L’ANALISI.
Una parola legata al sentimento di colpa che si prova di fronte a un atto riprovevole
Lo stato di salute della democrazia e l’incapacità di provare vergogna
di GIANRICO CAROFIGLIO *
Un sintomo del grado di sviluppo della democrazia e in generale della qualità della vita pubblica si può desumere dallo stato di salute delle parole, da come sono utilizzate, da quello che riescono a significare. Dal senso che riescono a generare.
Oggi, nel nostro paese, lo stato di salute delle parole è preoccupante. Stiamo assistendo a un processo patologico di conversione del linguaggio a un’ideologia dominante attraverso l’occupazione della lingua. E l’espropriazione di alcune parole chiave del lessico civile. È un fenomeno riscontrabile nei media e soprattutto nella vita politica, sempre più segnata da tensioni linguistiche orwelliane.
L’impossessamento, la manipolazione di parole come verità e libertà (e dei relativi concetti) costituisce il caso più visibile, e probabilmente più grave, di questa tendenza.
Gli usi abusivi, o anche solo superficiali e sciatti, svuotano di significato le nostre parole e le rendono inidonee alla loro funzione: dare senso al reale attraverso la ricostruzione del passato, l’interpretazione del presente e soprattutto l’immaginazione del futuro.
Se le nostre parole non funzionano - per cattivo uso o per sabotaggi più o meno deliberati - è compito di una autentica cultura civile ripararle, come si riparano meccanismi complessi e ingegnosi: smontandole, capendo quello che non va e poi rimontandole con cura. Pronte per essere usate di nuovo. In modo nuovo, come congegni delicati, precisi e potenti. Capaci di cambiare il mondo.
Proviamo allora a esercitarci in questo compito di manutenzione con una parola importante e più di altre soggetta allo svuotamento (e alla distorsione) di significato di cui dicevamo. Proviamo a restituire senso alla parola vergogna. Nell’accezione che qui ci interessa la vergogna corrisponde al sentimento di colpa o di mortificazione che si prova per un atto o un comportamento sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti, riprovevoli.
E’ una parola da ultimo molto utilizzata al negativo: per escludere, sempre e comunque, di avere alcuna ragione di vergogna o per intimare agli avversari - di regola con linguaggio e toni violenti - di vergognarsi. La forma verbale "vergognatevi" è oggi spesso utilizzata nei confronti di giornalisti che fanno il loro lavoro raccogliendo notizie, formulando domande e informando il pubblico. Sembra dunque che vergognoso sia vergognarsi. La vergogna e la capacità di provarla appaiono qualcosa da allontanare da sé, una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile lontani.
Sulla questione Blaise Pascal la pensava diversamente, attribuendo alla capacità di provare vergogna una funzione importante nell’equilibrio umano. Nei Pensieri leggiamo infatti che "non c’è vergogna se non nel non averne". In tale prospettiva è interessante soffermarsi sull’elencazione, che possiamo trovare in qualsiasi dizionario, dei contrari della parola. Troviamo parole come cinismo, impudenza, protervia, sfacciataggine, sfrontatezza, sguaiataggine, spudoratezza, svergognatezza.
Volendo trarre una prima conclusione, si potrebbe dunque dire che il non provare mai vergogna, cioè il non esserne capaci, è patologia caratteriale tipica di soggetti cinici, protervi, sfacciati, spudorati. Al contrario, la capacità di provare vergogna costituisce un fondamentale meccanismo di sicurezza morale, allo stesso modo in cui il dolore fisiologico è un meccanismo che mira a garantire la salute fisica. Il dolore fisiologico è un sintomo che serve a segnalare l’esistenza di una patologia in modo che sia possibile contrastarla con le opportune terapie. La ritardata o mancata percezione del dolore fisiologico è molto pericolosa e implica l’elevato rischio di accorgersi troppo tardi di gravi malattie del corpo.
Così come il dolore, la vergogna è un sintomo, e chi non è capace di provarla - siano singoli o collettività - rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia della civilizzazione.
Qualsiasi professionista della salute mentale potrebbe dirci che le esperienze vergognose, quando vengono accettate, accrescono la consapevolezza e la capacità di miglioramento, e in definitiva costituiscono fattori di crescita. Quando invece esse vengono negate o rimosse, provocano lo sviluppo di meccanismi difensivi che isolano progressivamente dall’esterno, inducono a respingere ogni elemento dissonante rispetto alla propria patologica visione del mondo, e così attenuano il principio di realtà fino ad abolirlo del tutto.
Come ha osservato una studiosa di questi temi - Francesca Rigotti - l’azione del vergognarsi è solo intransitiva e non può mai essere applicata a un altro. Io posso umiliare qualcuno ma non posso vergognare nessuno. Sono io che mi vergogno, in conseguenza di una mia azione che avverto come riprovevole. Pertanto la capacità di provare vergogna ha fondamentalmente a che fare con il principio di responsabilità e dunque con la questione cruciale della dignità.
Diversi autori si sono occupati alla vergogna. La parola è presente in alcuni bellissimi passi di Dante e ricorre circa trecentocinquanta volte in Shakespeare. Ma è davvero interessante registrare cosa dice della vergogna Aristotele nell’Etica Nicomachea. "La vergogna non si confà a ogni età, ma alla giovinezza. Noi infatti pensiamo che i giovani devono essere pudichi per il fatto che, vivendo sotto l’influsso della passione, sbagliano, e lodiamo quelli tra i giovani che sono pudichi, ma nessuno loderebbe un vecchio perché è incline al pudore, giacché pensiamo che egli non deve compiere nessuna delle cose per le quali si ha da vergognarsi".
Fonte: la Repubblica, 28 luglio 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL MENTITORE ISTITUZIONALE ... ITALIA. UN CITTADINO SI APPROPRIA (1994) DEL NOME DI TUTTO IL POPOLO, NE FA LA BANDIERA DEL PROPRIO PARTITO PERSONALE E REALIZZA LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA POLITICA ITALIANA.
L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
PARLARE AD AGOSTO (2009) DELL’UNITA’ D’ITALIA, SOTTO L’OMBRELLONE DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA"!!!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
FLS
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
FILOLOGIA E COSTITUZIONE:
RICORDANDO IL "SAUSSURE" DI TULLIO DE MAURO, UN URLO E UN AUGURIO DI "LUNGA VITA ALL’ITALIA".
Una nota di commento su un "appunto" di Franco Lo Piparo ... *
STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA (Tullio De Mauro, 1963). "Lingua, intellettuali ed egemonia in Gramsci" (Franco Lo Piparo, 1979): "A scanso di equivoci, io non ho votato nessuno dei partiti che hanno vinto le elezioni" (Franco Lo Piparo, "Fascismo: parola da usare con misura, 16 ottobre 2022): forza_Italia! "Lunga vita all’Italia": "Restituitemi il mio urlo" (Huang Jianxiang, "La Gazzetta dello Sport" del 17 luglio 2006:).
"Checché ne dica Umberto Eco" (F. Lo Piparo, cit.), in onore della vertiginosa saggezza umana e politica della senatrice Liliana Segre, forse, è meglio ricominciare a riflettere da capo, proprio dal "CAPO" (questo il titolo di un articolo di Antonio Gramsci , del 1° marzo1924), sul "principio del Fuhrer" (Führerprinzip), e portare avanti i lavori sulla "storia linguistica dell’Italia unita". Da ricordare, inoltre, che il lavoro sulla "Psicologia delle masse e analisi dell’io" di Sigmund Freud è del 1921.
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CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
LA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT): "METTERE AL MONDO IL MONDO".... *
Stefano Bartezzaghi. Che cosa è la creatività
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 13 ottobre 2021).
Che cos’è la creatività? Che domanda: è come il tempo per Agostino, o l’arte per Croce: tutti sappiamo di che si tratta, fino a quando non ci chiedono di definirla. Allora scattano i guai. Credevamo di avere le idee chiare in proposito: creativo che uno che inventa qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era; una specie di nume in miniatura: Dio ha creato il mondo, ab origine, e noi, qui e ora, non facciamo che maldestramente imitarlo: nelle arti, nella scienza, nel lavoro, nei media, nella vita quotidiana. Ma siamo certi che sia proprio così? Che cosa significa esattamente “nuovo”? e “inventare”? e poi, anche, cos’è questo “qualcosa”? Come dire che, in effetti, non erano idee quelle che avevamo sulla creatività, semmai predisposizioni affettive, ideologie, esercizio inconsapevole di etiche e di estetiche. Niente di logico, di preciso, di coerente. La creatività esiste, si dà a vedere, si pratica, a condizione di dimenticare, di rimuovere, di tenere fra parentesi la sua costitutiva indeterminatezza, se non contraddittorietà, il suo essere più passione che ragione, simbolo e non cosa. Il creativo, sostanzialmente, è un esperto senza saperlo, uno che sa fare ma non sa come lo fa, e soprattutto non sa spiegarlo.
Per questo uno come Stefano Bartezzaghi - semiologo, enigmista, opinionista e, soprattutto, ludico e libero pensatore - sulla creatività si spacca la testa da anni, cercando di accerchiarla da più parti, assediandola e corrodendone progressivamente le fondamenta, per offrirne una qualche convincente plausibilità. A questo tema ha dedicato diversi libri, come, per ricordarne solo alcuni, L’Elmo di Don Chisciotte (2009), Il falò delle novità (2013) e, per antifrasi, Banalità (2019); vi dedica densissimi corsi universitari all’Università Iulm di Milano dove insegna, fra l’altro, “Semiotica della creatività”. Il modo in cui Bartezzaghi si accosta alla questione, generalmente di dominio privilegiato dell’estetica, è difatti schiettamente semiotico.
Creatività, dice adesso nel suo nuovo, recente volume (Mettere al mondo il mondo, Bompiani, pp. 302, € 18), non è una disposizione intellettuale, né una prerogativa psicologica o cognitiva, né tantomeno un’innata capacità più o meno genialoide: molto semplicemente, creatività è una parola. L’indagine che Bartezzaghi conduce nel libro non esamina concetti, giudizi o sillogismi ma, più tecnicamente, modi di dire, usi delle parole e relative frequenze, significati legati a espressioni idiomatiche, luoghi comuni, forme discorsive, e dunque i modi di pensare, con quelle parole e quei segni, il loro senso, in tutti i sensi del termine: semantico, percettivo, direzionale.
Del resto, il titolo del libro, esplicitamente ispirato a un’opera di Alighiero Boetti, ha la forma retorica di un chiasma o forse, meglio, di una mise en abyme: mettere al mondo il mondo è al tempo stesso paradossale (si pone quel che c’è già) ed enfatico (addirittura!), che è appunto la natura intrinseca del fatto semiotico e, più ancora, della creatività. Creare è inventare, certo, ma inventare, sappiamo, vuol dire due cose: generare qualcosa di nuovo (mettere al mondo) ma anche, nel senso latino del termine, ritrovare quel che c’è già (il mondo). L’inventio retorica, diceva già Cicerone e prima di lui i sofisti, non inventa proprio nulla, semplicemente (ri)porta in essere quel che stava sullo sfondo.
Fa giocare nel discorso il sostrato culturale su cui si regge il sapere dell’uditorio, dona al pubblico quel che già conosce: i luoghi comuni, appunto. E analogamente i linguaggi, verbali e non verbali, vivono in una dialettica costante fra regole sociali e parlate individuali, come una sorta di lenzuolo troppo corto tirato ora dal lato della codificazione ora da quello dell’espressività: e quando si spinge da quest’ultimo lembo, quando cioè si indeboliscono le regole prestabilite, emerge la novità, che però, per affermarsi, per avere un senso, deve prima o poi essere accettata dalla massa parlante, finendo per diventare regola, elemento del codice. La creatività è dunque un processo, un divenire, e nemmeno tanto semplice: qualcosa che accade, e a determinate condizioni.
Per articolare più finemente tali questioni, Bartezzaghi propone di immaginare una piramide della creatività, dove alla cima sta l’ambito artistico, poi, più in basso, quello conoscitivo, dopo ancora quello produttivo e infine, alla base, quello mediatico. Una scala decrescente quanto a intensità, crescente quanto ad allargamento del campo - e a fumosità. Come dire che l’essere creativo è faccenda più pertinente, e più rara, nella sfera estetica, un po’ meno, e più frequente, in quella del sapere, ancora meno, ma più riconosciuta, in quella lavorativo-produttiva, fino ad arrivare al discorso mediatico, dove la patente - tanto vaga quanto confusa - di creativo non si nega a nessuno, dal ballerino allo sbaraglio al cuoco dilettante che spadella sudaticcio dinnanzi alle telecamere. Si tratta, dice l’autore, del “livello della strada”, che è poi quello dei social network, là dove, se tutti siamo creativi, nessuno lo è.
Il fatto è che, spiega Bartezzaghi, la creatività è in fin dei conti una perfetta mitologia, poiché del mito ha i due caratteri basilari: la notorietà indiscussa e la risoluzione di alcune contrarietà. “La creatività è una mitologia - scrive - perché conferisce connotazioni di prestigio socialmente condivise; ma è una mitologia anche perché riesce a far convivere - sul piano immaginario - aspetti fortemente contraddittori”. Così, da un lato, se il creativo oggi passa per un figo, capiamo che nella storia e nella geografia umane non è stato sempre così: in intere epoche del passato, per esempio il Medioevo, rispettare la parola delle auctoritates era ben più auspicabile che non dire la propria. D’altro lato, nella creatività convivono, malamente ma ci convivono, caratteristiche opposte: quella soggettiva e quella oggettiva, quella dell’abilità e quella dell’azione, quella della puntualità e quella dell’iteratività e così via. Mettere al mondo il mondo, appunto.
Quel che è certo, è comunque che, per quanto nelle varie epoche e culture le sfumature e le valorizzazioni della creatività mutino e anche di parecchio, il nesso con la creazione divina resta sempre, più o meno palesato, più o meno sacralizzato o secolarizzato. Il creativo è un simulacro del creatore per antonomasia, di quella divinità che, sola, secondo il senso comune, ha saputo inventare il mondo dal nulla, senza cioè metterlo al mondo. Se tutti noi, ognuno con la sua scala di suggestione e di mitismo, riusciamo nel migliore dei casi a creare qualcosa, mettendolo al mondo, è perché ci sentiamo dèi, con evidente hybris, o quanto meno ci proviamo, con esiti che possono anche sfiorare il ridicolo.
Il genio romantico, ad esempio, era abbastanza convinto di essere una sorta di demiurgo, un essere sedicente superiore che mette in gioco quel che Voltaire chiamava “entusiasmo ragionevole” per produrre mondi nuovi, fantastici e no, che le persone comuni possono a mala pena percepire dall’esterno. La sua tracotanza è dunque assai forte, perché non crede d’essere ispirato dalle muse, come a lungo s’è pensato, ma proprio di essere un dio sceso in terra per plasmare il caos in cosmos.
Una narrazione elitaria che è durata parecchio (la si ritrova ancora in Harold Bloom), e che, espandendosi democraticamente e progressivamente, ha finito per diventare lo sberleffo di se stessa. Nei media l’arte sparisce, o quanto meno si ritira in buon ordine, lasciando trasparire soltanto il suo fantasma: la creatività appunto, che, l’abbiamo visto, non si nega più a nessuno. Capiamo così la genesi del principio per cui, come si sente ripetere spesso, uno vale uno.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Papa Francesco, la nuova enciclica discrimina le donne già dal titolo «Fratelli Tutti». Critiche violentissime
di Franca Giansoldati *
Città del Vaticano - L’enciclica «Fratelli Tutti» non è ancora uscita che è già oggetto di feroci critiche. Stavolta da parte di donne che si battono per un linguaggio meno discriminatorio e per la parità di diritti, dentro e fuori la Chiesa. Il titolo scelto da Papa Francesco - secondo diverse teologhe, opinioniste, accademiche - sembra essere ben poco inclusivo visto che non tiene conto - esplicitamente - del mondo femminile. Praticamente la «spina dorsale della Chiesa».
Che il linguaggio racchiuda in sé anche un germe sessista non è una novità. Gli studi accademici in materia sono numerosissimi. Il linguaggio del resto serve a collegare, unire, relazionare ma può benissimo diventare strumento per discriminare, escludere, segregare. E così - anche nella Chiesa - modificare il linguaggio significa incidere sulla realtà con la consapevolezza che la questione non sia tanto grammaticale, ma culturale e che la lingua sia uno strumento utile per produrre i cambiamenti.
Ad essere al centro del dibattito è il titolo della imminente lettera enciclica che Papa Francesco firmerà ad Assisi il 3 ottobre dedicata alla pandemia. Un tempo difficile e doloroso per tutti, marcato da una condizione di fragilità e al tempo stesso dal bisogno di creare una fratellanza universale, una rete super partes capace di far superare il gap tra poveri e ricchi, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne e ridisegnare i contorni di un mondo nuovo.
Il titolo scelto - tratto da uno scritto di San Francesco - uguale per tutte le lingue - Fratelli tutti - non è passato inosservato. Teologhe, accademiche e gruppi femminili che si battono per i diritti paritari a cominciare anche dal linguaggio hanno manifestato forti perplessità.
Naturalmente il termine “fratelli” - negli intenti del Papa - va inteso in senso estensivo, a chi è legato ad altri da un vincolo di affetto, di carità, da comunanza di patria. Un po’ come l’inno «Fratelli d’Italia» di Mameli o la celebre frase di Manzoni, «I fratelli hanno ucciso i fratelli». Il mancato riferimento alle sorelle ha però aperto il dibattito sui social e non sono mancati giudizi negativi e critiche.
Non è la prima volta che nei documenti magisteriali alle donne viene riservato una posizione marginale. Per esempio nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium - praticamente il manifesto del pontificato di Bergoglio - alla enorme questione della donna vengono riservati solo 4 punti su un totale di quasi 300. Il tema della violenza viene poi liquidato in sette righe. Inoltre non si dice nulla sul fatto che la Santa Sede non ha finora mai voluto né firmare né ratificare la Convenzione di Istanbul - praticamente la magna charta per contrastare le radici culturali della violenza tra i sessi.
Fratelli Tutti di conseguenza non poteva non sollevare obiezioni. La teologa inglese Tina Beattie lamenta il solito linguaggio non inclusivo e così ha fatto Paola Lazzarini presidente di Donne Per La chiesa una associazione che appartiene alla Catholic Women’s Council, una realtà globale che lavora per il pieno riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza tra i sessi nella Chiesa cattolica. «Chissà se qualcuno farà notare al Papa che le donne non possono essere fratelli e che questo linguaggio ci esclude» ha chiosato su Twitter. Lazzarini ha riportato un parere della Crusca sul termine di fratellanza, specificando che forse, in certi casi, sarebbe stato meglio parlare di sorellanza, perché «più appropriat»”.
Sul Tablet in un editoriale Lizz Dodd ha manifestato sconcerto. «Papa Francesco potrebbe rompere con la tradizione e chiamare l’enciclica con qualcosa di diverso dalla sua frase di apertura (...) Il fatto che questo titolo sia riuscito a superare ilproceso di editing mi suggerisce che nessuna donna sia stata consultata o che le donne hanno sollevato preoccupazioni che sono state trascurate». L’idea suggerita è di inserire la parola ’sorelle’ a quella di fratelli. «Sarebbe un gesto verso le donne che sono la spina dorsale della Chiesa da millenni, sebbene esclusa. Significherebbe sentirci dire che il nostro bisogno di sentirci incluse nella casa viene prima dei giochi linguistici. Cambiare titolo sarebbe come se Francesco dicesse: vi vedo».
Naturalmente in Vaticano la questione è finità già sotto il tappeto. Vatican News attraverso il direttore editoriale Andrea Tornielli è sceso in campo per spegnere gli incendi scrivendo in un editoriale: «Fraternità e amicizia sociale, i temi indicati nel sottotitolo, indicano ciò che unisce uomini e donne, un affetto che si instaura tra persone che non sono consanguinee e si esprime attraverso atti benevoli, con forme di aiuto e con azioni generose nel momento del bisogno. Un affetto disinteressato verso gli altri esseri umani, a prescindere da ogni differenza e appartenenza. Per questo motivo non sono possibili fraintendimenti o letture parziali del messaggio universale e inclusivo delle parole “Fratelli tutti”».
Nel frattempo sono partite anche appelli al Papa di cambiare il titolo della nuova enciclica. Sui social, per esempio, spicca quello dell’economista cattolico Luigi Bruni, editorialista di Avvenire. «Caro papa Francesco finchè è ancora in tempo per favore cambi il titolo della nuova enciclica. Quel Fratelli (senza sorelle) non si può usare nel 2020. Lei ci ha insegnato il peso delle parole. Il titolo si mangerà il contenuto e sarebbe un grande peccato. L’altro nome di Francesco è Chiara».
* Il Messaggero, Lunedì 21 Settembre 2020 Ultimo aggiornamento: 23 Settembre (ripresa parziale).
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
Lombardi Vallauri.
Ma nella lingua che parliamo l’inganno è sottinteso
Il linguista Lombardi Vallauri nel suo nuovo libro indaga come la comunicazione pubblica fa spesso ricorso al "non detto": «più si usano gli impliciti, più il messaggio può diventare disonesto»
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 22 febbraio 2020)
Ci sono strutture linguistiche che permettono di utilizzare strategie comunicative utili a essere persuasivi, indipendentemente dal contenuto che si trasmette. Le più importanti tra queste strategie linguistiche sono quelle che fanno ricorso agli impliciti. Spesso ciò non comporta problemi etici. Altre volte quel confine viene superato e allora pubblicità e propaganda politica assumono un carattere manipolativo.
Non sono conoscenze arcane, che solo pochi spin doctor padroneggiano nelle segrete stanze delle fake news. Sono anzi modi consueti di esprimersi ai quali, proprio per questo, non facciamo sufficiente attenzione. Uno slogan delle elezioni 2006 - «Una sanità che funziona rende tutti più liberi» - o un’affermazione strappapplausi tratta da un recente comizio - «Questa città deve tornare ad avere una dignità» - ne sono esempi tipici. Di primo acchito non siamo particolarmente impressionati, sembrano due delle mille frasi che ascoltiamo in contesti politici senza che ci colpiscano particolarmente. Ma il “trucco” è proprio questo. Lo spiega in un libro scientificamente rigoroso e insieme di impegno civile il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, docente all’Università Roma Tre.
La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione (il Mulino, pagine 286, euro 16,00) è infatti uno studio approfondito che usa gli strumenti dell’analisi tecnica concentrandosi sulla comunicazione pubblica in Italia, commerciale e partitica. E lancia un appello a una migliore alfabetizzazione comunicativa, affinché diventiamo consumatori e cittadini più capaci di resistere alle sottili influenze di una comunicazione che fa appello agli automatismi cognitivi e sorpassa il controllo vigile.
Professor Lombardi Vallauri, che cosa sono gli impliciti linguistici?
Sono costrutti della lingua che almeno parzialmente nascondono una porzione del messaggio che in numerosi casi, se ne ne fosse consapevole, il destinatario rifiuterebbe. Nel modello che ho elaborato negli ultimi dieci anni, distinguo due tipologie, abbastanza consolidate. La prima è l’implicatura, o impliciti del contenuto. Essa, mentre veicola un contenuto, induce il destinatario a estrarne altri non espressi esplicitamente, spesso con l’aiuto del contesto. È qualcosa che funziona senza problemi nella nostra vita quotidiana, per esempio nel seguente scambio: «Andiamo al cinema questa sera? »; «Domani ho un esame», dove la risposta non è formalmente pertinente alla domanda, ma il messaggio trasmesso è chiaro: «Devo studiare, non posso». Le cose cambiano se si usa uno slogan del tipo: «Di nuovo la tassa di successione? No grazie », in cui il sottinteso è che il partito avversario sia pronto a introdurre una nuova tassa e, se vince, lo farà. E quest’ultima informazione non risulta necessariamente vera. L’essenza persuasiva di questi impliciti sta nel fatto che il destinatario, poiché non “vede” l’emittente asserire quel contenuto - anzi, è lui stesso a costruirlo -, più difficilmente lo metterà in discussione.
Come lavora invece il secondo di tipo di implicito?
Si tratta delle presupposizioni, dette impliciti della responsabilità perché, pur esprimendo un certo contenuto, anziché presentarlo come informazione introdotta al ricevente dall’emittente, lo presentano come un dato di fatto di cui l’emittente sia già a conoscenza. Consideriamo questo dialogo fra un capo e il vice: «Ho deciso di affidare l’incarico a Rossi»; «Ottima idea, specie ora che Rossi ha smesso di bere», dove il vice informa di un elemento che però non asserisce, tanto che il suo scopo potrebbe essere proprio indurre il capo a ripensarci, sebbene affermi che affidare l’incarico a Rossi costituisce un’«ottima idea». In politica si ha un implicito della responsabilità quando un premier sostiene che «bisogna tornare a governare il Paese in modo efficiente», dando per presupposto che finora il Paese sia stato governato male. Que- sti impliciti abbassano l’attenzione critica, perché il destinatario non li vaglia con attenzione, in quanto (su suggerimento dell’emittente) li considera qualcosa di già noto e accettato: alludere al fatto che il dato è già noto induce a prestarvi meno attenzione, anche perché di solito le presupposizioni in cui ci imbattiamo sono vere.
Potrebbero sembrare trucchetti da poco, facilmente smascherabili...
Certo, abbiamo evoluto la tendenza a non fidarci, e i messaggi espliciti del tipo «compra questo», «vota quello» non ci ingannano. Ma dobbiamo considerare che abbiamo risorse cognitive limitate da impiegare al meglio, anche facendo ricorso a processi automatici e inconsci per elaborare più informazione possibile in meno tempo. Gli impliciti sotto apparenza di una cosa ce ne dicono un’altra. Potenzialmente siamo in grado di decostruire i messaggi, ma non possiamo farlo sempre. Lo dimostrano studi sperimentali che abbiamo condotto. Risulta che l’implicatura rivela l’intenzione, ma al tempo stesso occul- ta il messaggio, mentre la presupposizione esprime il contenuto, ma passa inosservata e ha un effetto più durevole perché il destinatario potrebbe non rendersi mai conto che si tratta di informazione nuova e non scontata.
Quanto è «disonesto» utilizzare gli impliciti nella comunicazione pubblica?
Quando un emittente affida agli impliciti informazioni vere in buona fede, si limita a sfruttare un elemento messo a disposizione dal linguaggio per economizzare risorse di processazione. Quando invece lo si fa con le proprie opinioni, equiparandole a fatti, o comunque con un contenuto discutibile, o addirittura falso, la comunicazione diventa a rischio di disonestà. Esprimere opinioni discutibili rimane onesto se le si presenta esplicitamente come tali, anziché farle surrettiziamente implicare dal destinatario o fingere che siano fatti assodati. E più si fa ricorso agli impliciti, più il messaggio può diventare disonesto, come la lingua usata.
Conoscere queste strategie può aiutarci?
Gli studenti a un certo punto dei miei corsi dicono: «adesso capisco, esamino più a fondo i messaggi». Un’alfabetizzazione testuale a scuola risulta incompleta se non insegna anche la distinzione fra esplicito e implicito. Stiamo lavorando perché in alcuni nuovi protocolli di certificazione di qualità della comunicazione aziendale si segnali quando viene implicitato il falso. In Francia, si è fatta una efficace campagna contro l’uso dell’amalgame per la propaganda politica, ovvero l’elencazione di elementi diversi che perciò sembrano così avere aspetti importanti in comune, mentre così non è. Per esempio: «ripulire le città di rapinatori, truffatori e immigrati», come se questi tre gruppi fossero omogenei.
