Kofi Annan finalmente alza i toni
Darfur, catastrofe d’immane proporzione
di Giulio Albanese *
Non è mai troppo tardi quando si tratta d’imprimere alla diplomazia internazionale dei cambiamenti di rotta. Un caso emblematico è rappresentato dalla missiva inviata mercoledì scorso da Kofi Annan al Consiglio dei diritti umani, di cui tra l’altro ha recentemente promosso la nascita.
Il numero uno del Palazzo di Vetro, giunto ormai al termine del suo secondo mandato e libero dai condizionamenti delle cancellerie, ha pensato bene di prendere carta, penna e calamaio per biasimare i 47 Paesi membri del Consiglio, massimo organo delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani con sede a Ginevra.
Ricordando che questo organismo, dalla sua costituzione nel giugno scorso, ha tenuto tre sessioni speciali tutte dedicate al conflitto mediorientale, Annan ha esortato i Paesi membri ad occuparsi con urgenza della grave situazione nel Darfur, la regione sudanese teatro di scontri e ogni genere di vessazioni che hanno causato un disastro umanitario d’immani proporzioni, con oltre 200 mila morti dal febbraio 2003.
Un manifesto di illuminata diplomazia quello redatto da Annan in questa circostanza, dettato sicuramente dalle buone intenzioni e dall’esperienza maturata negli anni, con l’intento dichiarato di stigmatizzare la cosiddetta legalità selettiva imposta dalla real politik, secondo la logica forviante dei "due pesi due misure".
Lungi dal voler sminuire la questione mediorientale, da sempre sotto i riflettori della stampa internazionale e che comunque va affrontata in modo "imparziale", nel suo accorato messaggio, Annan ha ricordato che vi sono "sicuramente altre situazioni che meriterebbero una sessione speciale del Consiglio" tra cui il caso del Darfur.
In effetti, martedì scorso, vale a dire il giorno prima che fosse data pubblica lettura, da parte di Louise Arbour, Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, del messaggio di Annan, il Consiglio Onu, riunito in sessione ordinaria, aveva approvato una risoluzione edulcorata sul Darfur. Una sorta di pronunciamento al l’acqua di rose che praticamente taceva qualsiasi responsabilità del dispotico regime sudanese.
D’altronde, nei circoli della diplomazia internazionale tutti sanno che gli interessi in gioco sono in gran parte legati al business del petrolio: l’asso nella manica di Khartoum con l’appoggio incondizionato, dietro le quinte, del famelico governo cinese e di una lunga lista di Paesi presenti nel Consiglio ginevrino noti per le loro flagranti violazioni dei diritti umani.
Nel frattempo il presidente sudanese Omar Hassan el Beshir ha avuto l’ardire di sostenere che il conflitto nel Darfur avrebbe fatto dal 2003, secondo le informazioni in suo possesso, meno di 9.000 morti, e non i 200mila di cui parla l’Onu, accusando i mezzi d’informazione occidentali di gonfiare le cifre delle perdite umane per giustificare un intervento internazionale nel Paese.
Naturalmente, a Ginevra tutti sanno che si tratta di un mucchio di bugie anche perché le testimonianze raccolte in questi mesi dall’autorevole coordinatore dell’Onu per le emergenze umanitarie, Jan Egeland parlano chiaro. Evocando nei suoi rapporti, anche gli scontri nelle regioni confinanti del Ciad e della Repubblica Centroafricana, oltre alle nefandezze perpetrate nel Darfur dai jajaweed, i feroci predoni al soldo di Khartoum, Egeland ha ripetutamente espresso grave preoccupazione per la regionalizzazione del conflitto.
Sta di fatto che una volta tanto la voce degli oppressi è stata ascoltata. Infatti il Consiglio dell’Onu sui diritti umani si riunirà in sessione speciale il prossimo 11 o 12 dicembre, grazie anche ad una richiesta presentata dalla Finlandia a nome dell’Unione europea che ha ottenuto l’appoggio di 28 Paesi, su un totale di 47 membri del Consiglio. Una vittoria che fa onore a tutti coloro che credono davvero nel sacrosanto rispetto della vita sempre e comunque a qualunque latitudine e longitudine.
