MGF - Africa
Vagina, Vagina, Vagina!
di Sally Blakemore (Trad. M.G. Di Rienzo) *
All’inizio del febbraio scorso, ho partecipato alla Conferenza dei movimenti di base che lottano per porre fine alle mutilazioni genitali femminili (MGF) in Kenya. Con me c’era Cecile Litworth, direttrice esecutiva della Campagna mondiale per il Giorno-V.
(“I monologhi della vagina” fu messo in scena dall’autrice Eve Ensler per la prima volta a New York, oltre 10 anni fa, e da allora è stato riproposto in tutto il mondo da attrici vincitrici di Oscar, studentesse nei campus e organizzazioni di attiviste. Il Giorno-V, come l’evento è stato chiamato, è parte di Mondo-V, un movimento globale che ha lo scopo di fermare la violenza contro donne e ragazze. Nel 1997, Eve Ensler si incontrò con un gruppo di femministe e da quell’incontro prese forma l’idea di tenere dei Giorni-V. La messa in scena dei Monologhi aiuta a raccogliere fondi per i gruppi locali che lavorano per fermare ogni tipo di violenza verso le donne ed a destare consapevolezza sui diritti delle donne. Ndt.)
Era la seconda volta, per me. Nel 2005, mentre lavoravo come reporter per la rivista “Mothering”, partecipai alla Conferenza africana dei movimenti di base che lottano contro le MGF assieme a Candace Walsh della rivista suddetta.
Kumusha, una band africana marimba di dieci membri con cui ho suonato a Santa Fè per cinque anni, era allora il mio unico legame con la cultura africana. Cominciai a fare ricerche sulla pratica delle mutilazioni, e scoprii che essa risale a circa 5.000 anni or sono, ed è legata alla convinzione animistica che le donne possano autofecondarsi perché, alla nascita, i loro genitali sono percepiti come se nascondessero all’interno un piccolo pene e dei testicoli.
Grazie a questo antico filtro patriarcale, l’intera vagina, la vulva, la clitoride e le labbra sono rimosse, tagliate sino all’osso pubico e ricucite in modo da lasciare un forellino delle dimensioni di un filo di paglia da cui far uscire l’urina ed il flusso mestruale. Per avere rapporti sessuali, le donne vengono riaperte con un coltello o con un corno di animale, di modo da permettere al pene di entrare. Le donne, ovviamente, non provano alcun piacere durante l’atto sessuale. Se non lo avete ancora visto, andate a vedere il film Molaadè, che racconta l’intera storia dell’attivismo nato attorno a questa istanza di diritto umano.
Agnes Pareyio, venticinque anni fa, si mise in moto per far sì che nessun’altra bimba venisse mutilata. Lei lo è stata, ed in maniera molto brutta e profonda, ed ha partorito quattro figli all’interno di un matrimonio forzato. Il parto, in queste condizioni, diventa un problema orribile. Il tessuto cicatriziale che si forma nell’area genitale è duro e spesso, e accade che durante il travaglio il nascituro sia forzato ad uscire di lato, distruggendo la vescica nel processo. Molte donne vivono nei villaggi delle “abbandonate”, dopo questa esperienza, perché non sono più in grado di controllare gli intestini e l’urina.
Incontrare le ragazze alla Casa-rifugio (Tasaru Rescue House) di Agnes mi ha coinvolta in modo molto intenso, e decisi che avrei lottato al loro fianco quando una di esse mi raccontò come si sentisse tradita da suo padre, che l’aveva letteralmente buttata fuori dal villaggio a causa della sua scelta di mantenere i propri genitali intatti e di voler avere un’istruzione. “L’istruzione prima di tutto” è il motto delle attiviste, da queste parti.
Agnes allora mi disse: “Quando scopri che la tua cultura ti tradisce a causa del tuo genere capisci molte altre cose, e ciò lascia un’apertura al perdono e alla riconciliazione. E quando sei un’attivista di base ti sembra che il tempo scorra molto lentamente. Devi essere amichevole, paziente e dura come una roccia con i poteri con cui ti confronti. Devi sensibilizzare gli uomini dei villaggi, e mostrare loro quanto dolore si accompagna ad una vecchia e inutile pratica tradizionale.”
Quando quest’anno, alla Conferenza, ho incontrato di nuovo la giovinetta che mi aveva commosso con il suo coraggio, l’ho trovata felice e sicura di sé. Ha terminato gli studi alla Casa-rifugio ed ora frequenta il liceo a Narok, in Kenya, protetta da una nuova legge sui diritti umani che è stata votata dal governo grazie alle pressioni delle attiviste. Ora una ragazza può scegliere di studiare, invece di piegarsi ad un matrimonio imposto.
Alla Conferenza, Cecile Lipworth ha illustrato il concetto di Giorno-V e la rete internazionale che vi ruota attorno. Ha invitato le rappresentanti dei movimenti ad organizzare un Giorno-V di beneficenza nei loro paesi (19 complessivamente) ed ha concluso con l’invito a dire VAGINE, VAGINE, VAGINE in tutti i dialetti e le lingue presenti nella stanza. A momenti crollava la casa! La maggioranza del pubblico era di fede musulmana, e alcuni dei pochi uomini in sala hanno detto che a loro è proibito usare quella parola. Un guerriero Masai, sposato ad una docente inglese di Cambridge, si è spinto a dire: “Se dio avesse voluto che noi dicessimo quella parola, egli (egli, ovviamente, ndt.) l’avrebbe posta (la vagina) nella testa delle donne, e non l’avrebbe nascosta in mezzo alle loro gambe.”
Ma nessuno alla Conferenza gli ha dato ascolto. Le donne, musulmane o no, erano tutte in piedi e urlavano VAGINE, VAGINE, VAGINE, con quanto fiato avevano. Le attiviste di Gambia ed Egitto si sono poi impegnate a tenere il Giorno-V nei loro paesi.
Durante il viaggio di ritorno, ero in un furgone aperto zeppo di donne orgogliose che cantavano sull’aria della grande canzone di pace di John Lennon: “Tutto quel che stiamo dicendo è: date alle vagine una possibilità”. Gli uomini che ci guardavano passare erano totalmente basiti. E’ stato grandioso.
Le donne africane sono state chiare con noi: hanno bisogno di risorse. Hanno salvato decine di migliaia di bambine e ragazze, facendo approvare leggi e restando ferme nel loro convincimento che è possibile cambiare questo cruento rito di passaggio e sostituirvene altri, che includano l’istruzione delle fanciulle. Sono state le donne africane ad aprirmi gli occhi su quanto è tossica la cultura occidentale: le tecniche predatorie del mercato per adescare le ragazze quali consumatrici; la castrazione delle loro menti anziché dei loro genitali, che ha avuto ed avrà un effetto a lungo termine sulle nostre lotte.
Le donne africane erano oltraggiate all’idea che si insegni alle ragazze che la menopausa è una malattia da trattare ad estrogeni e impianti di silicone, e le fa urlare l’idea che le donne si rifacciano il viso o i genitali per essere più “appetibili” sessualmente per gli uomini. E’ la stessa idea di qui, mi hanno detto, la definizione patriarcale di ciò che una donna dev’essere: bellezza e sesso per il piacere degli uomini.
Queste donne africane sono un meraviglioso esempio per noi. Mi hanno mostrato con quanto vero coraggio si può dire “No”. Se una donna è in grado di dire “No” ad un uomo o ad una cultura che la sta forzando a far qualcosa che lei non vuole, questo è il primo passo. La violenza contro donne e bambine/i è tenuta nascosta in tutte le culture. Negli Usa gli incesti sono in aumento, e di recente ho scoperto che i chirurghi plastici offrono “passerine perfette” e “design vaginale” come soluzione per avere relazioni di lunga durata con gli uomini i quali, sostengono i chirurghi, hanno “più bisogno di sesso di quanto ne abbiano le donne”... Come dicevo, le donne africane ci hanno chiesto aiuto.
Al Fondo per porre fine alle MGF servono dieci milioni di dollari per costruire Case-rifugio in diciannove paesi africani. Potete dare il vostro contributo tramite l’ong “Equality Now” (www.equalitynow.org ). Avere fiducia nei nostri valori di donne in questo mondo, e dare ad ogni preziosa bambina la possibilità di andare a scuola e di crescere in modo naturale, sono cose che miglioreranno la vita di tutti.
*
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione. Sally Blakemore è direttrice creativa dell’Arty Projects Studio Ltd., produce e disegna libri da più di dieci anni lavorando per numerose case editrici.
*IL DIALOGO, Sabato, 24 marzo 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
G8 Conferenza Internazionale sulla violenza contro le donne.
Le mutilazioni genitali maschili *
Gli sforzi compiuti a livello internazionale per bandire le mutilazioni genitali femminili hanno richiamato l’attenzione di molti studiosi sul tema della circoncisione maschile.
Il rito della circoncisione maschile è molto più diffuso di quello delle mutilazioni genitali femminili: esso è praticato nell’ambito dell’ebraismo, dell’islamismo, da numerose tribù africane, dagli aborigeni australiani e polinesiani. La circoncisione maschile, inoltre, è considerata in molti ospedali un’operazione di routine, indipendentemente da ragioni religiose, soprattutto negli Stati Uniti d’America.
L’uso terapeutico della circoncisione come trattamento per la cura o la prevenzione di malattie veneree si è affermato nel corso dell’Ottocento, quando quest’operazione chirurgica veniva considerata una misura valida anche in casi come la masturbazione, il priapismo, la fimosi, la sterilità, ecc. Secondo Robert Darby, tra gli storici della medicina è da tempo noto che la circoncisione maschile e quella femminile furono introdotte nel corso del XIX secolo, soprattutto nei paesi anglosassoni, come misure per combattere la masturbazione.
Nella comunità medico-scientifica si è negli ultimi tempi aperto un acceso dibattito, all’interno del quale si confrontano, da un lato, coloro che ne suggeriscono l’utilità, come misura preventiva, per combattere l’AIDS e in genere malattie infettive che colpiscono l’apparato genitale maschile e, dall’altro, coloro che ne sottolineano i numerosi possibili effetti negativi, non solo sul piano psicologico, ma anche dal punto di vista della riduzione della sensibilità sessuale e dei rischi secondari derivabili dall’operazione (impotenza, ecc..).
Le mutilazioni genitali maschili anche quando praticate in contesti religiosi o tradizionali non hanno le implicazioni simboliche negative delle mutilazioni genitali femminili e comportano indubbiamente amputazioni di minore portata con rischi secondari inferiori; tuttavia, anch’esse configurano, quando la circoncisione è praticata su neonati sani senza alcuna seria ragione terapeutica, una grave violazione dell’integrità psicofisica del bambino. Per questo motivo, anche la circoncisione maschile dovrebbe meritare una più seria e attenta riflessione.
Aldeeb Abu Sahlieh, S. A., To mutilate in the name of Jehovah or Allah: Legitimation of male and female circumcision, "Medicine and Law", 13 (1994), pp. 575-622.
Adh el Salam, Seha, Male Genital Mutilation (Circumcision). A Feminist Study of a Muted Gender Issue, Cairo, June 1999.
Beidelman, T. O, Circumcision, in Eliade M. (a c. di), THE ENCYCLOPEDIA OF RELIGION, Macmillan Publishing Company, 1987, vol. III, pp. 511-514.
Brigman, W., Circumcision as child abuse: The legal and constitutional issues, "Journal of Family Law", 23, 3 (1985), pp. 337-357.
Cansever G., Psychological Effects of Circumcision, "BRITISH JOURNAL OF MEDICAL PSYCHOLOGY", vol. 38, pp. 321-31(1965).
Chessler, Abbie J, Justifying the Unjustifiable: Rite v. Wrong, "Buffalo Law Review", 1997, 45, 2, spring-summer, 555-613.
Darby Robert, The Masturbation Taboo and the Rise of Routine Male Circumcision: A Review of the Historiography, "Journal of Social History", Vol. 36, 2003
Goldman, R. F., Circumcision: The hidden trauma, Vanguard Publishing, Boston 1997
Goldman, R. F., Questioning circumcision: A Jewish perspective (2nd ed.), Vanguard Publishing, Boston 1997.
Gollaher, D. L., Circumcision: A History of the World’s Most Controversial Surgery, New York, 2000
Gollaher, D. L., From Ritual to Science: The Medical Transformation of Circumcision in America, "Journal of Social History", vol. 28 (1994).
Hutchinson J., On Circumcision as Preventive of Masturbation, "Archives of Surgery", Vol. II (1890), 267-9
Kimmel M. S., The Kindest Un-cut, "Tikkun", vol. 16, maggio 2001.
Un interessante articolo in cui l’autore, di religione ebraica, spiega perché ha deciso di non sottoporre il suo bambino al rito della circoncisione.
Prescott J. W., Fayre Milos M., Denniston G. C., Circumcision: Human Rights and Ethical Medical Practice.(new report on circumcision), "Humanist", May, 1999.
Stokes Tim, Circumcision: A History of the World’s Most Controversial Surgery (Brief Article)(Review) (book review), "British Medical Journal", 17 marzo (2001).
Zoske, J., Male Circumcision: A Gender Perspective, "The Journal of Men’s Studies", vol. 6, 1998.
Estratto dall’articolo: "Routine medical male circumcision, the surgical removal of a healthy male infant’s foreskin, is "the most common surgical operation carried out in the United States" (Cendron, Elder, & Duckett, 1996, p. 2149). While a majority of men throughout the world remain uncircumcised (Wallerstein, 1985), annually circumcision is performed on more than one million American infants. Most authors, however, agree that the incidence of circumcision in the United States has fallen from a high of 80 to 90% during the 1980s to a low of nearly 65% at present. Inconsistent reports by hospitals and insurance companies leave national data unreliable and, in all probability, somewhat conservative (e.g., facilities often do not separate circumcision from the collective itemization of delivery services; see Graves, 1995). Regardless, circumcision will be a reality for a majority of male infants given a medical establishment that still condones it and a health insurance system that readily pays for it--estimated at $140 million in 1988 (Poland, 1990).
Circumcision is, however, more than a benign medical procedure. It is fundamentally an elective amputation of healthy genital tissue driven by the power of tradition and performed without a patient’s consent, occurring when he is most vulnerable and completely dependent."
Wallerstein E., Circumcision: The Uniquely American Medical Enigma, UROLOGIC CLINICS OF NORTH AMERICA, vo.12, n. 1 (1985), pp. 123-132, February 1985.
Winkel Rich, Male Circumcision in the USA: A Human Rights Primer, 12 maggio 2005
National Organization of Circumcision Information Resource Centers (NOCIRC)
NOCIRC is a non-governmental organization (NGO) in Roster status with the Economic and Social Council of the United Nations (il sito contiene articoli, notizie bibliografiche e altro materiale interessante per l’approfondimento)
DOCTORS OPPOSING CIRCUMCISION (D.O.C.)
The National Organization of Restoring Men "is a non-profit support group for men who have concerns about being circumcised, are considering foreskin restoration, or are in the process of restoring their foreskins. Our aim is to help men regain a sense of self-directedness -- physically as well as emotionally".
The AAP (American Academics of Pediatrics) positions on Male and Female Genital Modification are here contrasted:
Sami Aldeeb home page
* Fonte: Jura Gentium Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale (ripresa parziale).
Nice e le 17mila ragazze salvate dalle mutilazioni
di Antonella Mariani (Avvenire, giovedì 10 dicembre 2020)
Un grande perimetro scavato sulla terra battuta, una giovane donna che balla al centro, felice: c’è un video in rete che immortala Nice all’inaugurazione, lo scorso novembre, del "Nice Place", il «posto dove ogni ragazza potrà diventare la donna dei propri sogni». Al riparo dalle mutilazioni genitali femminili (Fgm), dai matrimoni precoci, dalla rapina del futuro. Nice Nailantei Leng’ete è una bellissima Maasai 29enne, statuaria e sorridente: da bambina fuggì tre volte dal villaggio di Kimana, in Kenya, 200 chilometri a sud di Nairobi per sottrarsi al sanguinoso "rito di passaggio" dall’infanzia all’età adulta che si stava preparando per lei e la sorella.
La storia è nota, perché Nice è tra le più conosciute testimonial africane contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf), tra le 100 persone più influenti del mondo secondo la classifica del 2018 del Time Magazine. Con Avvenire parla attraverso Skype, esprimendo la passione di chi spende la vita per un ideale. «A 8 anni scappai da una zia, poi da mio nonno, infine da un’insegnante».
Nice riuscì a sottrarsi al «taglio», ma la sorella no. «Si è sacrificata per me», ricorda. E poi parla del nonno, che all’inizio di novembre le era accanto, quando poche settimane fa sono state poste le fondamenta di "Nice Place" nella Contea di Kajiado (due ore di auto a sud di Nairobi), dove sorgerà un rifugio sicuro per tutte coloro che si trovano in pericolo, minacciate da matrimoni combinati o violenze, e una casa di accoglienza per 50 ragazze, con scuola, laboratori professionali e piccole attività commerciali.
«Mio nonno è una figura importante nella mia storia. Lui mi ha ascoltata, ha capito il mio desiderio di continuare a studiare e poi di lavorare e di aiutare altre ragazze. Se oggi sono quella che sono lo devo a lui. Gli anziani in Africa sono rispettati: se sono dalla tua parte, la comunità ti ascolta». Le mutilazioni genitali femminili in Kenya sono vietate dal 2011, ma in numerose comunità locali sono ancora praticate, soprattutto nel nord-est del Paese (97,5 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni vi è stata sottoposta contro una media nazionale del 21%, fonte Thomson Reuters Foundation), in alcuni casi per motivi di "purezza" e igiene, in altre come rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta.
«La legge è un’arma di difesa per le ragazze, è importante che si sentano protette dallo Stato, ma non è facile combattere con le leggi abitudini e tradizione secolari», spiega Nice. Che però ha trovato un varco, facendo pian piano accettare alle comunità locali un diverso rito di passaggio, una cerimonia senza coltelli e rasoi, senza sangue e dolore, ma con canti, balli e gesti rituali. Spostandosi di villaggio in villaggio, conquistando il favore degli anziani e delle famiglie, Nice, sostenuta dalla ong Amref Health Africa, di cui è ambasciatrice, in 20 anni ha salvato dalla circoncisione 17mila ragazze in Kenya e Tanzania.
«È un lavoro che richiede pazienza: parlo con ciascuna madre e ciascun padre, dialogo con le persone che prendono le decisioni nella comunità, spiego i rischi e l’impatto sulla vita delle bambine, propongo il rito alternativo ma lascio che siano loro a pianificarlo». Sconfiggere il «taglio» con l’educazione, ecco quello che fa Nice.
Un programma che ha subìto una pesante battuta d’arresto a causa della pandemia: in Kenya le scuole sono state ora parzialmente riaperte, ma la totalità degli alunni rientrerà in classe solo a gennaio. La chiusura degli istituti crea situazioni di rischio per le alunne. «Per non interrompere la comunicazione con le comunità locali, abbiamo avviato programmi radiofonici per parlare delle mutilazioni genitali femminili, abbiamo automobili con gli altoparlanti che viaggiando diffondono note informative. Facciamo quello che possiamo». La guerriera Masai che vive in Nice non si arrende. Mai.
La legge.
Stop alle mutilazioni genitali femminili: in Sudan dire no ora è un diritto
L’Unicef: «Con la nuova norma le madri acquisteranno coraggio perchè finalmente si puniscono i responsabili, con 3 anni di carcere, multe e anche il sequestro del luogo dove sono mutilate le ragazze»
di Redazione Esteri (Avvenire, sabato 2 maggio 2020)
«Tante madri acquisteranno coraggio e anche le ragazze finalmente potranno gridare: “Opporci è un nostro diritto”»: è il grido di gioia di Salma Ismail, responsabile comunicazione e advocacy di Unicef in Sudan, sulla nuova legge che renderà reato praticare le mutilazioni genitali femminili (Mgf). «Finora tante donne e tante madri sono state spinte o costrette, volenti o nolenti, da norme sociali e tradizionali», ha sottolineato l’attivista rispetto alla pratica, diffusa soprattutto in Africa e in Asia. «Con la nuova legge le madri acquisteranno coraggio perché finalmente si puniscono i responsabili, con tre anni di carcere, multe e anche il sequestro del luogo dove sono mutilate le ragazze».