Con il suo gruppo a Roma Tre ha messo a punto un test per quantificare la disonestà dei testi persuasivi, un modo - lei dice - per sorvegliare i politici...
Esattamente. Si tratta di analizzare discorsi o post sui social, individuando gli impliciti e pesandoli, in modo da assegnare un punteggio complessivo che misura le modalità di comunicazione più o meno onesta utilizzate dai singoli esponenti politici. Non è un test di perfetta oggettività, perché i giudizi non hanno natura matematica, ma devono tenere conto di che cosa sia vero e che cosa sia falso, il che non è sempre banale; però rappresenta un passo avanti importante. Per farlo, servono tre “giudici” esperti che lavorano in parallelo e un’ora ogni diecimila caratteri, ovvero mezz’ora di comizio. Uno strumento di questo tipo potrebbe essere adottato da organismi di vigilanza o garanzia indipendenti per offrire agli elettori uno strumento in più di valutazione sull’atteggiamento comunicativo più o meno onesto nei loro confronti, e quindi sulle vere intenzioni dei politici, creando anche una forma di “pressione benefica” su coloro che sono controllati affinché siano più espliciti nei loro messaggi. Con alcuni miei allievi lo stiamo già facendo, attraverso il nostro Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda visibile sul sito www.oppp.it.
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Tu quis es?
Uno vale uno?
di Ivano Dionigi (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
«Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona». Questa sentenza, attribuita a Democrito (V-IV sec. A, C.) da Seneca ("Lettera" 7, 10), e indubbiamente improntata a un’etica aristocratica, sta a ricordarci da un lato che la verità non dipende dal consenso e dal numero, anzi spesso ne è nemica, dall’altro che immenso e imponderabile è il valore di ogni uomo.
A questo proposito, ancor più decisa e sorprendente la considerazione di Epicuro, anch’essa riferitaci da Seneca (§ 11): «Noi siamo l’uno per l’altro un teatro sufficientemente grande». Come a dire, che ognuno di noi si specchia nell’altro, è l’immagine dell’altro, cattura il volto dell’altro: perché il primo spettacolo non è il mondo, non è Dio, ma l’uomo stesso. Egli è il vero miracolo, a se stesso e agli altri, perché ogni singola vita ha valore assoluto, ognuno di noi è unico e irripetibile.
Questa è la vera equivalenza degli uomini, il vero uno vale uno: principio che noi abbiamo sciaguratamente banalizzato trasformando l’identità della dignità umana e l’unicità della persona in identità di ruoli ed equivalenza di competenze. Anche su questo punto la saggezza classica ci viene incontro e ci consegna la sua severa e inequivocabile lezione, laddove, con Eraclito (VI-V sec. a. C.), ci ammonisce che «uno solo, se è il migliore, vale diecimila» (frammento 49 Diels-Kranz).
Tu quis es?
Intellettuali
di Ivano Dionigi (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
Dove sono finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune? Per i quali la virtù sia per se ipsa praemium? Che abbiano nel sangue il senso del destino delle persone? Missing, scomparsi. Sostituiti da intrattenitori, giornalisti, velinari, rappresentanti politici, tecnici delle singole discipline. Dovunque ti giri, stesso spettacolo: loquaces, muti sunt, «blaterano, ma sono muti», direbbe Agostino.
Tra le diverse cause di questa scomparsa, direi anzitutto il primato indiscusso della comunicazione, questo rinnovato impero della retorica, che impone messaggi semplice e semplificati, e che ai pensieri lunghi preferisce gli slogan.
E poi loro, gli intellettuali, i quali, non si fanno scrupolo di scodinzolare attorno al principe o principino di turno e di asservirsi al potere, tradendo quella “convinzione” e quella “responsabilità” che dovrebbero caratterizzarli.
Infine i partiti, che, tra miopia e istinto di sopravvivenza, hanno ridotto la politica a pratica amministrativa oppure a pura spartizione di potere, estranea al pensiero e al progetto.
Fanno riflettere le parole di Socrate, lontano dalle cariche pubbliche e condannato dalle leggi della città: «Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti» (Gorgia 521 d).
SCHEDA EDITORIALE *
Gianrico Carofiglio
«La versione di Fenoglio»
Un manuale sull’arte dell’indagine nascosto in un romanzo avvincente, popolato da personaggi di straordinaria autenticità.
Il maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio sta andando verso il congedo. Lontano dalla caserma per un’operazione all’anca e costretto alla fisioterapia, che vive come segno ineluttabile di senilità, non vede l’ora di riprendere il lavoro; anche se sa con sgomento che la pensione si avvicina.
Seguito da Bruna, una fisioterapista attraente ma indecifrabile, condivide il percorso rieducativo con Giulio, un giovane studente di Giurisprudenza che si sta affacciando alla vita con poche certezze, tranne quella di non voler fare l’avvocato come suo padre.
I due parlano, Fenoglio racconta le sue storie da investigatore, tre casi risolti dai quali emerge il suo metodo investigativo: «Gianrico Carofiglio è tornato sul luogo del delitto (letterario) che lo appassiona di più. Investigare sul crimine, per indagare la vita. Sviscerare il meccanismo col quale un bravo sbirro riesce a spremere da un fattaccio di cronaca qualche stilla di verità, per azzardare un metodo che ci consenta di conoscerci e riconoscerci per quello che siamo: il legno storto dell’umanità, per usare l’immagine di Isaiah Berlin» (Massimo Giannini, «la Repubblica»)
Investigare è un arte complessa, l’ego deve rimanere in disparte, bisogna saper costruire una storia, sapersi guardare intorno, saper riconoscere la menzogna, perché tutti mentono: «C’è la menzogna per la sopravvivenza individuale e collettiva: la verità sempre e comunque è un’idea astratta, un obbligo che può confliggere con l’imperativo morale» (Gianrico Carofiglio intervistato da Maria Grazia Ligato, «Io Donna Corriere della Sera»)
* EINAUDI
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.... *
Ma quale Patria? Si chiama Matria ed è la nostra lingua
Dalla nostalgia di Enea per la terra perduta alle radici dell’Europa la vera appartenenza è nell’idioma. Come sapevano bene Dante, Machiavelli e Leopardi. Una dimora che va difesa da chi oggi la vuole ridurre a chiacchiera
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 07.05.2019)
Dove trovare la Patria? Dove porre sede e finalmente cessare di inseguirla? È questa la domanda di Enea da cui si origina l’Europa - domanda forse ormai totalmente dimenticata. Gli dèi hanno decretato che per l’eroe sarà l’Italia questa patria. Ma l’Italia gli fugge sempre. All’eroe fuggitivo risponde l’Italia che fugge. Come agli eroi avvenire fuggirà l’Europa: Dove essa inizia? Dove finisce? Quante nazioni la abitano? Quali radici la sostengono? O il suo demone consiste proprio nel non averle, nel non potersi su nulla radicare? Aveva, sì, Patria Enea, anzi: la Patria, Troia. Ilio sacra è l’immagine della città perfetta, governata dal Re giusto e buono, abitata da chi ritiene massima virtù morire per la sua salvezza.
Enea avrebbe desiderato rimanere sulle sue rovine piuttosto che affrontare il destino di inseguire l’Italia. Anche le macerie di Troia sarebbero state per lui "più" Patria di qualsiasi altra futura. Ma la Patria è stata distrutta dagli Achei, dal potente connubio di astuzia e violenza che ne caratterizza l’esercito, una massa sradicata dai propri paesi, da anni lontana da ogni domestico affetto. Molti di loro non faranno ritorno, il più grande muore esule sotto le mura di Ilio; chi li ha guidati a costo di sacrificare la figlia viene assassinato appena mette piede in quella che pensava essere la propria dimora. Sciagurati eroi.
Con la fine di Ilio quella idea di Patria tramonta per sempre. Enea, tuttavia, fonda la nuova città mosso dalla nostalgia per essa, che lo domina. Senza la forza di tale nostalgia Roma non sarebbe mai sorta. Ma Roma non sarà Ilio, non ne conserverà la lingua, non sarà mai la città compiuta in sé, armoniosamente contenuta nei propri limiti; sarà invece la città-che-cresce, la città che-si-muove, Civitas augescens, Civitas mobilis, la città insaziabile, l’impero sine fine, la urbs che vuol farsi mondo. Anche Roma crolla - e anche di Roma dura la nostalgia, per la sua lingua, per il suo diritto, per le sue arti. Anche Roma diviene la Patria che manca. Come se vere Patrie apparissero sempre i luoghi che abbiamo perduto.
Nessuno ama la Patria più dell’esule da essa. Lo dice il coro delle donne troiane, che la prepotenza del vincitore trascina via schiave. Lo dice l’Ecuba euripidea, la grande accusatrice della follia dei mortali. Nel modo più tremendo lo mostra la straniera, la barbara, Medea. Sono le donne a soffrire inguaribilmente la distruzione o la perdita della Patria. Come se fossero strappate dal proprio stesso grembo. I maschi, invece, Enea, sono costretti a cercare altre terre e a convincersi che la Patria possa rinnovarsi. Ma anche per loro la nostalgia di Patria è tanto più forte e dolorosa quanto più l’avvertono smarrita. Tremendo è quando la nostalgia per la Patria che il destino ci ha rapito si combina con quella per un’altra impossibile. Fortunato Enea che alla fine la raggiunge, per quanto essa sia tale da non poter mai davvero sostituire l’antica. Vi è chi, invece, deve eternamente inseguire l’Italia che fugge.
Sventura tipica, sembra, delle nostre genti. Dante ha perduto la sua Firenze, che tanto più ama quanto più ne disprezza i nuovi padroni e costumi - e anela a un’Italia che sempre più gli appare irrealizzabile. Penoso è quando la terra che ti ha generato è stata distrutta o, peggio, ti è diventata straniera, e un’altra ne immagini, come anche salvezza della prima, continuamente contraddetta dalla realtà, fino ad apparire impossibile. La sorte di Dante si ripete in Machiavelli. E in quanti altri lungo tutta la nostra storia: il luogo della nostra origine è perduto, è divenuto irriconoscibile, oppure (Leopardi) è stato per noi sempre come un esilio, e la Patria, l’Italia, che abbiamo immaginato, sperato, pensato, resta ancora sempre da fare, un avvenire eterno. Ecco, quante volte la sua idea è sembrata realizzarsi, e subito dopo naufragare di nuovo.
Non resta forse altra vera Patria che la lingua. Lo dicono, in fondo, tutti i poeti esuli (Thomas Mann, ad esempio) nel tempo in cui le più grandi miserie si abbattono sui loro paesi. Abitare la lingua con tutta la cura possibile, questo ci è dato, coltivarla, arricchirla nel dialogo con altre, renderla sempre più capace di tradurle in sé. La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie.
Cosi dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, cosi non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo essere coloro che la trasformano custodendola.
La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna. Dire che la nostra autentica Patria è la lingua significa affermare che nessuna Patria dovrà più essere a immagine del Padre Potente, della civiltà dominata dalla figura dell’onnipotenza del Padre Padrone. Sì, nella lingua è possibile dimora anche allorché naufraga la Patria.
Tuttavia anch’essa è dimora fragilissima. E, a differenza della Patria, i barbari che la minacciano stanno sempre all’interno dei suoi confini: sono coloro che la parlano facendone strame, che la riducono a frase e a chiacchiera, a strumento facilmente manipolabile, pronto per l’uso. Se resiste la Matria, la Patria non sarà mai impossibile, per quanto possa sempre apparire fuggitiva. Ma se la Madre lingua è perduta, allora la lingua che parleremo sarà comunque straniera e la vita un esilio.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E MINORANZE LINGUISTICHE: L’ITALIA RIDOTTA AL SILENZIO.... *
L’allarme. Minoranze linguistiche, un patrimonio che rischia di finire nel silenzio
In Italia ce ne sono varie e molte vanno sparendo: walser, tabarchino, arbëreshë, ladino, grico, occitano. Ma in alcuni casi il recupero oltre che identitario diventa motore di sviluppo economico
di Chiara Zappa (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Da Pecetto, la più alta tra le nove frazioni di Macugnaga, dove finisce la strada che rimonta l’aspra valle Anzasca, Anne può ammirare ogni volta che ne ha voglia le maestose quattro cime della parete est del Monte Rosa. Da bambina, ricorda, «io e i miei fratelli andavamo a prendere i carichi di legna per l’inverno, perché non avevamo il riscaldamento, e mentre lavoravamo ci richiamavamo da un alpeggio all’altro con lo jutzu, il nostro jodel. Cantavamo sempre, qui si sentivano sempre voci nell’aria».
Quelli che hanno accompagnato l’infanzia di Anne, minuta signora di 91 anni, sono i canti walser, tramandati per generazioni dai discendenti dei coloni svizzeri che, nel XIII secolo, attraverso il passo del Monte Moro raggiunsero queste zone ostili all’uomo dell’attuale Piemonte, chiamati dai monasteri o dai feudatari che chiesero loro di bonificarle.
La lingua walser, nei suo diversi dialetti locali, si è conservata intatta, “ibernata” come in uno dei ghiacciai che dominano il panorama, tanto che gli svizzeri o i tedeschi che passano di qui sono felici di sentire parole che da loro non esistono più da secoli. Il walser è un idioma della memoria, un po’ come, nel cuore della Basilicata, l’arbëreshë, l’albanese portato nel ’500 dagli esuli in fuga dalla dominazione ottomana.
O come il tabarchino, che ufficialmente è solo una variante del dialetto genovese, ma ha un’identità assolutamente specifica e stupefacente: a parlarlo, in due isole sarde dell’arcipelago del Sulcis, sono gli eredi dei coloni genovesi giunti da Tabarka, in Tunisia, poco meno di trecento anni fa. Questi migranti avevano vissuto per due secoli nel regno dei Bey tunisini, impiegati dalla "madrepatria" ligure alla pesca del corallo, e lì avevano mantenuto la loro parlata assorbendo però alcune espressioni e molti aspetti della cultura locale, a cominciare dalla gastronomia: il cuscus ( cascà in tabarchino) è oggi un piatto tipico a Calasetta e Carloforte.
Le storie di queste isole linguistiche che resistono, ormai a fatica, in mezzo al mare dell’italiano, così come l’occitano e il grico del Salento, sono raccontate nel libro Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza (Ctrl Books; autori vari, pagine 124, euro 18,00), accompagnate dal suggestivo reportage fotografico di Emanuela Colombo. -«La lingua crea un’identità individuale e di gruppo», si legge nella prefazione. «La lingua, al contempo, può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che, consciamente o inconsciamente, uniforma e appiattisce. Forse chi lavorò intorno alla Carta che avrebbe regolato la vita civile dell’Italia liberata dal fascismo aveva in mente qualcosa di simile: la Costituzione della Repubblica Italiana tutela, con l’articolo 6, le minoranze linguistiche. Nel momento di una nuova unificazione, i padri costituenti decisero di proteggere le differenze».
A 70 anni dall’entrata in vigore dello Costituzione, gli autori del libro compiono così un viaggio narrativo e per immagini, dalla Basilicata alle Alpi, in questa Italia sull’orlo del silenzio. Per scoprire quanto le parole siano inscindibili dalla cultura di una comunità.
A Carloforte i capi delle tonnare, che hanno fatto la fortuna dei tabarchini, si chiamano rais e sono figure quasi mitiche. Ad Alagna Valsesia le case sono costruite con la tecnica del blockbau, a incastro, tipica dei popoli germanici. La cultura ma anche la fede. Nella chiesa di San Costantino il Grande, a San Costantino Albanese, la messa si celebra in rito bizantino e in lingua arbëreshë. A Pomaretto (Lou Poumaré in occitano) all’imbocco della Val Germanasca, la maggioranza degli abitanti segue il culto valdese: questa valle sperimentò la pace, dopo secoli di terrore e persecuzioni, solo nel 1848, quando Carlo Alberto di Savoia riconobbe ai valdesi pieni diritti civili e politici.
Si tratta di identità ancestrali tanto preziose quanto, frequentemente, inconsapevoli. Chi parla una lingua in via di estinzione spesso non si rende nemmeno conto del patrimonio che mastica quotidianamente. Franco Bronzat, linguista nato a Torino da genitori della Val Chisone, se ne accorse casualmente al liceo. Nell’ora di letteratura, la professoressa aveva letto una poesia del grande trovatore provenzale Arnaut Daniel, spiegando che era scritta in occitano, «una lingua morta». Franco alzò la mano: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».
Una naturalezza che aumenta il rischio di lasciare scivolare via, piano piano, le parole e quello che significano: uno stile di vita, un’identità di singolo e di gruppo. Tutte le comunità minoritarie d’Italia, anche se in modi e a livelli diversi, stanno affrontando la sfida del declino. Gli anziani se ne vanno e si portano via i proverbi, le canzoni, i pezzi di un mondo. A meno che non ci sia qualcuno che, realizzato il valore di ciò che si sta perdendo, incoraggi la collettività alla riscoperta delle proprie radici.
In molti casi sta succedendo. Nello storico centro polifunzionale di Alagna, Davide Filié tiene un corso di titzschu, la versione locale del walser, per i ragazzini del paese. «Una lingua è ancora viva se due bambini, almeno due, la usano per giocare», afferma convinto. E i bimbi sono tornati anche a Ostana, minuscolo borgo occitano della Valle Po dove il regista Giorgio Diritti ha ambientato il film Il vento fa il suo giro. All’inizio del Duemila, quassù vivevano sei persone, oggi i dati della municipalità parlano di 85 abitanti. Si valorizzano le risorse tradizionali unendole ai nuovi modelli di sviluppo sostenibile, si organizzano corsi e seminari e un festival internazionale dedicato alle "scritture in lingua madre".
Similmente, tra gli ulivi della Grecia salentina si comincia a pensare che il recupero della memoria sia anche sinonimo di economia, e i comuni si sono uniti per difendere le loro peculiarità, a cominciare da quella linguistica. «In questi paesi ora non si costruiscono palazzine. La gente è fiera dei propri canti, del proprio cibo. La modernità non è stata rinnegata, ma internet convive con la pizzica».
Certo, qui, come in tutte le altre isole minoritarie d’Italia, il timore è che la cultura locale si trasformi in semplice folklore a uso dei turisti. Un rischio, tuttavia, che vale la pena di correre, se non si vuole scomparire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
Un gramsciano lontano dall’accademia
di Franco Lo Piparo (Il Sole-24 Ore, 05 gennaio 2017)
Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.
DE MAURO IL MAESTRO DELLA LINGUA ITALIANA
di Francesco Erbani (la Repubblica, 06.01.2017)
Tullio De Mauro conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti - forse era già ministro dell’Istruzione - gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.
De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni - era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 - era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.
Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento.
Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.
Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno.
E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico.
La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari.
Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica dell’Italia repubblicana(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando - uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.
Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso.
Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.
Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.
DE MAURO, COSI’ PARLAVA CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi (Il Fatto Quotidiano, 06.01.2017)
È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.
Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.
Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.
Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che - soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli - per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.
A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica - non l’unico” - ci tenne a precisare - “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio - così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.
Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.
Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.
E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.
ALFABETO - TULLIO DE MAURO. Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria
di Antonello Caporale *
Tullio De Mauro Siamo la Repubblica dell’ignoranza, degli asini duri e puri, degli analfabeti di concetto, di concorso, di condominio, da passeggio e da web. Passano gli anni ma restiamo sempre stupiti della mostruosa cifra dei concittadini incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre.
Tullio De Mauro è il notaio della nostra ignoranza.
Sono ricerche consolidate, l’ultima dell’Ocse è del 2014, che formalizza il grado italiano di estremo analfabetismo. Mi succede ogni volta di dover spiegare che la sorpresa è del tutto fuori luogo, i dati sono consolidati oramai.
Professore, asini eravamo e asini siamo.
Abbiamo una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Avrà difficoltà a capire ciò che divide la b con la t la f la g. Cecità assoluta. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme: b a c o, baco. Singole parole.
Qui siamo al livello 1: totale incapacità di decifrare uno scritto.
Il cosiddetto livello degli analfabeti strutturali.
Passiamo al secondo livello.
Gli analfabeti funzionali. Riescono a comprendere o a leggere e scrivere periodi semplici. Si perdono appena nel periodo compare una subordinata o più subordinate. E uguale difficoltà mostrano quando le operazioni aritmetiche si fanno appena più complicate della semplice addizione e sottrazione. Con i decimali sono guai.
Dentro questo comparto di asineria alleviata c’è un altro 37% di compatrioti.
Purtroppo non ci schiodiamo da queste cifre.
Quanta gente ha una padronanza avanzata di testi, parole e concetti?
Il 29%. Si parte dal terzo gradino, quello che definisce il minimo indispensabile per orientarsi nella vita privata e pubblica, e si sale fino al quinto dove il forestierismo è compreso, si ha la padronanza della lingua italiana e anche di quella straniera.
Con gli anni si peggiora.
È un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante.
Solo tre italiani su dieci andranno a votare al referendum sulla Costituzione con qualche idea di cosa sono chiamati a decidere.
Siamo lì, purtroppo.
È un disastro!
Il Giappone nel 1870 investì ogni risorsa nella scolarizzazione. Nel 1900 tutti i giapponesi erano in possesso della licenza elementare. Traguardo che noi abbiamo raggiunto 80 anni dopo.
Per la politica è un grande business trovarsi di fronte elettori inconsapevoli. Frottole a gogò!
È un’attrazione fatale. Ricordo che il ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer licenziò una riforma nella quale il Parlamento si faceva carico di ascoltare ogni anno una relazione sullo stato dell’istruzione in Italia e ogni tre anni di avanzare gli eventuali correttivi. Un po’ come la manovra finanziaria, pensava che fosse necessaria una legge di stabilità culturale. Era un modo per tenere sott’occhio anche questa sciagura e per ridurre o limitare l’evento calamitoso dell’ignoranza. Venne la Moratti e dopo un giorno dal suo insediamento la cassò.
Anche lei è stato ministro dell’Istruzione.
In Parlamento risposi a un’interrogazione di una deputata (insegnante tra l’altro). Dissi: l’onorevole preopinante (colui che ha appena dubitato, opinato ndr). Lei mi interruppe: come si permette di offendere?
Ma l’ignoranza non incide anche nella qualità del lavoro?
L’ignoranza costa in termini civili, naturalmente culturali e persino nel processo produttivo. L’indice di produttività subisce un assoluto condizionamento dall’asineria.
Di cosa ci sarebbe bisogno?
Di cicli di aggiornamento culturale di massa. E nessun sussidio (penso alla cassa integrazione) dovrebbe essere possibile senza un contestuale periodo di educazione alla lingua.
Dovremmo tutti andare al doposcuola.
Prima si andava al mercato e si sceglieva la lattuga. Adesso c’è il supermercato dove tutto è imbustato. Per capirne provenienza e confezionamento è necessario saper leggere. Posso anche leggere Cile, ma se non so dove si trova quel Paese che me ne faccio di quella indicazione?
Siamo il Paese della onesta incomprensione.
Esisteva un servizio intelligente e puntuale che indagava sulla nostra capacità di comprendere, il servizio opinione Rai poi incredibilmente chiuso. Nel 1969 fu avanzata una ricerca su tre campioni: la casalinga di Voghera, gli operai di Bari e gli impiegati di Roma. Questi ultimi si distinsero per la loro selvaggia ignoranza.
E noi a prendercela con la casalinga di Voghera.
Invece i peggiori erano gli impiegati dei ministeri. Asinissimi!
*
Blog di Antonello Caporale - Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016
Il riscatto dell’italiano dai fornelli agli atenei
La nostra lingua è un successo all’estero, certifica la Crusca
È la preferita dalla pubblicità e aumentano quelli che la studiano
di Valeria Strambi (la Repubblica, 19.10.2016)
FIRENZE Una Napoli gustata da “Papa John’s Pizza”, nel Kentucky, promette un sapore più autentico rispetto a quella comprata in un qualsiasi altro fast food americano. Così come l’ultimo film di Steven Spielberg può diventare più avvincente se visto al cinema Caruso, in Thailandia. Oppure i pantaloni acquistati da “Villa Moda”, in Medio Oriente, hanno quel non so che di elegante che manca allo stesso capo presente nel negozio a fianco. A fare sempre più la differenza, nell’immaginario degli stranieri, è il dettaglio italiano. Vero o inventato che sia, un richiamo al Belpaese è garanzia di qualità e basta a far vendere di più. Parola di linguisti, pubblicitari, manager d’azienda ed esponenti del mondo della politica e della cultura che si sono ritrovati per due giorni agli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, conclusi ieri a Firenze.
«Vestirsi d’italianità serve a essere più credibili», conferma Paolo D’Achille, professore di Linguistica italiana all’Università di Roma Tre e accademico della Crusca, «abbiamo analizzato le insegne commerciali di 21 paesi del mondo: 339 sono ispirate alla tradizione enogastronomica italiana e altre 214 alla moda. Anche se non sempre le citazioni sono corrette. Non penso solo agli errori di ortografia, ma anche alla scelta delle corrispondenze. Esistono negozi di abbigliamento chiamati “Dolce Vita”, ma il riferimento non è al maglione a collo alto, quanto al film di Fellini che porta con sé tutta la magia di un’epoca e di uno stile di vivere».
Ma l’immagine del nostro paese si ferma a qualche insegna in italiano maccheronico? «Può capitare che da parte di chef o gestori di negozi di moda scatti la curiosità di imparare davvero la lingua», prosegue D’Achille, che insieme a Giuseppe Patota ha curato per l’occasione l’e-book L’italiano e la creatività. Marchi e costumi, moda e design scaricabile gratuitamente fino al 23 ottobre - il fenomeno è ancora piccolo, ma è un canale da non sottovalutare».
Ma accanto a un italiano pop, visto e consumato negli spazi di uno slogan, c’è ancora chi si avvicina alla lingua per ragioni culturali: «Chi studia la Storia dell’Arte o la lirica», spiega D’Achille, «non può farlo a prescindere dall’italiano. Mi è capitato di vedere un documentario in inglese in cui una storica dell’arte commentava un manoscritto in italiano: per farlo non basta un’infarinatura. Mai rinunciare all’approfondimento».
E anche il governo sembra credere nella promozione della cultura italiana al di fuori dei confini. All’apertura degli Stati Generali lo stesso premier Matteo Renzi ha annunciato che 50 milioni previsti nella Legge di Stabilità sono destinati proprio a rafforzare le scuole d’italiano all’estero. A ribadire il concetto ha pensato ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre cioè l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare. L’italianità parla di umanesimo».
Veri cultori della lingua o semplici ammiratori, sono sempre di più gli stranieri che scelgono di studiare l’italiano. Se nel 2012-2013 erano un milione e 522 mila, nel 2014-20105 sono aumentati di più di 700 mila unità raggiungendo quota due milioni e 233 mila. La Germania resta in testa, con 337.553 studenti, seguita da Australia (326.291), Francia (274.582), Stati Uniti ( 212.528) ed Egitto (124.925). In Australia, nel 2016, sono stati inseriti corsi d’italiano nei sistemi scolastici locali e il governo ha riconosciuto la nostra lingua come parte del patrimonio ereditato dall’immigrazione del passato. Agli ultimi posti della lista Ban-gladesh, Bahrein e Repubblica Popolare Democratica di Corea, con rispettivamente 10, 15 e 13 studenti.
