A proposito della Nota
Quale autonomia nelle questioni antropologiche?
di Francesco D’Agostino (Avvenire, 30.03.2007)
Non è un mero stilema dialettico, quello che conclude la "Nota" del Consiglio permanente della Cei sulla famiglia, nel punto in cui si offrono le riflessioni elaborate nel testo alla coscienza di tutti. È evidente che i destinatari privilegiati della "Nota" sono i cattolici. Ma è anche evidente che il tema trattato non è confessionale. Ciò che è in gioco, quando si parla di famiglia, è il bene umano, come bene comune. Forse qualcuno (a torto) sorriderà, leggendo nel testo della "Nota": «Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna». Si tratta di una verità semplice, semplicissima, ma proprio per questo fondamentale e universale. Chi è introdotto «nel mondo complesso della società» grazie ai genitori e alla sicurezza del loro affetto possiede «un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita». E questo patrimonio «garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio» va custodito per il bene di tutti, letteralmente di tutti.
Non è necessario un grande sforzo concettuale, ma solo la capacità di una lettura senza pregiudizi, per percepire che queste considerazioni della "Nota" sono profondamente laiche, e si rivolgono quindi a tutti gli uomini di buona volontà, come peraltro è reso evidente dal fatto che mai nella "Nota" si fa richiamo alla dimensione sacramentale (essa sì confessionale) del matrimonio.
La richiesta di coerenti comportamenti politici ai politici cattolici che emerge dalla "Nota" va quindi intesa in questa chiave: non si tratta di una richiesta di fedeltà cieca ed ottusa al magistero della Chiesa; è una richiesta di fedeltà consapevole e intelligente al bene dell’uomo, della cui promozione, in questo come in ogni altro caso, i vescovi si fanno carico, nella consapevolezza che è l’unico modo per rispettare il mandato evangelico. È per questo che tale richiesta presuppone il discorso (filosofico e teologico) sulla libertà di coscienza e non lo manda affatto in soffitta, come da qualche parte si è detto.
Libertà di coscienza significa in primo luogo dovere di riflettere sulla verità delle cose, dovere di confrontarsi con tutte le istanze che possono dire parole autorevoli in materia (e quindi con l’insegnamento del magistero) e soprattutto dovere di non soggiacere al proprio narcisismo individualistico (al "nostro caro Io", come diceva Kant), ma piuttosto di usare nei confronti di se stessi la critica più rigorosa e coerente. Il principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica è sacrosanto, ma per l’appunto solo per questioni politiche, che riguardino cioè l’occasionalità di scelte essenzialmente contingenti, anche se di grande rilievo.
Sono ad es. libero, in quanto cattolico, di optare politicamente per la monarchia o la repubblica, per la destra o la sinistra, per un’economia di mercato o per un’economia dirigista, per il monopolio o per la liberalizzazione dei servizi pubblici: potremmo andare avanti con infiniti esempi. Ma non posso ricondurre a una mia pretesa autonomia la decisione su questioni antropologiche fondamentali, sulle questioni non negoziabili, che mettono in gioco l’essenza stessa della persona: la discriminazione razziale, la disponibilità della vita, la libertà religiosa (per tutti), la libertà dell’educazione dei giovani, l’attenzione per i più deboli e per gli anziani, l’identità della famiglia... queste non sono questioni politiche, ma antropologiche; possono ricevere dalle leggi dello Stato determinazioni giuridiche variabili, ma solo nel contesto di chiarissimi e inequivocabili principi fondativi.
Come non pensare che la coerenza che la "Nota" richiede ai politici (e non solo a quelli cattolici) non sia un bene politico fondamentale, anzi, forse, l’unico vero bene politico su cui tutti dovremmo convenire?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Note di premessa sul tema:
Matrimonio, omosessualità e verità umana
Se l’Occidente perde il senso del futuro
di Francesco D’Agostino (Avvenire, 27 luglio 2012)
Luigi Urru, antropologo culturale dell’Università di Milano Bicocca, mi scrive per criticare la perentorietà con la quale ho affermato, su queste colonne lo scorso 18 luglio, che «il matrimonio è uno e uno soltanto in tutte le culture e in tutti i tempi». Le cose non starebbero affatto così: basterebbe la succinta rassegna etnografica delle diverse tipologie familiari fatta da Francesco Remotti nel volume “Contro natura” per convincere tutti (me compreso) dell’esatto contrario.
