Quando c’erano i matti
La lotta di classe secondo Basaglia
Così il pensiero del grande psichiatra fu fortemente influenzato dalla filosofia marxista
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 30.11.2013)
Come si fa un corso su Basaglia? Noi leggiamo delle parole, ma Basaglia è tutto rivolto alle pratiche. C’è o non c’è un pensiero di Basaglia? Io credo che ci sia, ma non è un pensiero facile da disegnare.
Possiamo dire che abbia un’intonazione prevalentemente fenomenologica, ma dopo aver usato questa espressione non siamo giunti da nessuna parte, perché far rientrare Basaglia all’interno di una corrente filosofica significa dissanguare, rendere astratta un’esperienza, che è solo in parte un’esperienza di pensiero.
Ci sono anche altri autori che entrano a far parte del pensiero di Basaglia, ci sono Foucault, Goffman... andremo alla ricerca di un’identificazione che ancora manca. Ma chi è Basaglia? Un apolide? Qualcuno che non può essere inserito né nella storia della psichiatria né in quella del pensiero?
C’è anche una parte del pensiero di Basaglia fortemente influenzata dal marxismo, da cui preleva alcune nozioni, come quella di una lotta di classe tra chi ha il potere e chi lo subisce, in questo caso gli internati, caratterizzati dalla parola “miseria”.
Quando Basaglia entra nella bolgia infernale del manicomio di Gorizia, quello che vede è la miseria. C’èun accoppiamento nella testa di Basaglia tra psichiatria e miseria, tra quella psichiatria che bisogna esercitare e la miseria di fronte alla quale ci si trova quando si esercita la psichiatria dentro l’istituzione totale del manicomio. Anche le storie triestine sono storie di povertà, miseria ed esclusione.
La parola esclusione spicca in tutta la riflessione di Basaglia: gli esclusi, gli interdetti, gli emarginati. Perciò il suo discorso è attuale, perché riguarda quel gioco tra inclusione ed esclusione che comanda la nostra società, dove l’esclusione non è solo quella sotto i nostri occhi, l’esclusione degli altri, sottoprivilegiati o senza privilegi, ma ha a che fare anche con la vita comune, l’esperienza del sentirsi esclusi può avvenire anche in situazioni di non-miseria e anche quando non siamo oggetto di un effettivo rifiuto sociale (rifiuto che molto spesso passa attraverso un’apparente accoglienza).
Ho l’impressione che Basaglia - nomen che comprende l’esperienza, il pensiero, gli effetti che produce - non sia stato confinato, ma lentamente e gradualmente assimilato dalla psichiatria ufficiale. Nei luoghi deputati di questa psichiatria gli sono state aperte le porte: nessuno oggi si azzarda a fare un’esplicita difesa dell’istituzione psichiatrica intesa come istituzione di contenimento. La distruzione del manicomio è accolta da tutti, ma credo che spesso si dica una cosa e se ne faccia un’altra.
Basaglia, nell’esperienza psichiatrica italiana, è in realtà un cane morto. Si va avanti diritti nella convinzione che la medicalizzazione della cosiddetta follia sia la linea da seguire, con tutta la fiducia accordata alla scoperta scientifica e al continente delle neuroscienze, il cui obiettivo è di costruire la catalogazione delle malattie mentali.
Ho conosciuto direttamente persone che hanno avuto esperienze con le strutture della cura psichiatrica e quasi mai ne ho ricavato una bella immagine. La velocità con cui a una situazione viene collegata un’etichetta è molto rapida, perfino là dove ci dovrebbe essere maggior cautela, vista la storia passata. Lo stigma della malattia mentale non è davvero scomparso.
Una volta c’era anche uno stigma legato alla psicoanalisi, le persone che erano in analisi non amavano dirlo, ma questo era un piccolo stigma, invece, ancora oggi, se affermi di essere psichiatrizzato, la tua identità si sgretola agli occhi degli altri e anche ai tuoi stessi occhi. È un territorio estremamente delicato, è molto facile che certe parole (psicosi, schizofrenia, disturbo bipolare, ecc.) vengano usate, e una volta usate rimangano appiccicate addosso alla persona.
Quanta civiltà c’è in un operare che non vuole applicare etichette? In una pagina delle sue Conferenze brasiliane Basaglia afferma che non è una questione di diagnosi, ma di saper descrivere la crisi di vita che si ha di fronte. Non arriverei a dire che la filosofia può sostituire gli psicofarmaci, fa un po’ ridere. Fa però meno ridere se alla filosofia diamo un ruolo.
Cosa se ne fa Basaglia della filosofia? La filosofia stessa diventa per lui qualcos’altro. Prima di dare un’etichetta, di fare una diagnosi, forse c’è da fare un’operazione - e qui può entrare in gioco la fenomenologia - di sospensione del giudizio.
Basaglia si identifica con questa difficile lotta, difficile perché i numeri sono grandi: cinquecento, mille persone ricoverate in manicomio. È molto complicato lavorare singolarmente con questi numeri, perché le istituzioni hanno già livellato.
Basaglia sospende il giudizio e ipotizza un lavoro inimmaginabile quanto a impegno, strutture, personale, formazione, che entri nelle storie singole, storie che possono anche non essere cupe. La storia del San Giovanni liberato è anche una storia di feste (“Marco Cavallo” e tante altre situazioni), Basaglia libera anche una voglia di allegria.
Prima ancora di ogni terapia bisogna analizzare la crisi di vita. Come si fa? Come utilizza Basaglia la sua formazione psichiatrica? La psichiatria non va rifiutata, va messa in una situazione di sospensione rispetto all’attenzione alle crisi di vita. Con questo Basaglia apre il campo a tutta una serie di implicazioni e magari anche a una ripresa di interesse nei confronti della psicoanalisi.
Imparare a sospendere il giudizio, a rallentare la velocità con cui si stigmatizza, ecco il punto. Se esiste il manicomio, l’etichetta coincide con l’entrata in manicomio; se entri lo stigma è immediato. Ma anche quando abbiamo distrutto il manicomio permane il problema della velocità dell’etichetta, nell’individuo e nella società, in ognuno di noi (sesso, età, provenienza, colore della pelle, cultura).
SCHEDA EDITORIALE *
Pier Aldo Rovatti
Restituire la soggettività
Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia
con interventi di
Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Gallio, Maria Grazia Giannichedda, Franco Rotelli, Ernesto Venturini, Michele Zanetti
Questo libro presenta al lettore le lezioni sul pensiero di Franco Basaglia che Pier Aldo Rovatti ha tenuto a Trieste nell’ambito di un corso di Filosofia teoretica. Ne risulta - con un linguaggio di grande chiarezza - che Basaglia ha costruito lungo il suo straordinario percorso, da Gorizia a Trieste, una riflessione decisamente originale che lo colloca nella grande storia del pensiero contemporaneo.
Questa riflessione, che attraversa tutta la sua pratica, si condensa sul problema della soggettività, e più specificamente su cosa significhi e come sia possibile “restituire” la soggettività a coloro, come gli ex internati in manicomio, ai quali è stata sottratta (ma poi anche a ciascuno di noi nelle precarie condizioni culturali e sociali in cui attualmente versiamo).