Secondo Ismail, le norme annunciate a Khartoum sono «un punto di partenza e non la fine dell’impegno» ma avranno comunque un impatto «sulle madri, le donne e le comunità nel loro complesso». L’attivista aggiunge: «Un ruolo essenziale al fianco di Unicef per la tutela delle donne sudanesi è stato ricoperto in questi anni dai donatori internazionali, in particolare dai governi di Italia, Svezia e Regno Unito».
Secondo uno studio pubblicato nel 2018, circa il 65 per cento delle sudanesi ha subito mutilazioni. La nuova legge è stata annunciata dall’esecutivo "di transizione" entrato in carica nel 2019, dopo la caduta del presidente Omar Hassan al-Bashir, al potere per 30 anni.
«Una svolta importante», per proteggere i diritti e la salute delle donne: così il viceministro degli Esteri, Emanuela Claudia Del Re, dopo l’annuncio del Sudan di una legge che renderà reato praticare mutilazioni genitali femminili. «Mi congratulo con il governo del Sudan per la criminalizzazione delle mutilazioni genitali femminili attraverso l’introduzione di un articolo specifico del Codice penale", ha scritto Del Re sui suoi profili social. «È una svolta importante: il Sudan protegge la dignità e l’integrità delle donne". La viceministra ha aggiunto: «L’Italia è felice di lavorare con il Sudan per porre fine alle Mgf".
La Giornata.
«Così in Francia combatto le mutilazioni genitali femminili»
Il 6 febbraio è la Giornata sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femmiinili. Parla l’attivista Linda Weil-Curiel: «In Europa le hanno subìte almeno 500mila immigrate»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire,, Parigi domenica 3 febbraio 2019)
Si celebra il 6 febbraio in tutto il mondo la Giornata internazionale sulla tolleranza zero nei confronti delle mutilazioni genitali femminili. La Farnesina ribadisce in una nota il proprio «convinto impegno per l’eradicazione di questa inaccettabile pratica, gravemente lesiva dei diritti e della salute delle donne e delle bambine».
Hawa Gréou era la “maman” più rinomata dell’intera Île-de France. Centinaia di famiglie africane bussavano al suo appartamento di Parigi chiedendo alla matrona del Mali di “sistemare” le figlie con il rito che, per alcune etnie, è un necessario sigillo di purezza femminile: la mutilazione genitale. Hawa era rapida, abile: sotto il suo coltello nessuna bimba moriva d’emorragia. Un giorno la vicina di casa l’ha denunciata per disturbo della quiete pubblica: le grida che filtravano dalla sua porta erano strazianti. Ma non accadde nulla. Per arrestare Hawa ci volle il coraggio di una sua vittima, che per salvare le sorelline dal rito di sangue raccontò a un procuratore l’orrore che si svolgeva in quelle stanze. E ci volle la testardaggine di un’avvocatessa per condannare la“maman” a 8 anni di carcere, in un processo storico di cui quest’anno ricorre il ventennale, che scosse la Francia e aprì gli occhi sulle escissioni clandestine.
L’avvocatessa è Linda Weil-Curiel, presidente dell’associazione Cams: dagli anni ’80 ha difeso le vittime in oltre 40 processi, facendo condannare più di cento persone, fra tagliatrici e genitori di bambine mutilate. E sebbene la Francia sia l’unico Paese europeo, tra quelli a forte immigrazione africana, a non avere una legge specifica contro le mutilazioni genitali femminili, registra più condanne su questi casi: la maggior parte, grazie a Weil-Curiel. In Italia, dalla legge del 2006 sono state solo 5; in Spagna e in Svezia 2; nel Regno Unito un’unica condanna è arrivata due giorni fa, nonostante la norma esista dal 1985.
«Vengo invitata dai Parlamenti di mezza Europa a spiegare perché in Francia la giustizia contro l’escissione funziona» racconta Linda Weil-Curiel nel suo ufficio a Saint-Germain-des-Prés, nel cuore di Parigi, «e ogni volta ribadisco che una norma ad hoc è inutile e fuorviante: basta il Codice penale, che in qualsiasi Stato punisce le lesioni permanenti. Non solo: leggi ad hoc aprono al relativismo culturale, classificando la mutilazione sessuale tra gli africani come “tradizione” e non come puro e semplice crimine».
Secondo le stime del vostro ministero della Sanità francese, dal 2007 al 2015 le donne escisse residenti in Francia sono diminuite da 61mila a 53mila. Merito della sua linea dura?
In parte sì. Intendiamoci: la sensibilizzazione tra le comunità migranti è fondamentale, ma devono anche essere coscienti che andranno in prigione, se amputeranno le bambine.
Come ha iniziato ad appassionarsi a questo tema?
Nel 1982 un’amica femminista (era Annie Sugier, fondatrice con Simone de Beauvoir della Lega internazionale per i diritti delle donne) mi portò un articolo di giornale: una neonata era stata escissa dal padre e salvata per un soffio dalla morte. Con la mia associazione mi costituii parte civile al processo, e iniziò la prima battaglia: trasferire questi casi dai tribunali ordinari alla più alta giurisdizio- ne criminale, la Corte d’assise. I magistrati smussavano: «Sono immigrati, non parlano francese, è la loro tradizione...».
Ma se recidessero i genitali a una bambina bianca, - ribattevo - non gridereste allo scandalo? La legge è uguale per chiunque risieda in Francia! Così ottenemmo la Corte d’Assise. In seguito, quando molte famiglie ormai tagliavano le figlie portandole nei Paesi d’origine per aggirare la giustizia francese, l’articolo 222 del Codice penale fu esteso alle mutilazioni commesse all’estero da residenti in Francia. Ma i casi erano complessi.
Perché?
I genitori non rivelano i nomi delle tagliatrici: c’è protezione, nelle comunità africane. Le madri dicono: «Una donna sull’autobus, vedendomi con la neonata in braccio, mi ha chiesto se la piccola era stata operata. Mi ha invitata a casa sua, ma non so il suo nome». Storie inverosimili.
Finché nel 1999 esplose il caso Gréou.
Un’inchiesta di 18 mesi e un grande processo durato 15 giorni. Dopo la denuncia della ragazza, la polizia sorvegliava la casa della tagliatrice, ma lei s’era fatta prudente e operava altrove. Quando le controllarono il telefono, emerse la verità: organizzava sedute di escissione di massa, spesso nei periodi di ferie quando c’erano meno orecchie in giro. Il procuratore chiese 7 anni di reclusione; io 8. Vinsi io.
Quando Hawa è uscita di prigione, siete diventate amiche e insieme avete scritto il libro Exciseuse (ed. City). Com’è stato possibile?
Al processo l’ho osservata molto: era una donna intelligente. Il mestiere di tagliatrice l’era stato imposto dalla nonna: le donne di famiglia lo praticavano da generazioni ed era di prestigio, poiché portava denaro, stoffe pregiate, sapone. Hawa non poteva sottrarsi. Uscì prima dal carcere per buona condotta, e mi telefonò: «Sono maman». Era sola, il marito aveva altre mogli e voleva rispedirla in Mali. Girava con un carrello da mercato zeppo di vestiti perché le altre mogli le rubavano tutto e, trascinandoselo dietro, in ciabatte e velo in testa, venne da me. Ero l’unica con cui potesse parlare con franchezza: sapeva che la comprendevo. Così ci siamo avvicinate. Ho persino fatto causa a suo marito, costringendolo a pagarle gli alimenti.
Perché in altri Paesi, che pure hanno leggi specifiche contro la mutilazione genitale femminile, si fatica a condannare?
Il Codice penale è più efficace di una proliferazione di nuove norme difficili da applicare. Serve forse una legge speciale per punire chi amputa una mano o un orecchio? Dunque perché per il taglio dei genitali dovrebbe essere diverso? Il Regno Unito, per esempio, ha leggi dall’85 ma piene di punti deboli, come il fatto che un’associazione non possa costituirsi parte civile. Negli Stati Uniti, di recente, c’è stato il caso di una clinica a Detroit dove una setta indiana praticava escissioni: il giudice non ha voluto applicare la legge federale sulle mutilazioni genitali, con argomenti che rivelano tutta la fragilità della norma.
In Europa si stima la presenza di 500mila donne immigrate che hanno subìto una mutilazione genitale. Oltre alle vie giudiziarie, quali azioni servono, secondo lei, per sradicare questa pratica?
Il pediatra deve controllare i genitali di una bimba con origini in Paesi a tradizione escissoria, tanto più se vi è appena stata in vacanza. Bisogna poi trasferire la gestione dei sussidi familiari ai servizi sociali: in Francia s’è rivelata una misura efficace in un centro per l’infanzia che l’ha attuata. Queste bambine hanno diritto a una crescita normale e la legge ci dà i mezzi per proteggerle: dobbiamo usarli.
Testimonianza.
Donne, il riscatto di Mariame Sakho: «Quel taglio che offende»
Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. La deputata senegalese: «Provocano solo danni e non è prescritta dal Corano». Fino a 19 anni lei stessa praticava il rito: «Perdono»
di Emanuela Zuccalà (Avvenire, martedì 6 febbraio 2018)
Nella moschea di via Quaranta a Milano, di fronte a donne che la incalzano con mille domande e curiosità, una signora africana vestita d’arancio sceglie parole semplici e dirette per affrontare il problema che ha segnato profondamente la sua vita: la mutilazione genitale femminile. «Porta solo danni, e non è prescritta dal Corano», scandisce. Lei si chiama Mariame Sakho, ha 51 anni ed è una deputata senegalese, impegnata affinché il suo Paese cancelli questa tradizione di sangue che umilia le donne condannandole alla sofferenza. Da tempo è un’attivista della Ong ActionAid per promuovere i diritti femminili.
Figura di spicco della sua comunità di Bakel, nella regione senegalese di Tambacounda, Mariame Sakho conosce alla perfezione il tema della mutilazione genitale femminile: fino a 19 anni fa, le sue stesse mani hanno attuato il «taglio» rituale su migliaia di bambine. «Ho iniziato da ragazza, aiutando mia nonna che svolgeva proprio il mestiere di tagliatrice », ci racconta. «Le famiglie della nostra etnia, i Peul, ci portavano le neonate, pagandoci 2mila franchi Cefa (circa 3 euro, ndr) per ogni intervento. Da noi si usa rimuovere il clitoride a bambine di uno o due mesi, un’età precoce in cui la ferita si cicatrizza meglio e si pensa che le piccole non soffrano. Si crede che, in questo modo, saranno pure e pronte per un buon matrimonio. Anch’io ho subìto l’escissione: era una cosa normale, a quei tempi. Ma quando nel 1999 il Senegal ha varato una legge che criminalizza le mutilazioni genitali femminili, io e altre tagliatrici siamo state convocate da una commissione di politici, religiosi e Ong, che ci hanno spiegato che saremmo state arrestate, se avessimo continuato. Così ho smesso, chiedendo perdono ad Allah per tutto il male che avevo arrecato nella mia vita, anche se fino ad allora non me n’ero resa conto: era un’usanza da secoli, non l’avevamo mai messa in discussione. Ma pregare non mi bastava: ho voluto impegnarmi in prima persona per contrastare le mutilazioni genitali, poiché a Bakel, anche dopo la legge, alcuni continuano a praticarle clandestinamente, spesso provocando alle bambine gravi emorragie».
Oggi, 6 febbraio, Giornata internazionale per la tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili, l’Unicef ricorda che 200 milioni di donne al mondo ne hanno subìto una forma: dalla rimozione dei genitali esterni fino all’infibulazione, la variante più grave che comprende anche una cucitura, tipica del Corno d’Africa. La pratica, diffusa tanto fra i musulmani quanto fra cristiani e animisti, resiste in 30 Paesi di cui 27 nel continente africano: è considerata una sorta di viatico di purezza e garanzia di monogamia per la donna, ma - oltre a essere un’insensata violazione dell’integrità fisica - comporta conseguenze sanitarie molto serie, talvolta mortali. Quanto era rispettata come tagliatrice, tanto oggi Mariame è considerata una voce autorevole per i diritti femminili e per questo, lo scorso luglio, è stata eletta in Parlamento a Dakar. Lavora anche come ostetrica nel centro sanitario di Bakel, dissuadendo le neo-madri dal praticare l’escissione sulle neonate. «Le convinco a rifiutare le superstizioni: non è vero che la mutilazione genitale rende le donne virtuose, dona onore ai padri, e che la ragazza non circoncisa è impura e non può preparare il cibo per la famiglia. Le madri devono sapere che, al contrario, il taglio porta emorragie, dolori durante il ciclo, fino alla negazione del piacere sessuale. Non è giusto che una donna non conosca mai questa gioia con il proprio marito».
Anche grazie ad attiviste come Mariame Sakho, il Senegal vanta ottimi risultati nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili. Secondo l’Unicef e l’Organizzazione mondiale della Sanità, la percentuale di donne che le hanno subìte è scesa al 25% a livello nazionale, ma restano enormi disparità territoriali: dall’1% nella regione occidentale di Diourbel, al 92% nell’area di Kédougou a sud-est, al confine con la Guinea, Paese ad altissima prevalenza di mutilazioni genitali. L’etnia maggioritaria dei Wolof non le pratica, mentre tra i Peul, il gruppo etnico di Mariame Sakho, si passa dal 2% di quelli residenti a Diourbel al 95% di Kédougou. L’agenzia dell’Onu Unfpa prefigura un decremento del 40% nella percentuale nazionale per il 2020. Già nel ’97 il presidente Abdou Diouf condannò pubblicamente le mutilazioni genitali femminili, e il 31 luglio di quell’anno, nel villaggio occidentale di Malicounda Bambara, le donne annunciarono solennemente di volerle abbandonare. Da allora fino al 2011, si stima che oltre 5mila comunità del Senegal abbiano detto basta all’escissione. Dal ’99, una legge la sanziona con pene fino a 5 anni di carcere. Gli sforzi del governo sono continui, insieme alle agenzie dell’Onu Unicef e Unfpa, eppure in certe la tradizione è dura da sradicare. È emblematico un episodio del 2009, quando una tagliatrice è stata processata per aver operato una clitoridectomia su una bimba di 16 mesi. Alcune comunità e 200 predicatori islamici protestarono, difendendo la donna e la necessità sociale del taglio. Secondo Mariame Sakho, nonostante i progressi del Senegal, «tanti padri, soprattutto, restano convinti che la mutilazione genitale sia necessaria per l’onore delle figlie. Il nostro lavoro di sensibilizzazione è ancora lungo».
Oggi, nella Giornata internazionale dedicata a questa piaga, il Parlamento Europeo discuterà una risoluzione per chiedere alla Commissione e agli Stati membri delle misure di prevenzione in settori come sanità, assistenza sociale, istruzione e giustizia. In Europa si stima infatti la presenza di 550mila donne originarie di Paesi a tradizione escissoria che sono portatrici di questa ferita, con le percentuali maggiori in Regno Unito, Francia e Svezia. In Italia, secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca e di ActionAid, le donne sottoposte a mutilazione genitale sarebbero tra 61mila e 80mila, in gran parte nigeriane ed egiziane.
COMUNITÀ, DEMOCRAZIA, RASSEGNE&FESTIVAL, SOCIETÀ, TEATRO
Parla con LEI. Cominciamo dal Fringe *
Gli input dei Monologhi della Vagina sono stati preziosi: hanno scosso la nostra memoria, le nostre domande, i nostri corpi le nostre emozioni. E così il pubblico li ha recepiti, emozionandosi e divertendosi a sua volta. Una dinamica che mette in moto un meccanismo vitale, che ci trasforma e ci chiede di mettere in scena la trasformazione.
E’ così che è nato IL LABORATORIO DELLA VAGINA, un passaggio obbligato dopo LOtto per LEI, nel quale hanno preso spazio le nostre vite, le nostre esperienze: le prime mestruazioni, la “prima volta”, la gioia, le preferenze, le avventure, la crescita, anche attraverso l‘impatto con la violenza maschile, culturale e fisica.
Un LABORATORIO nel quale raccontarsi, ridere insieme, e conoscersi, per scoprire che molto di quel che si è sopportato in solitaria non è capitato solo a me, né è capitato per caso, e la possibilità di condividerlo crea forza, e apre nuove possibilità della forma politica. Quella che aveva preso il via negli anni ’70, e che oggi ritrova le sue coordinate.
E’ da qui che con lo strumento del teatro noi riapriamo i giochi. Al Fringe il 6, 7, 8 settembre quel che porteremo in scena farà il quadro di quanto si svilupperà nel programma successivo a TeatroCittà, a partire dalla seconda edizione di FRAMMENTI AL FEMMINILE: una campagna contro la violenza di genere, per superare la questione di genere.
Per fare questo ogni quindici giorni apriremo il teatro dal venerdi pomeriggio alla domenica sera, ed ogni fine settimana affronteremo un tema diverso, attraverso spettacoli, libri, film, incontri, mostre, accompagnati da un buffet e da punti info. Vogliamo creare un flusso di energia, forza e consapevolezza fra le donne come fra tutti quelli che vogliono esserci. Vi chiediamo perciò di esserci, di partecipare, e di sostenerci attraverso il crowdfunding.
* CAMBIO DI SCENA, 18.08.2017 (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
DIRITTI
Giornata contro le mutilazioni genitali femminili: un portale web per fermare le violenze
Il portale "United to End Female Genital Mutilation", in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti. Perché il problema delle mutilazioni ormai riguarda riguarda anche gli Stati europei e l’Italia che con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime
di Silvia Bia (Il Fatto, 6 febbraio 2017)
Parlare delle mutilazioni genitali femminili, informare gli operatori e i professionisti che vengono a contatto con le donne che le hanno subite, creare una rete internazionale per cercare di combattere un fenomeno frutto di retaggi del passato che oggi è tutt’altro che marginale ed è diffuso in tutto il mondo. È l’obiettivo di Aidos (Associazione italiana Donne per lo Sviluppo), che il 6 febbraio 2017, in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, lancia una piattaforma web europea per cercare di porre fine a questa forma di violenza sulle donne e fornire un supporto alle vittime attraverso la formazione di operatori sanitari, personale dei centri di accoglienza e comunicatori che si trovano ad affrontare la tematica da vicino.
Perché il problema delle mutilazioni non riguarda più soltanto i paesi in cui vigono queste tradizioni, ma tutti quelli che, come gli stati europei e l’Italia, con le ondate dei flussi migratori, si trovano ad accogliere le donne che ne sono state vittime, quelle che fuggono proprio per questo motivo dai loro paesi di origine o quelle che ancora devono sottostare a queste disumane imposizioni. Da qui l’idea della piattaforma Uefgm - United to End Female Genital Mutilation, presentata insieme ai rappresentanti di realtà che si battono per i diritti umani, tra cui Unhcr, Oms e il Dipartimento di Pari Opportunità.
Il portale, in otto lingue, si prefigge di informare ed essere una guida per i professionisti che si interfacciano al problema delle mutilazioni genitali femminili, affinché il sistema di accoglienza, il mondo sanitario e sociale, quello legale e i sistemi di istruzione e di comunicazione degli stati europei possano rispondere alle esigenze delle ragazze vittime delle pratiche escissorie attraverso percorsi di formazione, interazione online, dibattiti e confronti tra i vari settori.
“Vogliamo creare una rete tra donne e tra associazioni per iniziare a rispondere senza stigmatizzazioni, stereotipi e preconcetti a una serie di quesiti sull’argomento e per fare chiarezza sulle mutilazioni genitali femminili, che continuano a essere un fenomeno poco conosciuto. - spiega Serena Fiorletta di Aidos - Finora c’era una mancanza di informazioni anche per le persone che prendono in carico donne che hanno subito queste pratiche. Era un limite, che ora cercheremo di colmare con questo lavoro”.
