una luce inquietante sull’intera vicenda».
* l’Unità, 01.06.2007