* Avvenire, 04.12.2006
Al tribunale speciale 500 testimonianze "visive" di piccoli sopravvissuti
Arriveranno alla Corte penale internazionale dai campi profughi del Ciad
Nei disegni dei bimbni del Darfur
le prove dell’orrore del genocidio
"Una ricostruzione quasi fotografica dei massacri visti da occhi incolpevoli"
Servono a smentire la tesi del governo sudanese che nega ogni responsabilità *
Bombe contro i civili, fosse comuni, decapitazioni, villaggi incendiati o distrutti, i sudanesi che attaccano con tank ed elicotteri e la popolazione che si difende con le frecce. Questo hanno visto i bambini del Darfur, e questo hanno raccontato in 500 disegni quelli tra loro che sono riusciti a fuggire e a trovare rifugio nei campi profughi del Ciad.
Adesso questi disegni saranno consegnati alla Corte penale internazionale che accusa il ministro degli Affari umanitari sudanese, Ahmed Muhammed Harun, e uno dei leader delle milizie janjaweed, Ali Mohammed Ali Abd-al-Rahman, di crimini di guerra.
Dai fogli e dalle matite colorate distribuiti ai bambini per distrarli mentre le loro madri venivano intervistate sulle atrocità che avevano visto durante la guerra è emersa una "prova", tanto involontaria quanto significativa del genocidio. Almeno questa è la speranza della organizzazione non governativa Waging peace che ha raccolto i disegni dei piccoli e li consegnerà alla Corte. "I bambini hanno fornito una registrazione fotografica", ha detto Rebecca Tinsley, direttore dell’organizzazione. "Quanto emerge dalle immagini supporta quello che sappiamo che sta accadendo in Darfur e contraddice quello che afferma il governo sudanese".
* la Repubblica, 3 agosto 2007
IL COMPLICATO PROCESSO DI PACE
Darfur, arabi nelle terre degli africani
"La pulizia etnica sarà irreversibile"
L’ Onu parla di 30.000 arabi provenienti da Ciad e Niger
ROMA. Oltre 30.000 arabi provenienti da Ciad e Niger hanno attraversto negli ultimi due mesi il confine con la regione sudanese del Darfur, carichi dei loro beni e con i loro greggi al seguito, per insediarsi nei villaggi abbandonati negli ultimi anni di guerra dalle tribù africane. Stando a un rapporto interno dell’Onu, ottenuto dall’Independent, si tratta di uno spostamento «senza precedenti», in una regione dove gli arabi sono pastori nomadi in continua ricerca di nuovi pascoli, che potrebbe avvalorare la tesi di quanti ritengono che il governo di Khartoum stia cercando di ripopolare l’area. Soprattutto in vista delle elezioni in programma tra due anni.
Un funzionario dell’Onu ha parlato di un processo «apparentemente ben programmato», sottolineando che si tratta di un trasferimento «molto consistente». «Non abbiamo mai visto così tante persone arrivare finora nel Darfur occidentale», ha aggiunto. L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) ha inviato alla fine di maggio una propria squadra al confine con il Ciad per intervistare i nuovi arrivati e stabilire se si trattasse di persone in fuga dai combattimenti in corso nel paese vicino. Ma sono stati pochi quelli che hanno chiesto assistenza. «La maggior parte di loro sono stati sistemati dagli arabi sudanesi negli ex villaggi degli sfollati e più o meno invitati a rimanere», ha detto un funzionario Onu. I nuovi arrivati hanno anche ricevuto cittadinanza e documenti d’identità sudanesi.
Il documento dimostra che il governo di Khartoum «sta cinicamente cercando di cambiare l’aspetto demografico dell’intera regione», ha commentato il direttore dell’ong Aegis Trust, James Smith. «La pulizia etnica sarà irreversibile se viene consolidata dalla ripopolazione delle terre - ha aggiunto - il processo di pace andrà in frantumi». Secondo altre agenzie umanitarie, un simile ripopolamento sarebbe in corso anche nel Darfur del Sud, dove gli arabi vengono presentati come «sfollati che rientrano».