I numeri nel mondo e in Italia - Secondo i dati forniti dall’associazione, in tutto il mondo le donne che hanno subito pratiche escissorie sono più di 200 milioni, di cui oltre 500mila in Europa e circa 57mila in Italia. Ma ogni anno a rischio ci sono 3 milioni di bambine. Secondo il rapporto di Aidos, nel 2010 si stimava che in Italia vivessero circa 57mila donne e ragazze straniere tra i 15 e i 49 che erano state sottoposte al trattamento. Cifre che non sono cambiate nel 2016, in cui si contano in Italia tra le 46mila e le 57mila donne che hanno subito tali abusi. Tra le comunità più colpite, quella nigeriana, che rappresenta circa il 35 per cento del totale delle donne con mutilazioni in Italia, pari a circa 20mila persone. A seguire le egiziane, che rappresentano il 32,5 per cento con 18.600 donne coinvolte, mentre il 15 per cento di esse è originario del Corno d’Africa (dall’Etiopia 3.200 donne pari al 5,5 per cento). Infine l’Eritrea, con 2.800 donne per un totale del 4,9 per cento e la Somalia con il 4 per cento e 2.300 donne.
Cifre importanti, anche se per il momento non esiste un sistema di raccolta sistemico e coordinato che faccia un’analisi del fenomeno in tutto il territorio italiano. Secondo i dati Istat nel 2015 le donne residenti in Italia provenienti da paesi a tradizione escissoria erano 161.457, pari al 6,1 per cento sul totale delle donne straniere, anche se non sono comprese quelle con cittadinanza italiana e non ci sono dati certi, per esempio, sulle migranti irregolari o richiedenti asilo, che secondo l’Unhcr provengono per la maggioranza da Eritrea, Somalia e altri paesi dove la pratica è diffusa (Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali, Nigeria). Tra le migranti residenti, le principali comunità interessate dal fenomeno delle mutilazioni sono quella egiziana, senegalese, nigeriana e ghanese.
Cosa dice la legge - In Italia le pratiche escissorie sono un reato penale da una decina di anni che prevede la reclusione dai 3 ai 12 anni, con aggravanti se il reato è commesso su minori. La legge n.7 del 2006 vieta l’esecuzione di tutte le forme di mutilazione genitale femminile, fra cui la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che causa effetti dello stesso tipo o malattie psichiche o fisiche.
Inoltre il reato è punibile anche al di fuori del paese, se è commesso da cittadino italiano o uno straniero residente in Italia, o se l’intervento viene fatto su una cittadina italiana o donna residente in Italia. Con la legge 172 del 2012 poi, l’Italia ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale che contempla pene più severe per una serie di reati tra cui anche le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili.
Dal 2007 inoltre chi subisce o è sotto la minaccia di mutilazioni genitali femminili può fare domanda di asilo per fuggire dal proprio paese. Le mutilazioni genitali femminili sono infatti comprese tra gli atti di persecuzione (sia passati che futuri) per cui si può fare domanda di asilo, poiché le pratiche escissorie sono considerate una forma di violenza morale e fisica discriminatoria di genere legata all’appartenenza al genere femminile per cui è stata riconosciuta la protezione internazionale nella forma dello status di rifugiato.
Eroina della lotta contro le mutilazioni genitali, antidoto è l’istruzione
Nice, giovane keniota, in Italia come ambasciatrice Amref
di Giulia Pelosi *
ROMA Da vittima sfuggita alla mutilazione genitale femminile in un villaggio Masaai alle pendici del Kilimangiaro ad ambasciatrice mondiale Amref della lotta per i diritti delle donne africane. E’la storia di Nice Leng’ete, ragazza keniota che sta portando avanti una battaglia per la promozione dell’istruzione femminile in Africa, sensibilizzando le persone sui pericolosi effetti di questa pratica tribale. Nice si trova in Italia per portare la sua testimonianza e il suo impegno in favore delle donne africane insieme all’Amref. "A 9 anni - racconta all’ANSA - sono fuggita alla mutilazione per due volte: la prima insieme a mia sorella, la seconda da sola.
Dopo aver visto mutilare delle mie coetanee, ho deciso di ribellarmi alle pratiche imposte alla maggior parte delle bambine africane, che non solo vengono mutilate ma anche costrette a sposarsi. Ho convinto mio nonno a farmi andare a scuola e così sono potuta diventare educatrice nel mio villaggio e ho cominciato a promuovere l’adozione di riti simbolici alternativi". A soli 25 anni Nice sta coltivando un grande sogno: scendere in politica, come paladina dei diritti femminili alle elezioni del 2022 in Kenya. "Credo che la politica debba promuovere l’istruzione grazie al potere decisionale: sono convinta che l’unico modo per rompere gli schemi della tradizione ed evitare le mutilazioni sia l’educazione, che serve a comprendere i rischi di questa tradizione che ’taglia il futuro delle donne’.
Per la nostra cultura infatti - spiega - la circoncisione rappresenta il passaggio all’età adulta, che significa l’obbligo a sposarsi e a lasciare la scuola per iniziare la vita coniugale. L’istruzione e’ l’unico ’antidoto’ per affrontare questo cambiamento culturale: la mutilazione è il destino toccato alle nostre madri e alle nostre nonne e bisogna sensibilizzare uomini e donne per far sì che non accada più".
Nice rimarra’ in Italia fino al 29 ottobre e si muovera’ tra Roma e Milano con un’agenda ricca di impegni: l’incontro di oggi a Roma con l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino e il sottosegretario alla Cultura e presidente onorario di Amref, Ilaria Borletti Buitoni, in un evento dedicato al tema dell’emancipazione femminile per lo sviluppo dell’Africa e del mondo, mentre il 27 sarà a Milano per raccontare il suo tenace impegno al fianco delle donne. "Sono consapevole che quello che sto cercando di fare e’ un lavoro difficile che coinvolge milioni di donne - sottolinea la giovane ambasciatrice - a volte mi scoraggio e provo tristezza, ma quando capisco di non essere sola ritrovo la fiducia, il coraggio e la pazienza che servono".
Infine un appello ai leader mondiali: "Se potessi chiedere aiuto comincerei interpellando il presidente Usa Barack Obama. Ora che sono in Italia sarebbe importante promuovere una call to action coinvolgendo sia il primo ministro sia il Papa: solo insieme riusciremo ad abbattere questo muro e a diffondere un messaggio per promuovere l’uguaglianza e il rispetto dei diritti per le donne africane"
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Giornata mondiale
La lampada dell’educazione spegne le Mgf
di Redazione (Vita, 04 febbraio 2015)
Il 6 febbraio è la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili. Amref Health Africa sta promuovendo riti alternativi di passaggio che hanno al momento salvato oltre 4mila ragazze in Kenya e Tanzania
È una pratica messa al bando universale dall’Onu nel 2012 e che nel mondo hanno subito 100 milioni di bambine e ragazze. Sono le mutilazioni genitali: nel mondo ogni anno vengono mutilate circa 3 milioni di ragazze in Africa. In Europa, secondo il Parlamento europeo sono 500mila le donne che convivono le Mgf. In occasione della Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, che si celebra il 6 febbraio, Amref Health Africa promuove una pratica che in pochi anni ha salvato oltre 4mila ragazze: sono i riti di passaggio alternativi
Egitto, Sudan, Mali, Kenya, Tanzania sono questi i Paesi africani più colpiti, dove le mutilazioni genitali femminili continuano ad avere un effetto devastante sul corpo, sui diritti e sul resto della vita di troppe ragazze. «Molti Paesi hanno formalmente proibito la pratica delle mutilazioni delle ragazze», afferma Tommy Simmons, fondatore della sezione italiana di Amref Health Africa, ritornato da poco dal Kenya «ma quando vanno ad incidere su usi e costumi tradizionali, molto radicati nell’identità stessa delle tribù, le leggi hanno un impatto molto moderato».
In una nota Amref Health Africa osserva che «in molte comunità la pratica viene fortemente sostenuta sia dagli uomini sia dalle donne, in quanto rappresenta formalmente il passaggio alla maturità delle ragazze e si ritiene dia loro un senso di orgoglio e di piena partecipazione adulta alla loro società. In realtà, questo rito di passaggio nell’immediato causa una ferita dolorosa ed insanabile nel corpo delle ragazze, spesso provocando altre ripetute e gravi conseguenze negli anni, con ogni gravidanza e parto. Tale pratica oltre a mutilare il corpo delle ragazze mutila anche le loro aspirazioni e la possibilità di partecipare in modo paritario e costruttivo alla crescita della loro società».
«L’unico modo sostenibile per eliminare questa molteplice amputazione dalla vita è di lavorare su più fronti» continua Simmons. Grazie a questo approccio Amref Health Africa negli ultimi anni ha sviluppato riti alternativi di passaggio con e per diverse comunità Masai in Kenya ed in Tanzania che a oggi hanno permesso a oltre 4.000 ragazze di evitare la mutilazione genitale grazie alla rinuncia al rito di otto comunità locali e al sostegno formale di oltre 350 leader locali, che hanno denunciato pubblicamente una tradizione che oltre a ledere terribilmente le singole ragazze rappresenta un freno per la crescita di tutta la comunità, per via del perdurare dell’analfabetismo e gli alti tassi di mortalità materna in parte dovuti anche al gran numero di matrimoni e di gravidanze molto, molto precoci.
Anno dopo anno i riti alternativi si stanno diffondendo tra la più ampia comunità Masai, seppure con forti resistenze, in particolare nelle zone più marginali e con meno strutture scolastiche e religiose, ma, afferma Simmons «laddove vengono praticati, in un breve periodo i riti alternativi hanno portato ad un marcato incremento della frequenza degli ultimi anni della scuola primaria e della scuola secondaria da parte delle ragazze locali». Simmons ricorda che nel rito finale della cerimonia le bambine cantano “spegniamo il fuoco delle mutilazioni, accendiamo la lampada dell’educazione” (nella foto).
La Svezia sotto choc
Sessanta bimbe mutilate
Le infibulazioni scoperte a scuola. Scricchiola il modello d’integrazione
I sistemi sanitario e scolastico svedesi sono in allarme: molte infibulazioni vengono praticate nei Paesi di origine durante le vacanze estive
di Monica Perosino (La Stampa, 23.06.2014)
Un altro strappo, inatteso e doloroso. Proprio nel Paese, la Svezia, in cui le regole, la legge e la difesa dei diritti sono ormai talmente interiorizzati da essere dati per scontati. Eppure la spaccatura tra la società-stereotipo e quella reale sembra essere sempre più profonda. Dopo le prime aggressioni neonaziste a una manifestazione di pacifisti a marzo, le «schedature» segrete dei Rom, gli scontri delle «banlieu» dell’anno scorso, i raid degli estremisti di destra contro gli immigrati, ancora una volta la patria del benessere viene risvegliata dai colpi della realtà.
I servizi sanitari di Norrköping, città di 80 mila abitanti della Svezia orientale, hanno scoperto che 60 bambine e ragazze dai 4 ai 14 anni hanno subito mutilazioni genitali, 30 di loro sono nella stessa classe. La maggior parte è stata vittima della peggiore forma di mutilazione «rituale», con l’asportazione totale di clitoride e grandi labbra e l’area genitale cucita quasi completamente.
In Svezia la pratica è illegale già dal 1982 (in Italia solo dal 2006), e viene punita con quattro anni di prigione, dieci nei casi più gravi. Dal 1999 è reato anche se praticata in altri Paesi. E ora l’allarme è altissimo, visto che molte mutilazioni vengono fatte all’estero, durante le vacanze estive, quando molte famiglie tornano ai loro Paesi d’origine dove sono ancora oggi un rito di passaggio all’età adulta diffusissimo.
Secondo l’Eige, l’agenzia europea per l’uguaglianza di genere, la diffusione delle Fmg in Svezia ha coinciso con l’enorme flusso migratorio dall’Africa subsahariana - soprattutto dalla Somalia - negli Anni 80. Per questo i legislatori scandinavi, ancora una volta, hanno tentato di prevenire il danno con una regola. Ma non è bastato.
Gli effetti sulla ragazzine sono devastanti: infezioni gravissime, infertilità, disturbi psichici, emicranie, crampi e, naturalmente, l’annientamento completo e definitivo della vita sessuale. «Abbiamo scoperto le mutilazioni durante i colloqui periodici con gli studenti: è stato uno choc - dice Juno Blom, direttrice del Dipartimento di sostenibilità sociale dell’Östergötland - . Questo è un risveglio vergognoso per tutti noi». «Vergogna», è questa la parola che corre di bocca in bocca, sui giornali, in televisione, nelle eterne riunioni che caratterizzano tutte le pieghe della società fondata sul confronto.
Vergogna e senso di colpa. Per questo nessuno osa fare differenze tra i membri della società-stereotipo e quelli più reali della società multirazziale, nessuno allude all’origine delle vittime. Sono svedesi, punto. Svedesi da proteggere. «Il caso Norrköping - spiega Blom - potrebbe essere strumentalizzato da forze xenofobe. Esacerbare ancora di più le tensioni. Non deve succedere. Qui in Svezia è incredibilmente importante che tutti siano trattati allo stesso modo».
EVE ENSLER INCONTRA A ROMA LE ATTIVISTE DI ONE BILLION RISING
E PRESENTA UNA LETTERA APERTA A PAPA FRANCESCO
Eve Ensler, scrittrice e drammaturga statunitense, autrice del rivoluzionario I monologhi della vagina, incontrerà a Roma mercoledì 23 aprile le attiviste provenienti da 18 paesi per celebrare l’impatto della campagna One Billion Rising nel mondo e annunciare il programma di attività per il 2015. L’appuntamento, aperto anche al pubblico e alla stampa, è alle ore 18.00 alla Casa delle Donne (via della Lungara, 19) e avrà l’obiettivo di confrontare gli straordinari risultati ottenuti in due anni di attività, mettendo a punto le strategie future della battaglia contro la violenza sulle donne. Per Eve Ensler sarà anche l’occasione di presentare una lettera aperta a Papa Francesco sui temi della parità fra i sessi e della discriminazione contro il genere femminile.
ONE BILLION RISING
Lanciata da Eve Ensler nel 2013, la campagna One Billion Rising nasce in risposta alla drammatica stima delle Nazioni Unite per cui 1 donna su 3 sul pianeta sarà picchiata o stuprata nel corso della vita. Questo significa un miliardo di donne. Per chiedere di porre fine a questa violenza, il 14 febbraio 2013 ha preso vita la più grande manifestazione di massa nella storia dell’umanità, con oltre 10.000 eventi in tutto il mondo seguiti dai maggiori canali d’informazione. Il 14 febbraio scorso una nuova campagna, One Billion Rising per la Giustizia, ha coinvolto ancora una volta un miliardo di attivisti da più di 200 nazioni del pianeta.
EVE ENSLER
Eve Ensler ha dedicato la propria vita a combattere la violenza di genere, concependo un mondo in cui le donne e le bambine possano essere libere di crescere e di vivere, piuttosto che cercare solo di sopravvivere. Il suo lavoro parte dalle sue drammatiche esperienze personali. I monologhi della vagina, scritto nel 1996, è basato su interviste a più di 200 donne. Il testo esalta la sessualità e la forza delle donne, e descrive le violazioni che le donne subiscono in tutto il mondo.
Il V-Day è nato invece dalle conversazioni che Ensler ha avuto con le donne che l’hanno avvicinata alla fine delle sue prime rappresentazioni de I monologhi della vagina per raccontare le proprie esperienze di violenza. Ensler ha iniziato a utilizzare i suoi spettacoli per raccogliere fondi a favore di organizzazioni che si battono per porre fine a questa violenza. In poco tempo, insieme al gruppo di donne che costituivano i V-Day, si è resa conto che il sostegno per i loro sforzi stava crescendo, arrivando sempre più lontano. Quella che era iniziata come una semplice possibilità si era trasformata in un movimento globale sociale ed attivista.
Nel 2002 il V-Day si è trasformato da un semplice “giorno di San Valentino” in un calendario di 12 settimane di eventi e in una campagna planetaria di azione sociale: One Billion Rising.
Oggi One Billion Rising è un movimento mondiale che aiuta le organizzazioni contro la violenza nel mondo a continuare a sviluppare il proprio lavoro sul campo, attirando contemporaneamente l’attenzione pubblica verso una più vasta lotta per fermare le violenze ai danni di donne e bambine.
Informazioni:
Nicoletta Billi - nicolettabilli@gmail.com
Gabriele Barcaro - gabriele.barcaro@gmail.com
* FONTE: NOI DONNE, 18 aprile 204
Mutilazioni genitali, l’Onu dice sì al bando universale
di Roberto Arduini (l’Unità, 21.12.2012)
Infibulazione, escissione. In due parole la storia tragica di moltissime bambine e donne che subiscono l’atrocità delle mutilazioni genitali (Mgf). L’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato la Risoluzione di messa al bando universale di queste pratiche, depositata dal Gruppo dei Paesi dell’Africa, il continente più interessato a questa usanza, e in seguito sostenuta dai due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite.
Il consenso al provvedimento è stato ampio e per la prima volta le Nazioni Unite si pronunciano su un fenomeno che è ritenuto lesivo della dignità e della salute di milioni donne in tutto il pianeta. Con la delibera l’Onu esorta gli Stati a sanzionare penalmente le mutilazioni genitali femminili, siano esse praticate all’interno di strutture sanitarie o altrove.
In Italia il voto è stato accolto in maniera favorevole soprattutto dai Radicali, impegnati in prima linea nella battaglia, e riuniti nella sede romana del partito per assistere alla votazione al Palazzo di Vetro di New York. «Questa Risoluzione rappresenta una conquista di civiltà per tutti, donne e uomini, e un risultato di cui essere fieri», ha detto Emma Bonino presente a Roma, insieme allo stesso Marco Pannella, impegnato nello sciopero della fame e della sete per la sua battaglia di legalità. Tra i presenti, Khady Koita, presidente dell’associazione La Palabre, senegalese, Elisabetta Zamparutti, deputata radicale, di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Belloni, Direttore Generale della Cooperazione allo Sviluppo, Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, gli ambasciatori di Svezia e Nigeria, il presidente del senato Schifani, Anna Fendi e molto altri dei principali attivisti che hanno partecipato alla campagna durata dieci anni.
Da New York i commenti sono stati altrettanto entusiasti. «È un messaggio di speranza per milioni di bambine e ragazze», ha detto Der Kogda, il rappresentante del Burkina Faso.
Nello specifico, le mutilazioni genitali femminili sono pratiche tradizionali attive in 28 paesi dell’Africa sub-sahariana e consistono nella rimozione di alcune parti degli organi riproduttivi delle bambine per scopi non di tipo terapeutico.
Secondo le ultime statistiche riguarderebbero circa 140 milioni di donne. Le due più diffuse sono appunto l’infibulazione e l’escissione. La prima consiste nella rimozione della clitoride, delle piccole labbra, di una parte delle grandi labbra e nella successiva chiusura del foro vaginale. L’escissione è una pratica più blanda che prevede la mutilazione della clitoride e delle piccole labbra. Oltre al trauma psicologico, le bambine sulle quali vengono praticate queste operazioni, sono spesso vittime di infezioni gravi che possono condurle anche alla morte.
V day contro il femminicidio
I «monologhi della vagina» per dire no alla violenza
Iniziativa promossa da «Se non ora quando» al Quirino con i testi di Ensler recitati da uno stuolo di attrici e donne per fermare la mattanza
di Rossella Battisti (l’Unità, 16.05.2012)
CHE COS’HANNO IN COMUNE L’IMPETTITA AVVOCATA PENALISTA GIULIA BONGIORNO E LA STRALUNATA ATTRICE COMICA LUNETTA SAVINO? La cantante Paola Turci e la giornalista Maria Luisa Busi o la deputata Paola Concia con Lella Costa? Unite i punti con un tratto di penna e otterrete la lettera D di donna, ovvero di V come vagina, ovvero V-day. Un giorno per ricordare, sottolineare, insistere sulla preziosa diversità della donna attraverso le testimonianze e le storie buffe e commoventi, tragiche e allegre che Eve Ensler ha raccolto ormai più di quindici anni fa. Una raccolta che ha fatto il giro del mondo a teatro e non solo -, tornata al Quirino di Roma per una serata speciale, accolta tra le braccia dell’Associazione «Se Non Ora Quando» e trasmessa a una platea partecipe e divertita dalle signore di cui sopra più tante altre, Lella Costa in testa a introdurre e chiudere.