Per chi vive dall’altra parte del mondo, però, non sempre è semplice studiare l’italiano e il rischio di perdersi nei meandri della burocrazia è alto. Dove seguire i corsi? Come procurarsi un visto? Le risposte si trovano sul “Portale della lingua italiana nel mondo” (www.linguaitaliana.esteri.it), un database appena attivato che per la prima volta raccoglie le 1.300 cattedre di italiano che esistono al mondo con relativi indirizzi, oltre al corso di italiano a distanza gratuito del Wellesley College.
Tra le sezioni del sito, c’è anche quella dedicata alla “Formazione artistica e per la creatività”, una lista degli istituti italiani che offrono corsi riconosciuti nei settori della moda, design, musica, cucina. «Gli studenti stranieri che studiano negli istituti italiani sono solo il 4 per cento», commenta il viceministro degli Esteri, Mauro Giro, «entro il 2018 vorremmo raggiungere l’8». E la chiave per attrarre talenti potrebbe essere proprio quella di insegnare loro un mestiere. Chi accede al Portale non deve far altro che inserire la regione e il settore che gli interessa per avere davanti un mondo: dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, all’Accademia italiana d’Arte di Roma o il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
di GUSTAVO ZAGREBELSKY (la Repubblica, 24/09/2016)
C’È UNA piccola frase, apparentemente alquanto banale, in La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi che dice «tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Desidero richiamare l’attenzione su quel “quasi”. Certo, la vita e le nostre opere sono effimere, ma non del tutto. C’è un residuo, il “quasi”, che resta, che si accumula e che forma ciò che chiamiamo umanità, un termine che può tradursi in cultura: il deposito delle esperienze che vengono da lontano e preparano il futuro, un deposito al quale tutti noi, in misura più o meno grande, partecipiamo. O, meglio: dobbiamo poter partecipare. Altrimenti, siamo fuori della umanità. Per questo, troviamo qui il primo, il primordiale diritto, che condiziona tutti gli altri. La violazione di questo diritto equivale all’annientamento del valore della persona, alla sua riduzione a zero, a insignificanza.
Eppure, viviamo in un mondo nel quale non è nemmeno possibile stabilire con precisione quanti sono gli esseri umani che non conoscono questo elementare diritto che possiamo chiamare “diritto al segno” o, leopardianamente, “diritto all’orma”.Si misurano a milioni, cioè a numeri approssimativi, senza che - ovviamente - a questi numeri possano associarsi nomi. Milioni di anonimi, che giungono a noi come fantasmi, mentre le loro sono esistenze concrete, anche se durano spesso lo spazio d’un mattino o di pochi mattini, consumandosi in fretta in condizioni disumane, in luoghi dove la lotta per la mera sopravvivenza materiale sopravanza qualunque possibilità di relazioni, dove i neonati vengono al mondo sotto la maledizione di leggi statistiche che li condannano alla sparizione entro pochi giorni o settimane di vita.
Ciò che ci interpella inderogabilmente è che non possiamo dire, come forse si sarebbe potuto un tempo, nel mondo diviso per aree, storie, politiche separate e indipendenti le une dalle altre: sono fatti loro, loro è la responsabilità, il nostro mondo non è il loro, ognuno pensi per sé alle proprie tragedie. Non possiamo dirlo, perché il mondo, come ci ripetiamo tutti i momenti, è diventato uno solo, grande, globale. Noi, in un tale mondo, osiamo parlare kantianamente, senza arrossire, di “dignità” come universale diritto al rispetto. Il “diritto all’orma” detto sopra è legato a tutti gli altri diritti come loro premessa e condizione: è davvero quello che è stato definito da Hannah Arendt, con una formula che ha avuto successo (Rodotà), il “diritto di avere diritti”.
C’è un diritto che potremmo dire essere un altro modo d’indicare il diritto di avere diritti, ed è il diritto al nome: un diritto al quale i trattati di diritto costituzionale, se non l’ignorano, dedicano poche righe. La nostra Costituzione, all’art. 22, tra i diritti umani fondamentali stabilisce che nessuno può essere privato del suo nome perché i Costituenti sapevano il valore di quel che dicevano. “Nominando” si specifica, si riconosce, si creano le premesse per creare un rapporto.
Questo non accade, oggi, alle centinaia di migliaia e, in prospettiva, dei milioni di migranti che sono, per noi, milioni non solo di senza nome, ma anche di senza terra. «Quel che è senza precedenti - scriveva Arendt con riguardo alla tragedia del suo popolo negli anni ’30 e ’40 del Novecento - non è la perdita della patria, ma l’impossibilità di trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era determinata dalle politiche razziali e colpiva comunità umane determinate. Oggi, deriva dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato.
Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi sta sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le rivendicazioni di chi sta sotto e chiede di emergere all’onor del mondo sono attentati allo standard di vita “dignitoso” di chi sta sopra. Quando si chiede lo sgombero dei migranti che intasano le stazioni, dormono nei parchi pubblici e puzzano, non si dice forse che danno uno spettacolo non dignitoso? Ma, dignità secondo chi? Non secondo i migranti, che della dignità non sanno che farsene, ma secondo noi che da lontano li guardiamo.
Ci sono parole, dunque, che non valgono nello stesso modo per i divites e gli inanes. Si dovrebbe procedere da questa constatazione per un onesto discorso realistico e riconoscere che le parole che hanno valore politico non sono neutre. Servono, non significano; sono strumenti e il loro significato cambia a seconda del punto di vista di chi le usa; a seconda, cioè, che siano pronunciate da chi sta (o si mette) in basso o da chi sta (o si mette) in alto nella piramide sociale. Occorre, perciò, diffidare delle parole e dei concetti politici astratti. Assunti come assoluti e universali, producono coscienze false e ingenue, se non anche insincere e corrotte.
Potremmo esemplificare questa legge del discorso politico parlando di democrazia, governo, “governabilità”, libertà, uguaglianza, integrazione, ecc. e di diritti e dignità. Si prenda “democrazia”: per coloro che stanno sopra e hanno vinto una competizione elettorale, significa autorizzazione a fare quello che vogliono; per coloro che stanno sotto e sono stati vinti, significa pretesa di rispetto e di riconoscimento: fare e non fare; prepotenza e resistenza. Oppure “politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come quando la si usa in espressioni come “politica di espansione”, “politica coloniale”, “politica razziale”, “politica demografica”; oppure, esperienza di convivenza, coinvolgimento e inclusione sociale. Oppure ancora: la (ricerca della) “felicità”.
Oggi, sono i potenti che rivendicano la propria felicità come diritto, la praticano e la esibiscono come stile di vita, quasi sempre osceno e offensivo. Ma non sentiremo un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante senza dimora, un individuo oppresso dai debiti e strangolato dagli strozzini, uno sfrattato che non ha pietra su cui posare il ca- po, una madre che vede il suo bambino senza nome morire di fame: non li sentiremmo rivendicare un loro diritto alla “felicità”. Sarebbe grottesco. Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia.
Ma, anche la parola giustizia non sfugge alla legge dell’ambiguità. Giustizia rispetto a che cosa? Ai bisogni minimi vitali, come chiederebbero i senza nome e i senza terra; oppure ai meriti, come sostengono i vincenti nella partita della vita? La giustizia degli uni è ingiustizia per gli altri. Si comprende, allora, una verità tanto banale quanto ignorata, nei discorsi politici e dei politici: se si trascura il punto di vista dal quale si guardano i problemi di cui ci siamo occupati e si parla genericamente di libertà, diritti, dignità, uguaglianza, giustizia, ecc., si pronunciano parole vuote che producono false coscienze, finiscono per abbellire le pretese dei più forti e vanificano il significato che avrebbero sulla bocca dei più deboli.
Onde, la conclusione potrebbe essere questa: queste belle parole non si prestano a diventare stendardi che mobilitano le coscienze in un moto e in una lotta comuni contro i mali del mondo, per la semplice ragione che ciò che è male per gli uni è bene per gli altri. La vera questione è la divisione tra potenti e impotenti. Tanto più le distanze diminuissero, tanto più l’ambiguità delle parole che usiamo diminuirebbe. Ma, è chiaro, qui il discorso deve finire, perché si deve uscire all’aperto, dove non bastano le parole ma occorrono le azioni.
Gli ultimi, i profughi e il diritto di avere la dignità di un nome
di Patrizia Maciocchi (Il Sole-24 Ore, 24.09.2016
Il diritto di avere diritti, il diritto all’orma. Gustavo Zagrebelsky, intervenuto alla prima giornata del Festival di Piacenza, ricorda il verso di Leopardi «tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Il giurista attira l’attenzione sul «quasi». Le nostre opere sono effimere ma non del tutto perché c’è un deposito delle esperienze. Ma non possono lasciare nessuna impronta i 69 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni destinati a morire entro il 2030 secondo il rapporto dell’Unicef, spesso prima ancora di avere un nome. Nessuna impronta lasciano i milioni di profughi senza terra, siriani, turchi, sudamericani in un mondo nel quale non c’è più spazio per nessuno. Un mondo che cerca solo il modo per “smaltirli” pensando a piattaforme galleggianti o a navi in disarmo.
Eppure - afferma Zagrebelsky - tutti dovremmo poter partecipare alla cultura, altrimenti siamo fuori dall’umanità. Malgrado questo non sia, malgrado si resti al sicuro nelle proprie case guardando immagini di morte attraverso le moderne tecnologie, si riesce comunque a parlare di dignità senza arrossire. Entrambi i candidati alla Casa Bianca - sottolinea Zagrebelsky - hanno affermato che lo stile di vita americano non è negoziabile, come non lo è quello delle altre culture europee. Ognuno deve stare al suo posto: «Lo stato sociale non è per tutti ma solo per quelli di casa».
Di diritti fondamentali parla anche la giudice della Corte costituzionale Silvana Sciarra. «La dignità sta nella libertà dal bisogno e dunque nei salari sufficienti, nell’accesso al lavoro, nella tutela della salute». La Consulta - ricorda Sciarra - ha affermato la dignità nelle sue declinazioni: quella dell’embrione, il diritto alla riservatezza, la dignità dello straniero anche privo del permesso di soggiorno. Sciarra riconosce il ruolo delle Corti nell’interpretare i diritti, ma si chiede se lo fanno sempre bene. Un limite sta nel misurarsi con Stati indeboliti dalla crisi economica. Il problema per la giudice è nell’assicurare l’effettività del diritto, a cominciare dall’accesso al lavoro. «La dignità - afferma - deve essere anche uguaglianza di sacrifici, le misure di austerità non devono incidere sui diritti fondamentali, come il cibo e la salute. In Grecia - ricorda - il consiglio di Stato è intervenuto sui salari al di sotto della soglia di povertà, attraverso il diritto alla contrattazione collettiva». È comprensibile per la giudice che ci sia un’esigenza di contenimento di spesa, ciò che conta però è l’elemento della “temporaneità”: un diritto attenuato da una legge di stabilità deve essere “restituito”. Le Corti si occupano di pubblico impiego e di pensionati, Silvana Sciarra avverte però che ci sono anche i poveri, gli ultimi. Il filosofo Remo Bodei ricorda che gli uomini sono fatti tutti della stessa acqua, la differenza la fanno le rive, se sono larghe il fiume scorre tranquillo se, sono strette e tortuose l’acqua si intorbida. Oggi si parlerà ancora di migranti con il ministro dell’interno Angelino Alfano, di carceri, con Giuseppe Cascini e di equo processo con Franco Coppi e Armando Spataro.
GIOVANI ITALIANI NEL MONDO (PRIMA CONFERENZA),
ATTENTI AL TRUCCO E ALL’INGANNO.
E ALLA VERGOGNA!!!
I Bambini non sono Petalosi geni, neanche se a dirlo è l’Accademia della Crusca
di Deborah Dirani ( L’Huffington post, 24/02/2016)
"Il re è morto. Viva il re". Peccato che il re morto fosse un alessandrino genio della parola e il suo designato erede sia un bambino di Copparo che da stamattina viene additato come piccolo e formidabile eroe della lingua italiana poiché ha ottenuto (con la complicità della sua baldanzosa maestra) nientepopòdimenoche un riconoscimento dall’Accademia della Crusca.
Tutto questo baccano intorno a un aggettivo coniato dal piccino (nella fattispecie: petaloso... Che ci tengo a dirlo, Crusca o non Crusca, il correttore di Word non lo riconosce e ho impiegato 3 minuti per farglielo accettare) nasce da un errore che l’inconsapevole neolinguista ha commesso in un compito che trattava gli "aggettivi" derivati dai sostantivi. Va da sé (o meglio, va da lui, il bambino) che se esiste il petalo esiste l’equivalente petaloso. Il ragionamento non fa una grinza, e quanto a logica consequenziale il piccoletto ha ragione da vendere. Meno ne ha chi non è in grado di spiegargli che la lingua italiana è un patrimonio già depredato da irricevibili anglicismi e neologismi al quale non serve anche il suo saccheggio.
Macché, la maestra baldanzosa dopo avergli segnato l’errore (specificando però che trattatasi di errore bello... E al primo che mi cita Montessori e il valore intrinseco dell’errore spedisco una carriola di libri automotivazionali, così poi si diverte) pensa bene di prendere il capolavoro di linguistica e inviarlo ai parrucconi della vecchia Accademia, i bastioni di Orione a tutela della nostra lingua.
Considerato poi che oggi come oggi non si può più dire a un giovane virgulto d’uomo che è un somaro, benché dotato di brillante fantasia, i suddetti bastioni gli hanno concesso l’accondiscendente onore di riconoscere che quella inascoltabile parola (siamo seri: petaloso non si può proprio sentire) sia in realtà bella.
La verità, che a me appare evidente, è che lo schiavismo degli adulti verso gli infanti stia travalicando i limiti della decenza. E i risultati sono piccoli mostri di boria e presunzione che, ai miei tempi (sì l’ho detto, ai miei tempi) sarebbero finiti silenziati da un pattone sul sedere. Non tanto per il petaloso, quanto per il messaggio di liceità, di tutto è possibile, che questa storia contiene e diffonde.
Non si può pensare di far assurgere l’errore a mirabile esempio di eccellenza, non si può infilare un bambino che sta battagliando coi congiuntivi nei vestiti del fine umanista, non si può farne un genio, un eroe, un esempio da emulare. Sennò da domani altro che petali e germogli di umanità: ci troveremo davanti a un manipolo di usurpatori di gloria.
I limiti sono importanti: servono a far capire i confini del sé. Servono a far camminare lungo l’asse della vita, insegnando a mettere un piede dopo l’altro a chi, per natura, vorrebbe correre ma non ha le gambe abbastanza forti per farlo. I limiti sono educativi: se non si conoscono i propri difficilmente si troverà il coraggio per superarli. Perché è vero che piazzare un bambino dietro la lavagna con le orecchie da asino è un’idiozia, ma anche sbatterlo su tutte le pagine dei giornali non è che sia una straordinaria prova di saggezza.
I bambini sono bambini, non piccoli geni in pantaloni corti e scarpe ortopediche. Non hanno, ovviamente, nessuna responsabilità circa quegli abiti non loro che si sentono cuciti addosso da genitori (e a volte insegnanti) pronti a leggere nell’ordinarietà delle loro azioni la straordinarietà del fenomeno. Che di fenomeni ce ne sono pochi, molti meno di quanti ne vengano additati in giro. Nemmeno questo piccolo Matteo, che oggi è diventato trend topic su Twitter grazie al cinguettio del suo omonimo premier, nemmeno lui è un fenomeno, o se lo è, non lo è di certo per quel florilegio di orrore linguistico del suo petaloso.
E comunque forse la maestra di Matteo avrebbe fatto più fatica a spiegargli perché il suo compito non era corretto anziché sdoganarlo con un bagno di notorietà che, se il destino si accanirà contro di noi, ci costerà l’inserimento di petaloso nella prossima edizione dello Zingarelli. Ah, ancora una precisazione: son vecchia e reazionaria e rimpiangerò a lungo (temo per sempre) il re che è morto senza degni eredi.
L’esortazione è semplice: dai, dillo in italiano.
Qui sotto potete leggere il testo che accompagna una petizione in favore di un uso più accorto della lingua italiana da parte di chi ha ruoli e responsabilità pubbliche. Non è una battaglia di retroguardia, e non è un tema marginale. Non è neanche una battaglia contro l’inglese ma va, anzi, in favore di un reale bilinguismo.
La petizione chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce di questa istanza, che può aver peso e buon esito solo grazie all’appoggio di tutti noi.
Perché è importante che firmiate? Perché la lingua italiana è un bene comune: ci appartiene, ha un valore grande ed è nostro compito averne cura.
Se siete d’accordo potete firmare su Change.org: vi basta un minuto. E poi parlatene e fate girare il testo in rete. E dai... fatelo subito. L’hashtag è #dilloinitaliano
Un intervento per la lingua italiana (#dilloinitaliano)
Una petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano. *
La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.
Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue. L’inglese ricalca molte parole italiane (“manager” viene dall’italiano maneggiare, “discount” da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da soprano a manifesto.
La stessa cosa fa l’italiano: molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già.
Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole che meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire “form” quando si può dire modulo, “jobs act” quando si può dire legge sul lavoro, “market share” quando si può dire quota di mercato?
Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il Governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese. E di farlo ricordando alcune ragioni per cui scegliere termini italiani che esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia.
2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.
3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.
4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema.
5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio.
6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività.
7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.
8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo. Se sei d’accordo firma, parlane, condividi in rete. E fallo adesso. Grazie!
Lettera a
Membri del Consiglio Direttivo Aldo Menichetti, Massimo Fanfani, Vittorio Coletti, Luca Serianni
Presidente Accademia della Crusca Claudio Marazzini
Presidenti Onorari Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio e Francesco Sabatini
Chiediamo che, forte del nostro sostegno, l’Accademia della Crusca inviti formalmente il Governo e le Pubbliche Amministrazioni, gli esponenti dei media, le associazioni imprenditoriali a impegnarsi per promuovere l’uso dei termini italiani in ogni occasione in cui farlo sia sensato, semplice e naturale.
Infarcire discorsi politici e comunicazioni amministrative, resoconti giornalistici o messaggi aziendali di termini inglesi che hanno adeguati corrispondenti italiani rende i testi meno chiari e trasparenti, meno comprensibili, meno efficaci. Farsi capire è un fatto di civiltà e di democrazia.
Ma non solo: la lingua italiana è amata. È la quarta studiata nel mondo. È un potente strumento di promozione nel nostro paese ed è un grande patrimonio. Sta alle radici della nostra cultura. È l’espressione del nostro stile di pensiero. Ed è bellissima.
Privilegiare l’italiano non significa escludere i contributi di parole e pensiero che altre lingue possono portare. Non significa chiudersi ma, anzi, aprirsi al mondo manifestando la propria identità. Significa, infine, favorire un autentico bilinguismo: competenza che chiede un uso appropriato e consapevole delle parole, a qualsiasi lingua appartengano.
Chiediamo inoltre che, come avviene in Francia, in Spagna, in Germania e nei paesi anglosassoni, l’Accademia della Crusca attivi, anche in rete e insieme ad altre istituzioni, iniziative e servizi utili a promuovere e a diffondere qui da noi l’impiego consapevole delle parole italiane, e chiediamo che vengano conferite le risorse per poterlo fare.
Aggiornamenti:
10 mar 2015 - L’Accademia della Crusca - lo scrive il suo Presidente - accoglie il nostro invito a farsi portavoce e autorevole testimone della richiesta collettiva e amplissima di privilegiare, ove possibile, l’impiego di termini italiani nelle leggi, negli articoli dei giornali, nella comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni e delle imprese.
È il sostegno di tutti noi a dare visibilità, importanza, forza e positiva energia a questa istanza che, peraltro, già nel momento in cui è stata resa pubblica ha raccolto un grande consenso da parte di tutti i mezzi di comunicazione.
*
FONTE: CHANGE.ORG
Reati al Colosseo, o i rischi delle iperboli
di Giorgio Mascitelli (alfapiù, 25 settembre 2015)
L’onorevole Francesca Barracciu, sottosegretaria ai Beni culturali, ha definito l’ormai celebre assemblea sindacale dei custodi del Colosseo un reato e, a fronte delle rimostranze di chi le faceva notare che le assemblee sindacali in orario di lavoro sono perfettamente legali, ha replicato affermando di considerarla un reato in senso lato. Dunque in senso tecnico la sottosegretaria avrebbe usato la figura retorica dell’iperbole. Ora, per la mia modesta esperienza di scriba, l’iperbole è una figura molto pericolosa, che va impiegata con parsimonia perché nasconde diversi trabocchetti logici.
Infatti l’iperbole non può essere usata in tutti i casi: per esempio utilizzare il termine di reato funziona solo se attribuito a fattispecie non previste esplicitamente dalla legge, altrimenti è un errore logico. D’altronde l’iperbole è usata alquanto spesso solo nei poemi epici, nella pubblicità e nelle dichiarazioni di alcuni presidenti del consiglio. Questi tre generi di discorso hanno in comune non soltanto il fatto di proporsi di edulcorare o abbellire una determinata situazione o prodotto, anziché di denunciarla, ma anche di avere come oggetto delle proprie affermazioni iperboliche cose o fatti che il pubblico non può facilmente verificare tramite fonti indipendenti. Le iperboli devono essere perfettamente calcolate anche nel loro grado di superfetazione, altrimenti si ritorcono contro il loro stesso autore, come dimostra il fatto che le parodie dei tre generi di discorso indicati sopra si basano su iperboli così forzate da risultare ridicole o totalmente fuori luogo.
E tuttavia l’errore dell’onorevole Barracciu è ampiamente scusabile non solo perché la retorica, inutile materia umanistica, non fa parte del corso degli studi, ma perché, nella sua scompostezza, l’errore dell’onorevole è l’espressione di un senso comune oggi diffuso o per meglio dire di un senso mediatico oggi diffuso. Infatti, nella narrazione neoliberale del mondo i diritti collettivi, quali quelli sindacali, sono descritti come privilegi di casta, che dovrebbero essere vietati per legge, esistendo solo quelli individuali. E qui però dovrebbe scattare per tutti un campanello d’allarme non solo in quanto è del tutto evidente che in assenza di alcuni diritti collettivi è impossibile godere di diritti individuali, ma anche perché quella narrazione prende l’abbrivio agli inizi degli anni ottanta da un’apertura di credito di un celebre caposcuola come Von Hayek alla dittatura di Pinochet, anche se ormai nessuno si ricorda più di questo fatto.
A costo di essere scambiati per gente noiosa o peggio convinta che esistano ancora i telefoni a gettoni nell’era degli smartphone, è bene nella comunicazione pubblica esprimersi con lentezza e ponderazione altrimenti si corre il rischio di venire parlati dalla superlingua mediatica. Certo i vecchi politici centristi della DC o del PRI, che pure non dovevano avere in grande simpatia le assemblee sindacali, non avrebbero mai fatto un errore del genere.
Proprio per questo mi permetto di rivolgere ai compagni del partito democratico, specie a quelli che hanno un ruolo più importante nella comunicazione pubblica, un appello analogo a quello che a suo tempo Nanni Moretti rivolse a D’Alema. Io sarò però più moderato e mi accontento di chiedere loro, quando parlano di diritti sociali, di dire qualcosa di centro.
Un documentario presentato oggi alla Mostra di Venezia racconta le follie linguistiche del fascismo dal “voi” alle parole bandite
Quell’Italia costretta a darsi del “lei” di nascosto
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 03.09.2014)
C’ERA una volta un’Italia in cui si andava non a Courmayeur ma a “Cormaiore”, i vestiti con le pajellettes si chiamavano “allucciolati” e per aperitivo al posto del cocktail si beveva l’“arlecchino”. Nelle riviste teatrali cantavano “Vanda Osiri” e “Renato Rascelle”. E in platea applaudiva la “clacche”, sicuramente più energica della vezzosa claque. Era il paese di Mussolini, artefice di un folle progetto di autarchia linguistica. Via le parole straniere da insegne e pubblicità, al bando gli esotismi a scuola e nei dizionari. Vietati anche i dialetti e le parlate delle minoranze. Ammesso in pubblico soltanto un italiano virile, meglio se muscolare, il vigoroso “voi” invece del più effeminato “lei”, insomma lo stile del Me ne frego!, come recita una celebre canzonetta dell’epoca, «non so se ben mi spiego, me ne frego, ho quel che piace a me».
Me ne frego! è anche il titolo del bel documentario dell’Istituto Luce a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo, che sarà presentato questa mattina alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un efficace viaggio nel tempo, il recupero di un’Italia dimenticata, ridicola nel suo purismo nazionalistico e anche drammatica per la violenza dei divieti, grottesca nelle sue liste di proscrizione e insieme terribile, lunarmente lontana nelle maestose coreografie littorie eppure paradossalmente vicina, perché c’è ancora chi invoca provvedimenti legislativi a tutela dell’italiano.
Durò vent’anni, quell’esperimento. Dall’anno in cui Mussolini prese il potere a quando fu costretto a lasciarlo, nel luglio del 1943. E furono molti gli intellettuali italiani che misero il proprio estro al suo servizio, studiosi della lingua e giornalisti, scrittori e poeti, romanzieri e accademici di Italia. Da Marinetti a Savinio, da Monelli alla Sarfatti, fino a Pavolini e Federzoni. Tutti prodighi di suggerimenti stilistici, perché «non c’è più posto per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere», come scrisse nel 1933 Paolo Monelli nel suo Barbaro dominio, un libro che raccoglieva cinquecento esotismi da bandire.
Tra i giornali era partita la gara per i lettori più inventivi. Cominciò la Scena Illustrata inaugurando la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”. Poi intervenne la Tribuna e infine la Gazzetta del Popolo con “Una parola al giorno”. L’Accademia d’Italia, organo ufficiale della cultura di regime, fu incaricata di redigere l’elenco delle parole straniere con la sostituzione italiana. Trionfava lo “slancio” al posto dello swing , il “consumato” subentrava al consommé, e non si poteva più dire shock, ma “urto” di nervi.
C’era anche chi non censurava, come Alfredo Panzini, che accolse imparzialmente nel suo Dizionario termini italiani e stranieri. E all’illuminato Bruno Migliorini si devono due parole poi entrare nell’uso comune: regista al posto di regisseur e autista invece di chauffeur. A proposito di Migliorini, fu il primo a ricoprire la cattedra di Storia della lingua, istituita nel 1939 da Giovanni Gentile: l’unica cosa buona nel delirio di una bonifica totalitaria.
E sono le imponenti scenografie ducesche a trasportarci in quel delirio imperiale che abbiamo ormai rimosso, immense scolaresche mineralizzate in maestose “M” o in forma di “DUX”, oppure fatte sciamare in piazza Bernini a Torino tra gli allestimenti della “Mostra anti-Lei”, le cui immagini scovate al Luce rappresentano una vera rarità: caricature, vignette, disegni satirici che riducono il pronome allocutivo a un bubbone da estirpare, severamente bandito dalla lingua perché considerato “femmineo” e “straniero”.