Il libro non ha la forma consueta del saggio: piuttosto è una narrazione critica a caldo nella quale si distende un dialogo continuo con gli studenti e con una serie di testimoni eccellenti (Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Gallio, Maria Grazia Giannichedda, Franco Rotelli, Ernesto Venturini, Michele Zanetti) che portano il loro contributo di esperienze e di intelligenza intervenendo alle lezioni.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
Federico La Sala
LA LOTTA DI BASAGLIA: SAPERE O POTERE? *
Costanzo: “Ecco Il professore Franco Basaglia, psichiatra di fama internazionale e, come dire, promotore, suscitatore, agitatore di gran parte comunque della legge del 13 maggio 1978, passata con numero 180, che peraltro oggi fa parte della legge della riforma sanitaria. Cosa all’epoca le hanno insegnato rispetto a quello che insegna lei oggi?”
Basaglia: “Mi hanno insegnato delle cose cattive. Cioè che esiste la psichiatria, che esiste il manicomio, esiste lo schizofrenico, esiste il maniaco-depressivo, esistono delle situazioni per cui bisogna curare queste situazioni in maniera estremamente schematica, capisce?
E mi sono accorto una volta lasciata la situazione schematica dell’università, dove sono stato per molti anni, una volta entrato in manicomio, mi sono accorto che non era vero, vedendo la realtà pratica, di tutti i giorni, nel manicomio.”
Costanzo: “Ma lei sa che ci sono ancora molti suoi colleghi che pensano invece che se debba insegnare quello che insegnavano a lei?”
Basaglia: “Il problema è che noi medici, e tutti i professionisti, hanno un grosso problema: i due poli di una contrapposizione, il sapere e il potere nella medicina. Bisogna vedere quanto il medico usa il suo sapere come potere e viceversa. Quanto il medico risponde ai bisogni di chi cura e all’inverso quanto usa il sapere per reprimere?”
Costanzo: “Professor Basaglia che cos’è la follia?”
Basaglia: “Il problema della normalità e della follia è un problema che ha agitato sempre l’uomo e il mondo. Bisogna vedere quale normalità e quale follia. Questo è il problema.”
Costanzo: “Qual è la normalità per lei?”
Basaglia: “È la situazione nella quale noi ci troviamo, chiusi nella società nella quale viviamo, nel sistema sociale nel quale viviamo.”
Costanzo: “E la follia?”
Basaglia: “La follia è l’altra parte, è un bisogno non soddisfatto che porta l’uomo a esprimersi in maniera diversa. È una domanda la follia, una domanda di essere con gli altri.”
La storia di Franco Basaglia è legata in modo indissolubile al superamento del sistema manicomiale in Italia. Basaglia, nella sua esperienza del manicomio di Trieste, ha dimostrato la possibilità (e la necessità) di superare il manicomio come sistema di cura della follia.
Perché?
Come il lavoro di Goffman ha dimostrato, il manicomio è divenuto un’“istituzione totale”, proprio come i campi di concentramento: al suo interno la follia era reclusa, nascosta, isolata, per non turbare tutti coloro che, “sani”, restavano fuori dai cancelli del manicomio.
All’interno del manicomio prendeva vita una società parallela, nel quale il malato non trovava una forma di cura, ma una nuova forma di segregazione e umiliazione.
Ridotto ad individuo senza nome, diritti o ascolto, il folle era privato della sua dimensione di cittadinanza, della possibilità stessa di avere voce nella società.
Nella foto: Franco Basaglia intervistato da Maurizio Costanzo
Franco Basaglia è stato il principale esponente italiano del movimento dell’antipsichiatria.
Questo movimento, articolato ed eterogeneo, ha avuto diverse anime: da una parte chi, come Thomas Szasz, giunse a negare l’esistenza stessa della follia e della malattia mentale; dall’altra chi, come Basaglia, vedeva nella psichiatria uno strumento di lotta e oppressione politica di una maggioranza su una minoranza stigmatizzata.
Il problema della malattia mentale tocca infatti sia il fronte del sapere che quello del potere.
Come la riflessione di Michel Foucault ha mostrato con evidenza, la costruzione stessa del sapere non è neutrale, bensì risponde alla logica di potere della classe dominante.
Per questo, Basaglia vedeva nei manicomi uno strumento di oppressione politica ed economica più che uno strumento terapeutico.
Il superamento del manicomio, con la nascita di unità dislocate sul territorio, con un numero ridotto di posti letto e la definizione di progetti terapeutici e riabilitativi personalizzati, rispondeva alla necessità di non ridurre il folle alla sua diagnosi, capace di renderlo un condannato a vita alla prigionia senza aver commesso alcuna colpa.
Oggi i manicomi sono in gran parte in stato di profondo degrado e abbandono. Date le dimensioni colossali di queste strutture e l’incapacità di convertirli ad un nuovo utilizzo, i padiglioni che li compongono stanno andanfo incontro ad un rapido deterioramento.
Persa la loro funzione di potere, come direbbe Basaglia, le strutture hanno perso ogni utilità per la classe dominante, venendo a loro voltà dimenticate.
* Cfr. Gianfranco Ricci, 7 dic 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
Politiche sanitarie e società
Salute mentale, turbolenze a nord-est
di Federica Sgorbissa (Le Scienze, 25 giugno 2021)
Le modalità e l’esito di un concorso per la direzione del Centro di salute mentale di Trieste che fu già di Franco Basaglia, il “padre" della legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi, hanno scatenato un’aspra polemica. C’è chi teme un attacco al modello che dirige la gestione della salute mentale in Italia e che rappresenta un punto di riferimento globale
Se in questi giorni vi è capitato di vedere citato con toni allarmanti il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia, Trieste, addirittura sulle pagine di qualche quotidiano britannico (An unfolding nightmare, un incubo che si svela, titola “The Independent”) vi sarete chiesti che cosa stia capitando in questo lembo periferico del nostro paese. No, la bora non c’entra, questa volta la protagonista è un’altra specialità triestina: la salute mentale.
La vicenda in breve. Siamo alla fine di maggio: al concorso per la nomina del direttore del Centro di salute mentale (CSM) 1 di Trieste (noto ai locali come quello di “Barcola”, forse questo nome vi risuona) la prova orale ribalta l’iniziale graduatoria per curriculum dei tre candidati finali, mandando all’ultimo posto quello che era il primo e viceversa. Il 9 giugno viene confermata la nomina del primo in graduatoria, il medico Pierfranco Trincas, proveniente dai servizi di salute mentale di Cagliari, psichiatra con una specializzazione in ambito criminologico (così nel suo curriculum), che supera gli altri due candidati, ovvero Fabio Lucchi, che ha lavorato agli Spedali civili di Brescia, e Mario Colucci, da trent’anni al servizio del Dipartimento di salute mentale (DSM) di Trieste, un basagliano doc, per così dire.
Per la prima volta negli ultimi quarant’anni questa posizione sarà occupata da un medico che non fa capo alla tradizione triestina, quella inaugurata dallo psichiatra veneziano Franco Basaglia, autore della legge 180, che dal 1979 regola e dirige la gestione della salute mentale italiana. Subito divampa un’aspra polemica che si condensa in una lettera pubblicata (a più riprese) sulle pagine del quotidiano locale, “Il Piccolo”, firmata da alcuni ex direttori del DSM del Friuli-Venezia Giulia e da un gran numero di medici e personalità, nazionali e internazionali, in cui si denuncia un attacco al sistema della gestione della salute mentale. Da questa azione scaturisce anche una petizione internazionale on line da titolo “Save Trieste’s mental health system”.
La vicenda approda anche fra le news del "British Medical Journal" (BMJ), oltre che, come già detto, su “The Independent”, complice il grande numero di medici e psichiatri britannici fra i firmatari della petizione.
