Eco-nomia

PENSIONI: L’INUTILE TORTURA. Un commento di TITO BOERI

martedì 5 settembre 2006.
 
[...] Viene da pensare che i nostri politici e sindacalisti siano afflitti, come lo Zeno di Svevo, dalla «malattia dell’ultima sigaretta»: dicono sempre che sarà l’ultima per poterla fumare con grande voluttà, ben sapendo, in cuor loro, che non è così, che non sarà davvero l’ultima volta che si parla di riforma delle pensioni. Bene invece che sia davvero l’ultima e che la smettano di torturare inutilmente gli italiani [...]

L’inutile tortura

di Tito Boeri (La Stampa, 05.09.2006)

Succede, con regolarità, ad ogni ritorno dalle ferie. E’ una tortura consueta, quanto inutile. Si apprende dai giornali che, nel tentativo di far quadrare i conti dello Stato, l’esecutivo intende ritoccare le pensioni. Poi non se ne fa nulla. Rimane solo lo spavento che spinge molti alla fuga, il si salvi chi può. Eppure i ritocchi che vanno apportati al nostro sistema pensionistico non servono a coprire falle nel bilancio del prossimo anno. Si tratta di aggiustamenti che guardano molto più in là e che, se fatti davvero, potrebbero evitarci queste inutili torture.

Il problema è noto, quasi banale. Negli ultimi 40 anni, abbiamo guadagnato circa 10 anni di vita. La longevità è cresciuta a un ritmo impressionante e imprevisto: due anni e mezzo ogni dieci. Al tempo stesso, abbiamo lavorato sempre di meno. I nati nel 1925 lavoravano, in media 45 anni mentre i nati nel 1945 lavorano 8 anni in meno. Il fatto è che si inizia a lavorare più tardi e ci si ritira prima dalla vita attiva: negli Anni 60 si andava in pensione a 63 anni, oggi a 59. Ne consegue che le pensioni oggi vengono erogate per molti più anni, quindi costano di più. Queste quiescenze sempre più costose vengono pagate da chi lavora, con la promessa che, quando andrà in pensione, sarà trattato allo stesso modo. Ma il maggiore costo delle pensioni unito al calo delle nascite (quindi del numero di coloro che in futuro pagheranno le pensioni di chi si ritira dalla vita attiva) hanno reso questo patto intergenerazionale iniquo e insostenibile.

Oggi chi lavora versa, tra contributi e tasse sui redditi, circa il 45% dei propri salari a chi è in pensione e che, a suo tempo aveva trasferito ai pensionati di allora non più del 30% del proprio stipendio. Di più, chi ha iniziato a lavorare negli ultimi 10 anni sa che riceverà una pensione molto più bassa (dal 20 al 30% inferiore, in rapporto all’ultimo salario), di chi va oggi in pensione. La tassa imposta dal pagamento delle pensioni su chi lavora sta diventando così alta che i datori di lavoro la pagano sempre di meno: si creano posti che prevedono contributi previdenziali più bassi (dai co.co.co. ai contratti a progetto) e si pagano salari più bassi, il che significa che la tassa viene fatta pagare solo ai lavoratori. Chi oggi inizia a lavorare ha un salario netto di ingresso del 15% inferiore a chi iniziava lavorare dieci anni fa.

Il risultato è che questi nuovi entrati rischiano, pur lavorando 45 anni come si faceva una volta e pagando ai pensionati una tassa molto più alta di allora, di non arrivare a maturare i requisiti per una pensione al di sopra del livello di sussistenza. Cornuti e mazziati, verrebbe da dire. E non basta alzare i contributi sui nuovi lavori per migliorare la loro situazione. Bisogna anche ridurre la tassa previdenziale che grava su di loro.