In realtà «era una forma italianissima in uso fin dal Cinquecento », corregge Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla Sapienza e direttrice scientifica dell’ultima edizione del Vocabolario Treccani. L’impazzimento era tale che il settimanale di Rizzoli Lei dovette rinunciare al suo nome. Invano tentarono di spiegare a Mussolini che in quel caso era sinonimo di ella o essa, insomma di donna. Achille Starace, infiammato artefice dei “fogli di disposizioni”, ne impose la correzione in Annabella: sempre meglio di Voi, devono aver pensato al giornale. Anche il cinema dovette conformarsi al nuovo costume, ma qualche volta gli attori inciampavano nel “lei” interdetto, prontamente corretto nella più maschia allocuzione. A teatro per fortuna c’era Totò che ironizzava sfigurando Galileo Galilei in Galileo Gali voi . Una volta incappò in un gerarca seduto in prima fila, che mostrando uno humour squisito decise di denunciarlo. Ma il procedimento fu bloccato da Mussolini. «Fesserie!», liquidò. E non se ne parlò più.
In realtà gli italiani nel privato continuarono a usare il “lei” e molti, pur di non darsi il “voi”, si buttarono sul confidenziale “tu”. E mentre il duce e i suoi gerarchi inseguivano il purismo nazionalistico, il novanta per cento della popolazione parlava ancora dialetto. I materiali del Luce mostrano questo “italiano nascosto”, il parlato vero della presa diretta, che proprio perché non in linea con le direttive ufficiali venne occultato dietro voci narranti ufficiali, asettiche e impostate.
Inutile aggiungere che la bonifica mussoliniana non aiutò affatto l’alfabetizzazione degli italiani, che rimase tragicamente arretrata nel dopoguerra. «E in un certo senso», aggiunge Della Valle, «scontiamo ancora quei vent’anni persi dietro inutili miti nazionalistici».
Di quell’esperimento linguistico oggi è rimasto poco, quasi nulla. «Le parole straniere non sono state debellate da decreti legge», dice la studiosa. «Le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti del regime, mettendo anche in atto tentativi di separatismo. I dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle origini famigliari: nei film, nelle canzoni e nella poesia. E il pronome “lei” ha ripreso il suo posto, mentre il “voi” è usato solo nell’italiano regionale del Mezzogiorno».
Resta come ricordo il Vocabolario della Reale Accademia d’Italia, rimasto interrotto per sempre alla lettera C: quanto basta per leggere sotto alcuni lemmi il nome di Mussolini accostato ad Ariosto, Machiavelli e Petrarca. E restano pochissime formule care al duce come “colli fatali”, “bagnasciuga” e “colpo di spugna”, tra tutte la più fortunata.
Un’Italia troppo lontana nel tempo? Non del tutto. E fa bene la Mostra del Cinema a rilanciarla per più ampie platee. Già indagata dai libri di Sergio Raffaelli ed Enzo Golino, grazie al documentario del Luce quella pagina di storia dovrebbe circolare nelle scuole e all’università. Anche perché la volontà di bonifica linguistica si potrebbe presentare in nuove forme, seppur più morbide rispetto all’antica xenofobia. Di fronte alla crisi dell’italiano - che ha perso il suo status di lingua di cultura internazionale, scivolando al ventiduesimo posto per l’ampiezza del bacino di parlanti - perfino tra gli studiosi c’è chi rimpiange una robusta politica in sua difesa.
«Sì, è vero», risponde Della Valle. «Ci sono dei nostalgici che invocano provvedimenti legislativi. Di tanto in tanto viene riproposto qualche consiglio superiore della lingua italiana che dovrebbe difenderla dal barbaro dominio delle parole straniere. Ma per fortuna a occuparsi della nostra lingua ci sono istituzioni solide come l’Accademia della Crusca, l’Enciclopedia Italiana e la Dante Alighieri, del tutto estranee a queste nostalgie». La lingua è uno strumento in continua evoluzione, nessuna politica dovrebbe mai pensare di imbrigliarla. Me ne frego! serve a ricordarcelo.
L’importanza delle radici
di Gian Luca Favetto (la Repubblica, 15 novembre 2011)
Un festival di letteratura con l’Italia come paese ospite. In cerca di luoghi dove seminare e raccogliere parole, le parole che producono pensieri e sentimenti. Che poi sono i libri, questi luoghi, e sono anche tutti gli uomini che con i libri parlano, comunicano, s’incontrano e confrontano, fanno esperienze, condividono tempo e storie. Si chiama I luoghi delle parole, è giunto all’ottava edizione ed è un festival sparso sul territorio. Dura una settimana e ha casa in dieci comuni piemontesi non distanti da Torino: Chivasso, Settimo, Brandizzo, Caluso, Castagneto Po, Leinì, San Benigno Canavese, San Maurizio Canavese, San Sebastiano da Po, Volpiano.
Quest’anno ha scelto un tema semplice: l’identità. All’ombra del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una trentina di incontri declinano in tutte le possibili forme e sfumature il concetto, l’ipotesi, il dubbio, il sostantivo, la sostanza identità. Che cos’è?, di cosa è fatta?, da dove viene e dove va?, cosa dice oggi e cosa diceva ieri e cosa dirà domani. Se si parla di identità, l’Italia ospite ci sta bene. Come fosse un paese straniero, persino qui, in un lembo di pianura fra Po e Dora. In fondo, e neanche troppo in fondo, l’Italia è un paese straniero. Straniero a se stesso prima che agli altri. Ancora deve conoscersi, sperimentarsi, capirsi, incontrarsi. E non è certo che sia un male.
Detto questo, nell’abbuffata di incontri sull’identità, io parlo di radici, porto le radici. Radici versus identità. Quelle prescindono da questa. Non appartengono allo stesso sentire. Non c’è da far confusione. Le radici sono plurali, l’identità è un monolite cementificato. Le radici camminano, sono viaggio, l’identità è un arresto di tempo che fu. L’identità è dietro, le radici sono davanti. L’identità è un arrocco che difende, le radici entrano in contatto con l’altro, cercano e danno nutrimento, cercano e danno mondo. L’identità ha l’idem dentro, lo stesso, il medesimo, l’omologato, le radici sono differenze che si diramano. L’identità ha denti che mozzicano, strappano, lacerano, le radici non mordono, succhiano. Solo parole, si può obiettare. Ma sono le parole che contano e cantano, e fanno esistere le cose. Nessuna cosa è dove la parola manca, dice un verso del poeta tedesco Stefan George.
Le parole sono fatti: fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza. Le parole sono materia, sono carne e sono architravi. Non bisogna temerle, bisogna usarle. Allenarsi e usarle bene, con cura. Chi ha cura di se stesso e degli altri, di se stesso in mezzo agli altri, cura le parole. Le preoccupazioni vengono da come si usano. Non hanno colpe, non portano colpe, loro; a seconda dei casi, portano senso, fantasie, bisogni, speranze, dolore. E però capita che qualcuno usi identità - aggiungendo l’aggettivo culturale - come una mazza ferrata o un muro di protezione.
C’è chi dice che l’identità culturale sia la madre di tutti i razzismi. Non è così: non è madre, nemmeno matrigna, è zitella. L’identità culturale è la zitella di tutti i razzismi. Arida, non dà frutti, solo pene. Invece, le radici sono l’inizio delle storie, stanno al principio e vanno. Mentre l’identità - con questo accento che sa di passato remoto - è alla fine delle storie, è il loro tramonto. Noi siamo fatti di storie più che di atomi. Grazie alle storie viviamo. Là dove c’è una storia, c’è un uomo. Sono l’uno le radici dell’altra, e viceversa. L’identità è un valzer con se stessi, ogni tanto bisogna cambiare partner
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni (il Fatto, 22.10.2011)
L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc - facile riconoscerli - nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d’accordo, e intendono mettersi d’accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l’ingegno e la retorica si cerca di convincere l’altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l’ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all’azione, nel senso che l’etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l’etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l’etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L’etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell’esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l’applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell’uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un’innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull’innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L’istituzione è una sorta di casa dell’uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L’istituzione è l’ombra allungata dell’uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l’istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l’istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c’est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell’Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale - l’esperienza insegna - il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l’incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un’attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L’ha scritto quasi cent’anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po’ burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio.
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 1 luglio 2011)
Sulla Germania hitleriana disponiamo ormai di una documentazione imponente, praticamente definitiva, in tutti suoi aspetti. Che cosa può dirci ancora la rilettura di uno dei libri classici sulla società tedesca nel cuore della dittatura totale? Il libro ci ricorda ancora una volta il ruolo decisivo del linguaggio politico e pubblico nella costruzione e nel mantenimento sino all’ultimo della identità e della struttura politica del regime nazista. Mi riferisco a LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer ripubblicato ora dall’editore Giuntina (pp. 418, euro 20) in una importante edizione riveduta e scrupolosamente annotata.
Si tratta di una straordinaria testimonianza e documentazione di come nel corso del dodicennio nazista la società tedesca sia stata ridotta a strumento passivo e consenziente - addirittura fanatico - della dittatura. Lo strumento,o forse sarebbe meglio dire l’oggetto primario di questa operazione è stato il linguaggio pubblico e privato. La sua manipolazione, la sua decostruzione e ricostruzione. L’acronimo LTI significa infatti Lingua Tertii Imperi: la lingua del Terzo Reich.
L’autore Victor Klemperer era un sofisticato studioso della letteratura francese, docente all’università di Dresda, licenziato in tronco dopo la presa del potere di Hitler per le sue origini ebree e sottoposto quindi a infinite angherie. È sopravvissuto grazie al fatto di avere una moglie «ariana», sottraendosi alla fine fortunosamente ad una morte certa all’indomani del bombardamento di Dresda. Negli anni della sua emarginazione e persecuzione ha registrato scrupolosamente tutto quello che vedeva attorno a sé - soprattutto nella comunicazione pubblica e politica. Ne esce un documento che è ad un tempo una profonda testimonianza umana e morale e una forte intuizione scientifica e politica: la funzione centrale della lingua nella costruzione dei sistemi politici totalitari.
La lingua è performativa: crea cioè comportamenti. Nel caso nazista si tratta di comportamenti inequivocabilmente malvagi: ma prima dell’orrore genocida culminante nella «soluzione finale», c’è la lenta, inesorabile distruzione quotidiana della lingua tedesca. E quindi della sua anima. Il male si annida nella «normalità» del quotidiano e nella metamorfosi delle parole: nei discorsi politici, assimilati nel lessico personale e familiare, nel nuovo modo di salutare, di vestire, di divertirsi, nella pubblicità commerciale e naturalmente nella stampa di regime e fiancheggiatrice.
La LTI è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva - scrive Klemperer. «Il motivo di questa povertà sembra evidente: con un sistema tirannico estremamente pervasivo, si bada a che la dottrina del nazionalsocialismo rimanga inalterata in ogni sua parte, e così anche la sua lingua». Parlare di omologazione è un eufemismo: «Ogni lingua, se può muoversi liberamente, si presta a tutte le esigenze umane, alla ragione come al sentimento, è comunicazione e dialogo, soliloquio e preghiera, implorazione, comando ed esecrazione. La LTI si presta solo a quest’ultima. Che il tema riguardi un ambito pubblico o privato - ma no, sto sbagliando, la LTI non distingue un ambito privato da quello pubblico - tutto è allocuzione, tutto è pubblico. “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”, proclama uno dei suoi striscioni. Cioè: non sarai mai solo con te stesso, con i tuoi, starai sempre al cospetto del tuo popolo».
L’incredibile è che tutto questo ha funzionato. All’inizio, nei primi mesi del 1933 sembrano rimanere ancora spiragli di insofferenza se non di resistenza, che si esprimono magari in battute sarcastiche: a proposito di un collega costretto a portare la fascia con la croce uncinata, si dice: «Che ci vuoi fare? è come la fascia assorbente per le donne» (con un gioco di parole difficile da rendere in italiano).Ma il fanatismo, cui il libro dedica uno dei capitoli più importanti, è terribilmente serio e non tollera battute. Il fanatismo non è un semplice prodotto della manipolazione, ma è una corrispondenza di sentimenti latenti che finalmente esplodono.
Non a caso nel vocabolario della LTI dopo «fanatico» l’aggettivo preferito è «spontaneo». In questa sede possiamo trascurare il dibattito tra gli esperti sulla consapevolezza o meno di Klemperer circa la natura del suo lavoro - tra «filologia e diario» politico personale. Non ci interessano neppure le ragioni della differente fortuna del suo libro, subito altamente apprezzato nella Ddr dove l’autore ha passato il resto della sua vita sino alla morte nel 1960. Nella Germania federale invece è stato inizialmente guardato con qualche distacco (qualcuno si è rammaricato che Klemperer non avesse «visto» alcune imbarazzanti analogie con il passato totalitario nel linguaggio politico del regime comunista); poi negli Anni Novanta è arrivato il pieno riconoscimento dopo la pubblicazione dei suoi Diari. È seguita la riscoperta di Klemperer anticipatore della nuova linguistica sociale e culturale.
Ma io vorrei invitare ad una lettura «ingenua», per così dire, del libro, ricordando quanto scrive l’autore: «Il diario è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell’estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare - sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano. E ben presto poi questo appello a collocarmi al di sopra della situazione conservando la mia libertà interiore si condensò in una formula misteriosa e sempre efficace:LTI!LTI!».
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro su "La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale" nel 150 dell’Unità.
Palazzo del Quirinale, 21/02/2011 *
Questo nostro incontro non può chiudersi senza un caloroso ringraziamento, come quello che io voglio rivolgere alle prestigiose istituzioni il cui apporto ci è stato essenziale, al Presidente Amato e agli studiosi, i cui interventi hanno scandito un’intensa riflessione collettiva su aspetti cruciali del discorso sulla nostra identità e unità nazionale, e in pari tempo agli artisti le cui voci hanno fatto risuonare vive e a noi vicine pagine specialmente significative della poesia, della letteratura e della cultura italiana. Tra le figure dei primi e dei secondi, degli studiosi e degli interpreti, si è collocata - da tempo, come sappiamo, con straordinario ininterrotto impegno - quella di Vittorio Sermonti, dando voce alla Commedia di Dante.
Ringrazio dunque in egual modo tutti ; e non posso far mancare un vivo ringraziamento anche per chi ha curato la splendida raccolta, di alto valore bibliografico, da noi ospitata qui in Quirinale, di testi dei capolavori ed autori cari a Francesco De Sanctis. La cui storia ci appare più che mai rispondente al proposito - come poi disse Benedetto Croce - "di fare un grande esame di coscienza e di intendere la storia della civiltà italiana".
Non mi sembra eccessivo aggiungere - ed è il mio solo commento - che la iniziativa di questa mattina è risultata esemplarmente indicativa del carattere da dare alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la cui importanza va ben al di là di ogni disputa sulle modalità festive da osservare o sulle diverse propensioni a partecipare manifestatesi. Come tutti hanno potuto constatare, non c’è stata qui alcuna enfasi retorica, alcuna esaltazione acritica o strumentale semplificazione.
Si è discusso sulla datazione del configurarsi e affermarsi di una lingua italiana e del suo valore identitario in assenza - o nella lentezza e difficoltà del maturare - di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come lingua della poesia, della letteratura, e poi del melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia, del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama Machiavelli che "propone addirittura la costituzione di uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero" e aggiunge : "Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione". La gloria di Machiavelli - conclude De Sanctis - è "di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via".
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe determinato - è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo conclusivo della sua "Storia", - "il fatto nuovo" del formarsi "nella grande maggioranza della popolazione istruita", di "una coscienza politica, del senso del limite e del possibile" oltre i tentativi insurrezionali falliti, oltre "la dottrina del «tutto o niente»".
E se con il progredire della coscienza e dell’azione politica, si giunge a "fare l’Italia" nel 1861, fu tra il XIX e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci di proporsi "come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia". Tuttavia, la strada da fare restò lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò, si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel primo decennio del ’900 - nel decennio giolittiano - si produsse una svolta decisiva per la crescita dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola, per un progressivo avvicinamento all’ideale - una volta compiuta l’unità politica - di una lingua scritta e parlata da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché lineare - in ogni campo d’altronde, per le regressioni che il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’iscrizione nella nostra Carta del principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto (siamo - ha detto Giuliano Amato - Nazione antica e al tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non può essere presentata come un paese linguisticamente omologato nel senso di una negazione di diversità e di intrecci mostratisi vitali. E nessuno può pretendere,peraltro, di oscurare l’unità di lingua cosi faticosamente raggiunta.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci - anche presentando al mondo quel che abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo - seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto "seriamente" : perché in fin dei conti è proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti di questo incontro. Ancora grazie.
* PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2094
«Dalla Patria alla Matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani»
Il linguista: Un Paese paradosso il nostro, cementato nelle pagine dei capolavori letterari. E solo più di mezzo millennio dopo la «Commedia» diventato uno Stato
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 21.02.2011)
Massimo Cacciari dice che la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Cioè alla nostra madre lingua, l’italiano di Dante. E «il» linguista per antonomasia, Tullio De Mauro, stamattina al Quirinale parlerà appunto dell’Italia linguistica, dall’Unità alla Repubblica. Alla vigilia dell’incontro gli abbiamo rivolto alcune domande. A fronte dei 150 anni di Italia che festeggiamo oggi, ci sono, prima, sei secoli di storia di un popolo unito dalla lingua.
È un’eccezione tutta italiana? E da cosa nasce?
«La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Spingeva in questa direzione l’aspirazione ad avere una lingua nazionale come già avveniva nei grandi stati nazionali europei. Rispetto alle altre parlate italiane, alcune già illustri come il veneziano o il napoletano, il fiorentino scritto aveva il vantaggio di una grande letteratura di rango europeo, il sostegno dell’attiva rete finanziaria e commerciale toscana, una assai maggiore prossimità al latino, che era la lingua dei colti. A questi soltanto, fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, restò limitata la scelta. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Tuttavia la tradizione letteraria dei colti fu un filo importante nella vicenda storica. Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, alla diplomazia piemontese, poterono additare a giustificazione storica della richiesta di unità e indipendenza dell’Italia l’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma non mancarono mai di sottolineare il fatto che l’uso dell’italiano era allora assai ridotto. È un tema ricorrente».
Quali sono le conseguenze di questa storia «al contrario»?
«Senza riferimento alla lingua nazionale la stessa idea di unificare il paese e rivendicarne l’indipendenza forse non sarebbe nata».
Il 1861 quale tipo di Paese certificò, dal punto di vista linguistico?
«Il 78% della popolazione risultò analfabeta. La scuola elementare era poco frequentata e mancava in migliaia di comuni. L’intera scuola postelementare era frequentata da meno dell’1% delle classi giovani. Secondo le stime la capacità di usare attivamente l’italiano apparteneva al 2,5% della popolazione. Un valoroso filologo purtroppo scomparso ha rivisto questa stima al rialzo, suggerendo che la capacità di capire l’italiano appartenesse all’8 o 9%».
E 150 anni dopo?
«La scolarizzazione avrebbe potuto modificare la situazione del 1861. Ma, diversamente da quanto avvenne per esempio in Giappone, che negli stessi anni si avviava alla modernità e aveva condizioni scolastiche peggiori delle nostre, le classi dirigenti italiane puntarono su esercito e ferrovie, non sulla scuola. Alla fine del secolo il Giappone aveva portato alla piena scolarità elementare quasi il 100% della popolazione: in Italia siamo arrivati a questo soltanto negli anni sessanta del ‘900. Solo nel periodo giolittiano, a inizio ‘900, cominciò una forte spinta popolare all’istruzione, come riflesso della grande emigrazione verso paesi in cui leggere e scrivere era normale, e come conseguenza diretta del costituirsi di associazioni operaie e contadine e del Partito Socialista.
I governi Giolitti risposero positivamente, le spese per edilizia scolastica e stipendio dei maestri passarono dai comuni allo Stato. La scolarità cominciò a crescere e anche crebbe la quota di prodotto interno lordo destinato alla scuola. Ma il processo si bloccò prima per la Grande Guerra, poi, dal 1925 in poi, per tutto il periodo fascista.
-All’inizio del suo cammino la Repubblica italiana si ritrovò con il 59,2% di analfabeti e senza licenza elementare, con un indice di scolarità di tre anni a testa, a livello dei paesi sottosviluppati. E con il 64% di popolazione consegnata all’uso esclusivo di uno dei dialetti, mentre l’italiano era usato abitualmente da poco più del 10% della popolazione (inclusi i toscani e i romani) e in alternativa con i dialetti da un altro 20% o poco più. Uscire da questa situazione parve una necessità a persone com Pietro Calamandrei o Umberto Canotti Bianco, ma anche ai padri costituenti, chenel 1948 “costituzionalizzarono” l’obbligo scolsticon gratuito per almeno 8 anni (è l’art. 34 della Costituzione). Ma la scuola elementare e la media hanno stentato a decollare fino agli anni settanta.
La scuola ha fatto un lavoro enorme per sottrarre i figli e le figlie al destino di analfabetismo e mancata scolarità di padri e madri. Ha portato tutti i ragazzini alla licenza elementare negli anni settanta e ottanta, poi quasi tutti alla licenza media, infine, in questi anni, li ha portati per il 75% al diploma e alle porte dell’università. Ma non poteva cambiare da sola le strutture degli ambienti di provenienza degli allievi: la mancanza cronica di centri di pubblica lettura in oltre tre quarti dei comuni, la scarsa lettura di quotidiani, fermi, in percentuali di vendite, agli anni ‘50, la scarsa propensione alla lettura di libri. Per questa la parte femminile della popolazione, ha fatto moltissimo, assai più dei maschi, ma non basta». Nel gioco fra lingua e dialetti l’italiano è mai arrivato a essere “lingua di popolo”?
O è rimasto lingua d’élite?
«Oggi l’italiano è parlato dal 94% della popolazione, mai era stato tanto usato, solo il 6% resta ancorato all’uso esclusivo di uno dei dialetti. Ma la percentuale del 94% va sgranata e stratificata: il 45% parla abitualmente l’italiano anche tra le mura di casa, i l resto della popolazione lo usa in alternanza con uno dei dialetti o (per il 5%) delle lingue di minoranza. Ma attenzione, il multilinguismo, la persistenza di idiomi diversi non fa danno. Fa danno la dealfabetizzazione della popolazione adulta una volta uscita di scuola. Soltanto il 20% della popolazione ha gli strumenti minimi di lettura, scrittura e calcolo per orientarsi nella vita di una società moderna. La povera Mastrocola si agita per dire che dovremmo bloccare l’istruzione a 13 anni. Abbiamo invece bisogno di un grande sforzo collettivo di crescita culturale, qualche imprenditore comincia a capirlo, lo spiegano bene gli economisti e in un bel saggio recente Walter Tocci. Ma per ora la situazione è questa e un uso responsabile e sicuro della lingua è precluso a una gran parte del 94% che pure l’italiano ormai lo parla».
Dal 1954 in poi, l’italiano ce l’ha insegnato nostra maestra televisione. Oggi la tv sul piano linguistico e civile che effetti produce?
«Sì, con le grandi migrazioni interne, l’industrializzazione e la crescente scolarità delle fasce giovani, negli anni ‘50 l’ascolto televisivo fu decisivo per sentire l’italiano usato nel parlare. Dagli anni ‘90 la rincorsa alla pubblicità ha imbastardito le trasmissioni senza che vi siano sufficienti contrappesi, il calmiere di una informazione seria e diffusa, la lettura. Oggi lavoriamo molto nelle scuole per insegnare i ragazzi la regola della “presa di turno” nel parlare, Poi apri un qualsiasi talk show o il grande fratello e vedi che quella regola è calpestata senza ritegno». Che effetto fa al linguista una Minetti (laureata) che intercettata dice “Ne vedrai di ogni. Ti devo briffare”? «Studio le registrazioni solo per obiettivi professionali, quindi per campioni statistici, e quelle di Minetti non mi sono per ora capitate».
E che effetto ha fatto al linguista il Benigni che spiega l’Inno di Mameli?
«Un numero sterminato di anni fa, trenta, ricordo di avere cercato di spiegare che, come già per altri grandi comici, Totò anzitutto e Dario Fo, il comico di Benigni poggiava e poggia su una geniale intelligenza e una robusta, ampia base culturale. Benigni poi ci ha dato solo conferme. La sua “controlettura” dell’Inno di Mameli offre un modello raro e prezioso di come si debba e possa leggere la poesia, senza vibratini ed enfasi, come invece troppo spesso si fa. Di Benigni ricordo anche il memorabile discorso per l’avvio di pionieristici corsi di istruzione per gli adulti nel comune di Scandicci e la chiusa alta e paradossale, degna di Gramsci e don Milani: “Tutti vi dicono: fatti, non parole. E io vi dico invece: prima di tutto parole, parole, parole».
In un convegno organizzato dalla Società Dante Alighieri a confronto Zagrebelsky e Carofiglio.
"Molti termini di uso corrente sono diventati oggetti contundenti"
di MANUEL MASSIMO *
Tempo di bilanci per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Anche sulla lingua: uno degli elementi più importanti e "aggreganti" di un’identità nazionale sembra essere entrato in crisi, soprattutto a causa dell’appropriazione "indebita" di alcune parole da parte della politica, fenomeno oggi più che mai attuale. Uno spunto di riflessione arriva dal convegno organizzato a Roma dalla Società Dante Alighieri, nell’ambito del progetto "Pagine Aperte", per conversare con gli autori di due recenti scritti sul linguaggio della politica: "Sulla lingua del tempo presente" del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky - ordinario all’Università di Torino e presidente onorario dell’Associazione Libertà e Giustizia - e "La manomissione delle parole" dello scrittore - ex magistrato oggi senatore del Pd - Gianrico Carofiglio.
Scendere in campo. "Il lessico del berlusconismo è il prodotto di un ambiente". Il professor Zagrebelsky si sofferma sull’espressione con cui Silvio Berlusconi irruppe sulla scena politica il 26 gennaio 1994: "Scendere in campo: una metafora calcistica che rappresenta l’esatto contrario di quello che dovrebbe accadere in una democrazia". Un discorso in cui si sosteneva che ci fosse bisogno di un "deus ex machina", di un salvatore per uscire da una situazione difficile. Uno schema mentale - sostiene Zagrebelsky - che negli anni ha fatto scuola e influenzato profondamente il nostro modo di pensare: "Quando dall’altra parte (leggi: Partito Democratico, ndr) si attende l’arrivo di un ’papa stranierò non si sta forse ricalcando lo stesso modello?".
Innocenti evasioni. Secondo Zagrebelsky c’è un’altra espressione ormai entrata nel lessico comune - "mettere le mani nelle tasche degli italiani" - che trascina con sé l’idea che pagare le tasse non sia ciò che dice la Costituzione (cioè un dovere di cittadinanza) ma venga considerato come un borseggio. Quindi in pratica un via libera all’evasione fiscale "giustificata" attraverso il semplice uso di una formula: "Le metafore possono essere pericolosissime: sono dei trasferimenti, si prende un termine da un contesto e lo si trasporta in un altro ambito; ma tutto ciò che sta dietro a questo contesto di partenza tende a trasferirsi nel nuovo".
Maneggiare con cura. "Le parole sono come rasoi: pericolosi a seconda di chi li maneggia. Molte parole fondamentali del lessico civile sono diventate oggetti contundenti". Il senatore Carofiglio concorda sulla necessità di rispettare la natura delle parole però, a differenza di Zagrebelsky, ritiene che la comunicazione politica non possa fare a meno delle metafore: "Oggi il politico italiano che riscuote il maggior successo in pubblico è Nichi Vendola perché i suoi discorsi sono innervati di metafore che alludono all’esperienza sensoriale e non all’astrattezza concettuale. Questo è uno dei suoi punti di forza: l’uso consapevole di metafore che mettono in moto dei meccanismi interiori in chi ascolta".