Sono storie di «vagine», di donne, ragazzine e anziane viste dalla parte della natura, e su a risalire, a raccontare cosa significa essere il sesso represso e violentato in una società maschilista. La scrittrice newyorchese era partita nel 1996 da un rapporto dell’Onu in cui si riportava il dato inquietante che una donna su tre nel mondo avesse subito abusi. Ensler intervistò circa due- cento donne di ogni età e razza, classe e professione a partire da quel particolarissimo punto di osservazione. Componendo quel mosaico squillante ed evocativo che è i Monologhi della vagina. Ancora oggi, manifesto insuperato nel descrivere un mondo arretrato nei comportamenti e nella mancanza di rispetto per l’altra metà del cielo.
La serata al Quirino lo riprende ed è quasi un controcanto, ironico e pungente, alla marcetta fuori tempo del giorno prima che, sempre a Roma, capeggiata da Alemanno inneggiava all’abolizione della 194 e alle «donne assassine». Ma dove? Ma quando? I dati in Italia parlano chiaro, parlano male di maschi che odiano le donne. Le battono, le soffocano, le uccidono per impedir loro di non essere semplici oggetti di proprietà, ma persone dotate di pensieri ed emozioni. Di libertà, soprattutto. Anche quando si tratta di prendere decisioni gravi e severe sul proprio corpo.
Il tam tam mediatico funziona e il foyer del Quirino si riempie di ragazze di ogni età, in fila sventagliata davanti al botteghino. La maggior parte ha prenotato ed è lì solo per ritirare i biglietti per sé e per le amiche. Questo è uno spettacolo dove non si viene da sole: si solidarizza, si fa gruppo. Le mamme portano le figlie. E le nonne le amiche di gioventù. C’è anche qualche uomo sparuto, compagni di vita in versione dimessa e mansueta. Pochi i ragazzi, invece, forse messi in soggezione dalla prevalenza del femminino.
UN PALCO DIPINTO DI ROSSO
Cessato il brusio degli ingressi, il palco si accende di rosso con due schiere di donne sedute a semicerchio dirette dalla regia discreta e minimalista di Franza di Rosa. Davanti i leggii e i microfoni, arnesi del mestiere base per quella che diventa quasi seduta di autocoscienza. L’articolo di Sofri che commenta amaro i dati del femminicidio e che Lella Costa ricorda in apertura. Gli stupri come feroce arma di guerra in Bosnia e in Congo a cui sono dedicati monologhi come aghi di ghiaccio che si conficcano nell’anima. O pagine malinconiche, rimpianti di passioni umiliate come quella che interpreta, ironica e saggia, Lucia Poli di una vecchia signora a proposito del suo «là sotto», che dopo un paio di risvegli insurrezionali è stato chiuso «in cantina» per sempre. Paola Turci intona il canto triste delle violenze subite, Paola Concia e Giulia Bongiorno snocciolano dati. E su tutte si fa strada la strabordante simpatia di Marina Confalone, intenta a mimare l’alfabeto del piacere femminile. Altro che Harry e Sally, il campionario di gemiti e ululati, fermenti di piacere, le serpeggianti vocali lussuriose che modula la voce di Marina fanno due baffi all’orgasmino di Meg Ryan al tavolo del ristorante. Per favore, bis!
Eve Ensler ha fatto un libro raccogliendo testimonianze sulla violenza di genere
Quei nuovi monologhi in difesa delle donne
di Michela Marzano (la Repubblica, 02.03.2012)
È conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l’autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent’anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l’impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai.
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà a Milano il 2 aprile al teatro dell’Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l’arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine.
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. "Parlare del non detto. Parlare del già detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne". È così che inizia l’ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops.
Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c’è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al "loro posto", ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi "pezzi di vita" all’interno di un racconto coerente.
Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l’esperienza femminile, svelando ciò che accade nell’oscurità, lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra "perfetto", come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché "lui" ama i lividi e il sangue, mentre "lei" non sa più che fare: "Chi ero io? Chi sono io? Non c’è niente da fare. Non posso andarmene". È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra "normale" che una donna di colore sia violentata perché "il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei", come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a "fermare la violenza contro se stessa".
L’antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l’editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l’antologia curata dalla Ensler non è solo un "evento editoriale".
Era nato perché la parola delle donne si liberasse all’insegna della lettera "V" (Vittoria, Valentino - visto che il primo fu fatto il 14 febbraio - Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un’opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan.
Certo, non si potrà mai definitivamente eliminare l’ambiguità profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall’odio, dall’invidia, dalla volontà di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.
L’Italia all’Onu: fermate le mutilazioni genitali Ogni anni tre milioni di bambine restano vittime della barbarie Il ministro Fornero al Palazzo di Vetro: risoluzione entro l’anno
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 1.3.2012)
Martedì sera l’Assemblea Generale dell’Onu si è alzata in piedi, per cantare e ballare. Il «parlamento del mondo» si è preso un’ora di intervallo per ascoltare la voce di Angélique Kidjo, la cantante del Benin vincitrice del premio Grammy. Ma la ragione di questa iniziativa, presa dall’Italia, era seria e per nulla allegra: mettere fine alla mutilazione genitale femminile. Angélique, ambasciatore dell’Unicef, è salita sul palco insieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero, per scuoterci dall’apatia e spingere l’Assemblea Generale ad approvare una risoluzione che condanni la pratica e porti al suo divieto in tutto il mondo.
I numeri sono impressionanti. Ogni anno circa tre milioni di bambine e ragazze sono vittime della mutilazione genitale: ottomila al giorno. Una marea di esseri umani, che porteranno per tutta la vita i segni di questa inutile superstizione, quando non moriranno per le complicazioni. Per quale motivo? Nessuno, con tutto il rispetto per la cultura e la tradizione dei Paesi dove questa pratica continua da secoli. Non c’è una ragione religiosa, e tanto meno sanitaria, per giustificare questa violazione dei diritti umani. Basta ascoltare la testimonianza di Sarah Dioubate, una ragazza della Guinea: «Un giorno mia zia mi portò ad essere tagliata. Avevo sei anni, ricordo solo il dolore. Ebbi la sensazione che mi veniva rubata qualcosa, per sempre. Qualche anno dopo, una volta cresciuta, chiesi a mia madre perché aveva permesso che subissi questa violenza. Mi rispose che la pressione della società era troppo forte, per opporsi».
Naturalmente l’eliminazione di una pratica del genere non è un risultato che si ottiene schioccando le dita. «E’ molto radicata spiega Angélique e bisogna lavorare sulla persuasione per cambiare gli animi. Poi in Africa ci sono parecchie persone che vivono di questo: tagliare le ragazze dà loro un lavoro, se possiamo definirlo così, e uno status nella società. Bisogna offrire alternative, per sradicare la pratica. Però, è ora che gli africani comincino a prendere le decisioni giuste per il loro futuro. Abbiamo le nostre leadership legittime, che devono affrontare i problemi che ci affliggono. A partire dalla povertà, che spesso è l’origine di tutti questi mali. All’Occidente chiediamo di aiutarci, rispettandoci: non venite a dirci cosa dobbiamo fare, perché abbiamo il cervello e lo sappiamo da soli. Sosteneteci nel farlo, però».
Nel 2007 Unfpa e Unicef hanno lanciato un programma in 12 Paesi africani per fermare la mutilazione genitale, attraverso aiuti economici e informazione. Il piano ha dato i primi risultati, visto che circa 8.000 comunità hanno rinunciato alla pratica. Però non basta. Perciò l’Italia ha approfittato dell’incontro annuale della UN Commission on the Status of Women, per spingere la risoluzione all’Assemblea Generale: «E’ realistico sperare ha detto la Fornero che sia approvata entro l’anno».
Mutilazioni genitali settemila bimbe a rischio
In uno studio i dati choc sull’infibulazione in Italia
Oggi è la giornata mondiale contro questa pratica
I dati sono contenuti nel dossier «Il diritto di essere bambine»
IL FENOMENO L’usanza si è diffusa con l’incremento dell’immigrazione
LA TESTIMONIANZA «Spesso sono le stesse mamme a imporre quel supplizio alle figlie»
di Maria Corbi (La Stampa, 06.02.2012)
Ci sono cose che crediamo lontane dal nostro piccolo mondo sicuro. O forse siamo solo miopi rispetto a quello che ci circonda. Altrimenti non c’è spiegazione per lo stupore che colpisce come una lama quando si leggono le cifre raccolte dall’Albero della Vita in occasione della giornata mondiale contro le mutilazioni femminili, oggi: «In Italia a rischio 93.000 donne, fra cui più di 7.700 bambine».
Una cifra enorme, minuscola se rapportata al mondo dove ogni anno 140 milioni di donne sono sottoposte a queste pratiche barbare che ledono corpo, cuore, anima.
Il dossier «Il diritto di essere bambine» realizzato da L’Albero della Vita con l’Associazione Interculturale Nosotras, è una ferita anche per la società occidentale evoluta che deve fare i conti con il fenomeno dell’immigrazione. Per questo è partito nelle scuole (per adesso solo in Toscana) il progetto «pilota» di formazione e prevenzione. Per questo le parole di Gloria, una donna nigeriana sfregiata nella sua dignità quando era una bambina, sono oggi così importanti, la frattura di un muro di omertà. Gloria ha 35 anni, vive in Toscana e non si è mai sposata. Il pudore le impedisce di spiegare che anche la violenza che ha subito, quel coltello che le ha tolto un pezzo del suo essere donna, ha indirizzato la sua vita. «Voglio spiegare quello che mi è capitato perché non deve succedere più».
Gloria viveva in un paesino della Nigeria con sua nonna, una delle «ostetriche» locali che avevano il compito di incidere con la lama i genitali delle bambine per preservare la loro purezza. «Il coltello di nonna - racconta - doveva passare a me quando avessi avuto l’età per diventare io stessa l’aguzzina delle mie simili». Non c’è rancore nelle parole di questa donna che oggi ha deciso di aiutareil prossimo in Italia facendo l’infermiera. Lei ama sua nonna, una donna che aveva il limite di essere nata in un posto in cui le donne erano considerate ai suoi tempi solo forza da lavoro e da letto. Oggi che anche lì le cose sono cambiate, che ci sono donne in politica e negli affari, quello che non cambia è la consuetudine di imporre le mutilazioni alle bambine. Ne esistono di tre tipi, di ferocia diversa, dall’incisione al clitoride, all’asportazione delle piccole labbra, alla vera e propria infibulazione faraonica (cucitura delle grandi labbra per la restrizione dell’apertura vaginale).
In Egitto ancora oggi tra l’85 per cento e il 95 per cento delle donne ha subito l’infibulazione. In Somalia si sale al 98 per cento. Una donna non infibulata viene considerata impura, non riesce a trovare marito e rischia l’allontanamento dalla società.
Gloria ricorda il momento in cui decise che si sarebbe battuta contro questo orrore. «Avevo solo 11 anni quando ho assistito a una cerimonia in cui veniva mutilata una mia amichetta. Lei da neonata era stata male, era debole, per cui non le avevano praticato l’incisione. A nove anni invece la hanno considerata pronta e mia nonna mi ha detto che io dovevo fare parte del gruppo di donne che dovevano assistere al rito. Per spiegarmi per farmi accettare la cosa mi diceva che dopo una ragazza diventava più bella e pura. È stato terribile, un incubo che mi porto ancora dietro. In quel momento ho deciso che avrei combattuto per evitare ad altre donne questa ferita impossibile da rimarginare, soprattutto nella propria anima».
Gloria spiega che nonostante le leggi severe messe in campo dall’Italia per contrastare le mutilazioni genitali femminili, la battaglia è solo all’inizio. Un problema culturale, non religioso ed è una guerra tutta femminile. «Spesso gli uomini non sanno nemmeno di cosa si parla, a volte non sono neanche d’accordo. Mentre spesso sono le donne della famiglia che insistono perché le nuove leve abbiano questo marchio di purezza. Conosco a Firenze una signora del mio paese il cui marito è contrario a sottoporre la figlioletta alla mutilazione genitale. Ma lei mi ha detto chiaramente che quando tornerà al paese per le vacanze porterà con se la bambina perché venga “purificata”. Non vuole subire il disonore quando la piccola sarà adulta».
Al Palazzo di Vetro la battaglia contro le mutilazioni genitali
«Il corpo delle donne è un campo di battaglia», avevo detto nella trasmissione di Fazio & Saviano Una rappresentazione lagnosa? Non direi: ecco il quadro, dagli stupri di massa alle violenze domestiche
di Emma Bonino (l’Unità, 25.11.2010)
Lunedì sera, a Vieni via con me, ho detto che il corpo delle donne è un campo di battaglia, da tempo immemorabile e in ogni continente. Alcuni commenti sembrano suggerire che ho delineato un quadro troppo nero o «lagnoso» della situazione. Non credo.
È verissimo che in molti paesi le donne hanno conquistato nuove libertà e i movimenti al femminile sono i più vivaci ed innovativi. Penso in particolare all’Africa, al Medio Oriente e non solo. Ma proprio questa loro tenacia nel voler cancellare pratiche consuetudinarie violente e nefaste, questa loro forza e determinazione nel voler vivere rispettate come persone, da il segno tangibile della vastità del problema.
Oggi è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Una buona occasione per far mente locale sulle varie forme in cui si manifesta: dalla discriminazione di genere sul posto di lavoro agli stupri di massa documentati dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite, dalle migliaia di Sakineh alla violenza domestica «Gli amorosi assassini» come titola un documentatissimo libro di un gruppo di scrittrici fino alla ventilata legge sui «consultori», a prima firma Olimpia Tarzia, qui nel Lazio.
Ma per una battaglia in particolare questo è un periodo decisivo: quella contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). In Europa, Aidos e Amnesty International hanno lanciato la campagna «End FGM» per ottenere una direttiva europea sulla prevenzione della pratica e, a New York, diversi governi tra cui il nostro stanno lavorando assiduamente perche l’Assemblea Generale dell’Onu, attualmente in corso, adotti una Risoluzione per la loro messa al bando universale.
Gli esiti dell’azione diplomatica a New York non sono però scontati, con alcuni paesi che resistono, ricorrendo agli alibi più diversi. Per questo, personalità di rilievo internazionale e leader politici di 42 Paesi hanno sottoscritto un appello dell’associazione radicale «Non c’è Pace Senza Giustizia» e del Comitato Inter-Africano contro le Pratiche Tradizionali: Clio Napolitano e le First ladies di Burkina Faso, Uganda, Guinea Bissau e Benin, insieme a Premi Nobel, ministri, parlamentari e attivisti per i diritti umani chiedono a tutti i governi degli Stati membri di compiere i passi necessari per l’approvazione della Risoluzione. Il vantaggio di questo risultato è triplice: rafforzare la legittimità delle leggi già adottate a livello di singoli Stati; spingere tutti quei Paesi non ancora provvisti di legislazione ad attivare i propri Parlamenti; conferire ulteriore efficacia alle dichiarazioni già adottate in sede Onu in materia di tutela dei diritti delle donne.
Inoltre, contribuirebbe a far piazza pulita di una visione stereotipata delle MGF, spesso erroneamente ricondotte a questioni di carattere culturale o religioso, oppure relegate esclusivamente all’ambito sanitario, che pure esiste ma che di certo non ne esaurisce la portata. Una Risoluzione di messa al bando significherebbe riconoscere le MGF per quel che sono, una patente violazione dei diritti umani fondamentali di donne e bambine.
Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione. Per tutte quelle attiviste che hanno avuto il coraggio di affrontare apertamente la questione in contesti dove parlare di MGF voleva dire infrangere una secolare «regola del silenzio», rischiando talvolta la propria vita, una ferma presa di posizione della comunità internazionale avrebbe non solo l’effetto di legalizzare il loro impegno, ma di ricollocarle all’interno della società «dalla parte del giusto», dalla parte della legge. Persone che probabilmente non avranno mai occasione nella loro vita di visitare il Palazzo di Vetro ma che credono che le Nazioni Unite e i suoi Stati membri abbiano il dovere e gli strumenti per fare del mondo un posto migliore in cui vivere.
Intervista a Miriam Lamizana
«Quando le mutilazioni s’annunciavano alla radio»
La presidente del Comitato interafricano contro l’escissione dei genitali femminili: «Una risoluzione delle Nazioni Unite può aiutare le donne»
di Marina Mastroluca (l’Unità, 29.09.2010)
Miriam Lamizana ricorda ancora quando in Ciad si usava annunciare via radio la mutilazione sessuale delle proprie figlie. «Era una grande festa. Fuori c’era gente che ballava e cantava, dentro si sentivano gli strilli delle ragazzine. Se accadesse ora, se qualcuno provasse ora a dare un simile annuncio per radio, beh credo proprio che arriverebbe la polizia». Miriam Lamizana, già ministro degli Affari sociali del Burkina Faso, è presidente del Comitato interafricano contro le mutilazioni genitali femminili, in questi giorni a Roma dopo essere stata a New York per sostenere l’approvazione di una risoluzione Onu contro questa pratica che ha sfregiato 150 milioni di donne nel mondo.
In Italia ha trovato una sponda nell’associazione «Non c’è pace senza giustizia», che con Emma Bonino e il ministero degli Esteri sostiene la campagna perché si arrivi ad una risoluzione delle Nazioni Unite. «Sarebbe il coronamento di tutto il lavoro fatto in questi decenni e lo strumento per andare avanti», dice Miriam.
Il «lavoro» di cui parla è quello che oggi le consente di ridere, quando racconta degli annunci alla radio del Ciad. «Se lo immagina lei, un annuncio per dire: venite tutti alla mutilazione di mia figlia?». Perché non importa che sia parziale, non importa che il taglio preveda o meno l’amputazione completa dei genitali esterni. Non importa se sia infibulazione o escissione, o come la si voglia chiamare. Quello che è in gioco è il diritto delle donne a veder rispettata l’integrità del proprio corpo, un diritto umano, questo dice la bozza di risoluzione.
Come è nata questa campagna?
«All’inizio è stata soprattutto l’iniziativa di singoli attivisti, che sono riusciti nel tempo ad allargare la loro presa fino a coinvolgere i governi e istituzioni internazionali. Se proprio vogliamo indicare una data, è il decennio che parte dal 1975, quando si sono moltiplicate le iniziative contro la violenza sulle donne. Nel 1984 è nato il Comitato interafricano, che ha deciso di creare una propria struttura in ognuno dei 28 Paesi in cui si praticava l’escissione, in gran parte paesi dell’Africa occidentale e specialmente sub-sahariana, oltre al Corno d’Africa».
Una risoluzione Onu può cambiare davvero il ricorso ad una pratica che spesso è già vietata?
«Bisogna capire che noi lavoriamo per tappe. Abbiamo cominciato a livello nazionale, per vedere quali fossero gli ostacoli. Abbiamo fatto un’azione di sensibilizzazione, cominciando a parlare dei problemi che l’escissione provoca per la salute della donna e del bambino. Poi abbiamo cominciato a ragionare sull’educazione e sull’autonomia economica delle donne: sono tutti aspetti dello stesso problema. Ci sono resistenze socio-culturali che non si possono rimuovere dall’oggi al domani. Ma con l’azione dal basso abbiamo spinto il governo a prendere coscienza del problema e a riconoscere le associazioni che vi si dedicavano. Poi siamo passati su una scala regionale. Con la ratifica nel 2005 del protocollo di Maputo,che vieta tra l’altro le mutilazioni genitali femminili siamo riuscite a fare un altro passo: il protocollo ha spinto molti Paesi che non l’avevano a dotarsi di una legge specifica a questo proprosito. Oggi gli Stati che vietano l’escissione sono diventati 15 su 28, prima erano otto o nove. Per questo credo che la risoluzione Onu avrebbe un grande valore politico, perché spingerebbe i governi ad assumere politiche sempre più chiare e decise sulle mutilazioni genitali. E c’è poi un altro punto: servirebbe ad innescare la solidarietà di quei Paesi dove questa pratica non esiste, che potrebbero però dare un aiuto».