Accetto di buon grado l’augurio di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo, pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.
Rimando Urru, augurandogli a mia volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru, se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere. Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo “ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle altrui come “contro natura”.
Ciò detto, resta come un punto fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali sono espressione di poche, essenziali, “vere” esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte, l’identità trans-generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto - trasformandosi in un indebito relativismo antropologico - quando cerca di dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).
E’ in tal senso che va letta l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto io, che il matrimonio «è uno e uno soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.
Che oggi sia dilagante la propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua storia, l’Occidente, minimizzando la vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti seriamente misurarci.
Francesco D’Agostino
Nuovo attacco sulle coppie di fatto del presidente Cei e arcivescovo di Genova. "Maggioranze vestite di democrazia possono diventare antidemocratiche"
Bagnasco: "Diciamo no ai Dico
come a incesto e pedofilia"
Secondo il numero uno dei vescovi difficile dire ’no’, "se cade il criterio antropologico dell’etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura" *
GENOVA - Perché dire no, oggi a forme di convivenza stabile alternative alla famiglia, ma domani alla legalizzazione dell’incesto o della pedofilia tra persone consenzienti? L’interrogativo, destinato a rinvigorire ulteriormente la polemica sui Dico, è stato posto dall’ arcivescovo di Genova e presidente della Cei, monsignor Bagnasco, durante un incontro nella serata di ieri con gli animatori della comunicazione della diocesi.
"Nel momento in cui si perde la concezione corretta autotrascendente della persona umana - ha affermato Bagnasco -, non vi è più un criterio di giudizio per valutare il bene e il male e quando viene a cadere un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male, il vero e il falso, ma l’unico criterio o il criterio dominante è il criterio dell’opinione generale, o dell’opinione pubblica, o delle maggioranze vestite di democrazia - ma che possono diventare ampiamente e gravemente antidemocratiche, o meglio violente - allora è difficile dire dei no, è difficile porre dei paletti in ordine al bene".
"Perché - ha proseguito l’arcivescovo di Genova - dire di no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia? Perché dire di no? Perché dire di no all’incesto come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? Perché dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? E via discorrendo, perchè poi bisogna avere in mente queste aberrazioni secondo il senso comune e che sono già presenti almeno come germogli iniziali".
"Oggi ci scandalizziamo - ha concluso il presidente della Cei - ma, a pensarci bene, se viene a cadere il criterio antropologico dell’etica che riguarda la natura umana, che è anzitutto un dato di natura e non di cultura, è difficile dire ’no’. Perché dire no a questo a quello o a quell’altro. Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l’uomo nella sua libertà di scelta ma nel suo dato di natura".
* la Repubblica, 31 marzo 2007
L’inganno dei valori
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/4/2007)
La nota pastorale dei vescovi sulla famiglia e sul pericolo rappresentato da leggi che regolino diritti e doveri di altre forme di convivenza ha fatto molta impressione, fuori Italia, ma per motivi diversi da quelli che immaginiamo. Non hanno colpito i toni della Chiesa, meno duri a ben vedere di quelli usati dall’ex presidente della Conferenza episcopale Ruini. Hanno colpito il timore che questi toni hanno suscitato in Italia, lo smarrimento diffusosi nella classe politica, il successo ottenuto in fin dei conti dall’intimidazione. Nel testo di Bagnasco non ci sono né anatemi, né la denuncia di comportamenti sessuali che la Chiesa continua a considerare anomali, devianti. In realtà quest’ultima non ha più bisogno della durezza per imporsi: i politici e la laicità si lasciano intimidire anche con poco, per poi farsi magari sorprendere quando lo stesso Bagnasco dice che da cosa nasce cosa, paragonando l’omosessualità a incesto e pedofilia (salvo in un secondo momento precisare di essere stato male interpretato). A tal punto sono oggi deboli politica e Stato laico, incapaci di difendersi, prede d’ogni sorta di gruppo di pressione. Affermatasi lungo i secoli, l’autonomia della politica da cultura e religione vacilla.