Perché tanto sconcerto, preoccupazione e opposizione per questa nomina? Perché a quella che sembrerebbe una vicenda squisitamente locale si interessano addirittura personalità internazionali?
La paura è che si vada a minare quello che a oggi nel nostro paese risulta essere un sistema di gestione di salute mentale che funziona, rispettoso dei pazienti ed efficace nel promuovere il loro benessere e (non sono cose scollegate) l’unico esempio in Italia di continuità e fedeltà nell’attuazione della legge 180. Modello che - da qui l’interesse internazionale - ha rappresentato e rappresenta un riferimento globale che ha più volte, anche di recente, ricevuto il plauso di realtà del calibro dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
Concorso a porte chiuse
Quello che i firmatari della lettera sostengono è che - anche alla luce di presunte irregolarità nel concorso stesso - ci sia una palese voglia di minare dal di dentro questo modello, inserendo ai vertici della sua gestione medici in aperta opposizione.
Come spiega sulle pagine de “Il piccolo" Franco Rotelli, ex-direttore del DSM triestino e figura storica nella riforma psichiatrica, la procedura del concorso desta più di qualche perplessità. Quello che era il candidato con il maggiore punteggio per curriculum, uno psichiatra che lavora da oltre trent’anni nelle strutture triestine, docente universitario, che ha presentato nel suo curriculum diverse decine di titoli (72 pubblicazioni, scrive Rotelli, molte in riviste internazionali di grande autorevolezza) è stato superato largamente - dopo una prova orale di pochi minuti, a porte chiuse, in assenza del direttore del Dipartimento - da un candidato che era ultimo in graduatoria e con “in dote” due sole pubblicazioni e qualifiche meno brillanti.
Coloro che contestano la nomina aggiungono inoltre che della prova orale non è nemmeno possibile conoscere i dettagli poiché non riportati nei verbali, dove si trovano solo valutazioni standard uguali (al netto degli aggettivi “sufficiente”, “discreto”, “buono”, “ottimo”...) per tutti i candidati.
Il vincitore inoltre risultava per curriculum e titoli fra gli ultimi anche nella rosa più ampia di otto candidati, dalla quale sono stati scelti i tre “papabili” finali, dove invece il terzo candidato finale risultava in assoluto il primo.
“Con l’aggravante - aggiunge Roberto Mezzina, psichiatra e ultimo direttore ufficiale del DSM di Trieste (fino al 2019) - che il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (ASUGI), che può scegliere il candidato a sua discrezione nella rosa dei tre, ha preferito quello con il curriculum peggiore, nonostante la sua scarsa esperienza.” La classifica finale di tre candidati infatti non rappresenta in sé un’attestazione conclusiva ma solo un pool di scelte dalle quali il direttore generale può pescare facendo le debite considerazioni.
L’Azienda sanitaria del Friuli-Venezia Giulia da noi contattata in merito alla vicenda si è limitata, tramite l’ufficio stampa, a una lapidaria risposta via e-mail sottraendosi a un’intervista più articolata. Così scrivono: “Riguardo la ‘notevole eco mediatica’, come lei riporta, in merito l’esito di una regolare procedura concorsuale espletata secondo la norma Balduzzi, la Direzione non ha nessuna dichiarazione da aggiungere”.
La tesi di Mezzina, Rotelli e gli altri, tuttavia è che la politica abbia prevalso su competenze e buonsenso. Ricordiamo qui - anche se ormai dopo due anni di emergenza pandemica la cosa è abbastanza chiara a tutti - che la gestione della sanità è ampiamente regolata dalle regioni, e che la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia oggi è guidata da una coalizione di destra, formata da partiti che storicamente hanno combattuto strenuamente la legge 180 fin dalla sua nascita.
Chiaramente le accuse sono state prontamente rispedite al mittente, e bilanciate da una serie di contro-accuse: gli psichiatri basagliani vorrebbero solo difendere il loro orticello e non lasciare entrare “nel sistema” figure che non fanno a capo alla loro scuola di pensiero.
L’importanza dei Centri di salute mentale
Una delle cose che potrebbe sorprendere il “lettore ingenuo”, è l’enorme polverone sollevato intorno a una nomina che per quanto importante a livello locale, potrebbe apparire marginale in un quadro complessivo: si tratta pur sempre del direttore di uno solo dei quattro Centri di salute mentale (21 a livello regionale) di Trieste
L’importanza della nomina, tuttavia, si attesta a diversi livelli. Uno di questi è sia simbolico che pratico. I Centri di salute mentale sono l’essenza del “sistema Trieste” e riassumono l’etica basagliana. “I CSM sono la struttura inventata a Trieste da Franco Rotelli nel 1975, con Basaglia direttore, diffusa prima a Trieste poi in tutta la regione, realizzata adesso anche in altre regioni italiane, dove però spesso si applica in maniera molto minimale. Questa struttura è stata realizzata anche in alcune parti del mondo tra cui il Brasile, che ha adottato questo modello per i Centros de Atenção Psicossocial (CAPS). Anche altre esperienze in giro per il mondo hanno mutuato questa idea,” spiega Mezzina.
Il CSM è la struttura portante dell’assistenza territoriale. Ogni centro è basato su un’équipe che si muove sul territorio e le persone che ne hanno bisogno vi accedono in maniera libera, senza cioè quell’invio da parte del medico di base o chi per lui, senza formalità. “Vengono quando vogliono, quando sono in crisi, quando gli pare”, puntualizza Mezzina. “Questa è un’altra eccezionalità. Queste persone possono essere ospitate dalla stessa équipe che le conosce e che le segue attraverso un piccolo numero di posti letto dentro la struttura. Si tratta quindi di un’assistenza territoriale. Che è di per sé è una bestemmia per una psichiatria ospedaliera che vede il posto letto solo in ospedale.”
L’eccezione della realtà triestina (e più in generale del Friuli-Venezia Giulia) è la continuità nell’applicare un approccio di cura e accoglienza del malato mentale, che anziché mettere i malati dentro un ospedale, vestendoli con un camice, magari usando la contenzione come visto più volte in altri luoghi (anche con conseguenze gravissime), li lascia liberi, con i propri vestiti, circondati da amici e familiari, in un posto accogliente che somiglia a una casa. Gli operatori inoltre conoscono bene la persona, mentre in altre realtà italiane il malato mentale in crisi viene spesso affidato a medici e assistenti sanitari sconosciuti che devono rifare tutta la valutazione diagnostica, oltre che ricostruire da zero il rapporto di fiducia con la persona.
“Tutto ciò è una garanzia di maggior continuità, maggiore umanità dell’assistenza e maggiore efficacia, perché sulla base del rapporto di fiducia si costruiscono le azioni terapeutiche. Questo, in base alla ricerca, è uno degli indicatori del buon esito di un trattamento”, conclude Mezzina.
Situazione incerta
La nomina del direttore di un CSM, tuttavia, è importante anche a un livello più prosaico: chi ricopre questa carica entra infatti automaticamente in lizza per il posto di direttore del Dipartimento di salute mentale. Questa crisi attuale si inserisce in un momento di stallo e insieme di imminente ristrutturazione dei servizi di salute mentale regionale. Basti dire che da oltre un anno e mezzo (da quando cioè Mezzina non è più direttore del DSM di Trieste) questo è gestito da una “direttrice facente funzioni”, la dottoressa Elisabetta Pascolo.
