PER UNA NUOVA TEOLOGIA
Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 9 settembre 2011)
Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della "buona novella". Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera "dentro"; ma l’ortodossia lo colloca "fuori".
Tutto si svolge con rispetto, ma l’accusa mossa al discorso ch’egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno "gnostico à la page"?
Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell’autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul "divino". Siamo nel campo della "teologia fondamentale", cioè dell’atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle "vie" e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa.
Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l’agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l’economia, la cultura, il tempo libero, l’amore e la sessualità, la scienza... La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall’autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell’agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c’è il terrore dell’inferno ma la chiamata alla vita buona.
Il passo decisivo è forse il rigetto dell’idea di un dio come "persona": un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all’ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d’un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al "divino", lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano.
Quando poi sulla parola di Dio (il "Dio lo vuole") si crea il potere d’una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di "uomini di Dio". La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola - se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero - nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne. «Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch’io sono dio per me stesso? Per nulla.
«Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie [...], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà».
Credere in Dio, allora, non è lo "status del credente"; non è dire: "Signore, Signore" a un deus ex machina che ci salva dai pericoli - qui Mancuso è Bonhöffer -. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com’è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un’espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere "sale della terra". Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.
Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene - sintesi di giustizia, verità e bellezza -; tragica, perché è consapevole dell’enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come "ottimismo drammatico’": vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e l’assurdo».
È questa un’accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l’autorizzazione alla creazione di "dei di comodo"? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell’essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.
La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera "illuminato" da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.
Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d’una fede di élite, contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli "uomini di onesto sentire" (gli ánthropoi eudokías dell’angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14).
La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c’è una materia che dev’essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.
Nella "vita buona" di Mancuso, il primato è della coscienza; nella "vita buona" della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus.
La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. "Dentro" vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti "di onesto sentire", secondo l’insegnamento di G. E. Lessing, l’Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.
Ora, si tratta del passo ulteriore: la "teologia sistematica", cioè la rilettura d’insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL MILLENARIO SONNO DOGMATICO DELLA CHIESA CATTOLICA ....
LA PREGHIERA CHE GESU’ HA INSEGNATO E IL DIO CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Le riflessioni di Mons. Giraud, vescovo di Soissons - con una nota introduttiva
di Vito Mancuso (la Repubblica, 30 marzo 2017)
Essere figli, ovvero l’arte di vivere e di nutrire la vita: è questa la posta in gioco. Infatti ben prima di avere uno o più figli, a tutti si impone il fatto di essere figlio, di essere figlia, vale a dire di ricevere la vita, il corpo e il carattere da “Altro”, come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro (“Il segreto del figlio”, Feltrinelli) usando sempre regolarmente la maiuscola. Qual è il senso di questa maiuscola? Nessuna somiglianza con il “totalmente Altro” mediante cui Rudolf Otto o Max Horkheimer alludevano al “Numinoso”, nulla a che fare con Dio.
Tuttavia l’uso così reiterato del maiuscolo segnala pur sempre una trascendenza, il desiderio di indicare qualcosa di più grande di noi che ci attraversa e ci fonda nella nostra più intima identità. Vale a dire: la nostra più intima identità non è nostra. È Altro. Ecco il mistero, il segreto dell’essere uomini in quanto tutti inevitabilmente figli.
Tutta la parabola della modernità occidentale è stata vissuta all’insegna dell’uscita dalla condizione di figlio su cui il cristianesimo aveva strutturato fino ad allora la coscienza occidentale: Dio come Padre e la Madonna come Madre, con tutta la storia dell’arte a testimone. Si pensi, di contro, alle celebri parole con cui Kant apre lo scritto sull’Illuminismo del 1784: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minore età». Ovvero l’uscita dalla condizione di figlio.L’Occidente non ha più voluto concepire la propria identità all’insegna dell’essere figlio e così la sua maggiore età ha coinciso logicamente con l’abbandono del Padre. Sto parlando della “morte di Dio”, proclamata prima sommessamente da Hegel con il saggio Fede e sapere del 1802, poi trionfalmente da Nietzsche con La gaia scienza del 1882. Il non voler più essere figli ha significato necessariamente la morte di Dio.