Quest’infermità della politica e delle leggi non è un fenomeno solo italiano. Valori e religione, cultura e morale privata occupano in gran parte dell’Occidente uno spazio centrale, privatizzando e abbassando la politica. Si vincono le elezioni su questi temi, si misura la popolarità dei politici su passioni sino a ieri intime come la paura, l’amore. Assistiamo alla restaurazione di grandi colpe, grandi peccati, e alla sete di punizione che la restaurazione promette.
Colpe sessuali soprattutto, visto che politici stampa e la stessa gerarchia ecclesiastica son divenuti indifferenti a mali ben più cruciali come l’illegalità, la mafia, il rubare, il guerreggiare senza casus belli. Vengono fabbricati anche capri espiatori per questa politica intimista: lo straniero, l’omosessuale, perfino il malato. Il benefico tabù che dai tempi di Auschwitz protegge l’ebreo non vale, singolarmente, per le altre vittime dei Lager: omosessuali, zingari, malati psichici. Per quanto concerne l’Italia non è nuovo. Negli anni 60-70 fu Pasolini, il diverso da abbattere mettendo la giustizia a servizio di quello che venne definito, da un pubblico ministero nel ’63, il comune sentire della «stragrande maggioranza degli italiani che non trova voce per esprimere le proprie idee». In uno splendido saggio su quei processi, Stefano Rodotà scrive nel ’77 che Pasolini è «la somma di tutti i vizi, e incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo».
Evocare oggi quei processi aiuta a ricordare due cose. Primo, l’aureola di normalità che non da oggi circonda la famiglia. Secondo: le forze che l’hanno aureolata, complici fascisti, democristiani e comunisti. È una verità che la sinistra dimentica, quando oggi ripesca nelle proprie tradizioni la famiglia col tempo abbandonata. La cultura familistica e puritana era potentissima, in Urss come in Europa, e in Italia sfociò nell’esecrazione di Pasolini come di Aldo Braibanti, il filosofo omosessuale condannato per plagio nel ’69. Quando Pasolini fu espulso dal Pci per «indegnità morale», nel ’49, sull’Unità apparve un commento di Ferdinando Mautino, della Federazione di Udine, in cui si denunciavano «le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanti decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Se in Italia si infranse il mito del collettivo puro e incontaminato - collettivo della famiglia o del partito, le due purezze erano congiunte - lo si deve ai radicali, non alla sinistra classica. La sinistra che oggi disseppellisce famiglia e comunitarismo non disseppellisce il meglio di sé ma il più asfissiante. Riscopre il Noi che sostituisce l’Io, il collettivo contro l’individualismo borghese. Non siamo i soli in Europa, abbiamo visto. Un analogo frantumarsi della politica avviene nella sinistra francese, oggi impersonata da quella donna fervente e ammaliata da Giovanna d’Arco che è Ségolène Royal. Anch’essa riscopre i valori della famiglia, convinta com’è che la politica sia impopolare non perché impotente, ma perché neutrale su questioni di morale privata. Nelle scorse settimane ha ascoltato Sarkozy appassionarsi per l’identità nazionale e s’è messa a rincorrerlo. Ogni famiglia, ha annunciato, dovrebbe avere in casa il tricolore, e come ai vecchi tempi appenderlo alle finestre alle feste nazionali.