Una situazione anomala, perché “di solito il facente funzioni non potrebbe stare in carica più di 6 mesi, massimo un anno”, spiega Mezzina. Ma non basta, oltre al direttore vacante, c’è imminente un cambio di assetto strutturale dei servizi di salute mentale dell’Azienda sanitaria Giuliano Isontina: verranno infatti presto pubblicati gli atti aziendali in cui un’azienda definisce la sua organizzazione, il suo funzionigramma e organigramma. Tutto ciò desta preoccupazioni rispetto a possibili tagli e riduzioni.
Insomma non si tratta di un periodo di grande serenità, da qui i nervi tesi.
Soprattutto, da un lato c’è chi crede che i fatti recenti si inseriscano in una lunga battaglia fra destra e sinistra sulla legge 180, con la volontà di smantellare quanto di buono fatto a Trieste e nel Friuli-Venezia Giulia negli ultimi quarant’anni.
Dall’altro lato, i commentatori di sponda opposta (non l’Azienda sanitaria, va precisato, che non ha dichiarato pubblicamente nulla più di quanto riportato anche in questo articolo) insinuano che la reazione sia dettata solo dalla volontà di non fare entrare elementi estranei in quella che viene vista come una roccaforte basagliana. Del merito sulle competenze e le intenzioni del designato nuovo direttore invece non si sa praticamente nulla.
Intanto però è in via di presentazione un ricorso ufficiale: “Gli elementi di procedura sono al momento al vaglio. Adesso ci sarà un ricorso e quindi verranno valutati. Da quello che ho potuto appurare il concorso si è svolto a porte chiuse: i candidati non hanno potuto ascoltare quello che gli altri dicevano. Sono stati fatti allontanare, è stata una scelta sbagliata”, conclude Mezzina. Si preannuncia un’estate calda.
SCHEDA EDITORIALE *
Pier Aldo Rovatti
Le nostre oscillazioni
Filosofia e follia
La necessità di questa nuova versione, che arriva a quasi vent’anni dalla sua prima stesura, è dettata dal fatto che in questo lasso di tempo la prossimità tra filosofia e follia si è svuotata, non perché sia qualcosa di superato, ma perché l’abbiamo resa invisibile, l’abbiamo cancellata, trasformando una questione seria e attuale in un episodio culturale di scarsa rilevanza. Queste pagine intendono denunciare questa palese chiusura culturale che caratterizza il nostro presente e rilanciare quel pensiero critico che la stessa filosofia, dopo averlo alimentato alla fine del secolo scorso, ha poi abbandonato a vantaggio di un pensiero unico della “normalità” fondato essenzialmente sul potere.
L’urgenza dell’autore è quella di riprendere in mano il problema con un titolo che sottolinei e rilanci l’importanza del dubbio, espresso in maniera efficace da quel “non so” da cui partiva la sua riflessione vent’anni fa.
Un “non so” che non è una cautela, ma una posizione costruttiva. Questi due monosillabi possono dirci qualcosa di non banale sulla follia. Sono l’invito a “metterci scomodi”, come a cavallo di un muretto, con una gamba di qua e una di là, e imparare l’arte dell’oscillazione, anche se è un esercizio rischioso. Come non pensare a Franco Basaglia che alla domanda “Chi è il malato di mente?”, nella famosa intervista di Sergio Zavoli ne I giardini di Abele del 1969, rispose “non so, perché non lo sa nessuno”.
Confrontandosi con alcuni tra i principali pensatori contemporanei (Foucault e Derrida, ma anche Husserl e Bateson), questo agile saggio mostra come la “follia” sia diventata, da esclusivo oggetto della psichiatria, un concetto filosofico in grado di porre questioni decisive grazie alle idee di “equilibrio instabile” e di “oscillazione”. Il tema del “corpo”, o dell’“altro” o del “gioco” rientrano a pieno titolo, per esempio, in questo confronto con una condizione umana che va al di là di una semplice alienazione mentale. Viene così riaperto un capitolo sull’importanza della follia come tratto soggettivo che appartiene a ciascuno di noi, e che non è confinabile nell’universo terapeutico.
* Fonte: EDIZIONI ALPHABETA VERLAG
PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
INTORNO A "LE NOSTRE OSCILLAZIONI. FILOSOFIA E FOLLIA" di P.A. ROVATTI
di Paolo F. Peloso ( PSYCHIATRY-ON-LINE, 23 novembre, 2019)
Le nostre oscillazioni. Filosofia e follia è il secondo volume che Pier Aldo Rovatti pubblica nella collana 180 dell’editore meranese Alpha Beta Verlag, diretta da Peppe Dell’Acqua.
Il primo era stato Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia e risale al 2013. Raccoglieva le lezioni che Rovatti ha tenuto all’Università di Trieste sul pensiero di Basaglia e comprendeva interventi di Colucci, Dell’Acqua, Gallio, Giannichedda, Rotelli, Venturini e Zanetti. In esso il filosofo di origine modenese ripercorre con i suoi interlocutori gli aspetti più rilevanti del pensiero di Basaglia. Vorrei brevemente evocarlo, a partire da alcuni appunti disordinati che avevo preso allora, durante la lettura.
Mi avevano colpito del dialogo tra Rovatti e Mario Colucci sul rapporto tra Basaglia e il fondamento fenomenologico del suo pensiero, l’aver rilevato una tendenza della psichiatria a trasformare ciò che è elemento storico, umano, destinato ad evolvere, in fatto di natura dato per come è una volta per tutte. O l’idea che Rovatti riprende da Husserl della fenomenologia come qualcosa di incompiuto destinato a rimanere tale, che tanto ha a che fare con lo stile del pensare basagliano e spiazza chi vi cerca inutilmente insegnamenti e certezze da fare proprie o confutare. E mi richiama alla mente il concetto di utopia in Ernst Bloch, navigazione senza approdo, che trova nel navigare il proprio senso. Giovanna Gallio parla del pensiero di Basaglia come di un pensiero “in movimento”, in tensione, consapevole del fatto che le contraddizioni che apre occorre “riuscire a sopportarle senza affrettarsi a chiuderle”, e che porteranno ad altre contraddizioni, e ad altre ancora. Dialettica destinata a rimanere comunque aperta, a non arrivare mai a sintesi completa.
Enigma del soggetto destinato a essere avvicinato con rispetto, curiosità, senza che si abbia necessariamente la pretesa di chiuderlo in una definizione, di risolverlo una volta per tutte. Sguardo rispettoso, capace di non inghiottire il suo oggetto e di lasciare al silenzio lo spazio che gli spetta. La forza del dubbio, la trepidazione, l’incognita, il peso delle responsabilità di una proposta rivoluzionaria e le angosce dell’uomo Basaglia che si avventura e ci spinge ad avventurarci oltre il cancello, oltre il muro. Un dubbio che è debolezza, rispetto, ma che sa farsi forza nel momento in cui si deve contrapporre a ciò che impedisce, costringe, coarta la libertà del dubitare. Il rifiuto della parola che definisce, classifica, inquadra e corrisponde al manicomio che rinchiude, irrigidisce, separa la vita.