Luoghi troppo comuni. La politica si è letteralmente impadronita di espressioni mutuate da altri contesti o coniate ex novo e le ha fatte diventare dei "luoghi comuni linguistici" di cui i cittadini - come denuncia Zagrebelsky - spesso non comprendono l’esatto significato. Si parla e si ragiona per frasi fatte, senza approfondire i concetti. Carofiglio sottoscrive e rilancia, elencando le parole oggetto di "furto": democrazia, libertà, amore. Ma anche le espressioni abusate o usate a sproposito di cui sarà difficile liberarsi: "lo scontro tra politica e giustizia", "le parole d’ordine della sinistra", "l’utilizzatore finale" e la lista potrebbe continuare ancora ad libitum.
Senza vergogna. Carofiglio sostiene che la vergogna - anche e soprattutto in politica - sia un sentimento da coltivare maggiormente: "L’incapacità di vergognarsi da parte di chi dovrebbe farlo è pericolosa: solo chi riesce a provare vergogna ha la capacità di praticare il suo contrario, cioè l’onore. La caratteristica della vergogna è di essere un segnale, un fondamentale meccanismo di tutela della salute morale". In mancanza di questo campanello d’allarme si rischia la degenerazione, si continua a perseverare nell’errore che non si riconosce come tale; capita così che perfino "comportamenti in bilico fra il malcostume da basso impero e il territorio del penalmente rilevante" che stanno monopolizzando da mesi l’agenda-setting della politica vengano esibiti con orgoglio e rivendicati davanti a tutti.
Interpretazione e omologazione. "Parole: bisogna conoscerne tante e usarne poche". Questa la formula aurea che Zagrebelsky individua per "tutelarsi" dai pericoli insiti nel linguaggio: "Dobbiamo cercare di usare poche parole: servono a comunicare ma ogni parola è un trabocchetto. Da giurista osservo che il legislatore cade in questo equivoco usando centinaia di parole: senza capire che ognuna di esse si presta a essere interpretata". Ma per poter decodificare la realtà che ci circonda occorre avere un buon bagaglio linguistico: "Se noi non abbiamo le parole non abbiamo neanche le idee". E contro il pericolo di un’omologazione della lingua - veicolata attraverso i mass media - è bene: "Coltivare la varietà del linguaggio e fare un buon uso - accurato, consapevole e cosciente - delle parole". E compiere ogni giorno il gesto rivoluzionario di cui parlava Rosa Luxemburg: "Chiamare le cose con il loro nome".
* la Repubblica, 17 febbraio 2011
Lunedì al Quirinale un incontro su “la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale” nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia *
Il 21 febbraio 2011 alle ore 11.00 avrà luogo al Palazzo del Quirinale un incontro su "la lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale", nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
L’evento è promosso dalla Presidenza della Repubblica con la collaborazione dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e della Società Dante Alighieri.
L’incontro sarà aperto da Gianni Letta in rappresentanza del Governo. Seguirà un filmato realizzato da Giovanni Minoli con i materiali d’archivio della Rai. Quindi Giuliano Amato, Presidente del Comitato dei Garanti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, introdurrà l’iniziativa affrontando il tema "La lingua italiana e l’unità nazionale". Seguiranno gli interventi di personalità del mondo accademico e culturale: Tullio De Mauro su "L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica", Vittorio Sermonti su "La voce di Dante", Luca Serianni su "La lingua italiana nel mondo", Carlo Ossola su "I libri che hanno fatto gli italiani", Nicoletta Maraschio su "Passato, presente e futuro della lingua nazionale" e Umberto Eco su "L’italiano del futuro". L’ultimo intervento sarà del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Le riflessioni sul rapporto tra la lingua italiana e l’identità della nazione saranno intervallati da letture di brani letterari che hanno segnato l’evoluzione della lingua nazionale, da parte di Fabrizio Gifuni, Umberto Orsini, Ottavia Piccolo, Toni Servillo e Pamela Villoresi. Due pagine musicali saranno interpretate da Roberto Abbondanza (baritono) e da Federico Amendola (pianoforte).
Nella stessa giornata sarà aperta nella Sala delle Bandiere del Quirinale la mostra "Viaggio tra i capolavori della letteratura italiana. Francesco De Sanctis e l’Unità d’Italia", promossa dalla Fondazione De Sanctis, che sarà aperta al pubblico da martedì 22 febbraio a domenica 3 aprile: "Un viaggio - ha scritto il Capo dello Stato nel catalogo della esposizione - tra i capolavori che hanno radicato in noi il sentimento di appartenere a una comunità di lingua e di ideali".
SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Notizia&key=14465
CHE MISERIA!!! IL POPOLO D’ITALIA, IL POPOLO DELLA LIBERTA’, IPNOTIZZATO, GIORGIO NAPOLITANO CHE GRIDA "FORZA ITALIA", E SILVIO BERLUSCONI CHE RIDE E RIDE A CREPAPELLE!!!
Le parole che ingannano
Nel libro di Zagrebelsky il tema della lingua di oggi le sue compiacenze e la sua bruttezza rivelatrice
Vi domina il lessico di Berlusconi e dei suoi media
di Goffredo Fofi (l’Unità, 05.12.2010)
Da un vecchio film di Moretti, una domanda venne molto citata anche da chi non si distingueva molto da colei cui l’attore la rivolgeva, una giornalista clonata e imbecille (specie non rara, e rigorosamente bisex): “ma come parli?” In Roma di Fellini, una paciosa bellona in trattoria citava una frase portatrice di una saggezza molto più antica: “come che magni, cachi”. Potremmo allargare e dire che c’è un rapporto diretto tra ciò che si mangia e come si parla. Ma il mangiare è anche una metafora: se ci nutriamo, per esempio, di linguaggio televisivo, non possiamo che riproporlo, giorno per giorno, nella nostra quotidianità, e poi “espellerlo”, però non “liberandocene” e invece inquinando l’ambiente - i bambini, per esempio, in quel gioco ignobile di corruzione dei nuovi nati di cui gli adulti di oggi criminalmente si compiacciono.
Vorrei segnalare un aureo librino, piuttosto un articolo lungo presentato come libro (otto euro sono troppe per il numero di battute ma non per la qualità del testo, e del prezzo è responsabile l’editore e non l’autore), Sulla lingua del tempo presente (Einaudi). Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky, che fa il giudice e non il linguista, ed è forse è da questo che il saggio deriva la sua pregnanza. Vi si discute la lingua di oggi e proprio di oggi, le sue compiacenze, le sue reiterazioni, la sua bruttezza rivelatrice. Dice infatti l’autore che “nella lingua del nostro tempo si nota la presenza sovrabbondante del lessico di Berlusconi, dei suoi uomini, e dei loro mezzi di comunicazione di massa, che parlano come lui”.
Un’interpretazione di questa presenza, in verità ossessiva e che si è inserita senza nessuno sforzo anche nel lessico della sinistra e in generale della stragrande maggioranza degli italiani, dice che “l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di demenza senile, sono tali certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma - cosa molto più grave - sono il segno di malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto”. Insomma, Berlusconi e la sua lingua hanno infettato la politica italiana (una constatazione: alla Camera e al Senato non sono mai state così rari “i rappresentanti del popolo” di cui fidarci) e la società tutta. Gli anticorpi sono debolissimi, e compito delle persone perbene sarebbe quello di rafforzarli, anche dando alle parole il loro giusto peso e valore. Sono molti i nuovi luoghi comuni berlusconiani passati nella lingua di tutti che Zagrebelsky analizza: “scendere” in politica, “contratto”,”amore”, “doni”, “mantenuti”, “italiani” (con un uso che rivela come non tutti godano dello stesso livello di cittadinanza...), “Prima Repubblica”, “assolutamente”, “fare-lavorare-decidere”, “le tasche degli Italiani”... La sua scelta non è casuale, e risulta soprattutto politica.
Con molto pudore, Zagrebelsky ci indica quel che le parole nascondono e i pericoli non retorici che vi si annidano. Di essi noto quello che mi pare centrale, il pericolo della lingua unica, che si diparte dai “portavoce” del potere e si comunica, senza trovare resistenza alla quasi totalità dei professionisti dei media - giornali, tv, radio, senza dimenticare i più astuti ed efferati di tutti, i pubblicitari. A suo tempo Orwell analizzò tutto questo magistralmente in 1984 (la “neo-lingua”), e da allora le cose, da questo punto di vista, non sono migliorate, anche se non si parla più di subdole manovre e imposizioni dittatoriali ma di imposizioni “democratiche” non meno subdole.
Zagrebelsky non insiste, per carità di patria, nella constatazione di come la lingua del potere pervada anche la sinistra (perché interna allo stesso sistema di potere?). L’ultima voce del saggio è “politicamente corretto”: sono “politicamente corretti” “l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità... la semplificazione e banalizzazione dei problemi comuni... la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù...” “I cittadini sono trattati non come persone consapevoli ma come plebe...” ed è dal linguaggio plebeo diventato “politicamente corretto” che dobbiamo tutti liberarci, “ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”. Teniamone conto. Tenetene conto, politici e giornalisti del poco di sinistra che resta, se credete davvero alla sua diversità dalla destra e se volete che cresca.
Intercettazioni: a Bolzano imbavagliata la statua di Dante *
BOLZANO. ’’No alla legge bavaglio - Nein zum Maulkorbgesetz’’ si legge in italiano e tedesco su un foglio di carta gialla con la quale la Sinistra Ecologia Libertà ha ’imbavagliato’ la statua di Dante Alighieri a Bolzano. ’’Abbiamo organizzato questo flash mob - ha detto il consigliere comunale Guido Margheri - a sostegno della mobilitazione di Fnsi, di Articolo 21, di tante altre associazioni a cui sta a cuore la libertà nel nostro Paese e della giornata del silenzio proclamata dai giornalisti contro il ddl del governo sulle intercettazioni’’. Secondo Margheri, ’’imbavagliare la statua del padre della lingua italiana Dante Alighieri è una forma di protesta contro l’arroganza e la protervia del governo Berlusconi e a difesa della libertà di informazione, per un giornalismo libero e con la schiena diritta’’
L’INIZIATIVA
A Teano per un’Unità d’Italia bis
"Il 26 ottobre firmiamo un patto"
Un incontro di tre giorni tra movimenti, sindaci e associazioni dell’altraeconomia. Per discutere di federalismo, green economy, pace e Meridione e convergere su un documento che "rivaluti il passato". Per smetterla con le bugie e ricomporre il pezzi del puzzle italiano siglando un accordo di unione tra il Nord e il Sud
di GIULIA CERINO *
ROMA - Sanare le ferite aperte, dal 1860 ad oggi, tra il Nord e il Sud dell’Italia si può. Il Belpaese è ancora in tempo per salvaguardare la propria unità ma dovrà individuare i punti "critici" e stilare un piano di lavoro frutto di un nuovo patto tra gli italiani, tra i cittadini, le associazioni e i Comuni. Per riunificare l’Italia, un’altra volta.
L’idea arriva dal professor Tonino Perna, economista e sociologo, che per il 26 ottobre 2010 ha organizzato tre giornate "celebrative" dell’Unità d’Italia durante le quali si discuterà di federalismo fiscale, green economy, diritti sociali e Meridione. Sposa l’iniziativa Don Ciotti, arrivano le adesioni di Paul Ginsborg e Marco Revelli. Il dibattito avrà luogo a Teano, la città dove, 150 anni fa, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II si strinsero la mano legando indissolubilmente il Nord e il Sud del Paese. E come allora, il 26 ottobre di quest’anno verrà siglato un nuovo patto che dovrà, questa volta, essere condiviso dalla "base", dal "popolo" e da circa mille sindaci che, dal Nord e dal Sud del Paese, si riverseranno nella cittadina campana per dare l’idea di "un’unità che nasce non dall’incontro di due figure ’regnanti’ ma dalla volontà delle comunità locali", spiega Perna.
Una scommessa, questa, sorta da una preoccupazione: "Io e altri miei colleghi temiamo - spiega il professor Perna, che insegna all’Università di Messina - l’incubazione di uno sviluppo insostenibile. Nel 1994 scrissi un libro e l’ultimo capitolo trattava il tema dello sganciamento delle aree ricche da quelle povere. Avviene in molte zone del mondo: in Catalogna, in ex Jugoslavia e in Italia. La crisi economica ha rilanciato questa spinta alla secessione. Ecco perché - conclude - attraverso tre giornate di riflessione, attraverso la partecipazione dei rappresentanti degli enti locali, dei Comuni, dell’associazionismo e dei movimenti, tenteremo di rifondare l’unità del nostro Paese. Partendo, questa volta, da nuove questioni legate ai tempi moderni".
Il primo giorno. Verità, riconciliazione e memoria condivisa. Ecco le parole chiave inserite nel piano di lavoro stilato dal Professor Perna, da Don Ciotti, da Ugo Biffieri, presidente della Banca Etica, da Walter Bonan, il referente delle politiche della montagna FederparchI, da Giulio Marcon, uno dei più rappresentativi membri della cooperazione non governativa italiana e da tanti altri. Attraverso questi tre concetti, i migliori storici italiani e stranieri, Paul Ginsborg, Marco Revelli e Piero Bevilacqua, per citarne alcuni, ricostruiranno il puzzle della storia d’Italia e con i loro racconti, forniranno una versione plausibile di ciò che davvero accadde nel 1861. "Il programma che emergerà dovrà quindi essere utilizzato nelle scuole - spiega Perna. Perché abbiamo bisogno che negli istituti venga proposto agli studenti un racconto veritiero dell’Unità, frutto di una ricostruzione fattuale che vada al di là della mitologia di un Sud arcaico o, al contrario, saccheggiato del Nord". Basta forzature, quindi. Per ricucire i rapporti tra Nord e Sud è necessario fare i conti con lo scomodo passato del Paese senza il quale sarà impossibile raggiungere una "riconciliazione".
Il secondo giorno. Si aprirà all’insegna dello sviluppo sostenibile. I rappresentanti delle associazioni, delle banche, delle imprese e dell’altraeconomia tenteranno di rispondere ad alcune domande: "E’ ancora possibile stilare una piattaforma di cooperazione Sud-Nord fondata sul principio del commercio equo e solidale e della finanza etica?" Per il professor Perna e i suoi colleghi tutto questo si può fare. A patto che vengano individuati i settori produttivi di beni e servizi dove far crescere le nuove forme di mercato per mettere insieme valorizzazione dei produttori e bisogni dei consumatori. A questo servirà la seconda giornata a Teano.
Terzo giorno. Si farà festa. E per concludere l’incontro si combineranno, in un unico documento, i contenuti elaborati durante le tre giornate. Per celebrare la nuova Unità d’Italia che non si reggerà più su una mera dichiarazione di principi ma su un elenco di punti chiave che i firmatari si impegneranno a rispettare. Per costruire un’altra idea di Paese. Un esempio? "Prendiamo l’articolo 1 della Costituzione - suggerisce il professore. ’L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro’. Ora immaginiamo di poterlo così integrare: ’L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro dignitoso e minimo vitale per tutti i residenti’. Non sarebbe forse questo un concetto più adatto alle condizioni dei lavoratori attuali?".
Ecco, lo sforzo è tutto qui: consiste nell’ammettere che dal 1860 ad oggi l’Italia, nel bene e nel male, è cambiata. Così, per per rilanciare la cooperazione tra il Nord e il Sud del Paese, sfatando il rischio della rottura, il ricordo di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II non basta più. Ma è necessaria la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Per disegnare un’altra Italia possibile.
* la Repubblica, 06 maggio 2010
L’ANNIVERSARIO
Unità d’Italia, Napolitano a Genova
"Celebrazioni non sono tempo perso"
Il presidente della Repubblica invita le forze politiche a evitare polemiche pregiudiziali e respinge tesi storiche infondate che vorrebbero un Sud da abbandonare a se stesso. Anche perché "la maggioranza dei garibaldini venivanon dal Nord"*
GENOVA - Tutte le iniziative comprese nel "sobrio" programma per celebrare il 150/o dell’Unità d’Italia "non sono tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a bordo della portaerei "Garibaldi" per il discorso ufficiale di Genova, implicitamente replicando alle dichiarazioni di diversi esponenti della Lega, con Umberto Bossi . Il capo dello Stato prende la parola nell’hangar della portaerei, al suo fianco, i presidenti del Senato, Renato Schifani, e della Camera, Gianfranco Fini, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, insieme ai vertici delle forze armate e delle istituzioni locali. Tra gli esponenti politici, il segretario dell’Udc, Pier Ferdinando Casini.
Reagire a tesi storiche infondate.
Per il capo dello Stato, "non è retorica reagire a tesi storicamente infondate, come quelle tendenti ad avvalorare ipotesi di unificazione parziale dell’Italia abbandonando il Sud al suo destino’’. Ipotesi queste, ’’che non furono mai abbracciate da alcuna delle forze motrici e delle personalità rappresentative del movimento per l’unità’’. "Far rivivere nella memoria e nella coscienza del Paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità con cui nacque l’Italia serve a offrire una fonte di coesione sociale come base essenziale di ogni avanzamento, tanto del Nord quanto del Sud, in un sempre più arduo contesto mondiale".
Unità d’Italia, no a polemiche pregiudiziali.
Il presidente della Repubblica sottolinea con forza come i festeggiamenti per l’Unità d’Italia "non possono formare oggetto di polemica pregiudiziale da parte di nessuna forza politica. C’è spazio per tutti i punti di vista e per tutti i contributi. Solo così onoriamo i patrioti, gli eroi e i caduti dei mille che salparono da Genova in questo giorno il 5 maggio di 150 anni orsono". Patrioti che "erano in grande maggioranza lombardi, veneti, liguri", "italiani che si sentivano italiani e che accorrevano là dove altri italiani andavano sorretti nella lotta per liberarsi e ricongiungersi in un’Italia finalmente unificata".
Orgoglio nazionale per affrontare il futuro.
Napolitano sui luoghi dove fu conquistata l’unità d’Italia. Per rinfrescare la memoria e rafforzare la consapevolezza comune delle radici. "Celebrando il 150/o dell’Unità d’Italia guardiamo avanti, traendo dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quello che c’è da rinnovare nella società e nello Stato" dice il capo dello Stato. Ma bisogna "recuperare motivi di fierezza e di orgoglio nazionale, perché ne abbiamo bisogno. Ci è necessaria questa più matura consapevolezza storica comune anche per affrontare con la necessaria fiducia le sfide che ci attendono e già mettono alla prova il nostro Paese. Ci è necessaria per tenere con dignità il nostro posto in un mondo che è cambiato e che cambia".
In difesa di Garibaldi.
I mille erano guidati da un "condottiero" coraggioso e capace. A Giuseppe Garibaldi rende omaggio Giorgio Napolitano, per ripulire la sua figura da "grossolane denigrazioni". Il presidente ricorda le "capacità di attrazione e di guida", il "coraggio e la "perizia" del condottiero. Non a caso, prima della cerimonia Napolitano ha voluto recarsi allo scoglio di Quarto, dove la spedizione dei mille salpò. E il prossimo 11 maggio il presidente sarà in Sicilia, dapprima a Marsala, dove le camicie rosse sbarcarono, e poi ancora a Calatafimi.
* la Repubblica, 05 maggio 2010
Liberazione libertà e l’Italia di oggi
di Tobia Zevi (l’Unità, 29 aprile 2010)
Festa della «Libertà» e festa della «riunificazione». Con questi due termini il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica hanno rispettivamente definito il 25 aprile appena trascorso, introducendo un punto di vista innovativo nelle celebrazioni. Ciò potrebbe di per sé essere considerato positivo: il rischio di queste manifestazioni, infatti, è soprattutto quello di trasformarle in rituali ripetitivi, stanchi, poco sentiti dalle persone. Le due parole introducono concetti diversi, che meritano una riflessione.
Perché «libertà» e non «liberazione»? Come è già stato notato da alcuni osservatori l’idea della liberazione implica una transizione, un movimento, una contraddizione. Ci si libera da qualcuno. Esattamente ciò che è avvenuto in Italia tra 1943 e 1945: una guerra civile, una lotta per il riscatto nazionale, molto sangue versato anche da chi aveva ragione, cioè i partigiani liberatori d’Italia insieme agli Alleati. Perdere questa dimensione storica, temporale, sofferta della nostra uscita dal nazi-fascismo significa rinunciare a comprendere davvero il senso di ciò che accadde, sia per esaltarne le pagine eroiche sia per ricordare gli errori che furono commessi.
Quanto all’idea della riunificazione, mi pare che oggi sia questa la chiave che restituisce il senso profondo della giornata. «Riunificare l’Italia» non vuol dire solamente accorciare la distanza scandalosa tra Nord e Sud, né soltanto individuare una «memoria condivisa» quando si discute della storia italiana. «Riunificare l’Italia», oggi, significa ricomporre i pezzi di un puzzle che rischia una disgregazione irrimediabile. Come? Integrando in maniera seria, lungimirante e umana donne e uomini che ogni giorno arrivano nel nostro paesi spinti dalla povertà o dalla guerra.
Provando a garantire a tutti i medesimi diritti e le stesse tutele, riducendo le moltissime ingiustizie cui si assiste quotidianamente.
Evitando che lungo tutta la penisola proliferino localismi ed egoismi di ogni genere, tanto che tutti sono d’accordo nel costruire parcheggi, ferrovie e centrali elettriche, purché non lo si faccia nella propria provincia. Ricucendo il solco che si è creato tra le persone comuni, le istituzioni e la politica, che rende il nostro paese ostaggio di una sfiducia endemica. In quest’ottica l’idea della riunificazione può davvero essere una chiave moderna e attuale per celebrare la Liberazione.
Perché occorre continuare a ricordare e a studiare un momento fondamentale della nostra storia, ma farlo impegnandosi a migliorare l’aspetto dell’Italia di oggi. Per impedire ai soliti quattro scalmanati col fischietto di essere, loro, i protagonisti di una festa di tutti.
COSTITUZIONE, LINGUA, E PAROLA ...
di Gustavo Zagrebelsky ( la Repubblica, 25.04.2010)
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.
Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall’uso quotidiano - amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma - , dalla retorica politica - patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento - o dall’estraneità alla nostra diretta esperienza - torturare, fucilare, impiccare, tradire - tornano d’un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall’abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi - intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora - può pretendere l’autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare.
Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere. Conosciamo le condizioni del nostro Paese all’8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un’attutita percezione dell’originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall’incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l’aspirazione a un’Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l’idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un’elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d’Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima.
Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l’appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ’43-’45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l’irresistibilità dell’appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l’idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l’Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall’altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia».
Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell’ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l’adopera sarà un vile e un codardo».
Non risulta che l’accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l’alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un’interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un’esasperazione incompatibile con l’autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell’attesa dell’esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All’antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell’attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi - riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) - ve n’era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L’idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l’ignavia e l’opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d’esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d’un altro popolo, di uomini e donne, d’ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch’essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un’Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d’appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.
Il testo è parte dell’intervento che sarà letto stasera alle 21 all’Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile
Per un buon uso delle parole
di Annamaria Rivera (Missione Oggi, n. 4, aprile 2010)
Se, parafrasando Leopardi, si mutassero i detti e si cominciasse a chiamare le cose coi nomi loro, forse si potrebbe contrastare con più efficacia il razzismo dilagante. V’è però che il cattivo linguaggio oppure "solo" tendenzioso è parte del problema. I lessici deformanti, le retoriche e le rappresentazioni negative degli altri o la propensione a mascherare "il male" dietro gli eufemismi sono, infatti, al tempo stesso una delle cause e uno degli effetti di quel sistema complesso e multidimensionale che chiamiamo razzismo: un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche e sociali, di solito caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.
Dunque, per contrastare il razzismo è utile, benché non sufficiente, decostruire e smascherare le parole e le retoriche di cui esso si serve o che inventa, avalla o afferma come se fossero verità indiscutibili.
PER UN’ECOLOGIA DELLE PAROLE
Come scriveva Etienne Balibar nel lontano 19882, la distruzione del sistema-razzismo presuppone tanto la rivolta delle sue vittime quanto la trasformazione dei razzisti stessi, "e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo". Anche se da sola è insufficiente, l’opera di "ecologia delle parole" rappresenta uno dei mezzi, se non per decomporla, almeno per intaccare la compattezza della comunità razzista, e per provare così a metterla in crisi.
Per non rimanere nell’astrazione, conviene fare riferimento alla situazione specifica del nostro paese, caratterizzata, a mio parere, da un razzismo istituzionale tanto estremo e incalzante da alimentare, per il tramite decisivo dei mezzi di comunicazione di massa, forme diffuse di xenofobia popolare. Corollario e nel contempo agente di questo processo è il progressivo scadimento del linguaggio pubblico, che ormai sembra sottratto a ogni freno inibitorio.
Ciò che fino a un ventennio addietro era considerato pubblicamente indicibile oggi è del tutto ammesso. Per meglio dire, la caduta dell’interdetto fa sì che neppure ci si interroghi sulla sua dicibilità: pochi si scandalizzano se qualcuno, per fare un esempio fra i tanti, osa affermare in pubblico che i topi "sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli".
QUANDO SI DICE "BUONISMO" "CPT" E "SICUREZZA"
Ma non v’è solo il consueto fraseggio leghista denigratorio e grossolano, né solo il lessico usuale del disprezzo (assunto perfino dal linguaggio normativo e burocratico) che, come fosse del tutto ovvio, nomina i/le migranti con appellativi stigmatizzanti, inferiorizzanti e de-umanizzanti: "clandestini", "extracomunitari", "badanti", "vu cumprà" o addirittura "vu lavà". V’è anche un gergo del senso comune razzista in apparenza innocente, che usa vocaboli connotati ideologicamente come fossero neutri. Si pensi al neologismo buonismo (e buonista), con il quale si è soliti bollare le politiche inclusive ed egualitarie e i discorsi solidali e umanitari nei confronti dei migranti e delle minoranze.
È un termine che appartiene alla stessa famiglia semantica di pietista, a suo tempo usato come un’accusa contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere, proteggere, aiutare i loro concittadini ebrei.
Quando poi si tratta di mascherare la gravità di misure contro i migranti, si abbonda in eufemismi ingannevoli: per tutti si può citare l’ormai sorpassato ossimoro verecondo "Centri di permanenza temporanea", al quale coloro che non conoscono pudore né interdetti, o che amano sfidarli, hanno di recente preferito il ben più esplicito "Centri di identificazione e di espulsione" (che fra breve potrebbero decidere di sostituire col più sbrigativo lager). E si consideri il ricorso sempre più frequente, quasi ossessivo, a "sicurezza", anch’esso usato a minimizzare la portata di norme emergenziali, anticostituzionali o apertamente razziste come il recente "pacchetto-sicurezza".
"POGROM" E "RAZZISMO": ESAGERAZIONI VERBALI?
Per contro, nominare il male, questo sì è considerato scandaloso: coloro che non temono gli interdetti e che abitualmente ripropongono dicerie, pregiudizi, lessici denigratori richiamano al rigore e alla correttezza verbale chi osa nominare col loro nome le cose del razzismo.