La politica dei valori è un termine che rispetta poco il principio di non contraddizione - per definizione la politica governa valori discordanti - e s’è insediata in Occidente dopo l’esperienza Thatcher. Cominciò a propagandarla John Major, per fronteggiare il declino dei conservatori, quando parlò di «basic values»: una bandiera ripresa dal nuovo laburismo. L’ammirazione per Blair, a sinistra come a destra, non è casuale in Europa. Senza temere di contraddirsi, le sinistre stanno appropriandosi di slogan che in Francia appartennero alle destre di Pétain: travail-famille-patrie (lavoro-famiglia-patria) sembra quasi soppiantare fraternità libertà e uguaglianza. Il politico che propone questi valori può vincere un’elezione, ma alla lunga può perdere. Così come è perdente l’opposizione che ogni sera invita il governo a dimettersi. Quel che si ottiene è una politica che fa harakiri, incapace di legiferare con spirito laico. Di laicità si discute molto, e spesso a sproposito: viene descritta come un’ideologia dello scetticismo, del relativismo. Il cardinale Scola, a Rai 1, l’ha definita così: «Somiglia a una notte in cui le vacche son tutte nere». Questa tendenza a identificare lo Stato laico con una filosofia serve lobby e disegni di potere coltivati in nome di culture religiose. Se la laicità è una filosofia come le altre, allora tutte le filosofie, religiose o no, possono governare la città, imponendo o impedendo leggi. In Germania, nei giorni scorsi, si è giunti a una vera perversione. Un giudice ha negato il divorzio rapido a una giovane marocchina picchiata dal marito musulmano, perché sposandolo doveva sapere che il Corano concede il «diritto alla punizione corporale». Le gerarchie cattoliche rischiano derive non diverse, quando chiedono che una legge sia fatta o non fatta su indicazione della Cei.
La laicità non è un’ideologia. È un metodo che consente a individui di diversa cultura, a credenti e non credenti, di convivere senza distruggersi. È lo strumento che permette di separare la politica da fede e cultura, e di evitare che la sovranità sia spartita tra i due poteri, temporale e spirituale. La diatriba è antica. Nei primi del ’600, frate Paolo Sarpi considerava tale spartizione fonte di temibili turbolenze. Difendendo la Repubblica veneziana dalle pressioni del Vaticano scriveva che non era possibile l’esistenza di due poteri eguali e indipendenti, e che per la conservazione della «quiete» - oltre che per rispettare la parola di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo» - occorreva che leggi e politica spettassero solo al Principe. Era colpa della politica, aver delegato alla Chiesa sovranità che non le spettavano. Era una forma di superstizione, e la Chiesa che ne profittava era accusata di petulanza.
Questa tradizione non è mai venuta meno nel cristianesimo. Jacques Maritain parlava di «principi immutabili» e della superiorità spirituale della Chiesa sul Principe, ma sosteneva che la realizzazione dei valori doveva tener conto delle circostanze e dell’autonomia acquistata dalla società politica, attenendosi al principio pluralistico e a quello del minor male. Antonio Rosmini affermava che i privilegi erano una piaga cristiana, e che una Chiesa con meno privilegi era una Chiesa più libera dallo Stato. La sinistra riscopre la famiglia, Ségolène e Sarkozy rispolverano l’identità nazionale. In realtà non s’appropriano di valori trascurati o rubati. Si adeguano a quel che immaginano essere una volontà generale, presupponendo che essa sia bene interpretata da Le Pen, di cui tutti i candidati sono mimetici figli: Ségolène quando esalta il tricolore; Sarkozy quando elogia l’identità nazionale, il centrista Bayrou quando fa sapere che la virilità è quel che sua moglie ammira in lui.
I valori diventano così qualcosa di astratto: si fanno perfino guerre, in nome di nobili invenzioni. Maritain, ancora, diceva che soggetti di diritto dovrebbero essere non entità astratte come «verità» o «errore» ma le persone umane, prese individualmente e collettivamente. Altrimenti la realtà evapora, la persona concreta si fa invisibile. Sono invisibili le unioni alternative, in aumento ovunque perché la famiglia è in frantumi. È invisibile l’Europa, quest’insieme di persone che cercano di recuperare la sovranità perduta dalle patrie. Da queste cecità scaturisce la strategia dei Valori. L’astratto furore si presenta come nobile, ma abbassando il Principe corrompe sia la politica sia i valori.
I cammelli al galoppo nella cruna dell’ago
di Eugenio Scalfari (“la Repubblica”, 13 maggio 2007)
Il familismo è la base della società italiana, così ha scritto ieri su questo giornale Francesco Merlo e tutti concordiamo con lui. Lo è nel bene e nel male. Tutti siamo figli di mamma - si dice e si sa - e di mamma ce n’è una sola; a lei si ricorre anche nell’età adulta per ritrovare serenità, conforto, ristoro ed anche, con l’avanzare degli anni, per proteggerla e accompagnarla affinché non si senta sola in vista dell’ultimo appuntamento.