Che tipo di risposta avete trovato nei Paesi africani? Che cosa è cambiato?
«Il cambiamento si vede soprattutto nelle nuove generazioni. Nel mio Paese, per esempio, la percentuale di mutilazioni inflitte alle bambine è scesa dal 75 al 38%, con un processo cominciato dagli anni ‘70. In tutto questo tempo è caduto un tabù, che in Africa è molto forte quando si fa riferimento al sesso, e si è cominciato a parlare dell’escissione come di un problema, quanto meno di salute se non di diritti umani. C’è stata una presa di coscienza. In Mauritania, per esempio, i leader religiosi hanno emesso una fatwa contro le mutilazioni genitali. Ci sono programmi statali di informazione, che si preoccupano anche di trovare un lavoro alternativo alle donne che fino a questo momento hanno praticato l’escissione. Bisogna procedere per gradi, ma il segno del cambiamento c’è».
Come riuscite a convincere le comunità locali, dove si esercita materialmente la pressione sulle donne, a cambiare atteggiamento?
«Il mezzo principale è l’informazione. Cominciamo con le ostetriche. Una volta durante il parto si preoccupavano di riaprire le donne escisse, per far nascere il bambino, ma non dicevano nulla. Oggi invece spiegano alla nuova madre e alla sua famiglia perché devono procedere in questo modo, spiegano il danno prodotto dall’escissione e i rischi che comporta. Vengono affrontati anche problemi sessuali. Spesso capita infatti che la mutilazione dei genitali esterni, soprattutto quando è praticata in bambine molto piccole, cicatrizzi quasi completamente rendendo impossibile il rapporto sessuale. Facciamo vedere foto, video o manichini. E mostrare che cosa sia davvero un’escissione è molto più efficace di tante parole».
L’escissione è stata spesso considerata una cerimonia di iniziazione. Come si supera questo scoglio?
«Questo è sempre meno vero. L’introduzioni di leggi che la vietano, ha spinto a ricorrere a questa pratica in clandestinità, anticipando molto i tempi. Quando arriva il momento della cerimonia di iniziazione all’età adultà, le ragazze hanno spesso già subito la mutilazione. Le due cose quindi si sono separate. Noi cerchiamo di conservare la festa e cancellare il danno».
In Africa c’è una crescente presenza politica della donne. È questo che ha fatto la differenza?
«Potrei dire che è vero il contrario. C’è stata la generazione nata negli anni 50 che è stata molto attiva a livello di base, anche sul tema delle mutilazioni genitali, e da questa generazione sono emerse figure politiche. Ma è un processo che è cominciato dal basso, non viceversa».
Quelle donne mutilate scandalo per la civiltà
di Adriano Sofri (la Repubblica, 28.09. 2010)
Khady Koita ha una foto di bambina in copertina, e una foto da grande sul retro del suo libro. È bella, da bambina e da grande. È nata nel 1959, in Senegal. Il libro si intitola "Mutilata". "La parola orgasmo - spiega - non esiste nella mia lingua. Il piacere di una donna non è solo un tabù, è ignorato. La prima volta che qualcuna ne parlò in mia presenza, corsi alla biblioteca a frugare nei libri. La mutilazione praticata nell’infanzia, ci vogliono far credere che siamo nate così. Ci privano del piacere per dominarci, ma non del desiderio". Khady vive a Bruxelles, è presidente della rete europea contro le Mutilazioni genitali femminili (Mgf), oggi è a Roma con Emma Bonino. E con loro Mariam Lamizana, già ministro in Burkina Faso, la sua connazionale Marie Rose Sawadogo, la senegalese Ndeye Soukeye Gueye, militanti di spicco del Comitato interafricano contro le Mgf.
Escissione del, o della, clitoride, infibulazione, parole tecniche, come se il lessico si procurasse un preservativo, a scanso di guai. Il clitoride tagliato via. Tagliate via le piccole labbra, e parte delle grandi, la vulva cucita. Donne cucite. "Tagliata", scrive Khady, ma nella sua lingua soninke "salindé", "purificata per accedere alla preghiera". Si calcola che 150 milioni di donne vi siano state sottoposte. Tre milioni di bambine ogni anno. Gli Stati africani coinvolti sono 28: in 19 sono state varate leggi penali che sanzionano le Mgf. Naturalmente, fra la legge e la realtà c’è una distanza enorme.
Le mutilazioni genitali femminili sono una pratica tradizionale. Sono la più tradizionale delle pratiche. Raschiate il fondo della tradizione, e troverete sempre una prepotenza sulle donne. Paese che vai, usanze che trovi: giusto, ma fino a un certo punto. L’arroganza colonialista suscitò una ribellione tesa a riconoscere e riscattare le differenze fra le culture. Succede però che per raddrizzare il bastone storto lo si pieghi dall’altra parte. Quando sir Phileas Fogg, girando il mondo in ottanta giorni per scommessa, strappò al rogo vedovile la giovane Auda e se la portò a Londra e la sposò, fece benissimo. Nessuna tradizione giustifica il rogo delle vedove. Esiste una buona tradizione e una cattiva tradizione. È compito della civiltà conservare la prima e superare la seconda. Avviene spesso il contrario.
Una antropologia del "relativismo assoluto" spingerà il suo rispetto per le tradizioni altre fino a rifiutarsi di interferire con le Mgf. E di fronte all’importazione di questa pratica (qualche decina di migliaia di bambine all’anno in Italia) si adopererà caso mai a ridurne la virulenza, così da serbarne il simbolismo e minimizzarne l’effetto fisico: proposito apprezzabile in una condizione di emergenza, pur di non eludere il fondo del problema, e di non emulare il chirurgo che ricuce il moncherino al ladro cui è stata mozzata la mano.
Sul punto si svolse una discussione accanita in Toscana, nel 2004; riferendone, il libro di Carla Pasquinelli ("Infibulazione. Il corpo violato") avverte che "l’integrità non è altro che una particolare costruzione culturale del corpo". Solo che, spinta all’estremo, questa ragionevole constatazione abolisce l’habeas corpus. Il punto di vista delle donne, dunque delle bambine, è il più necessario e, unilaterale com’è, il più universale rispetto al significato della tradizione. Al contrario, l’argomento secondo cui interventi di mutilazione genitale sono sempre esistiti sia per le donne che per gli uomini - come la circoncisione maschile - vorrebbe "sdrammatizzare" il problema.
Con la differenza che la mutilazione femminile priva la donna del piacere sessuale, ciò che non è nemmeno immaginabile per l’uomo, e tanto meno le doglie esasperate dalla cicatrizzazione o la rottura mortale dell’utero. L’uomo non saprebbe pensare a una mutilazione del proprio piacere sessuale, ma ha saputo pensare a mutilarne la donna, e goderne e rassicurarsene. Che sia un indizio della brutalità maschile è evidente: è anche un indizio colossale dell’ottusità maschile.
Ogni volta la questione si ripresenta così. Un doppio regime legale in paesi di immigrazione, la legge dello Stato e la shariah per i musulmani, si traduce essenzialmente nella soggezione delle donne - poligamia maschile, velo, mutilazioni genitali, matrimoni infantili e imposti, delitto d’onore ecc. È così anche per la pena di morte. La ritorsione retorica di Ahmadinejad su Teresa Lewis - cui la barbarie della pena capitale degli Usa presta gravemente il fianco - mostra la corda proprio nella differenza riservata dall’Iran dei mullah alle donne, come nel tormento esemplare di Sakineh.
La pena di morte americana colpisce indiscriminatamente - cioé senza discriminazione deliberata. È anche quello che succede per l’attualità davvero bruciante dei rom. La premura per la loro diversità non si estende fino a esimerli, in qualunque luogo della terra si trovino, dal rispetto per l’incolumità, la dignità e la libertà delle donne (e dei bambini). Se ne dimenticano quelle autorità dal muso duro per le quali "gli zingari" vivano pure a loro modo, ma lontano da qui - lontano da ovunque. Programma molto più facile che sanzionarne i reati personali e criticarne gli abusi tradizionali, ma aiutandoli, quelle e quelli che lo vogliano, ad abitare, studiare e lavorare e sottrarsi alle vessazioni.
La 65a Assemblea generale delle Nazioni Unite può essere decisiva per il bando universale delle Mgf. La Risoluzione rafforzerebbe la lotta per far applicare la legge dove già c’è, per farla adottare dove manca, per procurare le risorse indispensabili alla sua attuazione. Senza fare classifiche, è una battaglia almeno altrettanto importante (e diplomaticamente impegnativa) che quella per abolire la pena di morte, cui è affine.
A Dakar, nel 1984, si costituì il Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali che investono la salute di donne e bambini. Dagli anni ‘90 è attiva la Rete europea per la prevenzione e la soppressione delle pratiche tradizionali nefaste. Nel 2000 Emma Bonino visitò il villaggio di Tourela, in Mali, dove le Mgf erano state ripudiate e sostituite da una festa che simboleggiava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
L’associazione sui diritti umani promossa dai radicali "Non c’è pace senza giustizia" tiene da allora un ruolo di primo piano. (Si trova online, per esempio nel sito della sanità dell’Emilia Romagna, una bibliografia ragionata in inglese sulle Mgf, di 2 mila titoli). Un risultato prezioso, tanto più coi tempi che corrono, è l’impegno pieno assunto dal Parlamento italiano e all’Onu dai ministri Frattini e Carfagna.
La novità emozionante è che a guidare la campagna all’Onu sono donne africane capaci di impegnare i propri paesi. Nel 2003 gli Stati dell’Unione Africana sottoscrissero il Protocollo di Maputo che dichiara le Mgf "violazione flagrante dei diritti umani fondamentali". Si sono impegnate da allora le prime signore d’Egitto, Suzanne Mubarak, di Gibuti, del Mali, del Burkina Faso, i governi e i parlamenti senegalese, mauritano, ivoriano, eritreo, beninese, e ugandese, kenyota, mozambicano. "Ogni tanto, mentre parlo di questo dramma - scrive Khady - qualcuno mi chiede: ‘Quando fa l’amore, che cosa sente? ‘ La prima volta mi sono sentita violata di nuovo. Oggi, queste domande non mi turbano più". Oggi, bisogna che turbino tanti altri.
Italia in prima fila all’Onu per il bando globale
«Basta infibulazione»
Niente più infibulazioni o escissioni di clitoride. L’Italia insieme all’Egitto si fa sponsor all’Onu per una risoluzione di messa al bando globale delle mutilazioni sessuali femminili, rituali inflitte a 3 milioni di donne l’anno.
di Rachele Gonnelli (l’Unità, 25.09.2010)
Non toccate le bambine. Il titolo non è questo ma il senso sì, della risoluzione per una messa al bando universale delle pratiche di mutilazione sessuale femminile presentata ufficialmente all’Assemblea dell’Onu su impulso dell’Italia e dell’Egitto. Il testo in realtà è il risultato di un lavoro diplomatico che coinvolge molti altri Paesi, inclusi alcuni dove recentemente sono state approvate leggi che puniscono queste mutilazioni rituali ed è frutto di una battaglia decennale che ha coinvolto associazioni, istituzioni e anche religiosi islamici.
A partire dalla Conferenza del Cairo del 2003 che ha visto il protagonismo, su questo problema, della First Lady egiziana, moglie del presidente Hosni Mubarak, Suzanne. Conquistata alla causa e molto attiva è anche la First Lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré. Oggi dei 29 Paesi dove esistono mutilazioni tradizionali delle bambine, in 19 di questi sono state introdotte norme di proibizione ma «c’è ancora molto lavoro da fare», dice Emma Bonino, da sempre impegnata in questa battaglia. Si stima che ogni anno nel mondo tre milioni di bambine vengano sottoposte a escissione o infibulazione. È chiaro che il potere di reprimere santoni e mammane che si prestano a questi riti di iniziazione è compito degli Stati, così come promuovere una cultura del rispetto del corpo delle donne e delle bambine. La risoluzione Onu è soprattutto un emblema. Ma riconoscere l’inviolabilità della sessualità femminile come parte dell’integrità fisica da tutelare, come diritto umano, significherebbe dare forza al fronte abolizionista.
L’IMPEGNO DI ROMA
L’Italia porta in dote l’esperienza diplomatica sulla moratoria universale della pena di morte e la legge del 2004 che proibisce le mutilazioni sessuali femminili anche nel nostro territorio. Secondo l’Istat, infatti anche in Italia sono circa 35mila le donne e le bambine emigrate vittime annualmente di quella che può essere considerata una pratica pre islamica, non indicata nel Corano ma che trova origine nella notte dei tempi ed è difficile ancora oggi da estirpare specialmente in alcune aree dell’Africa, nel Sud Est asiatico e in Medioriente.
LE NAZIONI UNITE
Arrivare ad una risoluzione che sia approvata e condivisa dalla stragrande maggioranza dei rappresentanti dei 192 membri delle Nazioni unite non è un percorso semplice o breve. L’obiettivo resta quello di ottenere un risultato entro il 2015. Per il momento si tratta ancora dei primi passi. La prima fase del dibattito generale all’Assemblea si concluderà oggi pomeriggio, quando è previsto, tra gli altri, l’intervento su questi temi del ministro degli Esteri Franco Frattini. Il Senato italiano ha approvato una decina di giorni fa una mozione trasversale ai partiti e agli schieramenti politici che supporta l’impegno del governo italiano per promuovere e sostenere a livello nazionale e internazionale tutte le iniziative perché la 65esima Assemblea generale delle Nazioni Unite adotti una risoluzione contro le mutilazioni genitali femminili.
Burkina Faso Emma Bonino fra i promotori dell’iniziativa
«Mai più mutilazioni femminili. Ora l’Onu le metta al bando»
di Cecilia Zecchinelli (Corriere della Sera, 12.11.2009)
OUAGADOUGOU - «I risultati ci sono, la lotta nonostante i problemi va avanti. E la prossima tappa è ora la messa al bando definitiva e globale delle mutilazioni genitali femminili con una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che verrà adottata, sono convinta, entro la fine del 2010. Con l’appoggio dell’Italia, i governi africani si stanno muovendo». Emma Bonino traccia un primo bilancio della Conferenza internazionale «Dal Cairo a Ouagadougou » che si è svolta lunedì e martedì nell’infuocata capitale del Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri ma tra i più impegnati nello sradicare la tortura inflitta ogni anno nel mondo a due milioni di donne e bambine. Sono trascorsi sei anni dall’inizio della grande campagna anti- Mgf lanciata in Egitto dalla Bonino e dalla first Lady Suzanne Mubarak. A Ouagadougou la vice presidente del Senato era al fianco di decine di attiviste e politiche del Continente, coloratissime negli abiti tradizionali ma soprattutto molto combattive. «È una battaglia comune, perché le mutilazioni resistono in 27 Paesi africani e in Yemen ma riguardano tutti: in Europa per altro stanno aumentando tra gli immigrati e in Italia si stimano 30 mila casi - spiega -. L’Italia, con l’Ong ’Non c’è pace senza giustizia’ e la Cooperazione, ha un ruolo di sostegno, nessun atteggiamento coloniale sia chiaro. La leadership è africana, come africani saranno i Paesi primi firmatari della risoluzione Onu, riuniti già lo scorso settembre a New York dal ministro Frattini e impegnati anche da questa conferenza ad arrivare al voto in Assemblea nel dicembre 2010». Un voto e una conferenza che non sono atti formali.
«Sono invece tappe importanti, come le leggi che vietano ormai le mutilazioni in 18 Paesi dell’Africa - continua Emma Bonino -. Non hanno sradicato ancora il fenomeno, a fianco serve molta attività di terreno, ma l’hanno ridotto: in Egitto ad esempio si è scesi in sei anni dal 98% della popolazione femminile a meno del 50%. E danno uno status di legalità alle attiviste: in Sierra Leone, con il Mali uno degli Stati più refrattari al cambiamento, sono viste come streghe e hanno avuto le case bruciate, ovunque esistono fenomeni di rifiuto sociale». Non di origine religiosa, ma tollerata o perfino incoraggiata dalle religioni (soprattutto l’Islam), l’escissione femminile è stata inflitta nel mondo a 150 milioni di donne e bambine. «E’ per loro che dobbiamo lottare al grido di tolleranza zero», ha dichiarato nella Conferenza la first lady del Burkina, Chantal Compaoré, una delle prime donne d’Africa impegnate direttamente, anche finanziariamente, nella campagna. «Il mio sogno adesso è portarle tutte, con le ministre, a New York per la firma della risoluzione - dice Emma Bonino -. La battaglia per arrivare alla moratoria sulla pena di morte è stata lunga e difficile ma ha avuto successo. Ci stiamo muovendo con la stessa metodologia e la stessa energia. E ci riusciremo » .
Dalla parte di tutte le bambine
Si apre oggi nel Burkina Faso la conferenza mondiale per la messa al bando delle mutilazioni genitali. All’Onu il prossimo passo
di Emma Bonino (l’Unità, 09.11.2009)
Ricordo ancora con emozione il racconto di donne africane, con le quali ho poi stretto amicizia, sulla lotta che faticosamente e nella quasi totale clandestinità stavano portando avanti da oltre un ventennio. Eravamo alla fine degli anni Novanta, avevo da poco concluso il mio mandato di Commissaria europea e, nonostante ne avessi sentito parlare essendomi occupata di Africa a lungo, fino ad allora non mi ero impegnata in prima persona contro la pratica, così diffusa nel grande continente, delle mutilazioni genitali femminili. All’epoca, parlarne apertamente era impensabile in molte realtà, si trattava di un argomento tabù, gelosamente custodito all’interno delle comunità in nome di tradizioni antichissime spesso confuse con le religioni. La conoscenza dell’incidenza effettiva delle mutilazioni genitali femminili mi colpì per la sua violenza, per la sua portata simbolica di soggiogamento della donna, per le conseguenze nefaste sulla salute psicofisica delle vittime, ma soprattutto per la sua diffusione: due milioni di bambine esposte al rischio di mutilazione ogni anno. La determinazione delle attiviste africane e la loro espressa richiesta di sostegno, mi convinse della necessità di un impegno di lungo periodo e fu così che con gli amici di Non c’è Pace Senza Giustizia decidemmo di lanciare una campagna internazionale. L’obiettivo della prima fase fu di contribuire a sollevare la coltre di silenzi. Grazie all’impegno della first lady egiziana Suzanne Mubarak, nel 2003 le militanti anti-mutilazioni si sono ritrovate sedute attorno allo stesso tavolo con i rappresentanti dei rispettivi governi e, per la prima volta, si è parlato di mutilazioni genitali femminili come violazione di uno dei diritti basilari della persona, il diritto all’integrità fisica. La partecipazione delle più alte autorità religiose musulmane e copte ha scardinato l’alibi religioso fino a quel momento usato per giustificare la pratica. Di lì a qualche settimana l’Unione Africana ha adottato il Protocollo di Maputo, un trattato entrato in vigore nel 2005 che bandisce le mutilazioni genitali come violazione dei diritti umani della donna.