La contraddizione dell’esercizio del potere psichiatrico e della sua contestuale messa in crisi. Il fascino di essere convocati se necessario anche la notte e la disponibilità - e mi sono sempre chiesto se non sia questo un elemento imprescindibile del discorso, e la sua mancanza oggi sia la vera ragione per cui le cose nella psichiatria della 180 non funzionano mai quanto vorremmo - a “portare lì dentro tutta la nostra vita”, della quale ci ha raccontato anche Giovanna Del Giudice in un incontro col nostro gruppo a Genova di qualche anno fa. Aprire le porte, e tollerare il rischio della fuga del malato; ma poi vestirsi di notte, per andare a cercarlo: a proposito di libertà, controllo, assunzione di responsabilità, (posizione di garanzia?).
L’apertura massima all’altro come cifra caratteristica dell’uomo Basaglia, della casa Basaglia nella quale ciascun ospite può sentirsi libero di entrare e uscire ad ogni ora nel ricordo di Ernesto Venturini (gli anni ’60), ma anche radicali domande di onestà e di autenticità che spiazzano e imbarazzano l’interlocutore. Radicalità di un non rinunciare mai a interrogarsi e interrogare, su se stesso, sull’altro, sulla follia, sulla ragione. Interrogarsi e interrogare in modo radicale, cercando di riportare a nudo gli uomini e le cose per di lì ogni volta ripartire, che infondo corrisponde allo sforzo più autentico della fenomenologia.
Ancora, il rapporto tra il mistero della follia, nella sua relazione complessa con il soggetto e la sua libertà, e il dato storico della malattia mentale (il cui rischio di scivolamento semantico verso una “malattia cerebrale” è sempre in agguato) come è definita, codificata, assoggettata e addomesticata dalla medicina. L’idea dell’esitazione come esigenza di lasciare spazio all’altro prima di costringerlo in una definizione, prima di rifiutare cartesianamente che la follia - la sua e la nostra follia - possa essere parte del discorso. La relazione complessa tra il modo di darsi della follia e del suo rifiuto nella storia, il discorso (i discorsi) che la ragione fa sulla follia e la storia stessa, come l’ha indagata Foucault.
E poi una chiara presa di posizione di Rovatti, sulla quale bisognerebbe sì, tra psichiatri, non cessare mai di confrontarci: -«Dopo la 180 ci sono due strade. O smettere di fare gli psichiatri, oppure essere gli psichiatri che si mettono al servizio di una situazione nuova e che quindi diventano i tecnici dei nuovi servizi di cura. Basaglia crede che non si debba abbandonare la psichiatria, e quindi neanche che si possa cancellare completamente quell’elemento di potere che la psichiatria contiene. Lo psichiatra mantiene un potere sul paziente e questo potere deve essere controllato, da chi? Dalla scienza o dai malati? La risposta di Basaglia è netta: dai malati. Quindi, restituire la soggettività significa passare attraverso i rapporti di potere» (p. 191).
Ma saranno davvero in grado, i malati, con la loro ragione intermittente e claudicante, di assumersi realmente, autenticamente, questa responsabilità? E noi, come possiamo essere controllati da qualcuno sul quale manteniamo comunque un “elemento di potere” e, a nostra volta, di controllo perché il controllo è implicito nel potere?
Come contraddizione, non è male questa con la quale cii confrontiamo quotidianamente, nei luoghi dell’urgenza come in quelli della riabilitazione: restituire potere (o meglio aprire spazi perché l’altro, che è colui che ha meno potere di tutti, che in quanto folle non è considerato soggetto possibile ma solo oggetto di ogni possibile discorso, possa appropriarsi di potere), mantenendo inevitabilmente per noi la riserva di qualche “elemento di potere”. Trovare ogni volta, caso per caso, l’equilibrio più avanzato possibile, un equilibrio comunque instabile e oggetto di continua ridefinizione e rinegoziazione.
Come al mercato di Marrakesh, direbbe Rotelli. Vincere la paura che evoca la follia, quella degli altri e la nostra per riportarla nella città - costruita per essere un’organizzazione pulita, ordinata, razionale, rispettosa dello spazio privato di chi ha uno spazio privato - che di lì l’ha espulsa, e lì imparare a tollerarla, trovare modalità di convivenza che non implichino lo scambio tra la libertà e le vite di alcuni e la domanda di tranquillità degli altri. Aprire alla follia uno spazio nel discorso, senza però farcene sommergere.
Leggendo queste pagine, mi pare che la proposta rivoluzionaria e radicale di Basaglia, la sostanza della 180 infondo possa essere questa, una radicale rivoluzione antropologica capace di aprire spazi maggiori alla propria e all’altrui follia, spazi maggiori di libertà e di tolleranza; molto di più insomma che una riforma in senso umanitario dell’assistenza psichiatrica (che già sarebbe, comunque, importante). E con questo noi nuovi operatori psichiatrici, quelli della 180, dobbiamo misurarci ogni volta che un soggetto, un familiare, un condomino, un poliziotto, un giudice ci scrivono che hanno paura della follia e ci chiedono - a volte anche in modo talora isterico e prepotente, ultimativo - valutazione, competenza, responsabilità, rassicurazione, aiuto. E ci mettono di nuovo di fronte alla domanda di fondo della psichiatria: chiudere o aprire.
Questo secondo volume di Rovatti per la collana 180, Le nostre oscillazioni. Filosofia e follia, ha a che fare, mi pare, con le stesse questioni di fondo ma le affronta da un altro lato, quello della filosofia. In esso l’Autore ripropone vent’anni dopo questioni che aveva affrontato con un altro agile libello, La follia, in poche parole (Bompiani, 2000), nato da un corso di formazione tenuto agli operatori dei servizi di salute mentale triestini intorno ad alcune parole chiave: la follia, l’altro, il corpo, il gioco.
E ricorda come negli anni ’60-’70 vari intellettuali (Foucault e Basaglia, ad esempio) si siano sforzati di individuare - nello stretto iato tra la psichiatria classica che è poi tornata a prevalere e la oggettivizza come malattia, e l’antipsichiatria che la mitizza - un posto e un senso per la follia. Una funzione anche, se vogliamo, che è quella di fare da contraltare oscuro alla lucidità della ragione, e di consentire così al pensiero di rimanere aperto, insaturo, inconcluso, “oscillante” per mantenere l’espressione di Rovatti tra la ragione che sappiamo, che ben conosciamo nella sua consequenzialità, e un’altra cosa che ne costituisce il contrario e non sappiamo, non conosciamo ma della quale avvertiamo oscuramente la presenza: la follia. Che ci è ignota ma ci è anche indispensabile, e perciò è qualcosa di cui tutti gli uomini fanno, in maggiore o minore misura, esperienza; che non può essere considerata un difetto del pensiero ridotto a ragione, e neppure essere esaltata al punto di essere colta come la perfezione del pensiero, dal quale perciò è la ragione a dover essere espulsa. Che sta lì, dentro il pensiero, una forma altra del pensiero che deve coesistere in un rapporto dialettico con la ragione perché il pensiero non si irrigidisca correndo il rischio di perdere la capacità di dubitare, oscillare, aprirsi all’ignoto, che è ciò che lo vivifica e lo rende, infondo, così dolcemente umano.
Per aprire uno spazio alla follia è indispensabile insomma aprire alla diversità, all’instabilità, all’indecidibilità.