Familismo non è necessariamente sinonimo di famiglia. Il primo è un modo d’essere e di sentire, la seconda è un’istituzione convalidata da un contratto che per i cattolici realizza anche un sacramento. Spesso però quei due termini coincidono ibridandosi reciprocamente. Quando questa compenetrazione avviene la microistituzione familiare si chiude a riccio, esclude e non include, rischiando di diventare omertosa e di far prevalere la difesa dei propri confini sulla solidarietà civica e perfino sull’amore del prossimo.
Le società profondamente cristiane - se ancora ce ne sono - conoscono questo contrasto che ha le sue radici addirittura nella predicazione di Gesù di Nazareth. Dopo aver incitato i discepoli e il popolo che lo seguiva all’amore e alla carità, egli aggiunse: «Voi credete che io sia venuto a portare la pace ma io ho portato la spada. Io metterò il padre contro il figlio, la figlia contro la madre, il fratello contro il fratello. Chi verrà con me abbandonerà la famiglia. La mia famiglia non sono mio padre e mia madre ma siete voi che credete in me».
È un passo dei Vangeli molto controverso che ha una sola interpretazione possibile: Gesù pone se stesso come simbolo di carità e amor del prossimo e vede i legami familiari e l’egoismo di gruppo che li può intridere come una barriera da abbattere se il cristiano vuole aprirsi al comandamento dell’amore del prossimo.In questa visione la famiglia, luogo di amore, non può che essere aperta e inclusiva. Se non lo è il Maestro esorta i suoi seguaci ad abbattere il muro che la protegge e ad aprire le braccia e il cuore al Dio della misericordia, della tenerezza, del bene.
Noi laici, ma non ghibellini, vorremmo che questa fosse la visione della famiglia che ha radunato ieri, in piazza San Giovanni, una gran folla di persone per iniziativa di molte associazioni cattoliche, dei preti e dei Vescovi italiani. I promotori di quel raduno hanno sostenuto che proprio questa è stata la sua motivazione. E poiché l’istituzione familiare vive nel nostro tempo e deve sopperire ai bisogni e alle sfide quotidiane, gli obiettivi concreti della manifestazione sono stati anche quelli di premere sul governo affinché delinei una politica di sostegno economico alle famiglie per renderle più sicure del loro futuro e indurle anche per questa via a crescere e a moltiplicarsi.
Ebbene, spiace dirlo ma le cose ieri pomeriggio non sono andate così. Né era possibile - ammettetelo - che quella moltitudine non fosse strumentalizzata. Basta aver visto con quale entusiasmo sono stati accolti prima Fini e poi Berlusconi. Basta aver ascoltato le parole pronunciate da quest’ultimo un minuto prima di fare la sua comparsa e incassare l’ovazione che gli è stata tributata dalla piazza di San Giovanni.
«Io sono qui» ha detto «per testimoniare che i veri cattolici non possono stare a sinistra; non possono stare con i comunisti che hanno ridotto la Chiesa al silenzio e ancora vorrebbero ridurre la religione a un fatto privato. Io sono qui per far sì che la Chiesa possa liberamente parlare e affermare la propria verità e i propri valori che sono anche i nostri».
E così é stato servito il buon Pezzotta, organizzatore ufficiale del raduno, affannatosi per settimane a rassicurare che nessun colore politico avrebbe prevalso in quella piazza e in quella moltitudine, che cattolici e non cattolici avrebbero potuto e dovuto affratellarsi in nome della famiglia, dei suoi diritti e dei suoi doveri.
Se Pezzotta - come ci ostiniamo a sperare per lui - è un uomo di buona fede, dovrebbe aver passato una pessima nottata nel constatare che i suoi sforzi sono stati ridicolizzati dalla realtà. Oppure - se si rallegrerà per quanto è accaduto - dovremo concludere che ha tentato di prendere in giro gli italiani che la pensano diversamente dalle piazzate berlusconiane.
