Mancuso e la fede individuale
di Andrea Consoli (il Messaggero, 30 settembre 2011)
NEL nuovo saggio di Vito Mancuso «Io e Dio» (Garzanti, 496 pagine, 18,90 euro) c’è uno strano impasto di hybris e di umiltà, di fraternità rivendicata fino negli anfratti più «bassi» della realtà, lì dove domina il deforme, il dolore sordo, le nuove identità, il collasso della speranza e della fede. Pur riconoscendo il principio di autorità, Mancuso sta cercando - con coraggio, e con qualche compiacimento ribellistico - di spronare la Chiesa ad aprirsi a una moltitudine di uomini che cerca e trova Dio in una miriade di esperienze inedite.
Anche quando argomenta, anche quando rilegge la tradizione teologica cristiana, Vito Mancuso pare sempre che urli come un disagio di stare al mondo, tant’è che in apertura di libro s’immagina in alto, nell’atto di osservare il brulichio terrestre con infinita perplessità: un misto di gioia di vivere e di impossibilità di comprendere il senso di tutti questi accadimenti e dello stesso Dio, benché la conoscenza di Dio mediante ragione sia essa stessa un dogma della Chiesa. Mancuso non crede che la ragione possa portare a Dio, ma non crede neppure che il senso ultimo della scienza sia la stessa scienza. Mancuso non è né scientista né dogmatico, ma testimone di una Chiesa - di cui rivendica l’appartenenza - obbligatoriamente in divenire, in bilico sulle domande e sulle mutazioni del mondo e delle creature che lo abitano. Sarebbe riduttivo perciò definire Vito Mancuso un cattolico anticlericale (non lo è, essendo il suo discorso teologico tutto interno alla Chiesa), e poi perché il discorso di Mancuso è un tentativo di ridefinire le fondamenta della fede e della cultura cristiana.
Leggendo Mancuso si ha come l’impressione che a ogni uomo sia dato il dovere (nonché la solitudine) di ripensare e riflettere Dio, magari per mescolare le parole antiche con quelle moderne, le paure e le speranze di sempre con le paure e le speranze nuove, del qui e ora, del mondo di oggi (come fosse davvero incompiuta, l’opera creatrice di Dio). Per quanto la Chiesa possa adontarsi per tale testimonianza individualistica (e, tutto sommato, letteraria, quasi testoriana), rimane la forza di un discorso teologico che espone la fede attraverso ferree argomentazioni spaesate e tumultuose, per indicare una fede nuova, irrobustita dall’esperienza della realtà e della modernità.
Se nel mondo l’80% dell’umanità si dichiara religiosa - in forme e modalità tutte diverse - lo dobbiamo anche a un rinnovato corpo a corpo, sempre più necessario, benché «contaminato» di spiritualismo moderno, tra le singole vite delle persone e Dio, ovvero tra «io e Dio». Ma, ci domandiamo umilmente, cosa succede a una Chiesa quando chiunque decide di interpretare Dio e le sue leggi in base al sentire e argomentare del proprio io? E davvero la Chiesa è un ostacolo al dialogo speciale e irripetibile tra ogni io con Dio?