E qui si pone, credo, un’altra questione, quella del rapporto tra follia e libertà, che può essere letto in due modi. Da un lato considerando la follia come lo stato di massima libertà, nel quale il folle esprime, senza porsi il problema di limiti e vincoli imposti dalla propria o altrui ragione, il sé più autentico, il vero se stesso al quale deve essere concesso (nei limiti possibili, forse) massimo spazio. è questa la posizione degli antipsichiatri per i quali la storia della psichiatria è storia dell’oppressione dei folli, e come in un gioco di ribaltamento tra figura e sfondo, quelli che agli storici della psichiatria appaiono come gli errori e le esagerazioni nei quali la psichiatria è incorsa nei secoli, ne sono invece i momenti emblematici (ricordo di avere assistito, in occasione di un convegno della WPA a Firenze, a una contromostra di Scientology nella quale esattamente questa era la rappresentazione). Ma dall’altro lato, considerandola come una malattia che colpisce il soggetto nella sua ragione impedendone il funzionamento, la condizione della massima coazione della sua libertà della quale il soggetto deve essere aiutato a liberarsi (Henri Ey parla della psicosi come “patologia della libertà” e la psicopatologia fenomenologica del delirare come dell’essere prigioniero del delirio, impossibilitato a qualsiasi pensiero che esca dal delirio).
Libertà nella follia; o libertà dalla follia, insomma? Nel primo caso lo psichiatra, con tutti i suoi strumenti, si sentirà e sarà avvertito come l’oppressore che impedisce, con l’imporgli i vincoli della società, alla libertà del soggetto di esprimersi; nel secondo, sarà il “liberatore” che generosamente si adopera a guarire il soggetto dalla malattia, per restituirlo così propria autentica libertà (ed è questa infondo la storia (il mito?) che noi psichiatri ci raccontiamo e tramandiamo).
Credo che questa alternativa non abbia soluzione e se lo psichiatra si sofferma a interrogarsi sul proprio atteggiamento verso la follia si accorga di oscillare - prendo a prestito questo termine pregnante dal titolo del volume - tra fermarsi talvolta ad ascoltare e contemplare la follia nel suo mistero e nella sua fascinazione, e impegnarsi altre volte a contrastarla per liberare il soggetto dalla crudeltà, dalla coazione e dalla deturpazione dei suoi morsi, che l’accomunano a ogni altra forma di sofferenza ed eventualmente malattia. E forse, mi viene da pensare, possiamo immaginare il rapporto con la follia (come quello con il gioco, infondo) come quello con qualcosa che sta di fronte a noi; possiamo salirlo in qualche misura e curiosare oltre, spiare, flirtare magari con lei e questo può ampliare il livello della libertà di cui godiamo. Ma non dobbiamo cadere dall’altra parte, o la follia, il delirare si trasformano nella mancanza di libertà. Forse, anche nella perdita dell’alterità.
Mi accorgo che sto procedendo a tentoni, e perciò ritorno al testo. Un problema sul quale Rovatti si sofferma è il rapporto tra ragione e follia dal punto di vista della storia, e lo affronta rievocando la polemica che ebbe protagonisti Michel Foucault e Jacques Derrida.
La tesi di fondo della Storia della follia nell’età classica di Foucault è nota: la follia sarebbe stata messa a tacere, nella storia europea, dal Grande internamento del Seicento e poi definitivamente silenziata dalla nascita della psichiatria moderna nell’Ottocento. Quindi, mi pare di comprendere, per scrivere la storia della follia sarebbe stato necessario scrivere la storia di un silenzio, che dà semmai qua e là segno del proprio mormorio represso; ma siccome un silenzio è indicibile in parole, l’operazione di Foucault - osserva Rovatti - si risolve nell’essere in realtà una storia della ragione, delle pratiche sociali con le quali la ragione silenzia la follia. Per Foucault (così mi pare di poter sintetizzare il ragionamento), da Cartesio a Freud e oltre ogni volta che la ragione evoca la follia, con ciò stesso la mette a tacere, facendone un suo oggetto, leggendola con le proprie lenti.
Per Derrida invece ogni volta che viene evocata, la follia è comunque presente come assenza, paradossalmente presente perciò, carta del mazzo - le efficaci metafore sono di
Rovatti - che sta fuori dal mazzo, la pagina bianca nel libro, l’assenza delle quali contribuisce a renderle evidenti. Una paradossale presenza dell’assenza, perciò. E Rovatti sostiene che ciascuna delle posizioni, aspramente contese dai due interlocutori, contiene un pezzo di verità e si chiede qual è la posizione di Foucault rispetto al muro che separa ragione e follia, nel momento in cui scrive una storia del silenziamento della follia usando indubbiamente le lenti (il linguaggio, il rigore logico) della ragione. E la risposta che propone è spiazzante: la sua posizione è stare in un equilibrio instabile e rischioso a cavallo del muro, oscillando tra l’una e l’altra parte nel momento in cui continua ad appartenere indubbiamente alla ragione, ma si sporge sulla follia sforzandosi di coglierne il più possibile il mormorio che si fa a volte gemito e, direi, comprenderne empaticamente il punto di vista, ciò che essa può avere da dire sull’uomo e sulla storia.
Impegnato, in modo forse un po’ donchisciottesco, a farsi paladino delle sue ragioni, della sua possibilità, di quello che ha da dire, di una muta testimonianza. Traduttore forse, con tutte le ambiguità e i rischi che quest’operazione comporta. A cavallo, per di più, di un muro che insieme c’è e non c’è: perché un po’ di follia abita sempre la ragione, e non esiste forse follia che non sia anche contaminata da briciole di ragione. E una tradizione popolare, che nasconde forse nella carica retorica più che un briciolo di verità, recita che c’è sempre saggezza nelle parole degli uomini folli, e follia in quelle degli uomini ragionevoli. Ma non è, infondo, quella su quel muro la posizione che anche il nuovo psichiatra, per come Basaglia lo immagina, dovrebbe assumere a sua volta?
Attraverso la ricostruzione della polemica tra Foucault e Derrida, e forse tra Foucault e Foucault stesso, quando decide per ragioni sulle quali il filosofo modenese s’interroga e costituiscono già in sé un enigma, la soppressione della prefazione alla prima edizione della Storia della follia (recuperata per la seconda edizione italiana curata cinquant’anni dopo, nel 2011, da Mario Galzigna per Rizzoli). Rovatti insiste: è difficile parlare della follia, è un oggetto che continuamente sfugge e si duplica in un gioco di continui riverberi con la ragione che è impossibile conoscere in modo definitivo. è oggetto di continui tentativi di neutralizzazione, ma al contempo è ineliminabile.
La follia: Rovatti ce la fa ritrovare nel nostro rapporto con l’altro, in quello con il nostro corpo, nei giochi logici di due testi fondamentali: Nodi di Ronald Laing e Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson. Per poi metterci in guardia, e sono le ultime pagine - senz’altro coraggiose e non scontate - da una trappola: quella di considerare la follia, nella sua essenza, sofferenza, che è un modo certo più umano, empatico, meno saccente di considerarla ma non è poi così lontano, infondo, dal considerarla solo malattia. Perché la follia è sì anche sofferenza, una sofferenza che abbiamo il compito sicuramente di lenire, ammette, ma non dobbiamo dimenticarci, nell’avvicinarla con rispetto, che non è solo quello; è forse anche verità (una possibile verità certo, auspicabilmente non la Verità) forse in cerca di attenzione. è mormorio, rumore di fondo che vuole essere ascoltato (senza che, però, ci se ne lasci ammaliare). E credo che proprio tenere aperta questa contraddizione - la cura e l’ascolto - che Rovatti mette in luce con chiarezza, sia la cosa più difficile quando s’inciampa nella follia, la propria o quella dell’altro non importa.
Non so, insomma, se ho ben inteso né ben sintetizzato la complessità di quello che Rovatti intende esprimere, ma mi sembra che abbia a che fare con questioni imprescindibili e importanti quando ci si avvicina alla follia, quando ci si sforza di conoscerla e di concettualizzarla. Ma certo credo che l’allarme con cui l’Autore introduce le sue considerazioni vada raccolto: questi primi vent’anni del nuovo millennio hanno visto l’affermazione, nella cultura generale ma forse ancora più drammaticamente nel mondo psichiatrico, di un pensiero unico fatto di semplificazioni ad ogni costo, classificazioni categoriali, allineamento, riduzione dei soggetti a numeri, ideologico riduzionismo cerebroiatrico, disciplinamento e omologazione delle pratiche. Per il pensiero critico, i dubbi, le oscillazioni sembrano non esserci posto né attenzione. E tanto meno per l’atteggiamento indispensabile per la possibilità della fenomenologia: la riduzione fenomenologica, la sospensione di giudizio (il giudizio deve anzi essere oggi folgorante, immediato, sintetico, possibilmente espresso ad alta voce, aggressivo, autoritario e ultimativo), l’enigma dell’intersoggettività. Nessun enigma, nessun dubbio, nessuna obiezione che intralci! Figuriamoci se posto e attenzione, ascolto possono esserci, quindi, per la follia, con il suo mormorio timido e sofferto, fragile, confuso, il mistero delle sue oscure illuminazioni, le sue chiaroscurali oscillazioni ed i suoi dubbi.
Malattie mentali
Dalla parte dei matti
Un libro tragico e bello scritto dal padre di due schizofrenici si intreccia al ricordo di Franco Basaglia. La sua voce ci manca
di Vittorio Lingiardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.05.2018)
È passata una settimana dalle commemorazioni, alcune molto belle, dei 40 anni della legge 180. Ho sentito il bisogno, fisico e politico, di tornare a Basaglia. Ore avvincenti con l’imponente volume dei suoi Scritti (curato dalla moglie Franca Ongaro Basaglia e da poco ripubblicato dal Saggiatore; prima parte 1953-1968 dedicata al fenomenologo, titoli come Il sentimento di estraneità nella malinconia, Corpo, sguardo e silenzio; seconda parte 1968-1980 dedicata al teorico della deistituzionalizzazione, titoli come Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Riabilitazione e controllo sociale). E con la nuova edizione delle Conferenze brasiliane del 1979 (curate per Cortina da Franca Ongaro e Maria Grazia Giannichedda), testamento intellettuale e bilancio critico sulla psichiatria all’indomani della 180. Immersioni incandescenti e attuali, pur nell’irriconoscibile. Sofferenze che si sciolgono in speranza, altezze del pensiero che si inchinano al senso della comunità. Era “solo” 40 anni fa, ma oggi guardiamoci intorno: c’è forse una voce così?
Il mondo intero ha ammirato la nostra riforma psichiatrica, nonostante i limiti della sua realizzazione. Due anni fa, di ritorno da un convegno a Trieste, Allen Frances, emerito e decano della psichiatria americana, ha scritto sull’Huffington Post che «se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore». E così, mentre pensavo all’America e alla sua contrastata psichiatria (Szasz e i dianetici, Asylums e i DSM), il caso mi ha messo in mano un libro che mi è piaciuto. Perché, scritto bene (e ben tradotto da Gabriele Lo Iacono), racconta con passo quotidiano il modo misterioso e tragico con cui la schizofrenia attraversa le storie e la Storia. È infatti un memoir, un racconto familiare, un saggio sociale e in parte scientifico sulla malattia mentale. Ma è anche «una chiamata alle armi» rivolta a qualsiasi società «osi definirsi decente» e abbia a cuore le persone con diagnosi di schizofrenia.
L’autore è Ron Powers, non stupisce sia un Pulitzer. Il titolo originale è No one cares about crazy people. La frase, pronunciata da una funzionaria federale americana, nel titolo italiano (non felicissimo) diventa Chissenefrega dei matti. «Tutti sanno che si può fare», scrive Peppe Dell’Acqua, psichiatra, collaboratore di Basaglia, già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, introducendo l’edizione italiana. «Il problema è che nessuno sembra interessato a conoscere, veramente, come si può curare in un altro modo. Molte famiglie che hanno lottato con la malattia mentale, dopo aver vissuto la loro parte di oscurità, trovano alla fine una specie di speranza e di forza. Questo libro coraggioso trasmette forza, speranza e conoscenze, e chiede a noi tutti di uscire dall’indifferenza e diventare complici di tutti coloro che lottano».
Powers si era ripromesso di non scriverlo mai, questo libro. Lo aveva promesso anche a sua moglie Honoree. Ha mantenuto l’impegno per dieci anni, da quando loro figlio Kevin, musicista di talento e poco più che ventenne, si era impiccato nel seminterrato di casa, dopo aver lottato per tre anni contro la schizofrenia. Una diagnosi che afferra anche la vita del figlio maggiore, Dean. È paralizzato dal dolore, Ron Powers, ma è anche mosso dal desiderio di illuminare l’oscurità perduta del figlio, di riscattarla, come glielo dovesse, come lo dovesse a sé, alla moglie, a Dean. Ha bisogno di raccontare, studiare e ricordare. Raccoglie i testi, struggenti, delle e-mail che si scambiava con i figli, ritrova la vitalità e la rabbia. Porta la voce di una famiglia assalita dal dolore. Le cose che non aveva visto, non aveva capito. Riconoscere una malattia dai sintomi di una persona amata è molto doloroso: ci vuole confidenza col segreto e la fragilità, con la negazione e l’amore.
La schizofrenia è un disturbo e un rompicapo, una condizione su cui da sempre ci interroghiamo senza capire, fornendo risposte assai diverse tra loro, scoprendo ipotesi scientifiche, teorie cliniche e contesti istituzionali inconfrontabili. «Una patologia cerebrale cronica e incurabile», scrive l’autore. «Dovuta (o perlomeno così credono oggi i neuroscienziati) in parte a una mutazione genetica e in parte a esperienze esterne, “ambientali”». «Colpisce una persona su 100». «Un flagello, ma non è che una delle molte malattie mentali esistenti, variamente classificate e caratterizzate da durata e livello di gravità differenti».
Eppure, «anche nel novero delle numerose e devastanti diagnosi di malattia mentale», la sua capacità di «distruggere i processi mentali di tipo razionale» le offre un posto unico. «La schizofrenia sta alla salute mentale come il cancro alla salute fisica». Parole terribili pronunciate da un padre a cui la condizione schizofrenica non ha fatto sconti. Un padre che spera che non ce lo «godiamo» questo suo libro. Spera che ci addolori. Ma non dimentica di citare la recovery: concetto di guarigione intesa come condizione soggettiva di recupero e possibilità di integrazione sociale; esperimento clinico che conferma l’idea che la cura nella comunità, accompagnata da farmaci adeguati, può contribuire a restituire una vita più armoniosa e produttiva a molte persone affette dalle gravi forme della schizofrenia.
La legge 180
Compie 40 anni la legge Basaglia, che rese i matti «cittadini»
di Peppe Dell’Acqua *
È il 16 novembre 1961 quando il giovane Basaglia entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Ci sono più di 600 internati, senza più volto senza più storia. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione ma, quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia, è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno.