Che Pezzotta sia un ingenuo si può anche concedere, ma sono altrettanto ingenui i vescovi della Conferenza episcopale? E il papa che anche dal Brasile ha seguito con attenta intenzione la manifestazione romana? (Apprendo ora dal telegiornale che Pezzotta con aria felice ha detto: «Il papa sarà contento di questa giornata».Tanto ingenuo dunque non è).
In realtà il Vaticano e le diocesi italiane stanno assordando da anni gli italiani con lo sventolio dei loro interessi e dei valori usati per ricoprirli. Hanno trasformato la Chiesa italiana nella più potente delle "lobby". Hanno voluto il raduno di Roma per mettere in scena una prova di forza politica e muscolare. Hanno attinto a piene mani ai fondi provenienti dall’8 per mille versato nelle loro casse dallo Stato italiano. Stanno risuscitando il clericalismo e l’anticlericalismo. Sono entrati a gamba tesa nell’agone politico a dispetto della lettera e dello spirito del Concordato.
Questo è accaduto ieri. Non vorremmo usare parole gravi ma la giornata di ieri ha indebolito la democrazia italiana. Non perché tanta gente si sia riunita per far sentire la sua adesione ai valori e agli interessi delle famiglie; ma perché quella stessa gente è stata manipolata dalle destre e dalla Chiesa in perfetta sintonia tra loro. Trono e altare, come ai vecchi tempi.
Vengono in mente i farisei denunciati da Gesù come sepolcri imbiancati e viene in mente anche la biografia privata di molti capi della destra a cominciare dal suo leader massimo.
Ho già detto: non siamo ghibellini. Ma sentiamo che forze potenti ci spingono a diventarlo. Siamo contro chi volesse ridurre la Chiesa al silenzio, anche se non c’ è nessuno che lo voglia. Ma siamo soprattutto contro chi sta riducendo al silenzio i laici e facendo a pezzi la laicità.
* * *
Da questo punto di vista bene hanno fatto i radicali e quanti ne hanno condiviso l’iniziativa a promuovere il raduno del "coraggio laico" a piazza Navona. La sproporzione delle forze in campo era evidente e proprio per questo è stata usata la parola coraggio.
Il grosso del centrosinistra era assente. In ascolto, hanno detto i suoi leader. Ebbene, ora hanno ascoltato. Di incoraggiamenti per una politica di sostegno finanziario alle famiglie non c’era bisogno: una parte delle scarse risorse disponibili è già stata impegnata dal governo in quella direzione; altre provvidenze saranno decise nel convegno di Firenze promosso dal governo e Rosy Bindi.
Resta l’accoppiata tra la Chiesa italiana e la destra, fragorosamente espressa da mesi e culminata nella giornata di ieri. Si spera che i leader del Partito democratico abbiano ascoltato con profitto e che almeno un briciolo di coraggio laico sia penetrato nelle loro menti.
Gesù di Nazareth rovesciò i tavoli dei mercanti e li scacciò a frustate dal Tempio. Gesù di Nazareth predicava la pace ma sapeva usare la spada quando fosse necessario.
Ha detto tante cose Gesù di Nazareth. Forse i laici dovrebbero promuovere un raduno di massa intitolato al suo nome per vedere fino a che punto la Chiesa di oggi abbia ancora il diritto di usarlo e non parli invece sempre di più con lingua biforcuta. Per vedere se il ritorno al nuovo temporalismo sia un fatto positivo o negativo per il sentimento religioso. Per vedere se i papisti di oggi lottino ancora affinché gli ultimi siano i primi. Infine per capire se i cammelli riescano a passare nella cruna dell’ago o se quella cruna non sia diventata una ampia autostrada dove i cammelli transitano al galoppo con tutto il carico delle loro ricche mercanzie.
Sì, bisognerebbe proprio farlo un raduno di massa su Gesù di Nazareth. Non credo che il trono e l’altare uniti insieme siano di suo gusto, figlio dell’Uomo o figlio di Dio che lo si voglia considerare.