Per esempio, v’è, anche fra i colti, chi obietta che razzismo e pogrom non sono altro che esagerazioni verbali di tipo isterico: che pogrom è quello che non ha come esito il massacro e che razzismo è quello che non contempla esplicite gerarchie razziali, apartheid e soluzione finale? E poi si sa, affermano di solito costoro, a evocare certi fantasmi si rischia di dar loro corpo. "Calunniare come oscurantista chi si ribella contro l’oscurità"’ è una delle strategie retoriche per occultare il male, con ciò perpetuandolo.
Si dirà che queste considerazioni sono secondarie rispetto alla realtà corposa della discriminazione e del razzismo. Eppure è su una montagna fatta anche di cattive parole e di pessime retoriche che si è sedimentato - e riprodotto e legittimato - il razzismo quale oggi si manifesta in Italia.
Non comprenderemmo pogrom come quelli di Ponticelli (con la cacciata dell’intera popolazione rom della zona a sassaiole e insulti) e di Rosarno (con messa in fuga o la deportazione, decisa dalle istituzioni, di tutti i braccianti africani) se non dessimo importanza anche alle parole che li hanno resi possibili: le dicerie - la leggenda della zingara rapitrice che ha scatenato la furia popolare a Ponticelli - e gli insulti razzisti - "questi sono bestie", si è sentito dire a Rosarno da comuni cittadini - non sono secondari poiché fanno parte del meccanismo che dà avvio al pogrom.
Per inceppare e disarticolare la meccanica razzista è d’obbligo cominciare a chiamare le cose coi loro nomi. Per fermarla è necessario che i discriminati, inferiorizzati, perfino deumanizzati si facciano artefici collettivi della propria liberazione e quindi della dissoluzione della comunità razzista.
La lingua usata come un randello
di Francesco Merlo (la Repubblica, 24 aprile 2010)
Il sashimi a Verona lo venderanno sotto il nome di pesse cruo, il kebab a Napoli sarà o piecoro fatto a felle e la bottega di sushi, in italiano ‘involtino di riso e pesce’, a Palermo diventerà sfinciuni. L’italiano che la Lega sta inventando, a colpi di emendamenti come quello proposto ieri sulla lingua del commercio, è uno sproposito.
La parodia della famosa e già ridicola purificazione fascista, quando al posto di bar fu imposto mescita, i magazzini Standard divennero Standa, il film era la pellicola e un artista di nome Rachel dovette cambiarsi in Rascel (resistendo a Starace che voleva imporgli addirittura Rascele disse: «forse che Manin diventerà Manino?»)
Davvero non ci danno pace i creativi leghisti. Vogliono dunque abolire le insegne in lingue extracomunitarie, tradurle in italiano coltivando l’illusione violenta e impossibile di oscurare i cartelli per strozzare le culture di riferimento, non vedere più le tracce dei cinesi, dei tailandesi e dei musulmani come primo passo verso la loro abolizione, vessarli intanto con il manganello della lingua italiana o peggio ancora del dialetto locale perché la differenza con il fascismo è che alla nazione è stato sostituito il paese, all’Impero il Condominio, alla Lupa di Roma il Pitu (tacchino) di Scurzolengo, al salto nel cerchio di fuoco la gara dei birilli delle donne cuneesi e all’olio di ricino il nativismo e il folklore bergamasco.
Di sicuro l’emendamento proposto ieri è la fotocopia di quel decreto del 1938 che puniva «con una multa da cinquecento a cinquemila lire quei negozianti che vendono prodotti con marchi e diciture straniere». Erano i tempi in cui era obbligatorio darsi del voi e persino la rivista ‘Lei’ dovette cambiare la testata in Annabella («forse Galilei deve diventare Galivoi?» scrisse il giornalista - fascista - Paolo Monelli). Allo stesso modo i leghisti vogliono purificare la lingua non dagli anglismi della perfida Albione e dai francesismi incipriati ma dalle influenze arabe e dunque, se studiassero un po’, cancellerebbero un terzo del nostro vocabolario: niente più algebra e moka per esempio, e niente più arancia e ammiraglio, via pistacchio aguzzino zucchero e azzurro e basta persino con lo zafferano del risòtt; aboliremo Caltanissetta e bisognerà riscrivere la toponomastica e l’onomastica, dovremo rivedere la geografia e la storia oltre che la gastronomia.
Già il votatissimo Luca Zaia, quando era ministro dell’Agricoltura, spiegò a un allibito giornalista del Guardian che l’Italia, non solo per alimentare il consumo e la produzione interna, voleva e doveva tornare alla tavola italiana e che nelle cucine leghiste era già stato preparato il kebab «tutto italiano» negli ingredienti e anche nel nome: muntun afetà.
Ma c’è poco da ridere se si pensa alla trasversalità di questa sottocultura fascio-leghista che lambisce e intride la nostalgia alimentare della sinistra, la quale scopre sia la presunta raffinatezza della cucina dozzinale e sia la necessità del dialetto meneghino, il formaggio con le pere e il mugugno del villaggio brianzolo contro la dialettica dei dialetti e dei cibi imperiali: americano, arabo, cinese, russo, indiano, turco-ottomano.
Anche l’idea di sottoporre a un esame di lingua italiana i commercianti extracomunitari, che a prima vista sembra un pochino più sensata ed è certamente meno ridicola, in realtà finisce con l’essere un’altra tracimazione rancorosa, un’altra delle volgarità gratuite che stanno sapientemente avvelenando il paese. A Tonco di Asti e a Rho è più importante che sappiano usare il congiuntivo i commercianti extracomunitari di magliette o i compratori locali di magliette, quelli che le vendono o quelli che le indossano?
Non ci piace fare il solito spirito sui Bossi, padre e figlio, e sui leghisti che umiliano la lingua italiana pur facendo mestieri più significativi e ben più prestigiosi come il ministro e il consigliere regionale. Ma colpisce che impongano la conoscenza dell’italiano agli stessi extracomunitari che pretendono di tenere lontani dalle nostre scuole sempre più orientate verso un modello regionale e xenofobo.
La scuola della Gelmini vuole contingentare gli stranieri, cacciare i professori terroni dal Nord, sottoporre tutti gli insegnanti all’esame di meneghino, di vicentino e di torinese, con l’obiettivo - l’abbiamo già detto altre volte - di avere una scuola "parteno-siculo-borbonica", un’altra "brianzola-austriacante" e un’altra ancora "papalina-tiberina". I soli a dovere imparare l’italiano sono dunque i "vvu cumpra’" che chiedono la licenza di vendere braccialetti, cinturini d’orologio e cibi etnici. Li mettessero davvero in condizioni di imparare la lingua invece di imporre un esame vessatorio come fosse un anello al naso!
L’arroganza linguistica ha sempre alimentato l’odio. C’è, per esempio, un rapporto tra le foibe e l’imposizione fascista dell’italiano in Istria. La lingua e dialetti, che sono ricchezza, possono anche diventare randelli e arcaiche violenze, fetori che appestano le comunità internazionali, ammorbano il mondo che va avanti a contaminazioni e meticciati.
Irritazione al Colle per le affermazioni fatte dal premier al forum di Confindustria a Parma
Il Cavaliere contro la Consulta, "l’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria"
Berlusconi critica Napolitano
"Controlla anche gli aggettivi"
dal nostro inviato FRANCESCO BEI *
PARMA - Parla con una mano in tasca. Davanti a questi imprenditori, che si spellano le mani a ogni sua battuta, si sente a casa. Chiama la Marcegaglia "la nostra Emma", la Confindustria diventa "la nostra associazione". Che, come un postino, potrebbe anche fargli il favore di distribuire "a tutti i colleghi imprenditori" il libro blu con le "tantissime realizzazioni del governo del fare, che solo a leggerle tutte ci si annoia". Rifiuta la "teoria del declino" italiano e annuncia "riforme in tutte le direzioni", compreso ovviamente il presidenzialismo con il rafforzamento dell’Esecutivo che "oggi non ha nessun potere". Una sottolineatura che lo manda in fuorigioco rispetto al Quirinale, visto che Berlusconi, lamentandosi dei suoi scarsi poteri, ricorda come "ogni provvedimento che esce dal Consiglio dei ministri debba poi essere sottoposto al presidente della Repubblica e al suo staff, che controlla minuziosamente anche gli aggettivi". Una frase che, a detta degli uomini del Cavaliere, non andrebbe intesa contro Napolitano, con il quale anzi "i rapporti sono eccellenti".
Ma che al Colle non è piaciuta affatto: "Non è la prima volta che lo dice e non sarà l’ultima. Certo, stupisce il momento".
La novità è che il premier spedisce in fondo alla lista delle cose da fare la riforma della Costituzione, mettendo in vetrina la riforma fiscale. La riforma istituzionale, annuncia infatti dal palco, "non so se sarà la prima in ordine di tempo, forse la posticiperemo alle altre. Non è un grave problema". Quanto al ministro Calderoli, che ha già portato al Quirinale la sua bozza, Berlusconi gli tira le orecchie: "Calderoli "piè veloce" ha voluto usare la cortesia al presidente della Repubblica di portargli una prima bozza di cui aveva sommariamente discusso con me, ma state sereni, di questa riforma della Costituzione discuteremo in tante sedi. Ci metteremo tutto il buon senso necessario, con l’apertura più totale ad ascoltare tutte le voci".
Promesse agli industriali ne fa poche, si ferma ai titoli. "La vostra richiesta di riforme - assicura - trova la nostra più assoluta condivisione. Dobbiamo liberare i cittadini e le imprese dall’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria". E’ ancora e sempre la giustizia il chiodo fisso ed è ai giudici e alla Corte costituzionale che riserva le stoccate più dure. La Consulta, "essendo frutto di tre successivi presidenti della Repubblica di area di sinistra è fatta da undici membri di sinistra e da quattro Ladi centrodestra". La "patologia della nostra democrazia" è dunque una Corte che "è diventata organo politico anziché organo di garanzia", visto che "abroga le leggi che non piacciono ai pm di Magistratura Democratica". Insiste sulla separazione delle carriere e torna a difendersi: "Continuano a processarmi solo per mantenere l’avversario politico sulla griglia mediatica". Si definisce "il più grande imputato della storia dell’Universo" e promette una rapida approvazione del giro di vite sulle intercettazioni. "Alzi la mano chi di voi teme di essere spiato al telefono", grida nel microfono. E tutta la platea, come ai comizi del Pdl, alza la mano. Attacca anche Santoro, definendo "inaccettabile che si facciano processi sulla tv pagata da tutti". Quindi rivendica le telefonate fatte per bloccare Annozero, anzi "vorrei che fossero tutte pubblicate".
C’è poco spazio le richieste degli imprenditori. Berlusconi loda a piene mani il "rigore" del ministro dell’Economia. "Al signor Tremonti chapeau! Potevamo finire come la Grecia, invece è riuscito a tenere in ordine i conti pubblici". La riforma fiscale si farà, ma con calma: "Ci vorranno almeno tre anni di tempo, anche se spero non servano tutti". Lo applaudono 20 volte in 50 minuti. Poi pranzo con la Marcegaglia e bagno di folla in centro, a piazza Garibaldi.
* © la Repubblica, 11 aprile 2010
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 15 marzo 2010)
Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa.
È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole.
Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo.
Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise.
Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco - il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole - si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere.
Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese.
Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge.
Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati.
Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto.
Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto - scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis - cesserà insieme con la barbarie».
I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere.
Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà.
Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano - in forme abnormi - piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri.
Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
In Rete la lettera ai vertici di stampa e televisione pubblica per protestare contro il servizio
del telegiornale di Minzolini in cui si definiva "assoluzione" la prescrizione per il legale inglese
"Dal Tg1 notizie false sul caso Mills"
appello a Rai e Ordine da migliaia di cittadini
di CARMINE SAVIANO
ROMA - Il Tg1 di Augusto Minzolini ha dato notizie false sul caso Mills. E l’Ordine dei giornalisti e la Rai dovrebbero reagire in modo esemplare. E’ quello che affermano e chiedono più di 5mila cittadini, che nelle ultime ore hanno sottoscritto un appello indirizzato a Lorenzo Del Boca, presidente dell’Odg, e Paolo Garimberti, presidente della Rai. Oggetto: segnalazione di una grave violazione della deontologia professionale. "Non si tratta di destra e sinistra, Minzolini ha il diritto di esprimere le proprie opinioni", scrive Arianna Ciccone, prima firmataria della lettera. Ma nell’edizione delle 13 e 30 del Tg1 del 26 febbraio "è stata data una notizia falsa". David Mills non è stato assolto, come per ben due volte è stato ripetuto al Tg1. Ma ha commesso un reato che è stato prescritto.
L’appello è subito girato in rete. Con tanto di video per documentare il tutto. E la lettera è stata già firmata da migliaia di persone. Su Facebook nasce un gruppo intitolato alla "dignità dei giornalisti e al il rispetto dei cittadini". Il volto di Enzo Biagi viene scelto come avatar. In bacheca già decine gli interventi. C’è chi chiede se esista "una legge che vieta di dare notizie false", e chi si propone, in ogni modo, di "diffondere l’esistenza dell’appello". In molti sono indignati e minacciano di non guardare più il Tg1. E c’è chi si lancia in analisi del nesso tra il potere di Berlusconi e la disinformazione crescente.
All’interno dell’appello è riportato un brano di un articolo di Michele Serra: "Per un giornalista manomettere la verità è un crimine, tal quale per un fornaio sputare nel pane che vende. Qui non si tratta di opinioni, di interpretazioni, di passione politica. E’ proprio una frode, una lurida frode che non descrive più l’aspra dialettica di un paese spaccato, descrive qualcosa di molto peggiore: l’impunità conclamata di chi mente con dolo, con metodo, con intenzione, sicuro di non doverne rispondere ad alcuno (all’Ordine dei giornalisti? è più realistico sperare che intervenga Batman)".
E proprio questa riflessione ha dato il via all’appello di Arianna Ciccone. Che chiede oltre all’intervento dell’Ordine dei giornalisti anche le scuse e la rettifica da parte del Tg1 e della Rai. Nel testo dell’appello, infatti, si legge: "Ecco caro presidente Del Boca io come cittadina mi aspetto da parte dell’Ordine un provvedimento nei confronti di quel giornalista che ha palesemente violato il principio deontologico per eccellenza: raccontare la verità. E mi aspetto, caro presidente Garimberti, e caro direttore Minzolini, le scuse del Tg1 e la rettifica". Online è già scattata una gara di solidarietà. Il link dell’appello si sta diffondendo rapidamente. Ora gli organizzatori stanno pensando di andare a consegnare le firme a mano martedì.
© la Repubblica, 28 febbraio 2010
Dopo la frase sui pm "talebani", lettera del presidente della Repubblica a Mancino
Il vicepresidente del Csm: "E’ necessario impegnarsi in un confronto civile e rispettoso"
Giustizia, Napolitano al premier:
"Basta polemiche e accuse pesanti"
Bersani contro Berlusconi: "Sui giudici ormai sragiona"
L’Idv: "Non possiamo accettare che i magistrati siano offesi. Siamo al golpe" *
ROMA - Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito "talebani", il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate "in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato". Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come "il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese". Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier "frasi inaccettabili".
La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il "vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse".
"Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento - sottolinea napolitano - da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare".
"Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati - conclude il Capo dello Stato - che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione".
La risposta di Mancino. "Non nasconde il Capo dello Stato - sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano - il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti"
Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. "Penso - ha detto - quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili". "Dire che ormai ci siamo abituati, no - ha aggiunto Bersani - perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati". "E questa - ha ripetuto il segretario Pd - è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni". Bersani ha ricordato che "c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri".
Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. "Non possiamo accettare - dice - che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe". "Siamo al golpe - avverte il portavoce di Idv - ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ’ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti".
* la Repubblica, 27 febbraio 2010
Il marketing del Cavaliere e il bipolarismo della xenofobia
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 31 gennaio 2010)
Il premier Silvio Berlusconi nei giorni scorsi ha sostenuto l’equazione: + immigrati = + criminalità. E ha ribadito il proposito di agire in modo coerente e conseguente. Ridurre gli immigrati per abbassare il numero dei reati e dei criminali. Altre fonti autorevoli hanno contestato la fondatezza di questa relazione.
A partire dalle statistiche sui reati. (Trascurando, peraltro, che il tasso di criminalità cresce insieme al grado di marginalità sociale. I ricchi non rubano per strada o nelle case. E finiscono in carcere molto più raramente dei poveracci). A noi interessano, invece, le ragioni di questa affermazione.
Proprio in Calabria, proprio alla presentazione del piano antimafia. Più logico sarebbe stato un riferimento ai fatti di Rosarno, al ruolo delle organizzazioni criminali e della ‘ndrangheta nel mercato e nello sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Rivendicando a sé e al governo i successi conseguiti nella lotta alle mafie nell’ultimo anno. Invece no. Piuttosto che alle organizzazioni criminali ha preferito rivolgersi alla criminalità comune, sottolinearne il legame con gli immigrati. Silvio Berlusconi non è un "radical-choc". Raramente indulge alle battute di "bassa lega". Non gli riescono bene come gli attacchi ai magistrati o a "certa stampa" che avvelena le coscienze. Però gli capita. Ogni tanto. E mai a caso. Perché la scelta dei temi e delle parole, nella comunicazione di Berlusconi, non avviene mai a caso. Mai. D’altronde, i precedenti sono, al proposito, pochi e facili da ricordare. Lo scorso maggio affermò che non è possibile spalancare le porte a tutto il mondo. Che "l’Italia non sarà mai un paese multietnico". Annuncio un po’ tardivo, visto che ci vivono ormai 4 milioni e mezzo di stranieri (Rapporto Caritas-Migrantes 2009). Ma, appunto, è "l’annuncio" che conta. E, poi, il 4 giugno: "In alcune città italiane, come Milano, a camminare per il centro, vedendo il numero di cittadini stranieri, sembra di essere in una città africana". Perché a Parigi, Londra oppure a New York, nelle altre metropoli globali, evidentemente, è diverso. Tutti rigorosamente bianchi. Ma Silvio Berlusconi non è un radical-choc. Se maneggia la xenofobia non lo fa per convinzione ma per opportunità. Per marketing. Un tema fra gli altri. Come il calcio, il dolore, lo sport, le donne. Basta far caso ai momenti. Le frasi appena ricordate risalgono, infatti, alla campagna elettorale delle ultime europee.
Nell’ultimo caso, il 4 giugno, al comizio conclusivo tenuto a Milano insieme a Bossi. Anche oggi siamo in piena campagna elettorale. E se il nemico, per Berlusconi, è il Pd, insieme all’UdC, l’avversario è la Lega. A cui ha ceduto la candidatura alla presidenza di due regioni importanti: il Piemonte e il Veneto (un’enclave). La Lega: alleata necessaria eppure scomoda per un partito, il PdL, che ha una base elettorale estesa nel Mezzogiorno. Ed esprime orientamenti molto diversi dai leghisti. La criminalità, ad esempio, non è tutta uguale agli occhi degli elettori.
La criminalità "comune": preoccupa molto gli elettori di centrodestra. Meno quelli di centrosinistra, più reattivi nei confronti della criminalità "organizzata". Vediamo i dati dell’ultima indagine di Demos-Unipolis (novembre 2009). La criminalità "comune" è considerata più grave di quella "organizzata" dal 19% degli elettori del Pd e dal 16% tra quelli dell’IdV. Fra gli elettori del PdL questo sentimento è espresso da una componente doppia: 35%; e di quasi tre volte superiore fra quelli della Lega: 50%. Simmetrico e complementare l’orientamento rispetto alla criminalità organizzata. La considera più grave di quella comune il 76% degli elettori nel Pd e nell’IdV, ma il 58% nel PdL e il 49% dei leghisti (che lo ritengono, a torto, un problema che non tocca il "loro" mondo, ma il Sud). Lo stesso profilo caratterizza l’atteggiamento verso gli immigrati. Li ritengono un pericolo per la sicurezza o per il lavoro: il 30% tra gli elettori del Pd, il 39% dell’IdV, il 62% del PdL e il 66% della Lega. In questo bipolarismo della xenofobia, gli elettori dell’UdC si pongono in posizione intermedia. A metà strada fra sinistra e destra.
In Italia, dunque, la paura della criminalità è diffusa, come quella nei confronti degli immigrati. Perlopiù, le due paure vanno insieme e contagiano tutti i contesti e tutti gli elettorati. Ma alcuni in modo diverso e maggiore rispetto agli altri. Negli ultimi anni, queste paure si sono allentate. In particolare dopo le elezioni politiche del 2008, che hanno sancito il successo chiaro e netto del centrodestra. Ciò ha reso la paura degli altri meno utile, politicamente - e meno interessante per i media.
Ma oggi siamo di nuovo in campagna elettorale. Alla vigilia delle regionali, che riscriveranno i rapporti fra gli schieramenti, ma anche al loro interno. Per cui la paura torna ad essere un buon tema di marketing politico. Gli scontri di Rosarno evocano la rivolta degli stranieri contro la ’ndrangheta calabrese. Sono stati rappresentati associando immigrazione, sfruttamento, criminalità organizzata, Mezzogiorno. Tutti insieme, in un campo di significati unitario. Che disturba soprattutto il PdL. Mentre piace alla Lega e non dispiace al centrosinistra. Da ciò la preoccupazione del premier: sottolineare il legame fra immigrazione e criminalità "comune", evocando, insieme, l’invasione degli stranieri. Temi che incontrano il favore degli elettori di centrodestra, soprattutto nel Nord. Mentre il tema della criminalità "organizzata" resta sullo sfondo.
Nonostante i risultati ottenuti dal governo su questo fronte. Per non sottolineare di più i meriti del ministro Maroni (e della Lega). Per non turbare troppo la sensibilità degli elettori del PdL, disturbati dalle voci e dalle inchieste che ne hanno coinvolto leader nazionali e locali.
Così vanno le cose in questo paese. Dove tutto è valutato in base all’impatto politico mediatico. A partire dalle parole. Negri o terroni; rom, romeni o romani; trans o escort; criminali comuni o mafiosi. È solo questione di voti e di share.
Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
la sua bellezza è nella continua evoluzione
Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne
di STEFANO BARTEZZAGHI *
C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").
Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.
Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.
La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.
© la Repubblica, 18 gennaio 2010
PAROLE COME PIETRE
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo
della storia si è avventurato a dire con aria grave:
«Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo
gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare
sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di
latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non
“vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è
che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente
da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura
etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo
“verecundia”, un sostantivo latino tratto da
“vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
L’italiano dell’Ottocento e dei migranti *
◆ La lingua italiana prima dell’Unità fino a quella parlata dai « nuovi cittadini » , i migranti nel Belpaese attuale. Si intitola « Bella e perduta » la tre giorni di convegno promossa dalla Società Dante Alighieri che si apre oggi a Roma, nella sede di Palazzo Firenze, con cui si metterà a fuoco il tema « L’Italia del Risorgimento: dall’italiano dello Stato preunitario alla lingua dei migranti » . I lavori si aprono alle ore 17 con la presentazione del libro « Bella e perduta » ( Feltrinelli) dello storico Lucio Villari, con gli interventi di Bruno Bottai, Giorgio La Malfa e Giuseppe Parlato. Venerdì verrà conferito il Premio « Dante Alighieri » al presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ai lavori prenderanno la parola, tra gli altri, Tullio De Mauro, Alessandro Masi, Antonio Maccanico, Walter Mauro.
* Avvenire, 16.12.2009.
PAROLA POLITICA E PAROLACCE
di don Aldo Antonelli
Un ministro, semplice manovale d’azienda, dipendente di Berlusconi prima e più che ministro della repubblica, oltre a sfarfagliare sulla filosofia d’azienda, mentisce spudoratamente anche sui fatti. O non sa, il che è grave o sapendo mentisce, il che è ancora più grave. Ieri sera, con una faccia da bronzo da far invidia al peggiore dei bulli di quartiere, Alfano ha ripetuto il ritornello che Berlusconi stesso ama ripetere con ossessione cercando di convincere perfino se stesso: "Tutti i suoi guai giudiziari sono iniziati con la sua discesa in campo"! Falso, falso e falso.
Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l’accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993, un anno prima della sua prima candidatura al governo, la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992) , tutti controlli che precedono l’avventura politica dell’Egoarca.
Di fronte a questo diluvio a cascata di menzogne il cardinal Bertone, da parte sua, trova scandaloso che qualcuno dica "parolacce". Per la sua morale la parolaccia è più grave della menzogna; ho l’impressione che sia rimasto un bambino mai cresciuto. Ciò che lo preoccupa è la politica di facciata e non il vuoto della politica e ancor meno la politica asservita agli interessi aziendali e personali dell’Egoarca. Lo preoccupano le parole scorrette che offendono il galateo e non le parole mendaci che stravolgono e imprigionano le coscienze e ancor meno le leggi ad personam che istituzionalizzano e consacrano ruberie, falsi in bilancio e abusi di potere.
Qui ritorna anche il discorso sulle parole, meglio, sulla parola, ma ad un altro e ben più alto livello. La filosofa spagnola Maria Zambrano ha analizzato bene il legame profondo che c’è tra la parola e la politica, così che una parola degradata e vuota produce una politica fatta di menzogna e di violenza. Marco Campedelli, sul notiziario della rete Radié Resh ("In Dialogo" - settembre 2009), si chiede perché la parola sia fonte sorgiva per la politica e risponde: «Per il fatto che la parola nella sua costituzione essenziale è parola dialogica, parola come relazione, e dunque parola che crea la polis, la città degli uomini».
Prosegue: «Una politica inumana, disumana, nasce da una parola che ha perso il senso, una parola la cui dimora è stata abbandonata dalla vita. E’ allarmante come nel nostro Paese una massa di persone siano attratti e affascinati da "Signori nessuno" che infilano una dopo l’altra come perle in una collana, parole piatte, vuote e più drammaticamente parole violente e disumane. Pensiamo come il nostro Nord-Est sia la patria della Lega. Se noi analizzassimo il linguaggio della Lega capiremmo che il rapporto tra parola e violenza, tra parola ed esclusione, tra parola e discriminazione è all’origine di un modo nuovo di "pensare" dove la parola caccia dalla sua dimora il "Tu" e vi pone al centro il trono grottesco dell’"Io"».
Se il cardinal Bertone avesse parlato, per esempio, in questi termini, avrebbe dato prova di esser cresciuto e avrebbe dato testimonianza di una Chiesa che è chiamata dal vangelo a pronunciare parole di senso, parole di vita, parole di profezia. Smettendo i panni del bandidore di moralismi vuoti e di parole banali.
Aldo Antonelli
Il pensiero liberale e il potere berlusconiano
di Massimo L. Salvadori (la Repubblica, 11.11.2009)
Fin dagli albori del pensiero politico occidentale la riflessione sulla natura del potere ha ruotato intorno alle distinzioni relative a che questo sia detenuto da uno o da pochi o dai molti, abbia un carattere immoderato o moderato, sia concentrato al punto da divenire al limite dispotico oppure articolato e soggetto a controlli e contrappesi. E tutte le forme di governo si sono divise in assolutistiche e in variamente antiassolutistiche. Orbene, la specificità delle prime, nelle loro versioni tanto antiche quanto moderne, è di rendere impossibile ogni balance of power all’interno della macchina di governo e di tendere a impedire qualsiasi opposizione.
La nascita del liberalismo è legata insieme agli eventi che nell’Inghilterra del Seicento posero fine alla monarchia assoluta e al pensiero dei due massimi maestri delle teorie antiassolutistiche, Locke e Montesquieu: l’uno affermò che i regimi liberi poggiano sulle istituzioni rappresentative, sulla piena espressione delle libertà politiche e civili e sul primato del potere legislativo su quello esecutivo; l’altro che la difesa della libertà poggia sulla divisione e sull’equilibrio dei poteri ponendo ad architrave il principio secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere».