Prima che scoppiasse la guerra, nel febbraio 2003, il Darfur era abitato da 7 milioni di persone, appartenenti soprattutto alle tribù africane di Fur, Zaghalit e Marsalit. Letteralmente Darfur significa «terra dei Fur». Furono le tribù africane a imbracciare le armi contro il governo arabo di Khartoum per rivendicare una maggiore partecipazione al governo del paese e una più equa distribuzione della ricchezza nazionale, da investire nello sviluppo della regione. Da allora, circa 2,5 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case in seguito agli attacchi lanciati dall’esercito sudanese, coperto dall’aviazione, e dalla milizie arabe note come Janjeweed. Un altro milione e mezzo di persone sopravvive grazie agli aiuti delle agenzie umanitarie.
Alcuni diplomatici temono che se effettivamente Khartoum sta cercando di ripopolare la regione con gli arabi provenienti dai paesi vicini, i ribelli potrebbero lanciare nuove offensive volte a cacciarli dalla loro terra. «Si rischia una situazione esplosiva - ha detto un diplomatico occidentale - una situazione molto seria». Oltre ai 30.000 accertati dall’Onu, nella regione sudanese si parla di altri 45.000 arabi arrivati dal Niger. Numeri che potrebbero garantire al Presidente sudanese Omar al Bashir, salito al potere nel 1989 con un colpo di stato, la conferma alla guida dello stato. Stando a indagini elettorali, al momento nessun partito otterrebbe infatti la maggioranza.
* la Stampa, 14/7/2007 (10:21)
Il progetto messo a punto da ricercatori trentini e l’ong Intersos. Come intervenire nell’area di crisi definita "l’inferno della Terra"
Computer e mappe su internet per aiutare i rifugiati in Darfur
di ROSALBA MICELI *
CON ogni probabilità oggi anche Madre Teresa, se fosse ancora viva, si servirebbe di un sistema informatico per seguire i diseredati che vivono sui marciapiedi di Calcutta. Lo stesso che potrebbe monitorare e contribuire alla gestione dell’emergenza umanitaria in Darfur, nel Sudan, e il cui progetto è stato presentato nei giorni scorsi al Centro per la Ricerca Scientifica e Tecnologica di Trento (ITC-irst). Si tratta di tecnologie WebGIS (GIS in Internet) tutte open source, pronte per essere operative fra brevissimo tempo sul posto, sviluppate da una collaborazione tra l’ITC-irst, un suo spin-off, e l’organizzazione umanitaria non governativa Intersos, partner dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite.
Dopo un primo periodo di test in Darfur, il sistema sarà disponibile sul web e farà conoscere a tutto il mondo la reale situazione in quell’area di crisi, definita "l’inferno della terra" da Kofi Annan. Spiega Alessandro Guarino, responsabile per l’Italia di Intersos: "Ci permetterà di sapere cosa accade veramente in Darfur in tempo pressoché reale, dando quindi gli elementi giusti per organizzare gli interventi umanitari in modo semplice e mirato, senza sprechi di tempo e risorse oltre a condividere le informazioni con altre organizzazioni che operano sul posto. E a pianificare gli interventi diretti a rimuovere le cause che ancora ostacolano la fine del conflitto".
Il progetto prende il via da un incontro fortunato: nell’agosto 2006, il matematico Cesare Furlanello, responsabile del progetto di ricerca "Modelli predittivi per dati biologici ed ambientali" dell’ITC-irst, specializzato in sistemi GIS, incontra Sergio Odorizzi di Intersos, venuto ad illustrare le attività in Sudan ai ragazzi ospiti di Web Valley, il campo estivo di formazione e ricerca dell’ITC. Nasce subito l’idea di unire le rispettive competenze, coniugando spirito umanitario e tecnologia d’avanguardia. Ieri la firma di un accordo aperto a nuovi sviluppi.