Ma la questione al centro del libro di Recalcati è la figliolanza e al riguardo io chiedo: è naturale, per chi è inevitabilmente e primariamente figlio, non riconoscere che la sua identità passa necessariamente dal rapporto di dipendenza in quanto rapporto con “Altro”? Non lo è, e forse il sempre più manifesto malessere che circonda l’esistenza occidentale dipende proprio dall’oblio della nostra condizione di figli. Anzi, forse con i nostri figli non sappiamo più avere un rapporto autorevole e che sia per loro realmente di guida (mentre indugiamo nella retorica del dialogo e dell’empatia così fortemente criticata da Recalcati) proprio perché a nostra volta non sappiamo più essere figli e rapportarci a un padre, cioè a una dimensione più importante di noi. La morte di Dio all’interno di una civiltà non è una cosa da poco e non passa senza conseguenze anche per le minute esistenze dei singoli.
Il punto non è certo il ritorno alla fede in Dio del passato, quanto piuttosto la necessità di una gerarchia mentale che faccia evitare quella «sorta di immedesimazione confusiva frutto di un’orizzontalizzazione del legame che smarrisce ogni senso di verticalità», con la conseguente «retorica pedagogica del dialogo oggi imperante». Il concetto centrale del libro infatti è che con i figli non si tratta tanto di dialogare e di cercare empatia, quanto piuttosto del «riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita altra, straniera, distinta, differente». Si tratta cioè di arrivare a comprendere che il figlio è «un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione», è «un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale». Parole antiche, che fanno venire in mente il Profeta di Gibran: «I vostri figli non sono i vostri figli... Essi non vengono da voi, ma attraverso voi, e non vi appartengono».
Ma la domanda è: la nostra cultura, così priva del senso dell’Altro e ossessionata dal desiderio di avere perché tutto ha un prezzo e si può comprare pagando (anche un figlio!), è in grado di concepire ancora il significato di termini come “mistero” e “segreto”, e di fermarsi con rispetto di fronte alla realtà indisponibile cui rimandano? Recalcati sostiene anche che essere figli significa essere eredi, il che comporta non solo ereditare dei beni ma anche costruirsi una propria e diversa identità perché «il figlio giusto è un erede, ma è anche sempre un eretico», non si limita cioè a ripetere il passato, ma lo riprende attualizzandolo originariamente nel suo presente.
Si tratta quindi di evitare due estremi: da un lato ignorare completamente il padre, dall’altro rimanere appiattiti sull’identità paterna dimenticando che la condizione di figlio «esige sempre il diritto alla rivolta». Occorre avere un padre e al contempo superarlo, occorre avere un dogma e al contempo contestarlo, perché solo così si costruisce la personalità matura: mediante questo legame vero ma libero e creativo con il padre e con ciò che simboleggia in termini di passato, tradizione, autorità, legge. Appartenenza ed erranza. Ma perché questa delicata dialettica possa aver luogo, i figli, ben lungi dall’avere nei genitori dei comodi fornitori di servizi, «necessitano di trovare nei propri genitori degli ostacoli».
Quale tipo di ostacoli? Qui sta la differenza tra Edipo e il figlio ritrovato della parabola evangelica (tradizionalmente detto “figliol prodigo”) attorno ai quali è costruito il libro. Entrambi vivono l’esigenza insopprimibile di abbandonare la casa per costruirsi un’identità diversa da quella preparata per loro, ed entrambi iniziano il loro percorso con una trasgressione. Ma mentre nel caso di Edipo la legge del destino inesorabilmente si compie, nella parabola evangelica si assiste a un superamento della legge da parte del padre. Per favorire il compiersi dell’identità del figlio, il padre accetta la ribellione del figlio e divide in due le sue sostanze, anzi «soprattutto se stesso». Se però da parte del padre non c’è nessuna intransigente opposizione nel nome della Legge, non c’è neppure l’appiccicosa e fatua complicità di chi vuol compiere le stesse bravate del figlio. Il padre prende sul serio l’esigenza della libertà del figlio di provare se stesso ma rimane padre, non si trasforma in amico, e così rimane ancora fedele al suo ruolo di “ostacolo”. E proprio di questo il figlio ha bisogno, perché «non si può essere figli giusti se si rinnega il padre».