Come spesso accade quando si tratta di conquiste di civiltà e di spazi di libertà individuale, le esperienze altrui possono giocare un ruolo decisivo nel determinare un’accelerazione, ed è proprio quello che è successo in questa campagna. Dopo il 2003 la rete di attiviste locali ha iniziato a fare sinergia, la loro azione con i governi è diventata più efficace e, ad oggi, 18 Stati africani sui 28 dove si praticano le mutilazioni genitali femminili hanno adottato una legge che punisce penalmente la pratica e hanno messo in campo campagne d’informazione e di sensibilizzazione. A distanza di quasi un decennio, i risultati ottenuti sono eccellenti e continua a crescere il numero di Paesi che scelgono di dotarsi di un quadro legislativo di prevenzione e sanzione. Nel corso della seconda Conferenza del Cairo, che si è tenuta nel dicembre del 2008 grazie al contributo del governo italiano, tutti i partecipanti, governativi e non, hanno preso atto dei considerevoli passi avanti compiuti negli ultimi cinque anni e hanno affermato l’intenzione di raddoppiare i propri sforzi. È ormai evidente l’esistenza di una volontà generalizzata di creare le condizioni politiche per sradicare questa pratica una volta per tutte. Il governo italiano, da anni molto attento e sensibile a questa campagna, ha di recente adottato iniziative ai più alti livelli diplomatici affinché la prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvi una risoluzione di condanna delle mutilazioni genitali femminili come violazione dei diritti umani e che inviti i governi dei Paesi interessati ad adottare tutte le misure necessarie a contrastare il fenomeno.
Con questo spirito la first lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré, ha voluto organizzare con Non c’è Pace Senza Giustizia e con il sostegno della Cooperazione Italiana la conferenza «Dal Cairo a Ouagadougou: verso la definitiva messa al bando delle mutilazioni genitali femminili», che si apre oggi nella capitale burkinabé. Le first ladies dell’Africa occidentale sono state invitate a partecipare per sancire con la loro presenza l’impegno politico dei rispettivi Paesi a cooperare. Mentre fervono i preparativi per questo evento, le attiviste di tutta la regione cominciano ad arrivare in una torrida e caotica Ouagadougou, dove i venti degli ultimi giorni hanno colorato il cielo di sfumature rosso-arancio e dove le donne burkinabé sfrecciano per le strade sui loro scooter, lasciandosi dietro nuvoloni multicolori che si mescolano alle mille tinte dei loro abiti tradizionali. ❖
EVE ENSLER: LE DONNE E IL POTERE *
Abbiamo rivendicato come donne le nostre storie e le nostre voci, ma non abbiamo ancora decostruito gli stimoli culturali alla violenza, e le cause della violenza. Non abbiamo ancora rivelato quella cornice concettuale che in ogni singola cultura permette la violenza, si aspetta la violenza, istiga alla violenza. Non abbiamo smesso di insegnare ai ragazzi la negazione del loro essere tristi, dubbiosi, addolorati, vulnerabili, teneri e compassionevoli. Non abbiamo eletto, ne’ siamo state elette noi stesse, leader che rifiutino la violenza e che mettano la sua fine al centro di tutto.
Non abbiamo ancora fatto della violenza contro le donne qualcosa di anormale, non ordinario, non accettabile. Se vogliamo che la violenza contro le donne finisca tutta la storia deve cambiare. L’unico motivo per avere potere che trovo sensato e’ fare in modo che altre persone scoprano il proprio. L’unico motivo per essere in una posizione di leadership che trovo sensato e’ ispirare gli altri.
La relazione fra donne e potere non puo’ essere lo scalare ad ogni costo l’attuale gerarchia patriarcale e burocratica, perche’ la questione e’: come possono donne che sono state finanziate dalle medesime corporazioni economiche, sostenute dallo stesso sistema di esclusione e corruzione, essere poi differenti nelle loro decisioni? Io ho un’altra visione, in cui le donne che diventano leader, deputate, eccetera, sono quelle per cui l’empatia e’ primaria ed essenziale quanto l’intelligenza, quelle che dicono il nucleare ne’ oggi ne’ mai, quelle che si occupano di contrastare il razzismo, di fermare il surriscaldamento globale, quelle che ritengono prioritarie l’educazione sessuale, la salute riproduttiva, il sostegno al lavoro di cura. Io credo che le donne possano e debbano mostrare questo nuovo tipo di potere.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 802 del 26 aprile 2009
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Eve Ensler (su cui cfr. il sito www.vday.org]
DOCUMENTI.
Legge 9 gennaio 2006, n. 7, "Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 14 del 18 gennaio 2006
Art. 1. Finalita’
1. In attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, la presente legge detta le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrita’ della persona e alla salute delle donne e delle bambine.
Art. 2. Attivita’ di promozione e coordinamento 1. La Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari opportunita’ promuove e sostiene, nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio, il coordinamento delle attivita’ svolte dai Ministeri competenti dirette alla prevenzione, all’assistenza alle vittime e all’eliminazione delle pratiche di mutilazione genitale femminile.
2. Ai fini dello svolgimento delle attivita’ di cui al comma 1, la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le pari opportunita’ acquisisce dati e informazioni, a livello nazionale e internazionale, sull’attivita’ svolta per la prevenzione e la repressione e sulle strategie di contrasto programmate o realizzate da altri Stati.
Art. 3. Campagne informative
1. Allo scopo di prevenire e contrastare le pratiche di cui all’articolo 583-bis del codice penale, il Ministro per le pari opportunita’, d’intesa con i Ministri della salute, dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca, del lavoro e delle politiche sociali, degli affari esteri e dell’interno e con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, predispone appositi programmi diretti a:
a) predisporre campagne informative rivolte agli immigrati dai Paesi in cui sono effettuate le pratiche di cui all’articolo 583-bis del codice penale, al momento della concessione del visto presso i consolati italiani e del loro arrivo alle frontiere italiane, dirette a diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona, in particolare delle donne e delle bambine, e del divieto vigente in Italia delle pratiche di mutilazione genitale femminile;
b) promuovere iniziative di sensibilizzazione, con la partecipazione delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni no profit, delle strutture sanitarie, in particolare dei centri riconosciuti di eccellenza dall’Organizzazione mondiale della sanita’, e con le comunita’ di immigrati provenienti dai Paesi dove sono praticate le mutilazioni genitali femminili per sviluppare l’integrazione socio-culturale nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, in particolare delle donne e delle bambine;
c) organizzare corsi di informazione per le donne infibulate in stato di gravidanza, finalizzati ad una corretta preparazione al parto;
d) promuovere appositi programmi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole dell’obbligo, anche avvalendosi di figure di riconosciuta esperienza nel campo della mediazione culturale, per aiutarli a prevenire le mutilazioni genitali femminili, con il coinvolgimento dei genitori delle bambine e dei bambini immigrati, e per diffondere in classe la conoscenza dei diritti delle donne e delle bambine;
e) promuovere presso le strutture sanitarie e i servizi sociali il monitoraggio dei casi pregressi gia’ noti e rilevati localmente.
2. Per l’attuazione del presente articolo e’ autorizzata la spesa di 2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2005.
Art. 4. Formazione del personale sanitario
1. Il Ministro della salute, sentiti i Ministri dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca e per le pari opportunita’ e la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, emana, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, linee guida destinate alle figure professionali sanitarie nonche’ ad altre figure professionali che operano con le comunita’ di immigrati provenienti da Paesi dove sono effettuate le pratiche di cui all’articolo 583-bis del codice penale per realizzare un’attivita’ di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine gia’ sottoposte a tali pratiche.
2. Per l’attuazione del presente articolo e’ autorizzata la spesa di 2,5 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2005.
Art. 5. Istituzione di un numero verde
1. E’ istituito, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, presso il Ministero dell’interno, un numero verde finalizzato a ricevere segnalazioni da parte di chiunque venga a conoscenza della effettuazione, sul territorio italiano, delle pratiche di cui all’articolo 583-bis del codice penale, nonche’ a fornire informazioni sulle organizzazioni di volontariato e sulle strutture sanitarie che operano presso le comunita’ di immigrati provenienti da Paesi dove sono effettuate tali pratiche.
2. Per l’attuazione del presente articolo e’ autorizzata la spesa di 0,5 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2005.
Art. 6. Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili
1. Dopo l’articolo 583 del codice penale sono inseriti i seguenti:
"Art. 583-bis. - (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili). - Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili e’ punito con la reclusione da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo.
Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, e’ punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena e’ diminuita fino a due terzi se la lesione e’ di lieve entita’.
La pena e’ aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se il fatto e’ commesso per fini di lucro.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresi’ quando il fatto e’ commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole e’ punito a richiesta del Ministro della giustizia.
Art. 583-ter. - (Pena accessoria). - La condanna contro l’esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti dall’articolo 583-bis importa la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da tre a dieci anni. Della sentenza di condanna e’ data comunicazione all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri".
2. All’articolo 604 del codice penale, al primo periodo, le parole: "da cittadino straniero" sono sostituite dalle seguenti: "dallo straniero" e, al secondo periodo, le parole: "il cittadino straniero" sono sostituite dalle seguenti: "lo straniero".
Art. 7. Programmi di cooperazione internazionale
1. Nell’ambito dei programmi di cooperazione allo sviluppo condotti dal Ministero degli affari esteri e in particolare nei programmi finalizzati alla promozione dei diritti delle donne, in Paesi dove, anche in presenza di norme nazionali di divieto, continuano ad essere praticate mutilazioni genitali femminili, e comunque senza nuovi o maggiori oneri per lo Stato, sono previsti, in accordo con i Governi interessati, presso le popolazioni locali, progetti di formazione e informazione diretti a scoraggiare tali pratiche nonche’ a creare centri antiviolenza che possano eventualmente dare accoglienza alle giovani che intendano sottrarsi a tali pratiche ovvero alle donne che intendano sottrarvi le proprie figlie o le proprie parenti in eta’ minore.
Art. 8. Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 1. Dopo l’articolo 25-quater del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e’ inserito il seguente:
"Art. 25-quater. 1. - (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili).
1. In relazione alla commissione dei delitti di cui all’articolo 583-bis del codice penale si applicano all’ente, nella cui struttura e’ commesso il delitto, la sanzione pecuniaria da 300 a 700 quote e le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno. Nel caso in cui si tratti di un ente privato accreditato e’ altresi’ revocato l’accreditamento.
2. Se l’ente o una sua unita’ organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei delitti indicati al comma 1, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attivita’ ai sensi dell’articolo 16, comma 3".
Art. 9. Copertura finanziaria
1. Agli oneri derivanti dagli articoli 3, comma 2, 4, comma 2, e 5, comma 2, pari a 5 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2005, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2005-2007, nell’ambito dell’unita’ previsionale di base di parte corrente "Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2005, allo scopo parzialmente utilizzando, quanto a euro 5.000.000 per l’anno 2005, a euro 769.000 per l’anno 2006 e a euro 1.769.000 a decorrere dall’anno 2007, l’accantonamento relativo al Ministero della salute, quanto a euro 4.231.000 per l’anno 2006, l’accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri e quanto a euro 3.231.000 a decorrere dall’anno 2007, l’accantonamento relativo al Ministero dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze e’ autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
GIULIANA SGRENA: "HAWLATI", UN GIORNALE CONTRO LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI [Dal quotidiano "Il manifesto" dell’11 dicembre 2008 col titolo "Infibulazione in prima pagina, sfidando il codice penale" e il sommario "Stampa. Con 12.000 copie due volte a settimana, ’Hawlati’ parla di sesso, donne, gay. E non si fa intimidire"] *
"Hawlati" (che vuol dire "cittadino") e’ il principale giornale di opposizione in Kurdistan, esce due volte la settimana con una tiratura di circa 12.000 copie, che vengono tutte vendute (a 1.000 dinari, circa 70 centesimi di euro) e permettono cosi’ la sopravvivenza del foglio. Una ventina di pagine, quattro delle quali dedicate in questi giorni alle donne, e comunque mai meno di due, afferma la caporedattrice Azhen Abdulkalik. I problemi sono molti e non e’ facile affrontarli senza incorrere in sanzioni, anche se questi temi sono all’ordine del giorno in parlamento.
Lo scorso 24 novembre il medico Adil Hussein e’ stato condannato a sei mesi di prigione per un articolo pubblicato da "Hawlati" l’11 aprile 2007 in cui affrontava i problemi del sesso e dell’omosessualita’ dal punto di vista scientifico. E’ stato condannato in base all’articolo 403 del codice penale (pubblicazione di materiale immorale), nonostante la nuova legge sulla stampa, approvata dal parlamento kurdo in settembre, abbia abolito il carcere per il reato di diffamazione.
Incontriamo Azhen Abdulkalik nella sede del giornale, nel centro di Erbil, al pianterreno una piccola biblioteca, ai piani superiori la redazione. Il fatto che sia una donna in un posto di responsabilita’ e’ una eccezione, del resto lei e’ l’unica donna tra gli otto giornalisti della redazione nella capitale kurda, altre due lavorano a Suleimanya.
Ci mostra la prima pagina dell’ultima edizione: si parla di mutilazioni genitali femminili, una delle violenze piu’ atroci praticata sul corpo delle bambine, che ora si cerca di estirpare, anche con una legge. Sono piu’ di 30.000 le bambine che hanno subito mutilazioni nell’ultimo anno: il 60% delle ragazze tra i 4 e i 14 anni viene privata di una parte degli organi genitali con rasoi o cocci di vetro, con conseguenze facilmente immaginabili. La media delle donne kurde infibulate e’ del 38%, ma la percentuale e’ di molto superiore (62%) nei villaggi della zona kurda di Kirkuk, secondo una ricerca fatta dall’ong tedesca Wadi. Parlarne e’ difficile, c’e’ chi non vuole nemmeno pronunciare la parola e rifiuta di tradurla. Ma non Azhen, il suo giornale da tempo sta portando avanti una campagna contro l’infibulazione - non diffusa nel resto dell’Iraq - anche pubblicando opinioni di esponenti religiosi. In un recente articolo Bekhal abu Bakr, segretaria generale dell’Unione delle donne islamiche, ha scritto che "le mutilazioni genitali femminili non sono una pratica islamica" e che "molti dei problemi vissuti dalle donne sono il risultato di tradizioni sbagliate, che non possono essere attribuite all’islam".
"Hawlati" si occupa di tutti i problemi sociali e anche della corruzione del governo, per questo finisce spesso sui banchi della giustizia. Il giornale e’ stato perseguito 35 volte per aver pubblicato inchieste sulla corruzione. Ma i giornalisti del giornale non si lasciano intimidire.
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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE. Numero 224 del 13 dicembre 2008
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
DONNE: ITALIA PAESE UE CON MAGGIOR NUMERO DI INFIBULAZIONI
(ASCA) - Roma, 21 nov - L’Italia e’ uno dei Paesi membri dell’Europa con il piu’ alto numero di donne infibulate. A rivelare ’’l’inquietante’’ dato sulle mutilazioni genitali femminili e’ stata stamane l’eurodeputato Roberta Angelilli, rappresentante del Forum europeo per i minori e delegato del sindaco di Roma per i diritti dei minori durante il workshop ’’Mutilazioni genitali femminili. Che fare?’’, organizzato nella sala del Carroccio in Campidoglio.
Secondo gli ultimi dati Istat sulla presenza di donne straniere residenti in Italia al dicembre 2007, si contano, infatti, 67.988 donne provenienti da Paesi a tradizione scissoria e quindi potenzialmente a rischio (Egitto, Ghana, Costa D’Avorio, Eritrea, Burkina Faso, Etiopia, Camerun, Somalia, Guinea, Sudan, Kenya, Sierra Leone, Niger, Mali, Repubblica Centrafricana). Di queste donne, circa 40mila, e’ emerso nel corso dei lavori, sono state gia’ sottoposte alla pratica di infibulazione e ogni anno, 6mila bambine, tra i 4 e i 12 anni, rischiano di essere sottoposte a questa pratica illegale.
Le comunita’ provenienti da questi Stati sono concentrate soprattutto nelle grandi citta’ del nord (Milano, Torino, Bologna) e a Firenze e Roma.
Nel Lazio, in particolare, vivono circa 29mila donne provenienti dall’Africa e di queste, circa 10 mila provengono da Paesi nei quali e’ diffusa la pratica delle mutilazioni genitali femminili. A Roma e provincia, nello specifico, le donne a rischio di mutilazioni genitali femminili sono circa 8.500.
res-gc/dnp/ss
In Egitto nuova legge mette al bando l’infibulazione *
il Parlamento egizianoIl parlamento egiziano ha approvato nuove leggi che proibiscono le mutilazioni femminili e fissano a 18 anni l’età minima di maschi e femmine per potersi sposare. Le nuove norme approvate sabato prevedono dai tre mesi ai 2 anni di carcere o una multa di 190-940 dollari per chi esegue l’infibulazione, pratica rituale che di fatto elimina per le donne la possibilità di provare piacere nell’atto sessuale con la totale o parziale asportazione della clitoride e delle grandi labbra. La norma sul divieto delle mutilazioni femminili, inserita nel testo che riguarda i diritti del bambino, è stata fortemente osteggiata dal movimento dei Fratelli Musulmani.
In base alla nuova normativa - che rientra in una legge sui diritti dell’infanzia ed è in vigore da lunedì- praticare l’escissione parziale o totale degli organi genitali esterni femminili è punibile con una pena da tre mesi a due anni di reclusione o una multa compresa fra 1.000 e 5.000 lire egiziane, cioè una cifra compresa tra i 118 e i 590 euro.
La nuova legge - che pure è un successo del movimento abolizionista per i diritti delle donne - precisa però che l’escissione può essere praticata in caso di «necessità medica», aprendo così la via ad interpretazioni che rischiano di ridurne di molto la portata. I difensori dell’escissione, una pratica che non ha alcuna base nei testi religiosi musulmani e cristiani, sostengono che essa è legittima quando gli organi femminili sono «troppo sporgenti» e che comunque è necessaria per preservare la virtù delle donne.
In Egitto il 96% delle donne, musulmane o cristiane, subiscono mutilazioni sessuali, secondo uno studio condotto dall’ufficio governativo demografico nel 2005 su donne fra i 15 e i 49 anni. L’anno scorso, in seguito alla morte di una bambina di undici anni per le complicanze di un’operazione di escissione nel governatorato di Minya nell’Alto Egitto, il ministero della salute egiziano aveva emanato un decreto che dichiarava illegale l’escissione genitale femminile in tutti gli ospedali e le cliniche private del Paese.
Novità rilevante anche per l’introduzione di una norma che permette alle madri nubili di registrare i figli all’anagrafe. Le nuove disposizioni sono state fortemente osteggiate dal movimento dei Fratelli Musulmani, maggiore forza di opposizione politica del paese arabo, che le accusano di «minare i fondamenti della famiglia egiziana». In precedenza, le giovani egiziane potevano contrarre matrimonio legalmente al compimento del sedicesimo anno di età, mentre i figli delle donne nubili erano destinati a non esistere per lo stato egiziano.
«I bambini non possono essere ritenuti colpevoli degli errori dei loro genitori» ha commentato il direttore del quotidiano governativo al Akbar «e senza un certificate di nascita il minore non può neanche frequentare la scuola». Di parere contrario Mohamed el Beltagy , parlamentare indipendente della Fratellanza musulmana, per cui le nuove norme «sono state imposte dall’esterno e contraddicono la nostra cultura, tradizione e religione».
* l’Unità, Pubblicato il: 09.06.08, Modificato il: 09.06.08 alle ore 19.31
Ansa» 2008-05-21 17:58
KENYA, BRUCIATE VIVE 15 DONNE ACCUSATE DI ESSERE STREGHE
NYAKEO (KENYA) - Quindici donne sono state bruciate vive ieri sera in un villaggio del Kenya occidentale da una folla che le accusava di stregoneria. Lo ha detto oggi un corrispondente della France Presse. Nel villaggio di Nyaeko, 300 km a ovest di Nairobi, un centinaio di persone è andato casa per casa a prendere le donne, che sono state legate e poi bruciate, secondo quanto hanno detto alla Afp un responsabile del villaggio e alcuni suoi abitanti.