Toccò ad una nuova generazione di pensatori liberali, ai Constant, Tocqueville, John Stuart Mill, levare l’allarme sul fatto che l’attacco all’equilibrio dei poteri poteva venire non soltanto dal vecchio assolutismo, ma anche vuoi da democrazie in cui la maggioranza invoca il diritto di restringere o annullare con un approccio illiberale i diritti delle minoranze, vuoi da leader che, avvoltisi nella bandiera della popolarità, usano degli strumenti offerti dalla democrazia per realizzare una sempre maggiore concentrazione di poteri fino ad esiti autoritari. La prima degenerazione dava luogo alla «tirannide della maggioranza», la seconda al neocesarismo.
Tocqueville e Mill e in seguito Max Weber indagarono poi su un’altra componente del moderno assolutismo: quella derivante dal sommarsi del potere economico, politico e ideologico. Fu Weber a parlare in proposito del costituirsi in un simile caso di una «gabbia d’acciaio» da cui le libertà degli individui e dei gruppi sarebbero risultate sempre più soffocate. Egli, al pari di Tocqueville e Mill, aveva legato il sorgere della gabbia d’acciaio anzitutto all’avvento al potere di una dittatura socialistica collettivistica e statolatrica, ma al tempo stesso sottolineato con forza che essa poteva ben venire anche dal versante opposto, ovvero dalla plutocrazia.
Siffatta premessa non vuole essere un astratto excursus dottrinario, ma un richiamo alle categorie di giudizio che consentono di concretamente ragionare sul processo in atto da noi. È di non molto tempo fa l’articolo di un noto giornalista in cui si sosteneva che in Italia non si dà un «regime», perché vi sono pur sempre il Parlamento, il pluralismo politico, dell’informazione, ecc.
Due osservazioni al riguardo. La prima concerne un uso improprio del linguaggio, che è andato diffondendosi, per cui il termine regime viene reso sinonimo di sistema autoritario o addirittura di dittatura, laddove esso è di per sé neutro e non altro significa se non forma di governo, ordinamento politico, il quale per qualificarsi richiede aggettivi come autoritario, liberale, democratico, dittatoriale, e via dicendo. La seconda riguarda la sostanza di ciò che implica il concludere che, se in Italia non vi è un "regime" (inteso secondo la prima deformante accezione), allora la democrazia resta viva e vegeta.
Si tratta in questo caso di un aut aut concettuale rigido, che preclude la comprensione di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, dove si fanno ogni giorno più evidenti le molteplici pericolose restrizioni che la strategia del presidente del Consiglio ha già imposto e intende ulteriormente imporre al nostro sistema politico e istituzionale; il quale, se non ha i tratti di un regime organicamente autoritario, presenta però quelli di una democrazia minacciata proprio nei suoi fondamenti liberali da chi in maniera assordante pure pretende di essere il corifeo e il difensore dei valori e dei principi liberali.
Ebbene, usiamo le categorie fornite dai classici del pensiero liberale per ragionare sulla natura del potere berlusconiano. Esse ci dicono che le istituzioni liberali entrano in zona rossa quando si determina una concentrazione del potere politico ed economico; quando la formazione di un’opinione pubblica consapevole e autonoma viene limitata e pesantemente condizionata da un dilagante controllo dei mezzi di informazione; quando un potere dello Stato entra in conflitto permanente con un altro potere; quando la maggioranza parlamentare mira a costituirsi in rappresentanza monopolistica della volontà popolare. E, usando queste categorie, possiamo comprendere ciò a cui siamo di fronte.
Berlusconi come singolo assomma un’imponente quota del potere economico, politico e dell’informazione; una simile abnorme attribuzione di poteri, in costante crescendo e che non ha riscontri in nessun altro paese occidentale, poggia su una maggioranza parlamentare che guarda ai problemi del paese costantemente preoccupata di tutelare gli interessi personali di varia natura del capo del governo; questi si serve delle proprie televisioni private, dei quotidiani e periodici che a lui rispondono, della parte delle reti televisive pubbliche su cui è in grado di imprimere il proprio marchio per via politica, al fine di condurre campagne scandalistiche contro politici, magistrati, esponenti delle istituzioni, giornali e giornalisti «nemici»: si pensi solo ai più recenti casi dell’ex direttore dell’Avvenire, del giudice Misiano e di Corrado Augias.
Abbiamo a che fare non con un sistema in cui potere frena potere, ma con un accumulo di poteri di stampo illiberale il quale altera gli equilibri; con una deriva di tipo plebiscitario che punta in maniera ormai sistematica alla delegittimazione del potere giudiziario, della Corte costituzionale, del ruolo di garanzia rappresentato dal Presidente della Repubblica; con la teoria che l’unico potere ad essere legittimato è quello del capo del potere esecutivo in quanto il solo espressione diretta della vox populi: un potere che ora mira apertamente a cambiare la Costituzione così da acquisire il completo primato. Locke, Montesquieu, Mill, Weber: tutti messi in soffitta.
Il paese si trova in un momento storico decisivo. La maggioranza parlamentare è chiamata a fare la conta di quanti non siano disposti a seguire Berlusconi nell’avventura finale in cui egli la trascina, l’opposizione a dar prova di quale pasta sia fatta, l’intero popolo a mostrare ai confratelli popoli d’Europa se intende continuare a soggiacere a uno stato di cose che, se ancora non lo ha chiuso nella weberiana gabbia d’acciaio, certo lo fa già vivere in una condizione che evidenzia una vera e propria immaturità politica e civile.
Norma e diritto, da Platone a Brecht
Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un’idea astratta che governa ma il rifiuto dell’ingiustizia
La Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 10.11.2009)
"Che cosa è la legge?" - chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt’altro che soddisfacente.
Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge - di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E’ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo - sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale - alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all’argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l’autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente.
Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità - lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall’altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge - intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti - è lungi dall’esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall’antico diritto alla moderna legge - di cui l’Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità - costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata.
Anche quando, nei primi secoli della modernità, l’equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell’origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all’esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente.
Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D’altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l’ha consegnata all’inferno. L’unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un’idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ingiustizia palese.
Qui l’autore torna a riproporre l’antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi - dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura - valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l’integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni.
Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht - ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all’interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell’insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l’orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d’incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall’intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall’altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.
Le parole per battere la mafia
L’intervento agli stati generali di Libera: è il momento di dire quello che conosciamo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,26/10/2009
Da anni ci interroghiamo su questo male che non viene estirpato, la mafia: in particolare sulla lunga storia di trattative fra una parte dello Stato e la malavita, con poteri occulti che mediano fra due potenze facendone entità paragonabili. Anche per il potere della malavita, non solo per il potere legale, dovrebbero valere le parole di Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere».
Forse però è venuto il momento di dire quello che sappiamo, e non solo di farci domande. Di dire, come fece Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito delle trame eversive italiane, che in realtà: noi sappiamo. Sono anni che sappiamo, anche se non abbiamo tutte le prove e gli indizi. Sappiamo che le trattative sono esistite, prolungandosi fino al 2004. Sappiamo che viviamo ancor oggi - con le leggi che ostacolano la lotta alla mafia, con lo scudo fiscale che premia l’evasione - sotto l’ombra di un patto. Sappiamo il sangue che mafia, camorra, ’ndrangheta hanno versato lungo i decenni. Sappiamo il sacco di Palermo, e di tante città: sacco che continua. Sappiamo che l’Italia si va sgretolando davanti a noi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni e di buon cemento non fornito dalla mafia - sì, noi l’abbiamo accettato, noi che eleggiamo chi ha il potere di favorire o frenare la malavita. Sappiamo che basta leggere le sentenze - anche quelle che assolvono gli imputati per mancanza di prove o, peggio, per prescrizione - per conoscere le responsabilità di politici che, per aver conquistato e mantenuto il potere grazie alla malavita, non dovrebbero essere chiamati coi nomi, nobili, di rappresentanti del popolo o di statisti.
Tutte queste cose, come avviene nei paesi che vivono sotto il giogo di un potere totalitario, le sappiamo grazie a persone che hanno deciso di denunciare, di testimoniare, e non solo di testimoniare ma di rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire un’Italia diversa: tra i primi l’associazione Libera, e i giudici che hanno indagato su mafia e politica sapendo che avrebbero pagato con la vita, e uomini come Roberto Saviano, e giornalisti che esplorano le terre di mafia come Anna Politkovskaja esplorava, sapendo di essere mortalmente minacciata, gli orrori della guerra russa contro i ceceni.
Sono i medici dell’Italia. Ma medici che osservano un giuramento di Ippocrate speciale, di tipo nuovo: resta il dettato che comanda l’azione riparatrice, risanatrice. Nella sostanza, l’obbligo di non nuocere, di astenersi da ogni offesa e danno volontario. Ma cade il comandamento del segreto, vincolante in Ippocrate, che comanda: «Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta».
Il paragrafo del giuramento cade, perché troppo contiguo alla complicità, al delitto di omertà: questa parola che offende e storpia la radice da cui viene e che rimanda all’umiltà, all’umirtà. La vera umiltà consiste nell’infrangere il segreto, nel far letteralmente parlare le pietre e il cemento, le terre e i mari inquinati, poiché è denunciando il male che esso vien conosciuto e la guarigione può iniziare. Per questo l’informazione indipendente è così importante, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma, prima di esser aiutata a divenire civica, essa deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti. I medici di cui ho parlato - medici dell’Italia e delle sue parole e della sua natura malate - combattono proprio contro questo silenzio, che protegge i mafiosi, copre oscuri patti fra Stato e mafia, lascia senza protezione le loro vittime. I medici danno alle cose un nome, e su questa base agiscono.
C’è un modo di servire lo Stato che chiamerei paradossale: si serve lo Stato, pur sapendo che esso è pervertito, che nella nostra storia c’è stato più volte un doppio Stato. Uomini come Falcone, Borsellino, il giudice Chinnici, don Giuseppe Puglisi, don Giuseppe Diana e i tanti uomini delle scorte avevano questa fedeltà paradossale allo Stato. Uomini così sono come esuli, come De Gaulle che lasciò la Francia quando fu invasa da Hitler e dall’esilio londinese disse: la Francia non coincide con la geografia; quel che rappresento è «una certa idea della Francia», che ha radici nella terra ma innanzitutto nella mente di chi decide di entrare in resistenza e sperare in un mutamento.
La riconquista del territorio e della legalità è come la speranza, anch’essa sempre paradossale. Prende il via da una perdita del territorio, dalla consapevolezza che se lo Stato non ha più presa su di esso, ciascuno di noi perde la terra sotto i piedi. E quando dico territorio perduto dico le case che franano non appena s’alza la tempesta, i terremoti che uccidono più che in altre nazioni, l’abitare che diventa aleatorio, brutto, perché la costruzione delle case avviene con cemento finto, fatto di sabbia più che di ferro, procurato dalle mafie. Come nella lettera di Paolo ai Romani, è dalla debolezza che si parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di sperare: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».
Ecco, per ora speriamo quel che non ancora vediamo: una cultura della legalità, una politica del territorio restituito a chi vuole abitarlo decentemente. Per ora abbiamo una certa idea dell’Italia, della lotta alla mafia. Ma se sappiamo quel che accade da tanto tempo, pur non avendo tutte le prove, già metà del cammino è percorsa e l’agire diventa non solo necessario ma possibile. Anche questo Paolo lo spiega bene, quando elenca le tappe della speranza. Prima viene l’afflizione, la conoscenza del dolore. L’afflizione produce la pazienza, e questa a sua volta la virtù provata. È sul suolo della virtù provata che nasce la speranza, e a questo punto la prospettiva cambia. A questo punto sappiamo una cosa in più, preziosa: non si comincia con lo sperare, per poi agire. Si comincia con la prova dell’azione, e solo dalla messa alla prova nascono la speranza, la sete di trovare l’insperato, l’anticipazione attiva - già qui, ora - di un futuro possibile. Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza.
Una inizativa che farà discutere
Germania, Vescovi citati in giudizio: Non dovranno più definirsi cristiani
http://www.reporterfreelance.info/ *
Mentre i vescovi cattolici tedeschi si riuniscono per la loro assemblea annuale a Fulda, al tribunale amministrativo di Friburgo viene presentata contro il loro presidente, l’arcivescovo Robert Zollitsch, una domanda giudiziale destinata a fare scalpore. I /Cristiani liberi per il Cristo del Discorso della Montagna in tutte le culture in tutto il mondo/ richiedono che venga vietato all’arcivescovado di Friburgo, presieduto da Zollitsch, in rappresentanza per tutta la chiesa cattolica, di continuare a definirsi “cristiano”.
La domanda giudiziale era stata preceduta da una “diffida” rivolta a tutti i vescovi diocesani tedeschi, nella quale un teologo, un medico, due giornalisti e due giuristi avevano spiegato in modo dettagliato i motivi per i quali, dal loro punto di vista, la chiesa avrebbe perso il diritto di definirsi “cristiana”. In palese contraddizione con l’insegnamento di Gesù di Nazareth, essa accumulerebbe infatti potere e ricchezza (”mentre milioni di persone del popolo sono disoccupate e soffrono a causa della povertà”), e malgrado le sue immense ricchezze si farebbe finanziare dallo Stato con sovvenzioni di miliardi (”inclusi gli stipendi per i loro vescovi”), giustificherebbe guerre e violenza e incuterebbe paura agli uomini con la minaccia di un presunto “inferno eterno”. Costrizione al celibato, ostilità alla sessualità e alle donne, abusi sessuali commessi da sacerdoti - la lista dei crimini ecclesiastici arriva direttamente fino ai nostri giorni.
I vescovi non hanno reagito entro il termine posto e pertanto devono ora confrontarsi con la domanda giudiziale. I richiedenti si presentano in tal senso come “parenti spirituali” di Gesù di Nazareth che non possono più tacere di fronte al “prepotente abuso di definizione” con il quale si abusa del Suo nome. Un’istituzione che incorpora gli uomini fin da neonati agisce inoltre contro i diritti alla personalità. E’ possibile leggere in internet il testo di 36 pagine della domanda giudiziale (anche in italiano).
L’azione portata avanti dai Cristiani liberi ha già fatto scalpore nell’opinione pubblica all’estero, per esempio in Spagna, in Argentina e negli Stati Uniti, mentre invece l’opinione pubblica tedesca ha reagito in modo piuttosto riservato. Ora la prima domanda giudiziale è arrivata in casa. E non sarà l’ultima, perché anche i colleghi luterani dei vescovi hanno già ricevuto una diffida ...
Per maggiori informazioni: www.christus-oder-kirche.de
* Il Dialogo, Venerdì 25 Settembre,2009 Ore: 12:37
Sotto tiro i simboli di un Paese
di Andrea Manzella (la Repubblica, 08.09.2009)
Sono sotto tiro i simboli e i legamenti che tengono assieme questo paese: la bandiera, la lingua, l’inno, la capitale. Certo, c’è stato anche un gran rifiuto contro questo sfascismo, con voci variegate giunte un po’ da tutte le parti. E alcune, sprezzanti, parlano di «colpi di sole». Ma è più probabile il rischio opposto. Che sia cioè lo sdegno a svanire presto come polverone di mezza estate. Mentre l’offesa simbolica fa, per sua natura, danni irreversibili: e segna ulteriori tratti di un disegno che si precisa.
I rifiuti, per essere credibili, dovrebbero perciò legarsi ad un’idea forte della Costituzione: che quei simboli racchiude e riassume come emblemi unificanti di un «programma» politicamente vivo. Ma questa idea forte non trova un partito, un movimento, una forza politica che la faccia propria, come linea generale di azione repubblicana.
La ragione è anche di cultura istituzionale. Da tempo, si contrappongono due «costituzionalismi»: entrambi estranei agli interessi attuali degli italiani. Da un lato, il costituzionalismo tecnico dei ragionieri del diritto, con le formule «miglioriste» preparate a freddo, con le rime baciate dei compromessi: il costituzionalismo insomma delle «bicamerali», delle «bozze», delle «appendici» istituzionali ai programmoni elettorali. Dall’altro lato, c’è il costituzionalismo dei retori, impegnati a tramandare come miti la scrittura costituzionale e il suo tempo storico: un costituzionalismo senza Costituzione, dato che quella del 1948 è stata profondamente trasformata dall’Unione europea, dalla legge elettorale, dalla Corte costituzionale. Non trova posto, invece, un costituzionalismo che assuma la Costituzione come programma politico: per l’attuazione dei suoi obiettivi mancati; per il ristabilimento dei suoi equilibri scomposti. È intorno a questa «politicizzazione» della Costituzione che possono coagularsi organizzazione, adesione ideale, persuasiva comunicazione popolare, passioni.
È, d’altronde, la stessa struttura della nostra Costituzione ad essere politicamente programmatica. Ogni suo articolo rivela la consapevolezza di dover far fronte - in un futuro che allora appena cominciava - a storiche fragilità italiane. La frattura Nord-Sud. La sudditanza partitica della pubblica amministrazione. L’ottusità nazionalistica della proiezione estera dell’Italia. La vocazione protezionistica di un capitalismo assistito. La debolezza delle condizioni del lavoro subordinato. E, insieme a questa realistica visione d’avvenire, la Costituzione incorporò l’autocoscienza di una sempre possibile ricaduta nei «vizi biografici nazionali» che avevano condotto, da ultimo, al fascismo. Costruì perciò un ordine di garanzie e di libertà, di autonomie territoriali, di congegni istituzionali di contropotere. Fu, insomma, nell’uno e nell’altro senso, una Costituzione di opposizione. Nei confronti di un passato, da cui tuttavia si recuperarono preziose tradizioni; nei confronti dell’avvenire democratico, che si cautelava con forme e limiti al prepotere elettorale. Materiali, gli uni e gli altri, essenziali per comporre una nuova identità italiana.
L’esperienza di oggi ci mostra, invece, una maggioranza che vive la Costituzione come un impaccio, senza del quale la sua presunta capacità di decisioni non avrebbe ostacoli né ritardi. Sicché è persino naturale che, in questa insofferenza di fondo, trovi agevole ruolo, nel cuore stesso del governo di coalizione, un gruppo che, attaccando i simboli nazionali, mira a sbarazzarsi di fatto della Costituzione: almeno come rappresentazione della superiore unità che quei simboli riassume. Ma l’esperienza di oggi ci mostra anche una opposizione che, di fronte a questa deriva di logoramento, non si accorge degli spazi amplissimi che gli si aprono per un programma politico di costituzionalismo nazionale. Certo, protesta. Ma su certi punti si avvertono debolezze.
Come sul federalismo fiscale: dove le deleghe multiple e genericissime possono far saltare ogni ponte tra Regione e Regione, tra città e Regioni, tra Stato e Regioni. O quando si affaccia l’azzardo di una federazione di partiti territoriali: mentre è proprio la drammatica mancanza di partiti capaci di idee nazionali e tenuta istituzionale, a causare la crisi di sistema. O quando si mostra volenterosa indulgenza «tecnica» a progetti di rafforzamento dei poteri del governo: progetti che, con l’attuale legge elettorale e nel collasso delle garanzie, avrebbero il solo sicuro effetto di legittimare prassi oligarchiche antiparlamentari. O come quando qualcuno si affretta a istituire corsi di dialetto, come se si trattasse soltanto di una (peraltro, benemerita) questione culturale.
Non stupisce allora che, ormai da anni, la politica costituzionale la faccia, in solitudine, la Presidenza della Repubblica. La faceva Ciampi con la sua vittoriosa promozione del Tricolore e del canto di Mameli. La fa ora Napolitano: con un potere di persuasione tanto più efficace quanto più animato dal visibile sforzo di ammonire e correggere senza sanzionare, di ottenere adeguamenti evitando conflitti e crisi istituzionali.
Ma può continuare ad addossarsi ad una sola Istituzione, per prestigiosa e autorevole che sia, il compito di respingere continui assalti e sgorbi alla Costituzione? No, non è possibile. Basti solo pensare, per comprenderlo, alla molteplicità degli ultimi atti del capo dello Stato, prima delle ferie. C’è in quegli atti il richiamo al bene civico elementare della certezza di diritto. C’è la denuncia di criticità nelle norme sull’immigrazione e sulle «ronde». C’è l’imposizione di correzioni, a difesa dell’indipendenza della Banca d’Italia e della Corte dei Conti. C’è perfino la richiesta di chiarimenti sull’oscura questione Rai-Sky: per il peso di maggiore sofferenza nella condizione costituzionale dell’informazione pubblica.
Un panorama di per sé inquietante. Da esso si capisce anche però che il vero punto è la necessità di passare dalla Costituzione-garanzia alla Costituzione-programma. E questo non è compito del presidente della Repubblica.
Occorre una forza politica che abbia il coraggio e la cultura necessari per porre al centro della sua identità la questione istituzionale. E per organizzarsi intorno all’idea portante di Costituzione e di unità. Intorno all’idea di patria repubblicana, insomma, che sembra eclissarsi con i suoi simboli.
L’italiano e i dialetti /1
I dialetti sono l’espressione di un patrimonio di cultura e tradizioni, di arte Il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano e il 60% conserva il dialetto nella vita privata
Barricarsi dietro una sola lingua? Un’idea nazista
Secondo il linguista le uscite leghiste filodialettali rassomigliano a un sciocco remake della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo. L’idea che in un’area o entro un territorio, debba esserci un’unica lingua è falsificata dagli studi
di Tullio De Mauro (l’Unità, 30.08.2009)
Probabilmente è soprattutto colpa della corporazione cui appartengo, quella dei linguisti, se alle ripetute provocazioni di leghisti in materia di dialetti e di scolarità e lingue di immigrati le risposte sono state ispirate più a giusto sdegno e ad amor di patria che a considerazione dei fatti.
Tre fatti soprattutto meriterebbero di essere tenuti in conto se si guarda all’Italia linguistica di oggi, al volto che essa ha assunto dopo sessant’anni di vita repubblicana e democratica. Rispetto a essi le uscite leghiste, i loro «arrivano i nostri» filodialettali, rassomigliano a uno sciocco remake dell’arrivo della cavalleria nei vecchi film di Tom Mix, una cavalleria che arriva in ritardo quando le cose sono profondamente mutate.
Il primo fatto potrebbe dirsi storico, se questo aggettivo non fosse ormai inflazionato. Conosciamo abbastanza bene le vicende delle popolazioni italiane lungo tre millenni. E si può dire con certezza che mai nella loro lunga storia esse avevano conosciuto un così alto grado di convergenza effettiva e generalizzata verso un’unica lingua come è avvenuto in questi nostri anni. Dopo secoli in cui, Firenze e Toscana a parte, l’uso dell’italiano era restato appannaggio dei soli radi ed esili ceti istruiti quando scrivevano, dopo i decenni posteriori all’Unità politica, in cui l’uso effettivo dell’italiano aveva mosso alcuni passi, restando però sempre nettamente minoritario rispetto all’uso dei molti dialetti, nell’Italia della Repubblica e delle istituzioni democratiche masse crescenti si sono volte all’uso dell’italiano. Oggi ne è capace, come l’Istat permette di affermare con attendibilità statistica, il 95% della popolazione. Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia.
Connesso a questo, un secondo fatto. Non in tutte, ma in molte famiglie italiane (comprese quelle di leghisti) l’italiano è diventato lingua d’uso abituale: si stima (sempre grazie all’Istat) nel 40% dei casi. Non bisogna più nascere in Toscana o in famiglie «di signori», come era ancora cinquanta o sessant’anni fa, per possedere l’italiano come un bene propriamente nativo, che si trova in famiglia e non più soltanto o soprattutto a scuola. Certamente questo è destinato a pesare e già pesa nella nuova familiarità e tranquillità con cui molti usano la nostra lingua.
Con ciò siamo al terzo fatto. Solo i più colti ricordano i nomi di Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto. I due grandi linguisti, il primo nel 1874, il secondo quasi un secolo dopo sostennero che l’italiano andava appreso e usato generalmente, cosa che a lor tempo non avveniva, senza che però si dovessero mettere al bando i dialetti e le parlate minoritarie (di cui Ascoli fu tra i primi indagatori), ma anzi conservandone l’uso come punto di partenza dell’apprendimento scolastico della lingua (diceva Ascoli) e (aggiungeva Devoto) come riserva naturale di energie espressive per un parlare e scrivere meno inamidato e paludato dell’usuale. Usuale allora, ma ancora anni dopo Italo Calvino diagnosticava il «terrore semantico», il terrore delle efficaci e semplici parole dirette che troviamo nel parlato e nei dialetti, come difetto costitutivo dello scrivere di troppi intellettuali italiani. Ascoli e Devoto pochi li hanno letti, qualcuno in più ha letto i saggi di Calvino, ma a buon senso, affidandosi istintivamente al fai da te nazionale, se il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano, il 60% conserva, accanto all’uso della lingua comune, la possibilità e abitudine di usare uno dei dialetti, nella vita privata, tra amici e conoscenti.
Ma i dialetti italiani non sono solo questo. Tutti sono la testimonianza viva di un patrimonio di cultura e di tradizioni e, spesso, sono diventati espressione d’arte. E la cultura italiana migliore, Croce come Gramsci, non ha esitato a considerare e additare come cosa propria, parte di un composito patrimonio unitario, i grandi testimoni delle letterature dialettali, il romanesco Belli come il milanese Porta, e, nel Novecento, Tessa e Noventa, Buttitta e il Pasolini friulano, Pierro e De Filippo, il ligure Firpo e il marchigiano Scataglini. E si potrebbe e dovrebbe continuare. Del resto, anche su più ampia scala di massa, la fortuna delle canzoni dialettali, tradizionali e recenti o recentissime, le napoletane, milanesi, siciliane, è una fortuna significativamente nazionale.
Nessuna grossolanità leghista impedirà di sentire nostre, dalle Alpi e Trieste a Lampedusa, O mia bela Madunina e O suldato innammurato. Paolo Conte ha spiegato bene, una volta, che ritmo e struttura sillabica delle nostre parlate dialettali rispondono meglio dell’italiano alle esigenze non solo della melodia, ma dei ritmi rock. Molti, non solo genialmente Renzo Arbore, hanno sfruttato questa indicazione. E, canzoni a parte, il toscano Benigni, il napoletano Troisi, il romano Sordi, il milanese Iannacci, a tacere di Fo che ha varcato i confini nazionali, circolano liberamente, senza passaporto regionale, nella nostra comune cultura. Nessun passaporto ha chiesto e chiede nemmeno la nostra prosa letteraria per intarsiarsi di dialettalità lombarda o napoletana o romana o siciliana come hanno fatto Gadda e Pasolini, fanno Mazzucco e Pariani e Starnone. Tutto questo sta dentro il nostro dna comune sia più affinato sia più popolare.
Così l’Italia ci si consegna oggi come un paese capace finalmente di possedere e usare la comune lingua nazionale, ma anche capace d’essere un paese fruttuosamente e marcatamente plurilingue. Oggi sappiamo che il plurilinguismo non è un’eccezione. L’idea che in un’area, entro i confini di un territorio, o nel cervello di un singolo, ci sia e debba esserci un’unica lingua è ampiamente falsificata dagli studi. A partire dagli anni cinquanta una valorosa e tenace sociolinguista americana, Barbara Grimes, ha avviato e aggiornato il non facile censimento delle lingue vive nel mondo. Oggi ne contiamo settemila, mediamente circa 35 per ogni stato della terra.