L’azione umanitaria nel Darfur occidentale. Intersos è una delle più grandi organizzazioni umanitarie europee, con sede centrale in Italia. Fondata nel 1992 con il sostegno delle Confederazioni sindacali italiane, dal 2004 è presente in Darfur a supporto degli sfollati e dal 2005, per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si occupa del monitoraggio della situazione umanitaria in oltre 500 villaggi del Darfur occidentale. Sul posto, in un’area grande quasi quanto la Francia, si trovano diverse organizzazioni umanitarie anche se Intersos è l’unica che oltre a fornire assistenza, segue i movimenti dei rifugiati, con l’obiettivo di favorirne il ritorno, in condizioni di sicurezza. Dopo la mappatura dei villaggi (ottobre 2004-luglio 2005), le attività si sono concentrate nel monitoraggio dei ritorni su base trimestrale (agosto 2005-dicembre 2006). Gli operatori girano continuamente in lungo e in largo, con evidenti problemi di sicurezza e di accessibilità, muniti di carta e penna. Le informazioni raccolte con i questionari cartacei (nome e coordinate GPS del villaggio, condizioni generali, caratteristiche della popolazione, percentuale delle tribù) vengono trasformate in dati poi inviati al centro operativo di Garsila. Così finora è stato possibile mettere a punto delle carte tematiche che mediante semplici simboli, come cerchietti colorati, evidenziano lo stato dei villaggi (distrutti, abbandonati, abitati, insediati da nomadi), la presenza di sfollati interni, rifugiati o ritorni, lo stato di servizi essenziali (scuole, ospedali, pozzi), o le condizioni della terra.
"A causa del conflitto, dal 2003 in Darfur si sta consumando una grave crisi umanitaria, della quale in Europa non arriva la percezione, per numero di vittime e per drammi sociali" riferisce Sergio Odorizzi che vi ha appena trascorso 15 mesi. Impressionanti le cifre: 2.300.000 sfollati interni, 250.000 rifugiati in Chad e 350.000 le vittime stimate.
Il sistema informatico WebGis
I sistemi GIS, acronimo di Geographic Information Systems, sono strumenti software che permettono di gestire ed elaborare informazioni di varia natura associate al territorio. L’imponente mole di informazioni raccolte in Darfur ha orientato verso l’utilizzo di tecnologie GIS per disporre di un database centralizzato, continuamente aggiornato e accessibile da chiunque (naturalmente on line). La piattaforma WebGis presentata dall’ITC consente l’analisi integrata dei dati su rifugiati e sfollati e le rispettive aree di origine, lo studio delle dinamiche in atto e dei possibili scenari futuri. Per esempio, tramite una query, si può interrogare il sistema riguardo ai villaggi dove si trova attualmente una certa tribù, sapere di quante persone è composta, che movimenti ha avuto di recente, se dispone di risorse, quali sono i soggetti più vulnerabili. I dati vengono visualizzati mediante mappe o in dettaglio con tabelle. Tutti i componenti del sistema sono basati sulle specificazioni dell’Open Geospatial Consortium e le applicazioni informatiche del progetto saranno sviluppate in ambiente open source per svincolarle da licenze proprietarie, in modo da essere facilmente trasferibili ai partner locali. In una parola: tecnologia sostenibile e dal volto umano.
* la Repubblica, 26 gennaio 2007.
IL J’ACCUSE DI DESMOND TUTU *
L’Onu ha considerato quella del paese africano come la peggiore crisi umanitaria al mondo, ma non ha speso il proprio peso politico affinché il Sudan accetti una forza multinazionale di pace. La voce del grande leader anglicano
Darfur.Il grande silenzio sul genocidio
«Molte delle nostre nazioni sono maledette dalla loro ricchezza mineraria. Il Darfur ha la sfortuna di trovarsi in un paese con vaste riserve petrolifere. La Cina, la Francia e la Russia, fanno affari con il governo sudanese e sono riluttanti a mettere a repentaglio le loro relazioni commerciali»
Ecco un problema dell’Africa: i nostri genocidi tendono ad avvenire lontano dalle telecamere. Nel 1994 in Ruanda fu ucciso quasi un milione di persone; negli ultimi vent’anni nel Sudan meridionale ne sono morti due milioni; dal 1997 nella Repubblica Democratica del Congo ne sono morti quattro milioni. Il totale è agghiacciante, ma avrà ottenuto a malapena una colonna d’inchiostro o un minuto di diretta.
Nel decimo anniversario delle stragi in Ruanda è stato detto che non si permetterà mai più che civili innocenti siano macellati impunemente. Ma proprio mentre i politici deploravano il mancato intervento della comunità internazionale, era in atto un altro genocidio africano.
