Inviare un messaggio

In risposta a:
Mondo

Rwanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale, dieci anni dopo il genocidio - di Colette Braeckman - selezione a cura di pfls

martedì 23 maggio 2006 di Emiliano Morrone


DIECI ANNI DOPO IL GENOCIDIO
Ruanda, ritorno su una colpevole cecità internazionale
di Colette Braeckman,
giornalista di Le Soir (Bruxelles), autrice fra l’altro di Nuovi predatori, Fayard. Paris. 2003.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Un milione di morti in cento giorni e il mondo non ne avrebbe saputo nulla? Dall’indipendenza, nel 1962, in poi, tutti coloro che s’interessavano al Ruanda sapevano che il fuoco covava. Già nel 1959, assistiti dai (...)

In risposta a:

> Rwanda. Le colpe dell’Onu Chi avrebbe dovuto fermare il genocidio non l’ha fatto: i responsabili di allora hanno anche fatto carriera (di D. Scaglione)

domenica 30 marzo 2014

Rwanda. Le colpe dell’Onu

Chi avrebbe dovuto fermare il genocidio non l’ha fatto: i responsabili di allora hanno anche fatto carriera

di Daniele Scaglione (il Sole-24ore/domenica, 30.03.2014)

Il 6 gennaio del 1994, mentre tornava a casa dopo l’allenamento, la pattinatrice su ghiaccio Nancy Kerrigan fu colpita al ginocchio da un uomo. Mandante dell’aggressione era la sua rivale Tonya Harding, che voleva toglierla di mezzo in vista delle olimpiadi in Norvegia. Allo scandalo che ne derivò i network televisivi Abc, Cbs e Nbc dedicarono più spazio che al genocidio in Rwanda. Non c’è da stupirsi, perché quei tre mesi che devastarono il piccolo Paese africano, i media internazionali li raccontarono poco e male. Salvo rare eccezioni, i cronisti parlarono di una violenza imprevedibile e incontrollabile, reazione della maggioranza hutu all’uccisione del presidente Habyarimana. Quell’attentato, avvenuto la sera del 6 aprile 1994 e subito attribuito ai tutsi del Fronte Patriottico Rwandese, secondo gli organi d’informazione fu la goccia che fece traboccare il vaso, nella secolare divisione etnica tra hutu e tutsi.

Niente di tutto ciò è vero. In primo luogo, hutu e tutsi non costituivano gruppi etnici differenti. A dividerli, nel XX secolo, erano stati i colonizzatori, che attribuivano ai tutsi una certa superiorità in virtù di caratteri somatici - altezza, forma del naso, colore della pelle - che li rendevano un po’ "meno negroidi". In secondo luogo, nulla di quanto accadde in quei maledetti giorni tra l’aprile e il luglio del 1994 fu improvvisato, ma avvenne secondo un piano accurato e moderno che includeva l’uso di mezzi di propaganda come la radio, l’acquisto e la distribuzione di un quantitativo di armi spaventoso e una sofisticata organizzazione che consentì di massacrare decine di migliaia di persone al giorno per cento giorni di fila. La stessa uccisione del presidente hutu Habyarimana - compiuta dagli estremisti hutu e non dai ribelli tutsi - era parte del piano, era il segnale d’inizio della mattanza. Infine, che la tragedia stava per accadere era noto: lo sapevano i dirigenti dell’Onu e i governi più potenti del mondo. Lo sapeva anche Roma, che si affrettò a mandare alcune centinaia di militari di prim’ordine per rimpatriare i nostri connazionali e altri europei.

Queste verità vennero a galla solo in seguito, grazie alle confessioni di estremisti hutu sotto processo al tribunale internazionale di Arusha e grazie al lavoro di ricercatori e intellettuali che volevano capirci qualcosa di più. Ma la fonte più inquietante è costituita da Romeo Dallaire, il capo dei caschi blu a Kigali. Dallaire, dopo il genocidio, raccontò più volte che già nel gennaio del ’94 aveva allertato il Palazzo di Vetro sulla carneficina che si stava preparando. I suoi capi a New York, però, non solo non gli inviarono i rinforzi che aveva chiesto, ma gli proibirono anche di requisire le armi destinate alle milizie genocide. Il Consiglio di Sicurezza, dopo l’inizio dei massacri, decise persino di ridurre i soldati a sua disposizione da 2.500 a 270 e se Dallaire potè invece contare su 454 effettivi è solo perché i caschi blu ghanesi non se la sentirono di abbandonare i rwandesi.

Dell’uccisione di almeno 800mila persone è dunque responsabile chi il genocidio lo organizzò ed eseguì ma anche chi, potendo fermarlo, scelse di non fare nulla. Tra i primi, molti stanno facendo i conti con la giustizia internazionale o con quella rwandese. Tra i secondi, la situazione è invece desolante: chi ha commesso gravissimi errori ha fatto carriera.

Il caso più eclatante è forse quello di Kofi Annan, vice segretario Onu ai tempi del genocidio e capo diretto del generale Dallaire. Due anni dopo il disastro, Annan fu scelto come Segretario Generale delle Nazioni Unite, carica ricoperta per due mandati consecutivi. Carriera in progressione anche per i suoi più diretti collaboratori nel ’94, Maurice Baril e Iqbal Riza. Madaleine Albright ai tempi rappresentava gli Stati Uniti presso il Consiglio di Sicurezza e si oppose con decisione al rinforzo della missione di caschi blu in Rwanda: nel successivo mandato presidenziale di Bill Clinton, venne promossa a segretario di Stato.

Il governo di Parigi invece si schierò con decisione, ma dalla parte sbagliata. Sostenne gli estremisti politicamente e militarmente - prima, durante e dopo i massacri - e mandò addirittura il suo esercito a proteggerne la fuga in Zaire, quando il Fronte Patriottico Rwandese stava per vincere la guerra. Mitterrand inaugurò anche la stagione revisionista. Verso la fine del 1994, a un giornalista che lo interpellava sul genocidio in Rwanda, chiese: «Di quale genocidio parla? Del genocidio dei tutsi a opera degli hutu o di quello degli hutu a opera dei tutsi?».

A distanza di vent’anni, la memoria collettiva di questa tragedia è ancora tutta da costruire. Così come nel ’94 venne raccontato poco e male, oggi quell’evento viene ricordato in modo insufficiente e impreciso. È emblematico che il prodotto mediatico che più ne ha fatto parlare, il film Hotel Rwanda, sia sostanzialmente un falso. Racconta le sorti di circa 1.300 persone che si nascosero nell’Hotel delle Mille Colline, un albergo di lusso della capitale ma, nella realtà, il direttore dell’albergo non fu l’eroe raccontato dal regista Terry George e interpretato da Don Cheadle, bensì un personaggio ambiguo che approfittò delle persone in fuga, ricattandole e togliendo loro ogni avere.

Questa superficialità nel ricordare quel che è accaduto in Rwanda nel 1994 impedisce di riconoscerne l’importanza universale: quei fatti segnano il punto più basso della storia delle Nazioni Unite dalla loro fondazione e rappresentano il più grande fallimento della comunità internazionale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Proprio pensando agli orrori di quel conflitto, i rappresentanti dei «popoli delle Nazioni Unite» - così sono indicati in apertura dello Statuto dell’Onu - avevano preso l’impegno più solenne: intervenire senza indugi per fermare un genocidio. Ma cinquant’anni dopo, mentre un genocidio stava accadendo di nuovo, quei popoli si sono voltati dall’altra parte.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: