La politica debole e l’offensiva della Chiesa
di Stefano Rodotà (La Repubblica, 08.02.2007)
Brutte giornate nel Parlamento, e dintorni. E allora bisogna guardare più a fondo, e più lontano, nel considerare il modo in cui oggi si discute e si decide su questioni essenziali e drammatiche dell’esistenza di ciascuno di noi - come morire e come organizzare le relazioni affettive, come procreare e come dare il cognome ai figli e come riconoscere pienezza di diritti a quelli nati fuori dal matrimonio. Sono in campo in prima persona, ed è un fatto inedito nella storia repubblicana, tutte le grandi istituzioni: Presidente della Repubblica, Governo, Parlamento, Corte costituzionale, magistratura. E la Chiesa cattolica, sempre più presente. E una opinione pubblica sempre più sondata e sempre meno informata. Vale la pena di seguire le mosse di alcuni di questi protagonisti.
Dice il Cardinal Ruini: è «norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato per legge». Dice il Presidente della Corte di Cassazione: «Appare urgente e indispensabile un intervento del legislatore che affronti e chiarisca i gravi problemi che sempre più frequentemente si presentano al giurista e al medico». Chi ha ragione?
Nessuno dei due. Intendiamoci: nelle materie che interessano la vita è sempre necessario un uso sobrio e prudente della legge e i giudici devono avere forti principi di riferimento per le loro decisioni. Ma la sobrietà, o addirittura l’assenza, dell’intervento legislativo significa cose radicalmente diverse a seconda che manifesti rispetto della libertà individuale o, al contrario, intenzione di mantenere vincoli costrittivi, volontà di girare la testa dall’altra parte di fronte alle dinamiche sociali ed alle difficoltà dell’esistenza. Il legislatore auspicato da Ruini non avrebbe dovuto votare la legge sul divorzio, quella sull’interruzione di gravidanza e neppure quella pericolosa riforma del diritto di famiglia del 1975, a lungo avversata da ambienti cattolici perché abbandonava il modello gerarchico e riconosceva i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio (e anche allora si impugnava una interpretazione gretta della nozione di famiglia). Oggi siamo di fronte ad una situazione analoga. Affrontando con poche norme le questioni delle unioni di fatto e del diritto di morire con dignità, il legislatore non invade indebitamente la sfera delle decisioni private. Rimuove ostacoli ormai irragionevoli, sviluppa logiche già ben visibili nel nostro sistema costituzionale, non impone nulla a nessuno e mette ciascuno nella condizione di esercitare responsabilmente la propria libertà.
Perché, a questo punto, non si può dar ragione neppure al Presidente della Cassazione? Perché nelle sue parole si scorge anche un ritrarsi da responsabilità che sono proprie della magistratura, un riflesso dell’atteggiamento gravemente rinunciatario che si è manifestato nelle decisioni riguardanti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Due casi che i giudici avrebbero potuto risolvere seguendo in particolare la linea tracciata dagli articoli della Costituzione sulla libertà personale e sul diritto alla salute (e che era stata indicata con precisione da un parere della Procura di Roma).
Sembra quasi che i giudici, messi di fronte a temi assai impegnativi e che dividono la società, abbiano scelto di chiamarsi fuori, di lasciare che sia solo la politica ad affrontare e risolvere questioni che pure li investono direttamente. Questo accade perché, provati da un lungo braccio di ferro con una politica che voleva mortificarne indipendenza ed autonomia, hanno deciso di prendersi una rivincita e di lasciarla sola e nuda, indicandola come unica responsabile delle difficoltà presenti? Ma questa sarebbe davvero una ingiustificata reazione corporativa e il segno di una regressione culturale che impedisce loro di cogliere quale sia oggi il compito istituzionale della magistratura, senza che possa essere accusata di indebite invasioni di campo, di esercitare una illegittima supplenza.
Commentando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è proprio messo in evidenza che ormai spetta sempre a questi giudici "risolvere le più gravi e difficili questioni di diritto civile poste dal cambiamento dei costumi, dalla scienza e dalla tecnica". Questo non è l’effetto di distrazioni o ritardi del legislatore, ma del fatto che la vita propone ormai una molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre variabili, che nessuna legge può cogliere e disciplinare nella loro singolarità, in un inseguimento continuo e impossibile. Ad essa, invece, spetta il compito di fissare i principi di base, che l’intervento del giudice adatterà poi ai casi concreti.
Questo quadro di principi è, e non può che essere, quello della Costituzione italiana, integrato da indicazioni che vengono da documenti internazionali, in primo luogo dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ed è proprio su questo punto che si sta svolgendo il conflitto. Si leggono interpretazioni di norme costituzionali contrastanti con la loro stessa lettera o comunque incompatibili con il sistema complessivo di cui fanno parte. Ma sempre più spesso si va oltre, e si parla e si scrive come se la Costituzione non esistesse. Si fa riferimento a valori, rispettabilissimi, ma che non trovano alcun riscontro nel testo costituzionale, o addirittura contrastano con esso. Da tempo sottolineo che è in atto un tentativo, strisciante ma visibilissimo, di sostituire al quadro dei valori costituzionali un quadro del tutto diverso, portando così a compimento una impropria e inammissibile revisione costituzionale.
Qui è il limite dei dialoghi possibili intorno ai temi in discussione. I principi costituzionali non possono essere revocati in dubbio contrapponendo ad essi altri valori "non negoziabili", che nella religione cattolica troverebbero un fondamento così forte da imporli ad ogni altro. Gustavo Zagrebelsky ha più volte messo in evidenza come ciò apra un conflitto insanabile con la stessa democrazia. E, nella concretezza della vicenda italiana, ciò pone il problema della linea che stanno seguendo le gerarchie ecclesiastiche. Un problema che non si affronta e non si risolve ripetendo, come peraltro è ovvio, che la Chiesa deve poter esercitare pienamente il suo magistero spirituale. Da anni sappiamo che la Chiesa, venuta meno la mediazione svolta dalla Dc, agisce ormai in presa diretta sulla politica italiana. Lo si ripete in questi giorni. Ma questo vuol dire che essa si comporta come un soggetto politico tra gli altri, sia pure con il peso grandissimo della sua storia, e che come tale deve essere considerata. Entrando direttamente nella politica, la Chiesa "relativizza" sé e i suoi valori, non può pretendere trattamenti privilegiati, che è pretesa autoritaria, incompatibile appunto con la democrazia.
Nella debolezza della situazione politica italiana, nelle sue fragilità e convenienze, la pressione della Chiesa si sta manifestando con una intensità sconosciuta quando, in Francia o in Belgio o in Germania o in Spagna o in Olanda, sono state affrontate, e in modo assai più radicale, analoghe questioni intorno alla vita. La debole Italia più agevole terreno di conquista? Una politica che porta a ritenere inammissibile nel "cortile di casa" quel che è tollerato quando Roma è più lontana?
Inquieta, a questo punto, la quasi totale assenza di un mondo cattolico che conosciamo portatore di un’altra cultura che, ad esempio, si fa sentire con chiarezza nelle questioni riguardanti la pace. Una dura ortodossia avvolge i temi "eticamente sensibili". Nessuno è autorizzato ad avviare una discussione aperta, dunque l’unica via per un vero dialogo, fosse anche il cardinal Martini. La dura reprimenda che gli è stata rivolta, con un’accusa neppure velata di "deviazionismo", aveva evidentemente anche l’obiettivo di impedire che si aprisse una falla, di intimidire chi avesse voluto seguirne l’esempio. Anche nel silenzio di quei cattolici, come nelle aggressività di altri e nel disorientamento di troppa sinistra, scorgiamo la conferma di una debolezza politica e culturale che non autorizza troppe speranze.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Unioni civili, ingerenza vaticana il Papa si scaglia contro la legge Non tutti i vescovi italiani d’accordo *
Il giorno dopo il varo dell’accordo sui diritti individuali dei conviventi a Palazzo Chigi, Papa Josef Ratzinger parla al nuovo ambasciatore colombiano e non nasconde la sua «grande preoccupazione» per l’avanzata di leggi contro la famiglia. Il riferimento è chiaro: a Palazzo Chigi e alla legge sui "Dico" in arrivo a fine mese in Italia. E il Pontefice non si limita a una valutazione ex post, ma aggiunge: «È necessario appellarsi alla responsabilità dei laici presenti negli organi legislativi, nel Governo e nell’amministrazione della giustizia, affinché le leggi esprimano sempre i principi e i valori che sono conformi al diritto naturale e che promuovano l’autentico bene comune». È una intromissione inusitata di Benedetto XVI negli affari di un altro Stato, un appello ai parlamentari cattolici perché boicottino la trasformazione il legge del decreto che regola le unioni civili, che non porta più il nome di Pacs, ma quello di "Dico".
Incontrando il nuovo ambasciatore della Colombia, Juan Gomez Martinez, il pontefice ha preso spunto per esprimere tutto il suo dissenso contro il nuovo ddl Bindi-Pollastrini. «Come Pastore della Chiesa universale - ha detto - non posso non esprimere a vostra eccellenza la mia preoccupazione per le leggi che riguardano questioni molto delicate come la trasmissione della vita, la malattia, l’identità della famiglia e il rispetto del matrimonio». Benedetto XVI ha sottolineato che «alla luce della ragione naturale e dei principi morali e spirituali che provengono dal Vangelo la Chiesa cattolica proseguirà a proclamare senza cessare la inalienabile grandezza della dignità umana».
La linea di ingerenza del Vaticano nella politica italiana è seguito anche da tutti gli organi cattolici. Il quotidiano dei vescovi "Avvenire" dopo il "non possumus" di qualche giorno fa non dedica alla questione nessun editoriale, ma solo un "taglio medio" in prima e articoli di cronaca nella pagine interne. Nel contempo però l’Osservatore romano - organo della Santa Sede - titola a tutta pagina: «La famiglia ferita: arrivano i "Dico"» e insinua che il governo non voglia porre la fiducia, nel prossimo dibattito parlamentare, per non legare «le proprie sorti ai "Dico"». Ma avverte come «per il momento non ci siano le condizioni per una intesa bipartisan» su questo tema.
L’attacco più duro arriva dai vescovi italiani tramite l’agenzia della Cei, il Servizio d’informazione religiosa, in sigla Sir. I «Dico» - sostiene la nota settimanale dell’agenzia - presentano «problemi più gravi di quelli che ci si ripromette di affrontare». «Si parla di "Dico" - continua - ma si pensa a "Pacs", e soprattutto si prefigura una escalation legislativa in senso in questo senso».
* l’Unità, Pubblicato il: 09.02.07, Modificato il: 09.02.07 alle ore 17.13
Distribuita da stasera a Roma e Firenze, ha una presentazione del cardinal Ruini. Nel testo: non confondere "le altre forme di convivenza" con il matrimonio
Nelle parrocchie una lettera contro i Dico. "Famiglia privatizzata, senza rilevanza sociale"
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano continua la sua offensiva contro il ddl sui Dico. Da stasera infatti, in tutte le parrocchie di Roma e Firenze verranno distribuiti ai fedeli volantini che riproducono una letteradel cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, a difesa dell’istituto familiare. La lettera è accompagnata da una breve presentazione del cardinale vicario Camillo Ruini.
"La famiglia - si legge nel testo Ruini - è da tempo al centro dell’attenzione pastorale della diocesi di Roma oltre che di un ampio confronto sociale e culturale. Ho ritenuto perciò di fare cosa utile offrendo alle famiglie romane, tramite i sacerdoti impegnati nelle benedizioni pasquali, un testo scritto dal cardinale Ennio Antonelli per la diocesi di Firenze".
Nella lettera, scritta da Antonelli per i suoi parrocchiani, si legge che "la famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia".
E ancora: "La famiglia fondata sul matrimonio è non solo una comunità di affetti, ma anche un’istituzione di interesse pubblico; e come tale va riconosciuta, tutelata, sostenuta e valorizzata dalle pubbliche autorità che hanno la responsabilità specifica di promuovere il bene comune. Non vanno confuse con la famiglia altre forme di convivenza, che non comportano l’assunzione degli stessi impegni e doveri nei confronti della società e si configurano piuttosto come un rapporto privato tra individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di chiedere un riconoscimento giuridico. Le esigenze private possono trovare risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone".
Il prossimo Consiglio permanente della Cei programmato per il 26 marzo discuterà la Nota "impegnativa" per i cattolici italiani sull’atteggiamento da tenere nei confronti del ddl sui Dico.
* la Repubblica, 17 marzo 2007
Il segretario della Cei parla al convegno sulle Prospettive dei cattolici.
E ai media dice: "La stampa sbaglia quando considera la Chiesa una parte politica"
Betori: "Famiglia e matrimonio
unica salvezza per il futuro dell’Italia" *
ROMA - La famiglia fondata sul matrimonio "unica garanzia per il futuro dell’Italia". La Cei torna all’attacco su famiglia, diritti e dintorni. Con una premessa: "I media sbagliano - sottolinea monsignor Giuseppe Betori segretario della Conferenza dei vescovi - quando considerano la Chiesa una parte politica collocandola in uno schieramento politico". Anche se è stata proprio la Cei a rivolgersi direttamente ai politici invitandoli a non votare i Dico.
Betori ha parlato concludendo il convegno sulle Prospettive dei cattolici iniziato il 26 aprile e a cui hanno partecipato trecento delegati da tutta Italia. "La famiglia fondata sul matrimonio - ha detto - non è semplicemente il frutto di un contratto, ma è simbolo del passaggio tra le generazioni. Una coppia di sposi riassume nella propria unione la storia di due famiglie da cui ha preso vita, in vista di una nuova generazione: solo in quest’ottica è possibile immaginare un futuro per un popolo".
Un intervento lungo, quello di Betori, in cui ha sottolineato la necessità che la Chiesa italiana sappia parlare in una società di "cambiamento", un cambiamento che "non è solo questione di moda, ma segna in modo profondo la nostra cultura e la fase attuale della nostra civiltà".
La gente, credenti e non, desidera essere messa a contatto "con un nutrimento solido, con una parola che sia proposta come sensata e degna di fiducia, che non rifiuta e non teme l’argomentazione, che lasci trasparire una verità che sempre la sovrasta e la trascende e che, tuttavia, si mostra e si dona per arricchire e orientare le nostre vite".
A proposito dei stampa e media, Betori ha insistito sul fatto che il circuito dell’informazione "e la secolarizzazione stravolgono il fatto religioso sia che si tratti di cristianesimo che di islam". Il segretario della Cei parla di "atteggiamento bifronte dei commentatori alle prese con la religione, a seconda se questa sia caratterizzata come cristiana o islamica: nel primo caso si pensa ad un’opinione che non ha o non deve avere conseguenze pubbliche; nel secondo si pensa a qualcosa che fanaticamente tiene insieme pubblico e privato, politica e religione".
"In entrambi i casi - ha aggiunto - è l’ideologia della secolarizzazione a stravolgere il fatto religioso, trasformato in religione secolarizzata (e quindi innocua) oppure in fanatismo (necessariamente sanguinario). Ma nè il cristianesimo nè l’islam - ha concluso - possono essere capiti a partire dalla secolarizzazione"
* la Repubblica, 28 aprile 2007