Lasciando per ora da parte le parlate importate dagli immigrati, che richiedono un’attenzione specifica, con le sue trentasei parlate native (italiano, grandi raggruppamenti di dialetti, lingue di minoranza d’antico insediamento) l’Italia è dunque nella media. Se fa eccezione è per la circolazione nazionale dei patrimoni linguistici locali entro la comune italianità linguistica.
In questo consapevole costituirsi in grande comunità plurilingue ha avuto una parte di rilievo la nostra scuola di base. Ho accennato prima ad Ascoli e Devoto. Ho omesso di dire che le indicazioni ascoliane furono raccolte e tradotte in chiave educativa da un grande filologo, Ernesto Monaci, e un non meno grande pedagogista, Giuseppe Lombardo Radice. A partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento i loro suggerimenti e le loro esperienze educative sono stati raccolti prima da singoli gruppi di insegnanti, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa, poi, filtrati e coordinati, sono diventati indicazioni di programma e di curricolo nella scuola di base.
Il rispetto delle differenze linguistiche e dialettali è diventato pratica ovvia e corrente nella scuola elementare ed è stato certamente non ultimo dei fattori che l’hanno portata a diventare una delle migliori, più efficienti e qualificate del mondo. Questa consapevole vocazione plurilingue della nostra scuola di base è stata di recente additata a modello esemplare nel recente DERLE-Document européen de référence pour les langues de l’éducation, elaborato da studiosi di vari paesi (non italiani!) entro il Consiglio d’Europa e ora in traduzione in italiano a cura di una associazione di insegnanti e studiosi.
La mediocrità opinante a ruota libera di troppa parte degli interventi giornalistici in materia di educazione e scuola annebbia tra troppi colti e tra i politici la percezione di tutto ciò. E forse neanche educatori e linguisti hanno fatto tutto il possibile per rendere noto che la pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono tentare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa.
Nel mondo antico di cui restiamo sempre debitori furono primi gli Epicurei e poi i primi cristiani, quelli del miracolo della Pentecoste, a capire e insegnare ciò che gli studi moderni confermano: che il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Soltanto un nazista pazzoide, come fu Hitler, o un decerebrato che si rivolga a decerebrati può rovinosamente fantasticare di altre strade.
Una convergenza del genere non si era mai vista nella nostra storia. Connesso a questo, un secondo fatto. Non in tutte, ma in molte famiglie italiane (comprese quelle di leghisti) l’italiano è diventato lingua d’uso abituale: si stima (sempre grazie all’Istat) nel 40% dei casi. Non bisogna più nascere in Toscana o in famiglie «di signori», come era ancora cinquanta o sessant’anni fa, per possedere l’italiano come un bene propriamente nativo, che si trova in famiglia e non più soltanto o soprattutto a scuola. Certamente questo è destinato a pesare e già pesa nella nuova familiarità e tranquillità con cui molti usano la nostra lingua.
Con ciò siamo al terzo fatto. Solo i più colti ricordano i nomi di Graziadio Isaia Ascoli e Giacomo Devoto. I due grandi linguisti, il primo nel 1874, il secondo quasi un secolo dopo sostennero che l’italiano andava appreso e usato generalmente, cosa che a lor tempo non avveniva, senza che però si dovessero mettere al bando i dialetti e le parlate minoritarie (di cui Ascoli fu tra i primi indagatori), ma anzi conservandone l’uso come punto di partenza dell’apprendimento scolastico della lingua (diceva Ascoli) e (aggiungeva Devoto) come riserva naturale di energie espressive per un parlare e scrivere meno inamidato e paludato dell’usuale. Usuale allora, ma ancora anni dopo Italo Calvino diagnosticava il «terrore semantico», il terrore delle efficaci e semplici parole dirette che troviamo nel parlato e nei dialetti, come difetto costitutivo dello scrivere di troppi intellettuali italiani.
Ascoli e Devoto pochi li hanno letti, qualcuno in più ha letto i saggi di Calvino, ma a buon senso, affidandosi istintivamente al fai da te nazionale, se il 95% della popolazione sa esprimersi in italiano, il 60% conserva, accanto all’uso della lingua comune, la possibilità e abitudine di usare uno dei dialetti, nella vita privata, tra amici e conoscenti.
Ma i dialetti italiani non sono solo questo. Tutti sono la testimonianza viva di un patrimonio di cultura e di tradizioni e, spesso, sono diventati espressione d’arte. E la cultura italiana migliore, Croce come Gramsci, non ha esitato a considerare e ad- ditare come cosa propria, parte di un composito patrimonio unitario, i grandi testimoni delle letterature dialettali, il romanesco Belli come il milanese Porta, e, nel Novecento, Tessa e Noventa, Buttitta e il Pasolini friulano, Pierro e De Filippo, il ligure Firpo e il marchigiano Scataglini. E si potrebbe e dovrebbe continuare.
Del resto, anche su più ampia scala di massa, la fortuna delle canzoni dialettali, tradizionali e recenti o recentissime, le napoletane, milanesi, siciliane, è una fortuna significativamente nazionale. Nessuna grossolanità leghista impedirà di sentire nostre, dalle Alpi e Trieste a Lampedusa, O mia bela Madunina e O suldato innammurato. Paolo Conte ha spiegato bene, una volta, che ritmo e struttura sillabica delle nostre parlate dialettali rispondono meglio dell’italiano alle esigenze non solo della melodia, ma dei ritmi rock.
Molti, non solo genialmente Renzo Arbore, hanno sfruttato questa indicazione. E, canzoni a parte, il toscano Benigni, il napoletano Troisi, il romano Sordi, il milanese Iannacci, a tacere di Fo che ha varcato i confini nazionali, circolano liberamente, senza passaporto regionale, nella nostra comune cultura. Nessun passaporto ha chiesto e chiede nemmeno la nostra prosa letteraria per intarsiarsi di dialettalità lombarda o napoletana o romana o siciliana come hanno fatto Gadda e Pasolini, fanno Mazzucco e Pariani e Starnone. Tutto questo sta dentro il nostro dna comune sia più affinato sia più popolare.
Così l’Italia ci si consegna oggi come un paese capace finalmente di possedere e usare la comune lingua nazionale, ma anche capace d’essere un paese fruttuosamente e marcatamente plurilingue. Oggi sappiamo che il plurilinguismo non è un’eccezione. L’idea che in un’area, entro i confini di un territorio, o nel cervello di un singolo, ci sia e debba esserci un’unica lingua è ampiamente falsificata dagli studi.
A partire dagli anni cinquanta una valorosa e tenace sociolinguista americana, Barbara Grimes, ha avviato e aggiornato il non facile censimento delle lingue vive nel mondo. Oggi ne contiamo settemila, mediamente circa 35 per ogni stato della terra. Lasciando per ora da parte le parlate importate dagli immigrati, che richiedono un’attenzione specifica, con le sue trentasei parlate native (italiano, grandi raggruppamenti di dialetti, lingue di minoranza d’antico insediamento) l’Italia è dunque nella media. Se fa eccezione è per la circolazione nazionale dei patrimoni linguistici locali entro la comune italianità linguistica.
In questo consapevole costituirsi in grande comunità plurilingue ha avuto una parte di rilievo la nostra scuola di base. Ho accennato prima ad Ascoli e Devoto. Ho omesso di dire che le indicazioni ascoliane furono raccolte e tradotte in chiave educativa da un grande filologo, Ernesto Monaci, e un non meno grande pedagogista, Giuseppe Lombardo Radice.
A partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento i loro suggerimenti e le loro esperienze educative sono stati raccolti prima da singoli gruppi di insegnanti, come quelli del Movimento di Cooperazione Educativa, poi, filtrati e coordinati, sono diventati indicazioni di programma e di curricolo nella scuola di base. Il rispetto delle differenze linguistiche e dialettali è diventato pratica ovvia e corrente nella scuola elementare ed è stato certamente non ultimo dei fattori che l’hanno portata a diventare una delle migliori, più efficienti e qualificate del mondo.
Questa consapevole vocazione plurilingue della nostra scuola di base è stata di recente additata a modello esemplare nel recente DERLE-Document européen de référence pour les langues de l’éducation, elaborato da studiosi di vari paesi (non italiani!) entro il Consiglio d’Europa e ora in traduzione in italiano a cura di una associazione di insegnanti e studiosi.
La mediocrità opinante a ruota libera di troppa parte degli interventi giornalistici in materia di educazione e scuola annebbia tra troppi colti e tra i politici la percezione di tutto ciò. E forse neanche educatori e linguisti hanno fatto tutto il possibile per rendere noto che la pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono tentare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa.
Nel mondo antico di cui restiamo sempre debitori furono primi gli Epicurei e poi i primi cristiani, quelli del miracolo della Pentecoste, a capire e insegnare ciò che gli studi moderni confermano: che il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Soltanto un nazista pazzoide, come fu Hitler, o un decerebrato che si rivolga a decerebrati può rovinosamente fantasticare di altre strade.
(1/Continua)
L’italiano e i dialetti /2
Alcol, alcova, assassino
Nella lingua le tracce dell’immigrazione passata
Secondo il linguista un idioma è dato dall’amalgama di tante contaminazioni
Il vocabolario non è un sistema statico. È un insieme dinamico sempre ampliabile
La nostra storia è piena di richiami esterni che si sono cementati nel corso degli anni
di Tullio De Mauro (l’Unità, 01.09.2009)
Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi, l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un sol tempo due lingue diverse.
Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono integrati nell’uso di lingue diverse. Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili in cui si trovano in genere i migranti.
Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico. Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese, nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma. Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo resta.
Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo. È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla una lingua provvede con mezzi interni alla lingua stessa.
Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra, con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri».
Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal sici- liano e dall’italiano comune.
Il prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è una lingua di origine germanica, affine a tede- sco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua. Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e spagnolo.
Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.
Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane, quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc.
La gran maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di peso nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia (la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo luogo, non solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per questa via tra noi come abstract, education o sentimentale.
Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha parlato e parla o scrive l’italiano. Ma nella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come abbandonare,ab-
Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo. Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca, dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale. Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale, auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba.
Dell’amalgama (arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano. (2. Fine)
CHI FA IL NAPOLETANO E’ IL PEGGIOR NEMICO DEL NAPOLETANO:
FOTO: BERLUSCONI, UN TOCCO DI TRUCCO NEL FAZZOLETTO
La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità
Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
L’anarchia spirituale, come il matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, produce malformazioni fisiche e culturali
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 07.09.2009)
Le dispute agostane sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raffaele La Capria sulla differenza tra essere napoletani e fare i napoletani.
Essere napoletani - o milanesi, triestini, lucani - significa sentirsi spontaneamente legati al luogo natio in cui ci si è rivelato il mondo, amare i suoi colori e sapori che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio - lo si chiami o no dialetto - indissolubilmente legato alla fisicità delle cose che ci circondano e alla loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equivalente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artificiosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesuvio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume folcloristico per mascherare l’insicurezza della propria identità. Chi sproloquia sui dialetti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamentale e ben lo sa chi, come me, lo parla correntemente ogni giorno a proposito di qualsiasi argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spirituale, come l’endogamia, produce malformazioni fisiche e culturali. La diversità è creativa solo quando, nell’affettuoso riconoscimento di se stessa, si apre al riconoscimento e all’amore di altre diversità, egualmente necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasforma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dante, l’amore per l’Arno - ossia per il luogo natale - e quello per il mare, patria universale, sono complementari. Il rullo compressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le autonomie locali è inaccettabile, ma lo è altrettanto il rullo compressore dei micronazionalismi locali, pronti a schiacciare le minoranze ancor più piccole viventi al loro interno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissimile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario insegnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considererebbero un rinnegato. Diversi sistemi linguistici hanno diverse possibilità, egualmente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io abbia mai letto - l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» - è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Orinoco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse - non lo so - oggi sono estinti.
Quella poesia è degna di Saffo (che peraltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pura, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Commedia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scrittore tedesco contemporaneo di Goethe, scorgeva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la trovava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo - come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfabeta - può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi siano i suoi abitanti - come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroromeni che secondo l’ultimo censimento erano 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimysau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se di continuo muore qualche lingua, soggetta come gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se implica essere e sentirsi italiani, il che vuol dire essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale - senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gioco - ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, grande poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e variegato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gradese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplicemente poesia tout court , che può essere anche grandissima esprimendosi nella lingua che le è congeniale, il veneziano di Goldoni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immediatezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure essa può essere molto simpatica nella sua colorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pure questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza volerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po versata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendicazione del dialetto quale espressione di classi subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scomparso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo paese senza indulgere ad alcun pregiudizio antislavo. Miglia ricorda come, quando insegnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat , perché portava le greggi al pascolo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzione scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa esprimersi solo con il linguaggio del suo elementare vissuto quotidiano si esprime fondandosi su un’esperienza reale e può dunque possedere una reale ancorché semplice cultura, capace di unire con istintiva coerenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevole ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofisticata ma orecchiata senza essere fatta veramente propria. Una pretesa cultura «alta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe - da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa - è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cultura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribuiscono a formarla, così come - Dante insegna - i diversi volgari d’Italia hanno costruito il volgare italiano. Reprimere questi vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nelle ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stesso e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci insegna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la propria stessa arretratezza e dunque a combattere questa ultima. Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cammino di chi vuol emergere dal buio. Il dialetto non può essere usato regressivamente in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riappropriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dialetto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclore dialettale ostentato e compiaciuto, servo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
L’ANALISI
La menzogna come potere
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Avanzare delle domande a un uomo politico nell’Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un’offesa che esige un castigo?
L’Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d’imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all’opinione pubblica. E’ interessante leggere, nell’atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del Consiglio sono "retoriche, insinuanti, diffamatorie".
Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché "non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l’idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere". Sono diffamatorie perché attribuiscono "comportamenti incresciosi, mai tenuti" e inducono il lettore "a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti". Peraltro, "è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l’offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono".
Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.
Non c’è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c’è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.
E’ utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. E’ Veronica Lario ad accusare Berlusconi di "frequentare minorenni". E’ Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l’Egoarca giura di aver incontrato la minorenne "soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori". Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell’autunno del 2008 guardandone un portfolio); l’ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009).
La terza domanda chiede conto al presidente del Consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità - un fatto - è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio.
L’ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. E’ Berlusconi che annuncia in pubblico "un progetto eversivo" di questo giornale. E’ un fatto. E’ lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l’interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie.
La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. E’ Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, "non sta bene". E’ un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.
Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi - anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri - una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. E’ un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l’interesse pubblico dell’affare è evidente.
Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l’opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all’ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un’opinione che già s’era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un’altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l’irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. E’ il paradigma di una macchina politica che intimorisce. E’ la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. E’ una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c’è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest’affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell’epoca dell’immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l’opinione pubblica italiana o il "carnevale permanente" l’ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un’informazione conformista. La questione è in fondo questa: l’opinione pubblica può fare delle domande al potere?
* la Repubblica, 28 agosto 2009
Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l’ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo
La Rai rifiuta il trailer di Videocracy
"E’ un film che critica il governo"
di MARIA PIA FUSCO *
ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".
A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.
"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".
A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".
Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D’Addario" e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo".
"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata".
* la Repubblica, 27 agosto 2009
La complicità del silenzio
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25.08.2009)
Titi Tazrar è una dei cinque sopravvissuti al viaggio dei disperati. Ha 27 anni. E’ ricoverata all’ospedale di Palermo. La attende, lei e gli altri sopravvissuti, l’incriminazione per il reato di immigrazione clandestina.
I procuratori competenti per territorio non hanno alternative: non possono ignorare l’art. 10 bis del decreto sicurezza. Né possono ignorarlo gli italiani che vanno per mare. Sono le leggi che creano i reati; creano anche l’omertà, la volontà di chiudere gli occhi, la capacità di non sentire le grida di aiuto, di chi non vedeva i convogli di deportati del Terzo Reich e di chi navigando oggi nel mar di Sicilia ignora i barconi africani. Dietro la paura c’è il potere. Noi tutti dimentichiamo volentieri quanto l’opera del potere sia efficace nel modellare la pasta morale dell’umanità. Oggi in Italia il decreto sicurezza produce paura, produce morte, cancella le reazioni umanitarie.
Bisogna cancellare il decreto, denunziarlo davanti al mondo, sperare nell’intervento di autorità esterne visto che non possiamo sperare in una rivolta del paese. Ma per ora, aspettando il processo e l’espulsione, Titi Tazrar è ancora in Italia. I giornalisti la cercano, lei risponde in uno stentato inglese. Una cosa ha detto che ci interroga tutti: «Sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia, ma in Italia. Voglio restare qui».
A questa domanda si deve dare una risposta. Una sola. Titi deve restare qui, con gli altri superstiti. Perché al disopra della legge scritta c’è la giustizia, senza di che la legge è arbitrio, violenza, suprema ingiustizia. Chi ha attraversato l’inferno di quei pochi chilometri di mare senza trovare fra gli infiniti natanti che lo affollano un briciolo di umanità, chi ha visto finire a mare prima i bambini abortiti poi le loro madri poi tutti gli altri, non può essere rimandato al punto di partenza. Se accettassimo in silenzio questo esito saremmo complici di un infame gioco dell’oca. Titi e i quattro sopravvissuti con lei hanno conquistato un diritto.
Lei è partita per venire proprio qui da noi. E noi italiani scopriamo all’improvviso nella sua frase la risposta al problema che da giorni è al centro del confuso discorrere sul se e sul come celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Lo ha capito subito con una dichiarazione che gli fa onore il Presidente della Camera Fini quando ha detto che bisogna far sentire «l’Italia come patria anche a coloro che vengono da paesi lontani e che sono già o aspirano a diventare cittadini italiani». Patria è la parola giusta.
Oggi se ne parla guardando solo al passato. Ritengono alcuni che si tratta di ritrovare o di ribadire una specie di identità collettiva che avremmo ereditato perché qui siamo nati; argomento non di qualità diversa da quello di chi propone invece di sostituire all’Italia la sua piccola patria locale, il pezzo di suolo dove gli fa comodo vivere e di cui vorrebbe chiudere le porte agli altri. Ebbene, in questione non è l’indiscutibile appartenenza di fatto e di diritto della popolazione italiana a uno fra gli stati europei; né lo è il dovere delle nostre istituzioni di esplorare e commemorare e far conoscere le ragioni e i caratteri storici e culturali dell’esistenza del paese. Tutto questo è doveroso, ma non sufficiente.
Ciò che abbiamo ricevuto - dice una famosa massima di Goethe - dobbiamo conquistarlo perché possiamo dirlo nostro. Da noi la passività dell’eredità ricevuta è moltiplicata dagli abissi di ignoranza di un paese in preda all’analfabetismo di ritorno. Oggi il problema è ancora quello antico: la nazione come volontà e speranza di futuro. Un plebiscito di tutti i giorni, diceva Ernest Renan. A questo plebiscito aderisce oggi Titi Tazrar quando affronta il deserto e l’orrore in nome di una speranza e di un desiderio che ha nome Italia.
Quanto a noi italiani, con lei e con tutto il suo popolo abbiamo un grande debito storico, una promessa non mantenuta. Titi è figlia di un popolo che fu unito a quello italiano nelle sofferenze e nelle miserie delle nostre guerre coloniali. Accanto agli eritrei hanno vissuto e combattuto tanti italiani, poverissimi come loro, spediti in guerra da una patria che stava nel cuore di uomini come il siciliano Vincenzo Rabito, autore dell’indimenticabile Terra matta, che come lui non riconobbero più la patria in quella "porca Italia" fascista che li mandava a combattere altri disperati come loro, ma che si riconciliarono poi con la riconquistata libertà del paese.
La storia della patria italiana è quella dei processi di integrazione che hanno portato le masse a diventare coscienti del loro essere l’Italia. Processi lunghi, difficili, spesso bloccati e rovesciati da scelte sbagliate. Se Cavour ebbe chiara coscienza del fatto che una volta creata l’Italia bisognava creare gli italiani, le lacerazioni e le violenze di una storia più che secolare hanno attraversato e ostacolato quel progetto, lasciando alla polemica clericale il facile compito di seminare tra le classi popolari delle campagne il discredito verso lo scomunicato Stato liberale.
E si può ben capire che non fosse vissuto come patria uno stato che mandava l’esercito nel Mezzogiorno a piegare i cosiddetti briganti e nelle pianure padane la polizia a incarcerare gli scioperanti. Come disse Camillo Prampolini nel 1894, replicando in Parlamento all’accusa di Crispi ai socialisti di essere "senza patria", il problema era precisamente quello di dare una patria alla massa dei diseredati, ai braccianti di Molinella come ai contadini veneti guidati dai parroci che si affollavano sulle banchine di Genova. L’integrazione di quelle masse nella vita del paese richiese lotte durissime, passò attraverso lacerazioni profonde, costò l’immane bagno di sangue della prima guerra mondiale.
Oggi i loro nipoti non raccolgono più i pomodori nell’agro napoletano e loro eredi non sono costrette a lavori domestici e ad assistere vecchi e malati: sono liberi, liberi di studiare, viaggiare, sviluppare attività creative e produttive. Al loro posto sono subentrati quelli che sono per ora degli schiavi, dei ribelli, dei fratelli in spirito di Vincenzo Rabito, tentati come lui dalla ribellione allo sfruttamento disumano ma tentati ancor più dalla speranza di diventare i nuovi italiani.
Davanti a noi c’è una alternativa: taglieggiarli con le sanatorie, chiuderli in centri di espulsione, oppure tentare la scommessa dell’integrazione. Con le plebi senza diritti del nostro passato, con quei contadini e operai tentati da una speranza che si chiamava rivoluzione proletaria e cancellazione delle patrie borghesi, l’integrazione è avvenuta: una imprevedibile svolta della storia ha portato un’Italia scalciante e urlante nel mezzo dello sviluppo civile del 900. È sulla base di questa consapevolezza storica che oggi si può dare un senso alla celebrazione dell’unità d’Italia guardando avanti, a una nuova e più coraggiosa integrazione.
Parole e volgarità
Così degrada la nostra lingua
L’italiano e i registri violati
L’insegnamento della lingua italiana e il documento diffuso dalle accademie della Crusca e dei Lincei
di Cesare Segre *
Ha avuto giusta risonanza il documento diffuso dalle accademie della Crusca e dei Lincei sull’insegnamento della lingua italiana, che i giovani conoscono malissimo. Ma uno dei fatti che denunciano la crisi mi pare la mancanza di selettività riguardo ai cosiddetti registri. Questa parola, che i linguisti moderni hanno tratto dalla terminologia musicale, indica tutte le varietà di una lingua, impiegate a seconda del livello culturale e sociale dell’interlocutore e del tipo di situazione.
Si parla di registro aulico, colto, medio, colloquiale, familiare, popolare, ecc. Sappiamo che ci si esprime diversamente parlando a un re o a uno straccivendolo, in un’assemblea o all’osteria, a un superiore o a un compagno di bisbocce; o anche a un vecchio o a un bambino. Cambia la scelta delle parole: sventurato, sfortunato, scalognato, iellato, sfigato hanno, più o meno, lo stesso significato, ma appartengono a registri diversi. Cambia la sintassi: nel Nord il passato remoto si usa solo nei registri più alti, e l’indicativo tende a sostituire il congiuntivo; gli per «a lei» è condannato, ma usato a livello colloquiale; i dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono inopportuni ai livelli alti. Chi non sa usare i registri crea situazioni d’imbarazzo, e può persino offendere, quasi ricusasse le differenze tra le categorie e le funzioni sociali. Certo, si può far violenza ai registri per polemica o per esibizionismo, ma anche in quel caso occorre conoscerli; non ci si può certo appellare allo stile postmoderno, che ha già portato più equivoci che chiarimenti. I giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si mettono in condizione d’inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili, e a riconoscere il ruolo o i meriti degli interlocutori.
Il rispetto dei registri è uno di quegli atti di cortesia che rendono più scorrevoli i rapporti umani. L’individuazione dei registri è particolarmente difficile per gli stranieri, che possono anche parlare bene la nostra lingua ma non si accorgono delle stonature prodotte da interferenze tra questi: per esempio usando termini del gergo giovanile in un discorso scientifico. Si dovrebbe dunque essere pazienti quando un «vu cumprà» ci interpella col tu, ma chi gl’insegna la lingua dovrebbe fargli rilevare l’imprecisione, e soprattutto evitare di interpellarlo allo stesso modo, denunciando il proprio senso di superiorità. La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo. Naturalmente questo implica il degrado anche delle argomentazioni, perché, ai livelli alti, il linguaggio è molto più ricco e duttile. Le conseguenze sono disastrose: da una parte si finisce per ridurre qualunque dibattito a uno scontro fra slogan contrapposti, dall’altra si favorisce la trasformazione di contrasti d’opinione in alterchi, nei quali le passioni, o i preconcetti, annullano il confronto delle idee.
Non si tiene conto del fatto che la capacità di usare il registro alto (pensiamo ai discorsi, perfetti per strategia argomentativa, dei Kennedy, dei Clinton e degli Obama) è uno degli elementi che contribuiscono alla «maestà», poca o tanta, di un personaggio politico. Il quale, mettendosi invece al livello dell’ascoltatore medio, sarà magari guardato con simpatia, ma perderà qualunque aura: cosa che alla lunga può provocare perdita di autorità. Uno degli elementi costitutivi dei registri più bassi è il turpiloquio. Purtroppo il pessimo costume di abbandonarsi al turpiloquio (a partire dal «me ne frego» fascista) si sta diffondendo ovunque, molto meno disapprovato della diffusione degli anglismi, che se non altro non feriscono il buon gusto. Forse si teme che questa disapprovazione sia considerata bacchettoneria; si dovrebbe invece formulare una condanna esclusivamente estetica. Anche qui, molti giovani si mettono alla testa del peggioramento. Pensiamo all’uso di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso, che inizia con la c. Un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti. Insomma, una vera fallolatria.
Ma la celebrazione del fallo viene poi alternata con quella dell’organo femminile, o con allusioni ad atti sessuali più o meno riprovati, con auguri agli avversari di subire trattamenti sessuali sgradevoli, e così via. È vero che la fantasia ormai scarseggia; ma se qualche utente del registro fallico, riscuotendosi da un uso meccanico delle espressioni, badasse al significato letterale delle parole, si accorgerebbe che il suo orizzonte è ormai dominato da organi sessuali maschili e femminili, da scene di stupro e di sodomia e simili. Un po’ di varietà, per favore! Anche questo malcostume è condiviso da molti nostri politici, vogliosi di celebrare la propria virilità; dovrebbero leggersi o rileggersi Eros e Priapo di Gadda. Non si può reagire col sorriso, quando si rifletta che richiamarsi ai fondamentali della nostra animalità, alla vitalità prepotente e incontrollabile del sesso, ci porta agli antipodi non solo della ragione e degli ideali, ma anche della razionalità e della capacità dialettica che dovrebbero contraddistinguere l’homo sapiens sapiens. E non dimentichiamo che i cosiddetti attributi, se da un lato vengono usati a designare vigore e potenza, dall’altro sono sinonimo di stupidità: una molteplicità di significati che ci porta nell’indifferenziato, là dove la parola non è ancora stata affilata per interpretare il mondo.
Cesare Segre
Corriere della Sera,13 gennaio 2010