Gli internati sono tutti appiattiti nella stessa grigia identità, tutti invisibili. Basaglia è costretto a mettere tra parentesi la malattia, la diagnosi, il grigiore di anni d’internamento. Messa tra parentesi la malattia, persone, storie, relazioni, memorie riaffiorano. I cittadini compaiono sulla scena.
Per incontrare le persone bisognò aprire le porte, abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Tutti cominciarono a chiamarsi per nome. Divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, la possibilità di vivere e di abitare la città.
Sabato 13 maggio 1978: Aldo Moro è stato ucciso da pochi giorni dalle BR. Una giovanissima partigiana, Tina Anselmi, democristiana, presiede con autorevolezza i lavori della commissione che sta discutendo la legge dei manicomi. Si interroga se i malati di mente siano cittadini, se possano godere dei diritti costituzionali. La legge che avrebbe chiuso i manicomi restituisce così prima di tutto diritto, cittadinanza, dignità alle persone che hanno la ventura di vivere una malattia mentale. Non più la pericolosità, ma la cura nel rispetto della libertà di ognuno. Tina Anselmi, quel giorno, affermò “semplicemente” che l’articolo 32 della Costituzione valeva per tutti, anche per i matti. A maggior ragione per i matti.
Quaranta anni di Legge Basaglia
Il giovane Aldo Moro aveva fatto parte della Costituente. Aveva discusso con Calamandrei, con Togliatti, con La Pira l’art. 32 e ne era stato l’estensore. Al secondo capoverso così recita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’attenzione alla persona umana avrà formidabili conseguenze nel garantire i diritti fondamentali nella nostra democrazia. In quei giorni terribili Aldo Moro, prigioniero senza diritti e condannato a morte, costruiva la via d’uscita.
I matti diventavano cittadini. La legge 180 compie 40 anni, la Costituzione 70. Bisognerà conservare gelosamente la memoria.
Arriviamo all’ottobre 2010. Una Commissione parlamentare denuncia la condizione di vita dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese. Che fare dopo aver visto tanto orrore? Chiesero consiglio al Presidente Napolitano, tornarono in quei luoghi, documentarono tutto e mostrarono il video al Presidente. Di fronte a tanta violenza i corazzieri non riuscirono a trattenere le lacrime.
Il vecchio Presidente, inaspettatamente, nel messaggio di Fine anno del 2012 parlò degli Ospedali psichiatrici giudiziari, pronunciando parole dolorose: «Luoghi orrendi non degni di un Paese appena civile». Così ricominciò il viaggio di Marco Cavallo, la scultura di legno e cartapesta che aveva abbattuto le mura del manicomio di Trieste nel 1977, diventando emblema della liberazione. Marco Cavallo arrivò nelle periferie degli OPg: non c’era più tempo. Bisognava liberare tutti da quel tormento. Il 30 maggio 2014 la legge per chiudere tutti gli istituti fu approvata. Il 27 gennaio 2017 l’ultimo internato lasciava l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.
Se qualcuno mi avesse detto, quando ho cominciato a lavorare, che i manicomi criminali sarebbero stati chiusi lo avrei preso per pazzo.
Maggio 2018, sono passati 40 anni dalla riforma Basaglia. Di fronte a conquiste luminose e a tante persone che riescono a farcela, ancora capita di dover fronteggiare l’abbandono, le porte chiuse, le contenzioni, le morti per psichiatria. Ma questa, lo sappiamo, è una storia senza fine. È utopia, ci hanno sempre detto.
Utopia é qualcosa che si può solo sognare. Ma, come recitava il Cantastorie collettivo nato nel ’77 per i Centri di Salute mentale h24 a Trieste, «utopia è che il ghetto più non ci sia, che muri e reti buttiamo via. E quante cose possiamo ancora fare se ci mettiamo tutti insieme a sognare?».
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 13 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini e allegati).
L’anniversario
La Legge Basaglia compie 40 anni
di Claudio Mencacci (Corriere della Sera, Salute, 13.05.2018)
Direttore DSMD Neuroscienze
Sono trascorsi 40 anni (13 maggio del 1978) dalla nascita della Legge 180, che affermava e riconosceva i diritti e la dignità delle persone affette da gravi disturbi mentali e che permise all’Italia, unico Paese al mondo, il superamento e la chiusura degli Ospedali psichiatrici (manicomi) e la creazione di una rete di assistenza psichiatrica di comunità.
Oggi guardiamo avanti ed è legittimo domandarsi: come sta la salute mentale nel nostro Paese, quanta è cambiata da allora? Sono mutate negli anni le richieste e i bisogni di cura parallelamente ai cambiamenti profondi intervenuti nel Paese? Il bisogno di salute mentale è cresciuto, come in tutti i Paesi Europei, soprattutto nell’area giovanile, poco considerata nonostante il dato epidemiologico che indica che in quasi il 70% dei casi i disturbi mentali insorgono in età adolescenziale e giovanile.
Le persone che accedono ai servizi psichiatrici oggi sono diverse da chi un tempo era costretto nei manicomi, vi è stato un profondo cambiamento dell’utenza: oggi i disturbi psicotici (schizofrenia e psicosi) su cui era stato tarato il sistema di assistenza, costituiscono solo il 25% dei casi. Si è invece verificata una crescente richiesta di interventi per disturbi dell’umore (depressione-bipolarità) ansia (panico-Ossessivi-Compulsivi), comportamento alimentare, personalità (borderline), dipendenza comportamentale (gioco d’azzardo patologico) e da sostanze stupefacenti.
Appare quindi necessaria l’implementazione effettiva e sempre più capillare di percorsi di cura, con interventi basati sulle evidenze scientifiche che i dati disponibili indicano come ancora scarsamente diffusi nei servizi italiani. Oggi la moderna psichiatria orientata a diagnosi e cure precoci con strumenti farmacologici più innovativi, sostegni domiciliari, sociali e sul posto del lavoro, sono in grado di migliorare la qualità e la quantità di vita delle persone, come accade per altre specialità mediche.
La consapevolezza del fondamentale ruolo dei fattori psicosociali nel rischio di sviluppo, mantenimento ed aggravamento di molti disturbi mentali gravi, richiede un più capillare sforzo di prevenzione primaria e secondaria da parte dei servizi psichiatrici, purtroppo impoveriti di risorse, ma anche la consapevolezza della necessità di rivedere e potenziare gli strumenti di welfare, soprattutto a favore delle fasce più deboli della popolazione, e di sostegno alle famiglie.
Asst Fbf-Sacco, Milano
I “soggetti smarriti” della Scuola di filosofia
TRIESTE - È nata da una costola del Laboratorio di Filosofia Contemporanea di Trieste, ma non è riservata a pochi addetti ai lavori. È una “Scuola di filosofia”, voluta da Pier Aldo Rovatti che del Laboratorio da un decennio è il direttore. Apre i battenti oggi, con un ciclo di lezioni dal titolo complessivo “Soggetti smarriti”, nella sede del Dipartimento di salute mentale di Trieste e continuerà fino a domenica 11 maggio. Si parlerà anche di letteratura, cinema, di psichiatria e psicoanalisi. «L’iniziativa è un esperimento - ha detto il filosofo Pier Aldo Rovatti - al centro c’è la parola filosofia e ciò che questa parola esprime e richiama. Accanto a ciò avevamo un’altra necessità, di mandare un messaggio più diffuso a tutta una serie di luoghi, aspetti e pratiche sociali ». Per saperne di più www.filolab.it.
* la Repubblica, 18.01.2014