"E’ inaccettabile. La gente non può farsi giustizia da sola solo perché sospetta di qualcuno. Daremo la caccia ai sospettati (del massacro)", ha detto il responsabile locale del distretto, Mwangi Ngunyi. Negli anni ’90 decine di persone sospettate di stregoneria erano state uccise nel Kenya occidentale, a causa di voci secondo le quali c’era chi era diventato cannibale, sordo, muto o sonnambulo sotto l’effetto di sortilegi, così che questa regione ha acquistato la reputazione di "zona di streghe".
EVE ENSLER: IL GIORNO-V COMPIE DIECI ANNI
Negli ultimi dieci anni ci sono state molte vittorie: le donne hanno pronunciato la parola "v" dove non era mai stata neppure sussurrata; donne si sono opposte a governi locali e nazionali, si sono confrontate con forze religiose, genitori, mariti, amici, autorita’ universitarie, presidi, e con la voce al loro interno che giudica e censura. Le studentesse dei college in tutto il mondo hanno fatto del giorno-V un evento radicale annuale, dove le donne reclamano i loro corpi, raccontano le violazioni che hanno subito, i loro desideri, i loro successi, la loro vergogna, le loro avventure. Nel giorno-V le donne scoprono il loro potere, la loro voce, la loro capacita’ di essere guide ed attiviste; e si trovano l’un l’altra, donne che solidarizzano con altre di differenti parti del mondo, donne che rilasciano i ricordi che avevano piegato i loro corpi e disperso le loro energie, donne che salgono sul palco e con accenti africani, indiani, anglosassoni, del sud e del nord, parlano, gridano, sussurrano, ridono e gemono.
Ho cosi’ tante storie da raccontare, cosi’ tante immagini: un gruppo di trenta ex "donne di conforto", tra i 70 e i 90 anni d’eta’, che cantano "puke" (vagina in lingua Tagalog) con i pugni alzati (la maggior parte di esse non aveva mai neppure pronunciato la parola durante la propria intera vita). Centinaia di ragazze in Kenya, che danzano sotto il sole africano per l’apertura del primo rifugio "Giorno-V", perche’ i loro genitali non sarebbero stati mutilati. Una scuola femminile cattolica ad Haiti stipata di 500 donne e ragazzi, con gli uomini ad urlare dal retro alle attrici, e sempre ad Haiti un corteo di auto preceduto da una sirena, con i cartelli "Stop alla violenza sulle donne" su tutte le macchine. Le infermiere dell’ospedale Panzi di Bukavu, nella Repubblica democratica del Congo, che leggono "I monologhi della vagina" su un tetto. Le donne di Islamabad, in Pakistan, vestite di sari rossi, che recitano per le loro sorelle venute dall’Afghanistan: un misto di risate e lacrime per tutte. Migliaia nelle strade di Ciudad Juarez, migliaia di donne che venivano da tutte le direzioni, e provenienti da tutto il mondo, per marciare nel giorno-V contro gli omicidi e le mutilazioni di donne. Mary Alice, brillante attrice newyorkese, che fa scendere l’Apollo ad Harlem con i suoi gemiti nel primo giorno-V che abbiamo celebrato insieme le donne e le ragazze africane, americane, asiatiche e latine. Un viaggio di quattordici ore in autobus per aprire una casa per le donne a Pradesh in India. Il sindaco di Roma che apre il summit del giorno-V nella sua citta’. "La mia vagina era il mio villaggio", un monologo su una donna bosniaca stuprata tenutosi alla sede delle Nazioni Unite, al Madison Square Garden, alla Royal Albert Hall, a Johannesburg, in Macedonia, ad Atene, ed in Bosnia con la piece organizzata da studentesse universitarie che la guerra l’hanno vissuta. I monologhi tenuti in sette lingue a Bruxelles, duranti il summit europeo del giorno-V.
La parola "vagina" che balza agli occhi, l’unica parola in inglese scritta in un articolo in arabo sul Beirut Times. Le piume rosse agitate dalle native americane a Sioux Falls e Rapid City. L’imparare a dire a segni "clitoride" in una performance per donne sorde a Washington. E pupazzi, coperte patchwork, mutande, poster, che celebrano la vagina.
Cosi’ tante cose sono accadute. Molto e’ cambiato. Possiamo indicare i luoghi dove la violenza si e’ ridotta, o si e’ fermata del tutto, o la consapevolezza attorno ad essa si e’ di molto alzata. Abbiamo avuto grandi vittorie. Ma naturalmente c’e’ anche l’altro lato della medaglia. Il mondo e’ ancora profondamente non sicuro per le donne. La violenza cresce. Le guerre abbondano.
Durante l’ultimo anno, per il progetto "Giorno-V punta la luce sulle zone di conflitto", ho viaggiato ad Haiti e nella Repubblica democratica del Congo.
Ho visitato donne nelle citta’ statunitensi ed europee. Ho incontrato le nostre sorelle del giorno-V in Egitto, Giordania, Marocco, Libano, Iraq e Afghanistan.
Ad Haiti ho scoperto che lo stupro, attrezzo usato in guerra, ora e’ considerato normale e cresce: tanto che centinaia di donne denunciano violenze sessuali ogni mese.
In Congo ho udito le storie delle atrocita’ commesse contro le donne: torture sessuali e stupro per centinaia di migliaia di donne e bambine. Storie terribili, che spezzano il cuore.
In tutta l’America del nord e in Europa ho udito i racconti di donne stuprate nei college, picchiate nelle loro case, trafficate e vendute per le strade.
In Iraq ho trovato la distruzione dei diritti delle donne, cominciata con l’invasione Usa, la crescita dei "delitti d’onore", degli stupri e degli omicidi di donne.
In Afghanistan, signori della guerra, ex stupratori e assassini al potere, il ritorno dei talebani, le ragazze che hanno paura di andare a scuola, le donne insegnanti uccise, donne coraggiose in Parlamento minacciate e censurate. In Egitto e in tutta l’Africa, ancora le donne vengono mutilate dei loro genitali: circa due milioni e mezzo l’anno.
Abbiamo attraversato cosi’ tanti ostacoli, abbiamo mutato lo scenario del dialogo, abbiamo reclamato le nostre storie e le nostre voci, ma non abbiamo ancora portato alla luce o decostruito i basamenti culturali inerenti la violenza, e le sue cause. Non siamo penetrate nel costrutto mentale che da qualche parte, in ogni singola cultura, permette la violenza, si aspetta la violenza, la attende e la istiga. Non abbiamo smesso di insegnare ai bambini di sesso maschile che devono negare di essere spaventati, dubbiosi, bisognosi d’aiuto, tristi, vulnerabili, aperti, teneri e compassionevoli.
Non abbiamo eletto leader che rifiutino la violenza come intervento, ne’ siamo diventate questi leader noi stesse, che facciano del porre fine alla violenza il centro del loro agire anziche’ ammassare nuove armi per provare quanto maschi e quanto duri possono essere. Come Paul Hawken ha fatto notare nel suo brillante ed ispirato libro Benedetta inquietudine: "Il nostro prodotto maggiormente esportato, dopo il cibo, sono le armi. Armi che spediamo a governi dal regime repressivo. Governi che distruggono le culture indigene per pagare i debiti in cui incorrono acquistando armi. La violenza, la manifattura della violenza, sono al cuore dell’economia statunitense, e al centro della nostra anima".
Non abbiamo eletto leader che comprendano come non si possa dire che e’ necessario proteggere le donne e i piccoli e poi sostenere i bombardamenti in Iraq. Esattamente, quali bimbi volete proteggere? Non abbiamo eletto qualcuno che capisca che lo stesso meccanismo di occupazione, dominio ed invasione a livello internazionale influenza e diventa modello per cio’ che accade nelle case, a livello domestico. Non abbiamo eletto qualcuno sufficientemente coraggioso per fare della fine della violenza contro le donne l’istanza centrale della sua campagna o del suo agire politico. Ne’ siamo state elette noi.
Se vogliamo che la violenza contro le donne abbia fine, l’intera storia deve cambiare. Dobbiamo vedere cio’ che la vergogna, e l’umiliazione, e la poverta’, e il razzismo e tutto cio’ che ha costruito un impero sulla schiena del mondo fanno alle persone che sono piegate per sostenerlo.
Dobbiamo dire che cio’ che accade alle donne e importante per tutti, ed e’ molto importante.
Persino raccogliere fondi per fermare la violenza di genere puo’ diventare qualcosa di separato dalla nostra umana condizione, dalle nostre vite di ogni giorno. Puo’ creare una strana frammentazione e un discorso ancor piu’ bizzarro. Noi abbiamo bisogno di fondi, e la gente si sente meglio dopo aver firmato un assegno. E cosi’ abbiamo formato un movimento antiviolenza che ha costruito rifugi, e attivato linee telefoniche, e creato posti in cui le donne possono scappare ed essere al sicuro. E sebbene tutte queste cose siano cruciali, persistono nel mantenere l’attenzione sulle cose e i posti, anziche’ sull’istanza: il focus e’ sul salvataggio, non sulla trasformazione.
E’ la cultura che deve cambiare. Le credenze, le storie che stanno sotto, i comportamenti della cultura. Ho sempre detto fin dallíinizio che nel fermare la violenza contro le donne non possiamo arrivare troppo tardi. Eppure in tutti questi anni stiamo ancora lottando per le briciole: briciole morali, finanziarie, politiche.
Il "giorno-V", al momento, e’ l’iniziativa che raccoglie piu’ fondi contro la violenza di genere nel mondo. Ma non e’ una buona notizia. In un anno raccogliamo dai 4 ai 6 milioni di dollari, che e’ il costo di dieci minuti di guerra in Iraq. In quei dieci minuti, una donna su tre sul pianeta verra’ stuprata o picchiata. Fate i conti.
Porre fine alla violenza contro le donne e’, in effetti, aver la volonta’ di lottare per diventare un tipo diverso di essere umano. Significa non accettare la violenza in se’, che e’ coercizione ed oppressione. Porre fine alla violenza contro le donne significa aprirsi al loro potere, al loro mistero, al cuore delle donne, all’indomita e infinita sessualita’ e creativita’ delle donne, e non esserne spaventati.
*
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo apparso nell’"Huffington Post" del 22 novembre 2007.
Eve Ensler, drammaturga, poetessa, sceneggiatrice e regista, docente universitaria, attivista per i diritti delle donne, fondatrice e direttrice artistica di "V-Day", movimento globale che combatte la violenza alle donne e alle bambine, vive a New York. Tra le opere di Eve Ensler: I monologhi della vagina, Marco Tropea Editore, Milano 2000; Il corpo giusto, Marco Tropea Editore, Milano 2005. Come e’ noto I monologhi della vagina ha ricevuto nel 1997 il prestigioso Obie Award, ed e’ stato portato in scena con grande successo a Broadway (con star come Susan Sarandon, Glenn Close, Melanie Griffith e Winona Ryder), a Londra (con Kate Winslet e Cate Blanchett) e in diverse altre citta’ del mondo]
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 282 del 23 novembre 2007
I risultati di una ricerca sulla violenza sulle donne diffusi al Meeting di San Rossore
In Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 vittima una donna
"Nel mondo viene uccisa
una donna ogni 8 minuti" *
SAN ROSSORE (PISA) - Nel mondo, ogni 8 minuti, viene uccisa una donna. Il dato è emerso da un’indagine relativa all’anno al 2003 presentata da Josè Sanmartin, direttore del centro spagnolo per lo studio della violenza Santa Sofia, oggi a San Rossore il cui tradizionale meeting quest’anno è dedicato a "I bambini, le donne".
"Nel 2000 - ha dichiarato Sanmartin - gli omicidi di donne erano uno ogni dieci minuti". dallo studio è nata una vera e propria classifica. Su 40 paesi esaminati quello che vanta il poco invidiabile primato è il Guatemala, con un’incidenza di 122,80 donne assassinate per ogni milione di donne abitanti. Al secondo posto della classifica la Colombia, con 70,20 omicidi per ogni milione. Al terzo El Salvador con 66,38.
Il primato in Europa tocca al Belgio all’ottavo posto nella graduatoria mondiale con un’incidenza di 29,30 donne uccise ogni milione. L’Italia è al 34esimo posto su 40, con 6,57 assassini per milione. I paesi dove più si contano assassini di donne sono latino americani (i primi dieci posti), con una media di 41,02 vittime ogni milione, contro 12,29 dell’Europa.
In Europa i delitti nei confronti delle donne all’interno della famiglia riguardano 5,84 donne su un milione; in Italia - riferisce la ricerca spagnola - si scende a 4,24. Il numero più alto si registra in Ungheria (16,15), seguita da Lussemburgo (13,16). Le donne uccise dal partner sono in Europa 5,78 per milione; il numero più elevato si riscontra nei paesi del Nord, soprattutto a causa dell’abuso di alcol durante i fine settimana.
La Regione Toscana, a sua volta, ha diffuso alcuni dati che si basano su parametri diversi ma che raccontano comunque di un fenomeno, quella della violenza in famiglia e nello specifico sulle donne, "drammaticamente in crescita". Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna.
A livello mondiale, la violenza domestica è la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni. Uccide più il marito o il fidanzato o l’amante, a volte anche i figli, più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.
* la Repubblica, 20 luglio 2007
«Io, vittima dell’infibulazione a Milano A 6 anni costretta dai genitori all’orrore»
La giovane immigrata dalla Somalia: «Basta, una sofferenza inutile. Va fermata»
di Michele Focarete (Corriere della Sera. 26.03.2007)
Aveva giurato di non parlarne più. Su quei terribili momenti ci aveva messo una pietra sopra. Ricordarli voleva dire riviverli. Ma Sahara, 23 anni, somala, un marito e una figlia, si fa forza: «Raccontare il mio dramma - dice - potrebbe servire ad evitare che altre ragazze come me, vengano mutilate degli organi genitali».
L’incubo dell’infibulazione, di cui l’Italia ha il primato europeo e Milano il picco più alto in Lombardia. La storia di Sahara è quella delle donne immigrate d’Africa. Delle bimbe che sopportano la barbara pratica. In Somalia, poi, l’infibulazione è completa, con escissione del clitoride e l’asportazione parziale o totale delle piccole e grandi labbra. Una mutilazione chiamata gudniinka, o faraonica. «Io sono stata più fortunata - ricorda Sahara - forse perché quando è avvenuto, a sei anni, mi trovavo già a Milano. E poi mia madre, Amina, ha preteso che l’intervento non fosse devastante».
E ricorda: «Abitavo in zona piazzale Loreto. In due locali di ringhiera. Le connazionali mi dicevano che non farlo voleva dire essere aperta, puttana. Non una buona musulmana. E mio padre, Addi, non transigeva. Così arrivò il mio momento. Venne da noi Hawa, una sorta di levatrice che noi chiamiamo umilisa. C’era anche Kabigia, una signora che aveva il compito di tenermi ferma. E tante altre donne attorno, che avrebbero dovuto cantare e fare rumore per coprire il mio pianto, le mie grida».
Tutto è pronto. In condizioni di assoluta mancanza di igiene. Hawa ha in mano un coltellino che intinge nell’alcol prima di iniziare. Naturalmente senza anestetico. «Ero completamente nuda. Seduta per terra a gambe aperte, appoggiata a Kabigia. Legata a lei con una corda. Le mie caviglie erano legate alle sue. Mi sentivo svenire, ma non potevo permettermi quel lusso. La lama scavò nelle mie carni e mi tolse il clitoride. Non riuscii a trattenere un urlo. Un dolore lancinante. E piansi lacrime che nessuno vede. Quel battito di mani dei presenti. I loro canti tribali. Mi rimbombava tutto nella testa. Pensavo di essere morta». Hawa non va oltre. Le chiude però la vagina. «Non mi cucì. Usò il malmal, una mistura di pasta composta da zucchero e gomma, tuorlo d’uovo, succo di limone e miscugli di erbe. E mi inserì nella vagina una scheggia di legno per poter fare la pipì e far defluire il sangue mestruale quando sarei diventata donna».
Ma l’incubo non è finito: «Mi legarono le gambe, così la colla avrebbe fatto effetto. Per quattordici interminabili giorni. Mi sollevavano solo quando dovevo urinare, in un vaso. A 13 anni divenni donna e con dolore. A 16 mi sono sposata e mio marito ci mise due notti per penetrarmi. Persi molto sangue, ma servì ai parenti di mio marito per capire che ero vergine. A 17 anni nacque mia figlia Marian. E sempre con dolore».
La decisione del governo: multe e prigione
Mutilazioni sessuali vietate in Eritrea
Almeno il 90 per cento delle donne sottoposta al barbaro intervento *
NAIROBI - Il governo eritreo ha deciso di proibire la mutilazione genitale femminile. I contravventori andranno incontro a multe ed anche alla prigione. Lo rende noto oggi un comunicato del ministero dell’Informazione dell’Asmara di cui riferisce la Bbc on line. La misura è retroattiva, essendo entrata in vigore - precisa la nota - il 31 marzo scorso. In essa si sottolinea che tale tipo di intervento oltre ad essere pratica intollerabile può produrre gravi danni alla salute.
Secondo l’Unione delle Donne Eritree almeno il 90 per cento delle donne è sottoposta a tale barbaro intervento. Che peraltro è praticato ancora su circa tre milioni di bimbe l’anno, ed a cui si valuta siano state costrette almeno 140 milioni di donne, sia musulmane che cristiane.
«La mutilazione femminile è una procedura che mette a serio rischio la salute delle donne, causa loro gran dolore e sofferenze, oltre a minacciare la loro vita», si legge nel comunicato del governo.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha distinto le mutilazioni in 4 tipi differenti a seconda della gravità per il soggetto:
Circoncisione o infibulazione (as sunnah): si limita alla scrittura della punta del clitoride con fuoriuscita di sette gocce di sangue simboliche
Escissione (al uasat): asportazione del clitoride e taglio totale o parziale delle piccole labbra
Infibulazione o circoncisione faraonica o sudanese: asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi labbra con cauterizzazione, cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per permettere la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale.
Nel quarto tipo sono inclusi una serie di interventi di varia natura sui genitali femminili.
Queste mutilazione a carico dei genitali femminili, praticate in 28 paesi dell’Africa sub-sahariana, per motivi non terapeutici, ledono fortemente la salute psichica e fisica delle bambine e donne che ne sono sottoposte.
* Corriere della Sera, 05 aprile 2007
L’Eritrea vieta l’infibulazione: nel mondo riguarda 140milioni di donne
Infibulazione al bando in Eritrea. Il governo di Asmara ha dichiarato illegale le mutilazioni genitali femminili e stabilito dure pene per chi la pratica o vi si sottopone. «La circoncisione femminile rappresenta un grave rischio per la salute delle donne e, oltre a metterne in pericolo la vita, causa loro considerevole dolore e sofferenza - si legge in un comunicato pubblicato sul sito dell’esecutivo - chiunque richieda, inciti o promuova la circoncisione femminile sarà punito con una multa o il carcere».
Il provvedimento è entrato in vigore il 31 marzo, ma è difficile dire fino a che punto sarà realmente rispettato. Le mutilazioni genitali femminili sono molto diffuse nel Corno d’Africa e, secondo Secondo l’Unione nazionale delle donne eritree, circa il 90% delle connazionali nel 2002 risultava mutilata, avendo subito una clitoridectomia, escissione o infibulazione.
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, in tutto nel mondo sono tra i 100 e i 140 milioni le donne che hanno subito l’amputazione della clitoride o delle grandi labbra. E ogni anno sono a rischio circa 2 milioni di bambine. Le conseguenze di queste pratiche per la salute della donna sono estremamente pesanti.
La cosiddetta “circoncisione femminile” è praticata soprattutto in Africa ma non solo. La Somalia ha il triste primato della cosiddetta "infibulazione faraonica" (la più devastante) dove si calcola che il 98% delle donne sia mutilata. Ma anche in Egitto, Sudan settentrionale, Nigeria, Mali, Kenya la pratica, sotto diverse forme, è molto diffusa. La circoncisione femminile, anche in forme più lievi, viene praticata dalle popolazioni musulmane dell’Indonesia, India, Malesia, in alcune zone del Pakistan, nonché in Oman, Yemen e negli Emirati Arabi.