Nel nostro mondo di notizie a ciclo continuo, ventiquattr’ore su ventiquattro, si potrebbe perdonare alla gente di non sapere dell’esistenza del Darfur. Ha vinto la politica del governo sudanese di ostacolare l’accesso dei media e dei gruppi umanitari a quella remota regione occidentale.
Dal 2003 in Darfur due milioni di persone sono state vittime della pulizia etnica, ogni giorno donne e ragazze vengono sistematicamente stuprate e torturate, nei campi profughi c’è il colera e la violenza sta tracimando nel vicino Ciad. E tutto questo senza l’attenzione, o la risposta, che merita.
Il Programma per l’Alimentazione Mondiale avverte che non riesce a raggiungere in Darfur metà della popolazione bisognosa, e che il resto riceve razioni inferiori al fabbisogno minimo giornaliero. Le forze armate sudanesi, e le milizie Janjaweed che agiscono per loro, hanno intensificato gli attacchi ai civili, mentre i cooperanti vengono uccisi nonostante la recente firma di un accordo di pace.
La scorsa estate, dopo trenta giorni di guerra tra Israele e Hezbollah e un migliaio di morti, la comunità internazionale è giustamente intervenuta e ha inviato una missione di peacekeeping dell’Onu. Nel Darfur, dopo tre anni e mezzo e un bilancio stimato di trecento o quattrocentomila morti, non è ancora chiaro se verrà i nviata una forza delle Nazioni Unite. Noi africani ne deduciamo che al nostro continente vengono applicate due misure.
In tutto il mondo, da Città del Capo a Londra, da Mosca a New York, cittadini preoccupati domandano perché non siano ancora entrate in vigore le risoluzioni sul Darfur del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Stiamo ancora aspettando l’istituzione di una «no-fly zone», sanzioni mirate contro gli artefici del genocidio e il deferimento al Tribunale internazionale per i crimini di guerra. Non stupisce che il regime di Khartoum neghi l’accesso al Darfur alla missione di peacekeeping dell’Onu.
Di fatto, nel Darfur la gente viene ancora terrorizzata e uccisa impunemente. L’Onu ha riconosciuto quella del Darfur come la peggiore crisi umanitaria al mondo, ma non ha messo in atto una pressione costante sul governo sudanese affinché accetti l’invio di una forza multinazionale di pace.
Intanto, mentre continua la goffa ricerca di scuse per abbandonare il Darfur, gli esperti consultano i libri di storia per trovarvi prove di «antichi odi tribali o etnici» con cui liquidare la «ferocia» dei genocidi africani (come se non fosse avvenuta la stessa cosa appena sessant’anni fa nel cuore dell’Europa).
Dovremmo diventare sospettosi quando sentiamo dire che la pulizia etnica di civili indifesi è in realtà una guerra civile. Intendono dire: «Quei selvaggi si azzuffano tra loro». Come possono aspettarsi che noi mettiamo a rischio i nostri soldati quando non c’è nessun «buono» da difendere?
Un’altra giustificazione per la nostra inazione è: «La situazione è più complicata di quanto pensiate voi idealisti». Nel Darfur, dicono, non si può dividere la popolazione tra arabi aggressori e neri africani vittime.
È vero, ci sono matrimoni misti e ci sono problemi che riguardano la proprietà della terra e la scarsità d’acqua a causa del cambiamento climatico. Ma quelli che si riconoscono come neri africani vengono uccisi da altri che li considerano razzialmente inferiori e pri vi del diritto di vivere nella terra dove sono nati. Nel Darfur è stato distrutto il novanta per cento dei villaggi dei neri africani.
Ecco un altro problema dell’Africa: molte delle nostre nazioni sono maledette dalla loro naturale ricchezza mineraria. Il Darfur ha la sfortuna di trovarsi in un paese con vaste riserve petrolifere. La Cina, la Francia e la Russia, tutti membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, fanno affari con il governo sudanese e sono riluttanti a mettere a repentaglio le loro relazioni commerciali.