I rimedi sono anch’essi noti da tempo. Si deve indicizzare la generosità delle pensioni a quanto si è effettivamente versato durante tutta la vita lavorativa e tenere conto del numero di anni in cui si finirà, presumibilmente, per fruire del trattamento. Il metodo contributivo introdotto con la riforma del 1996 essenzialmente svolge questa operazione e, non a caso, questo metodo è stato poi imitato da altri Paesi. Ma la riforma del 1996 ha due difetti: entra in vigore troppo tardi (ci vuole ancora un quarto di secolo prima che dispieghi appieno i suoi effetti) e non prevede aggiustamenti automatici, in grado di tenere conto dell’evoluzione della longevità. L’operazione che andava fatta, e che non è stata fatta negli ultimi 10 anni, consisteva nell’accelerare l’entrata in vigore del nuovo sistema. Si poteva agire come la Svezia, che ha adottato il nostro sistema un anno dopo, ma ha applicato il nuovo metodo a tutti, tranne gli ultrasessantenni, mentre noi abbiamo esentato anche i quarantenni, quelli che giocano ancora a calcio anche in serie A e che avevano tutto il tempo di adattarsi alla nuova normativa. Il risultato è che abbiamo circa 20 anni di ritardo nell’introduzione del nuovo sistema rispetto alla Svezia. Si dovevano anche rendere automatici gli aggiustamenti all’aumento della longevità per evitare nuove torture degli italiani, con politicamente difficili revisioni delle regole di calcolo della pensione, che intervengono inevitabilmente troppo tardi.

Nulla di questo è stato fatto. Il ministro Tremonti - che ha definito la sua riforma come la migliore del pianeta - ha fatto due cose: 1) ha introdotto ulteriori benefici per chi era stato graziato nel 1996 e riceve i salari più alti (il cosiddetto superbonus è servito soprattutto ad appesantire la busta paga dei dirigenti, con incrementi fino 150.000 euro al mese!); 2) è intervenuto con l’accetta innalzando di un botto di 3 anni (il cosiddetto scalone) i requisiti per ricevere la pensione con il vecchio regime, a partire da una data molto lontana: il 2008. Tremonti, in altre parole, ha cercato di sfruttare i brevissimi orizzonti della politica italiana, per esibire una riforma strutturale che placasse i mercati e le pressioni dei partners europei. Insomma, miopia contro miopia.

Il risultato è che si sono stimolate le solite fughe verso le anzianità che precedono l’entrata in vigore di ogni riforma (quest’anno i flussi verso le anzianità sono in aumento del 30%), mentre lo «scalone», una volta entrato nell’orizzonte del sindacato, è sparito: non a caso, il confronto di questi giorni ne dà per scontata l’abolizione. E’ politicamente insostenibile una riforma che in una notte innalza di 3 anni i requisiti di chi sta andando in pensione. E’ di una iniquità stridente. Per salvare il patto intergenerazionale e ottenere nel lungo periodo risparmi più alti, bisogna invece introdurre gradualmente le stesse riduzioni, per chi si ritira dalla vita attiva contando di ricevere la pensione per almeno 20 anni, che varranno per i lavoratori che oggi hanno meno di 40 anni.

Anche oggi il tormentone sembra partire con le stesse promesse del 2004: esibire un trofeo a Bruxelles, guadagnare tempo, nel rientro dal disavanzo eccessivo e nella riduzione del debito. Ma siamo in una congiuntura economica più favorevole di due anni fa. In questi casi ci si può permettere di guardare un po’ più in là che ai conti del 2007, far politica economica oltre la Finanziaria.

Purtroppo pochi lo fanno. Gli stessi politici che dicono di avere a cuore il problema del precariato, sostengono che sia giusto rimandare la riforma delle pensioni perché il gettito nel 2006 è andato meglio del previsto. Qui è in gioco la possibilità per chi oggi inizia a lavorare di costruirsi una pensione adeguata, tra pubblico e privato.

Altro che gettito del luglio 2006! Ma il sindacato italiano, la cui base è oggi rappresentata da chi sta per andare in pensione o in pensione c’è già, non sembra intenzionato a comportarsi come quello svedese, che ha una base di 20 anni più giovane e il triplo di iscritti. Se avesse una leadership lungimirante, questa capirebbe che un sindacato che non vuole diventare una specie in via di estinzione, come i gorilla di montagna, e che vuole anche i giovani tra le sue file, non può che accettare la strada degli aggiustamenti automatici. Eviteranno al sindacato di doversi un domani schierare in un conflitto intergenerazionale potenzialmente dirompente. Perché, se non si completa la riforma del 1996, prima o poi, saranno i giovani a scendere in piazza.

Viene da pensare che i nostri politici e sindacalisti siano afflitti, come lo Zeno di Svevo, dalla «malattia dell’ultima sigaretta»: dicono sempre che sarà l’ultima per poterla fumare con grande voluttà, ben sapendo, in cuor loro, che non è così, che non sarà davvero l’ultima volta che si parla di riforma delle pensioni. Bene invece che sia davvero l’ultima e che la smettano di torturare inutilmente gli italiani.


Rispondere all'articolo

Forum