Anche in Italia molte donne migranti sono a rischio mutilazione. Con una legge del gennaio 2006 il Parlamento ha modificato il codice penale per tutelare le donna da queste pratiche: l’articolo 583 bis punisce con la reclusione «da quattro a dodici anni chi, senza esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili».
* l’Unità, Pubblicato il: 05.04.07, Modificato il: 05.04.07 alle ore 14.40
Intervista ad Alice Walker
di Lauren Wilcox (trad. M.G. Di Rienzo) *
Alice Walker è scrittrice, poeta e saggista. Le sue opere, tra cui la più famosa è sicuramente “Il colore viola”, sono state tradotte in più di venti lingue.
Lauren Wilcox: Nei tuoi lavori, romanzi o no, hai scritto moltissimo delle donne: le loro vite, i loro ruoli, le loro lotte. Sarei curiosa di conoscere la tua opinione rispetto al ruolo delle donne in comunità che funzionano, il ruolo di donne forti in relazione con gli uomini.
Alice Walker: E’ il punto cruciale dell’intera faccenda. Se le donne non hanno controllo sulle proprie scelte, sul proprio ambiente di vita, se sono continuamente espropriate da parte degli uomini nelle loro società, significa che non hanno l’autonomia necessaria a far sì che le loro esistenze e quelle delle loro figlie si realizzino pienamente. E’ così assolutamente essenziale che siamo in molti a studiare i modi per sostenere queste donne. Ed è una cosa non facile, se ci rifletti, perché persino nella nostra cultura ci sono troppe donne abbattute dal potere patriarcale che neppure pensano di doversi mettere insieme a organizzare dei cambiamenti. Naturalmente non possiamo farlo noi per loro. Ma possiamo dir loro di basarsi sulle proprie esperienze per pianificare le azioni che elevino il livello di salute e benessere per tutti, nelle loro comunità, ma in special modo per loro stesse e le loro figlie. Quando le donne ottengono dei miglioramenti, come sappiamo, le vite di tutti migliorano.
Lauren Wilcox: Hai scritto storie di donne ambientate in diversi periodi storici e nel presente. Credi che in generale la situazione delle donne sia cambiata in meglio, attraverso gli anni?
Alice Walker: Quello che mi viene in mente è l’ultima volta che sono stata in Africa, a Bolgatanga, nella parte nord del Ghana. La mia amica Pratibha Parmar, la regista cinematografica, ed io eravamo là come conseguenza del lavoro che avevamo fatto per eliminare le mutilazioni genitali. Era un’enorme assemblea, di uomini e donne, i più decisi “abolizionisti” della pratica che io avessi mai conosciuto. E’ stato commovente. Ciò che ho capito tramite l’incontro con queste persone è che nei posti più remoti che si possa immaginare vi sono connessioni con il resto del mondo, e vi è una buona comprensione del fatto che le cose stanno cambiando, e che devono cambiare per la salvezza del continente intero. Non si tratta del tuo villaggio, e neppure del tuo paese: la questione concerne la salute del continente e la salute del pianeta Terra.
Lauren Wilcox: Tutto il tuo scrivere ha elementi di attivismo, di consapevolezza delle durezze e delle lotte che le persone affrontano durante le loro vite. E’ uno scopo, nella tua scrittura, un attivismo intenzionale?
Alice Walker: La mia scrittura è olistica. Immaginami come un albero di pino. Da me non verrà nulla che non sia pino. Ho le mie pigne, i miei aghi di pino, il mio profumo specifico. Io vedo la scrittura come la mia ragione d’essere. Non è una parte preziosa della mia esistenza. Come per il pino è lasciar cadere e ricrescere... è un tutt’uno.
Lauren Wilcox: Perciò scrivere è il modo in cui realizzi pienamente ciò che sei?
Alice Walker: Sì. E’ il modo in cui dai acqua e fertilizzanti al pino. Continui a crescere, continui a condividere, continui a dare e ad avere e continui a lasciar andare. In questo circolo c’è il fattore di sostenibilità, che sostiene te stessa. Ma non ti sostieni trattenendo le cose. Ti sostieni lasciandole andare.
Lauren Wilcox: Dandole via, donandole?
Alice Walker: Sì. Nella nostra cultura, tutti sentono di dover conservare, tenere, trattenere, e non passare in giro nulla. Quando fai questo, che può accadere al resto del pianeta, se non morire di fame?
Lauren Wilcox: Qual è la cosa migliore che possiamo insegnare ai nostri figli, secondo te, per prepararli al futuro?
Alice Walker: Dobbiamo disabituarli alla nozione della scarsezza. Penso che si tratti del pensiero globale più pernicioso e definitivamente distruttivo, la nozione che viviamo in un mondo di scarsità. In effetti, viviamo invece in un mondo d’abbondanza. Ed è solo perché alcune persone si sono prese la maggior parte delle risorse per sé e sprecano le altre in guerra che altre persone non hanno nulla. Non c’è scusa possibile, per il fatto che le persone sulla Terra non hanno cibo sufficiente, abiti, istruzione e accesso all’assistenza sanitaria. Nessuna scusa, nessuna.
Lauren Wilcox: Come hai cominciato ad interessarti delle istanze relative alla fame ed alla povertà?
Alice Walker: Perché sono cresciuta nella povertà. Noi bambini non la percepivamo come tale solo perché i nostri genitori erano dei geni nel trarre molto dal poco. Ad un certo punto mio padre chiese alla proprietaria bianca della terra che lavoravamo un aumento di stipendio, chiese di avere dodici dollari al mese, perché aveva otto figli e tutti lavoravano nella piantagione. La donna divenne una furia e glielo negò. Non avevamo assistenza sanitaria, un dentista non l’abbiamo mai visto, dovevamo spostarci ogni anno su pezzi di terra diversi e lavoravamo duramente per tutto il giorno. E questa è la situazione per milioni e milioni di persone sulla Terra. Li capisco benissimo, e sono totalmente solidale con loro.
Lauren Wilcox: So che hai scritto un nuovo libro.
Alice Walker: Si chiama “Noi siamo coloro che stavamo aspettando”. E’ una raccolta di saggi, e di meditazioni, perché penso che questo sia un periodo in cui le cose sono davvero orribili per troppe persone. C’è così tanta paura, e così tanta tristezza, e rabbia... Non abbiamo bisogno solo di analisi politiche e di consapevolezza, ma abbiamo bisogno di meditazioni, di sederci assieme alle cose che ci stanno accadendo e di trovare modi per essere interi. Dobbiamo ricordare a noi stessi che abbiamo i nostri spiriti, e che possiamo usarli: usare la nostra luce interiore, per dissipare il buio che si addensa.
* IL DIALOGO, Giovedì, 17 maggio 2007
Campagna “Difendiamo chi difende i diritti umani delle donne in Iran”
di M.G. Di Rienzo
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it] per questo suo intervento *
Le attiviste per i diritti umani delle donne stanno facendo esperienza di una nuova fase di oppressione governativa, che va dagli interrogatori da parte di agenti del controspionaggio alla galera. Tutte vengono accusate di azioni contrarie alla “sicurezza nazionale” per le loro attività, completamente legali, che promuovono i diritti umani delle donne e obiettano alla loro discriminazione.
Zeinab Peyghambarzadeh, studentessa di sociologia e membro dell’organizzazione degli studenti universitari “Daftar Tahkim Vahdat” è l’ultima vittima in ordine di tempo. E’ stata portata alla prigione di Evin il 7 maggio u.s., perché la sua famiglia non è in grado di pagare la pesante cauzione richiesta per lasciarla in libertà. Durante le ultime settimane, dozzine di attiviste per i diritti umani sono comparse nei tribunali o portate in uffici del controspionaggio o della polizia per gli interrogatori.
Gli arresti sono cominciati l’anno scorso, il 12 giugno, durante una manifestazione pacifica che protestava contro le leggi che discriminano le donne in Iran. Più di settanta donne vennero arrestate. Durante una seduta della corte che ne giudicava tre, il 4 marzo 2007 numerose sostenitrici delle accusate hanno manifestato davanti al tribunale. Il raduno, assolutamente pacifico, è stato disperso con estrema violenza, e 33 altre donne sono state arrestate. A tutte queste donne viene contestato di minacciare la “sicurezza nazionale”, e tutte verranno processate. Fra esse ci sono due intellettuali femministe, Noushin Ahmadi Khorasani e Parvin Ardalan, ovvero le principali ispiratrici della campagna “Un milione di firme”, che invoca uguaglianza di genere e mutamento delle leggi discriminatorie. In prigione con la sentenza definitiva ci sono già le organizzatrici della campagna Fariba Davoudi Mohajer, Sousan Tahmasbi e Shahla Entesari. Nel frattempo, gli uffici di tre ong legate all’iniziativa sono stati perquisiti e poi chiusi dalle forze dell’ordine. I loro conti bancari sono stati congelati e le loro attività si sono praticamente chiuse.
Per la campagna “Fermiamo per sempre le lapidazioni”, Shadi Sadr, Asien Amini e Mahboubeh Abbasgholizadeh, già fra le arrestate del 4 marzo, hanno avuto i loro uffici chiusi dalle autorità e presto saranno processate.
Una petizione internazionale che chiede la cessazione della persecuzioni contro le attiviste iraniane, indirizzata al presidente Mahmoud Ahmadinejad, è visibile al sito: http://www.meydaan.org/English/petition.aspx?cid=52&pid=12
Per sapere di più sulla campagna “Un milione di firme” potete andare al sito: http://we-change.org/english e per quella riguardante le lapidazioni: http://www.stopstoning.org/
E’ anche possibile contattare direttamente Shadi Sadr (shadisadr@gmail.com) o Soheila Vahdati (soheilavahdati@gmail.com).
M.G. Di Rienzo
* IL DIALOGO, Sabato, 26 maggio 2007
Marziani, state a casa
di Maria G. Di Rienzo *
Tanti anni fa (io ero una bimba, per cui sono proprio tanti), fu inviata nello spazio una sonda, chiamata Pioneer 13 se non ricordo male, destinata a perdersi oltre i confini della nostra galassia. Recentemente ho letto che il suo viaggio procede senza intoppi, in cieli distanti, fra stelle sconosciute. Questa sonda reca un messaggio inciso su una lastra di metallo, le figure di un uomo e di una donna ed alcuni simboli: il suo scopo è indicare alle eventuali forme di vita che lo ricevessero che l’umanità è pacifica e pronta ad accoglierle. Io non posso lanciare questo articolo dietro alla Pioneer per avvisare che si tratta di un’enorme menzogna, ma so che devo scriverlo e sperare nel miracolo: alieni, chiunque voi siate, non credeteci e restate sui vostri pianeti. Pacifici? Una cinquantina di guerre insanguina la culla dell’umanità, giorno dopo giorno, anno dopo anno, milioni di morti, milioni di mutilati. Accoglienti? Abbiamo confini sempre più militarizzati che “difendono” aree sempre più piccole, di territorio o di idee. Non accogliamo neppure i nostri fratelli e sorelle di specie quando fuggono da povertà, conflitti armati e disastri ambientali, chi vogliamo prendere in giro? Amici di altre galassie, portate pazienza e ascoltatemi. Ho scelto un paese a caso, sul Pianeta Azzurro, per spiegarvi a cosa andreste incontro venendo qui. Non è interessato da guerre, al momento, per lo meno sul territorio nazionale, ma questo non lo rende meno pericoloso. Ecco perché non è bene metterci piede:
1. Le bambine, di qualunque gruppo sociale, religione o provenienza geografica, in questo paese della Terra non sono al sicuro. Figuriamoci se lo sarebbero bambine verdi con le antenne, originarie di Proxima Centauri.
Bambine di undici anni vengono violentate dal vicino di casa-affettuoso baby sitter (21 aprile 2007) Gli abusi, secondo la ricostruzione degli investigatori, andavano avanti da oltre due anni e sono continuati fino a quando un’amichetta delle due undicenni, che si trovava in casa con il vicino insieme a loro, si è accorta dei comportamenti strani dell’uomo. Così la piccola ha convinto le due amiche a raccontare tutto ai genitori e lei stessa ha riferito quello che aveva visto a sua madre. Le mamme hanno poi accompagnato le figlie all’ospedale dove nel corso di una visita sono state riscontrate le violenze subite.
Se appena ne compi dodici, di anni, ci pensano i tuoi parenti a prostituirti (sempre 21 aprile). Dopo un paio d’anni si scopre che è tua madre a venderti: il costo delle prestazioni variava dai quindici ai trenta euro e i video degli incontri venivano conservati dai “clienti” sui cellulari, per fare pressione sulla ragazzina. Se quest’ultima opponeva resistenza, veniva ricattata con i filmati che mostravano i precedenti incontri sessuali, “Ti sei andata a coricare” si sente in una delle intercettazioni telefoniche, “e mi hai chiuso il telefono. Guarda che ti ricatto, ho le cose per ricattarti.” In un’altra telefonata, uno degli uomini chiede alla ragazza se le si erano rimarginate le ferite provocate da un loro rapporto sessuale.
Oppure trovi qualche brav’uomo, sposato con tutti i crismi e padre di due bambini, che dopo essersi portato a letto una dodicenne testimonia giulivo davanti al giudice: “Scherzavamo. C’è stato solo qualche scambio di affettuosità.” (24 luglio 2007) E se soffri il peso di una disabilità (in questo caso specifico motoria, e grave), non pensare che il violentatore di turno si farà scrupoli, anzi, l’età si abbassa pure. Otto anni ha la bambina disabile costretta a prestazioni sessuali per un parente stretto, che le ha pure riprese con il videocellulare e passate agli amici. (2 giugno 2007)
2. Le donne, sempre con la stessa puntigliosa trasversalità, sono trattate come pezzi di carne sul bancone di un macellaio.
Durante una lite, un uomo di 35 anni inizia a picchiare la sua compagna, 30enne, incinta di quattro mesi, con calci e pugni. Fino a procurarle un aborto. Poi ha prelevato il feto, e lo ha seppellito nella campagna vicina. La donna ha chiamato un’ambulanza per chiedere soccorso e, in un primo momento, ha raccontato ai medici solo dell’aggressione, senza menzionare l’aborto che tuttavia è stato diagnosticato dai sanitari. Solo allora la donna ha riferito tutti i particolari dell’accaduto. Rintracciato l’aggressore, che si era nascosto in un casolare isolato, si è potuto recuperare il corpicino da una fossa. (8 luglio 2007)
Ma non importa che tu riesca a metterli al mondo, i tuoi e suoi bambini. Ne puoi partorire persino quattro, e se lui pensa che tu lo tradisca ti sgozzerà davanti a loro. La donna di cui parlo è morta in questo modo orribile, a 48 anni, per: “Un storia inesistente”, dicono gli investigatori, “forse resa reale per l’uxoricida dal suo stato depressivo.” L’uomo ha poi tentato il suicidio ferendosi all’addome con lo stesso coltello, una lesione giudicata dall’ospedale guaribile in pochi giorni. Il maggiore dei figli, che ha dato l’allarme ed è fuggito da casa con gli altri fratelli, ha 16 anni. (26 luglio 2007)
E sappiate anche che il denunciare le violenze da parte delle donne è inaccettabile ed è immediatamente punito con violenze ulteriori. Un pensionato viene arrestato per reiterate violenze sessuali ai danni di un quattordicenne. Dopo un periodo di detenzione, ottiene gli arresti domiciliari per motivi di salute. Cerca di far ritrattare le proprie dichiarazioni ad una testimone dell’accusa, ma costei si rifiuta: l’uomo la picchia e la stupra. (6 luglio 2007) Non va meglio se la protesta contro la violenza è collettiva, pubblica e organizzata, ne’ importa che il motivo per cui si protesta sia l’omicidio insensato di una giovane (questioni di “onore”): la ritorsione è solo differita, per motivi di opportunità. Si aspetta che una delle organizzatrici si trovi da sola, e la si insulta e minaccia di morte. Le prime parole che gli aggressori dicono rivelano tutto: “Devi smettere di parlare...” (29 giugno 2007)
3. In questa specifica nazione del pianeta Terra si sta allevando una generazione di giovanissimi spacciando loro per valori la sopraffazione, l’arroganza e la “legge della giungla”.
Due studenti quindicenni portano di forza un loro coetaneo nei bagni della scuola: qui il ragazzino viene violentato da uno dei compagni mentre l’altro riprende la scena con il telefonino. La vittima, che ha un piccolo deficit di apprendimento ed è seguito da un insegnante di sostegno, ha poi raccontato tutto, settimane dopo, alla madre, quando un familiare aveva avuto la notizia dell’esistenza di quelle immagini. (26 maggio 2007)
Molti episodi, che siano meno cruenti o analoghi, non raggiungono la stampa, ma la loro crescita è ampiamente testimoniata. Il bullismo comincia ad uccidere anche in questo paese (almeno una vittima si è data la morte per sfuggirvi, quest’anno), e in più abbiamo spacciatori dodicenni di droghe leggere provenienti da rinomate e benestanti famiglie, e bambine di dieci anni che “tirano” coca perché fa dimagrire. Per non parlare dei filmati “shock” che vengono allegramente messi in internet e dove si può ammirare la cricca dei bulli minorenni che tormenta la vittima di turno.
4. La sanità mentale, in questo paese, è uno stato ampiamente minoritario. Soprattutto fra chi ha potere decisionale o autorità di qualche tipo.
Prendete i sindaci. Uno si sveglia la mattina e decide che i bambini “nazionali” hanno più diritti dei bambini immigrati. Nelle graduatorie per gli asili nido comunali, passeranno avanti grazie alla cittadinanza di mamma e papà. E badate bene: “Qualora gli istituti non volessero accogliere la richiesta, il sindaco è pronto a intervenire con un’ordinanza.” Chi viene da “fuori” è un problema, tuona il primo cittadino, e perciò ha in progetto di realizzare un sistema di monitoraggio tramite telecamere piazzate su tutto il territorio comunale: scuole, parchi, piazze, periferie, frazioni... Il Grande Fratello in perpetuo, ventiquattrore su ventiquattro, è semplicemente geniale, no? (27 luglio 2007)
Un altro sindaco si trova con un caso di stupro sul proprio territorio, otto minorenni che violentano una coetanea e cosa fa? Tira fuori dal bilancio comunale le spese legali per gli accusati, forse ignorando che la difesa legale è garantita d’ufficio anche agli indigenti (ma i fanciulli non sarebbero indigenti, pare che abbiano parenti in giunta, invece). Di fronte alle reazioni provenienti da membri autorevoli del suo partito, gli dà dei “talebani.”, ricorda che sono loro ad aver bisogno di lui e non viceversa, e si organizza una micro manifestazione di sostenitrici per far vedere a tutto il mondo che le donne non sono schifate e offese dal suo comportamento, anzi. (18 luglio 2007) Cos’abbiamo, ancora? Parlamentari tristi e stanchi, consumati dalla lotta alla droga, dalla tolleranza zero e dal “family day” che sono costretti, causa lontananza dall’amata moglie, a festini a base di cocaina e prostitute. Sacerdoti con una fedina penale notevolmente sporca che, nei guai con la legge per l’ennesima volta, denunciano “complotti” giudaico-massonici. (Questa dichiarazione mi ricorda qualcuno, qualcuno con baffetti e divisa, ma no, non è Chaplin). Ministri della Repubblica che prontamente assicurano loro “vigilanza” sui complotti...
Miei cari ET, cosa devo dirvi di più? Di qualsiasi costellazione siate originari, restateci. O almeno non mettete piede in Italia, fino a che non diventiamo un paese civile.
Maria G. Di Rienzo
P.S. Gli episodi di cronaca succintamente narrati sono avvenuti nelle province o nella città di: Roma, Palermo, Manfredonia, Foggia, Catania, Civitavecchia, Milano, Ferrara, Lucca, Viterbo. Gli autori degli atti di violenza erano cittadini italiani e cittadini immigrati; le vittime pure.