Nel 2001 Tony Blair dichiarò che se fosse accaduto un nuovo Ruanda la Gran Bretagna avrebbe avuto il dovere di intervenire. La Gran Bretagna merita un enorme plauso per aver guidato il mondo nella sua generosa risposta all’emergenza umanitaria in Darfur. Il governo deve guidare anche la comunità internazionale verso la coraggiosa decisione di intervenire di fronte al genocidio.
Qualche anno fa un politico americano commentò che se fosse stato tempestato di telefonate di elettori preoccupati che gli chiedevano di fare qualcosa per il Ruanda, sarebbe stato costretto ad agire.
Per favore, pregate per il Darfur. Poi fate in modo che le vostre preghiere guidino le vostre azioni: chiedete ai vostri rappresentanti eletti di invocare l’intervento di una forza dell’Onu, non simbolica, con il mandato effettivo di proteggere i civili nel Darfur. «La fede senza le opere è morta» (Giacomo 2,26). (traduzione di Anna Maria Brogi)
© Desmond Tutu 2006
* AVVENIRE, 31.12.2006
La decisione del Consiglio dell’Onu per i diritti umani. Cinque "saggi" dovranno verificare omicidi e abusi sui civili
Missione delle Nazioni Unite per accertare i massacri in Darfur
GINEVRA - Una missione Onu per accertare i massacri e gli abusi compiuti in Darfur sui civili, soprattutto su donne e bambine.
La decisione è stata presa oggi dal Consiglio Onu per i Diritti Umani. I delegati dei 47 Paesi membri dell’organismo Onu, convocati nella sede di Ginevra nella prima sessione speciale sulla crisi umanitaria in Darfur, hanno approvato la proposta di affidare al presidente del Consiglio, Luis Alfonso de Alba, la scelta delle cinque persone "altamente qualificate" che faranno parte della missione guidata dal Relatore speciale Onu per il Sudan.
La regione occidentale del Sudan è teatro dal 2003 di un sanguinoso conflitto che vede le milizie arabe dei janjaweed, sostenute dal governo sudanese, accanirsi sulle popolazioni non musulmane. Il conflitto ha fatto oltre 200.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati. Non ha conseguito risultati significativi il contingente di pace dell’Unione africana forte di appena 7.000 uomini. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva deciso l’invio di un contingente di oltre 20.000 caschi blu, ma il governo di Khartum si è opposto al loro dispiegamento.
(la Repubblica, 13 dicembre 2006)
Intervista di Annan a poche settimane dalla scadenza del mandato. "Se fossi l’iracheno medio direi: prima si poteva uscire in strada"
Bbc, parla il segretario generale Onu: "Iraq, peggio di una guerra civile"
Rincrescimento per il Darfur: "Non vi sono risorse o volontà di affrontare la situazione"
LONDRA - "Molto peggio di una guerra civile". Così il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha definito la situazione dell’Iraq in un’intervista diffusa oggi dalla Bbc. "Qualche anno fa, in Libano e in altri posti parlavamo di guerra civile, ma qui è molto peggio", ha affermato Annan, che ha definito "molto preoccupante" l’attuale situazione in Medio Oriente.
Il segretario dell’Onu, che il 31 dicembre terminerà i suoi 10 anni di mandato, ha affermato che il fallimento nel cercare d’impedire la guerra in Iraq nel 2003 è stato un duro colpo per l’Onu, dal quale le Nazioni Unite si stanno ancora riprendendo.
In Iraq la situazione è "estremamente pericolosa", ha affermato Annan. Se fossi nei panni "dell’iracheno medio", ha proseguito, penserei che prima "c’era un dittatore brutale, ma si poteva uscire in strada, i bambini potevano andare a scuola e tornare a casa senza che i genitori si preoccupassero se sarebbero mai tornati". "Senza sicurezza - ha sottolineato - non si può fare molto, nè ripresa, nè ricostruzione".
Annan ha espresso infine rincrescimento per la situazione in Darfur, dove "non vi sono le risorse o la volontà di affrontare la situazione". Quanto al suo successore Ban Ki-moon, Annan non offre consigli: "deve fare a modo suo. Io ho fatto a modo mio, i miei predecessori hanno fatto a modo loro e lui deve fare a modo suo".
(la Repubblica, 4 dicembre 2006)