Eccoci al punto. Secondo Recalcati il dramma specifico dei nostri giorni consiste nel fatto che «i nostri figli vivono il dramma del vuoto della Legge», una nuova specie di smarrimento data dall’assenza di codici, valori stabili, punti di riferimento. Per questo, se il compito dei genitori è di «avere fede nel segreto incomprensibile del figlio», occorre essere consapevoli che questo compito sarà espletabile non sulla base dell’ideologia orizzontale del dialogo e dell’empatia, ma solo sulla base di una fede nell’Altro quale nuova legge della relazione umana.
"DIO E’ SPIRITO": MA QUALE SPIRITO?!:
Cercando il vero Dio in un’immagine
Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 04.10.2015)
Rappresentare il creatore biblico è sempre stata la principale sfida nella storia dell’arte occidentale Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio? Credo sia sufficiente percorrere in senso cronologico un museo per rendersi conto del declino, per non dire tracollo, dell’arte sacra in occidente. All’inizio nei secoli medievali quasi ogni dipinto è una raffigurazione religiosa, poi con l’avvento del rinascimento compaiono anche soggetti profani, ma la religione rimane ancora la protagonista indiscussa: impossibile pensare Raffaello, Michelangelo o Caravaggio senza i loro soggetti religiosi.
Il Settecento con l’illuminismo segna la svolta, così che, anche quando l’interesse per la religione si ravviva con il romanticismo, l’iconografia tradizionale ormai non sa più parlare al sentimento contemporaneo e i tentativi di rivitalizzarla producono solo opere artificiali, in modo analogo alla neoscolastica nel campo del pensiero. Osservava in quegli anni Oscar Wilde: «Ogni imitazione, nella morale come nella vita, è errata». Quando poi la visita al museo ci avrà condotto alle sale del Novecento e della contemporaneità, i soggetti religiosi appariranno delle eccezioni.
Ma il punto è che anche l’arte sacra guidata dalle migliori intenzioni non raffigura quasi più i soggetti dove più risplende la gloria del divino, come Dio Padre o la Trinità. Ci si concentra quasi solo su Cristo, ma insistendo sulla sua dimensione umana, non su quella divina: Cristo è colui che soffre e che muore, non più il Pantokrator che domina il mondo come nella cattedrale di Monreale o nel duomo di Cefalù. Perché? Perché le immagini religiose di un tempo oggi appaiono estremamente improbabili nel loro comunicare Dio. Anzi, proprio mentre pretendono di rappresentare al sommo grado la gloria del divino dipingendo Dio Padre con il triangolo luminoso sulla testa, ne sono palesemente lontane. Fanno venire in mente il titolo di un celebre saggio teologico di John Robinson del 1963: Dio non è così.
Il punto è che “Dio è spirito”, come dice il vangelo (Giovanni 4,24) e come sostengono i grandi pensatori che hanno seriamente riflettuto al riguardo tra cui Platone, Aristotele, Origene, Agostino, Maimonide, Tommaso d’Aquino, Cusano, Hegel, e non è per nulla semplice, anzi è sostanzialmente impossibile, raffigurare lo spirito. Per questo osservava Montaigne: «È difficile portare le cose divine sulla nostra bilancia, senza che esse non ne soffrano un calo». Da qui l’implausibilità di tutte le opere artistiche che, a dispetto di ciò, cercano di rappresentare Dio.
Eppure il cristianesimo gioca gran parte del suo destino nell’impresa estetico-teologica. Esso infatti è la religione del Dio resosi visibile in forma umana e per questo, a differenza dell’ebraismo e dell’islam, ha sempre creduto nella possibilità di rappresentare il divino. Anche quando la Riforma protestante diede avvio a una sistematica distruzione delle immagini religiose, il cattolicesimo non smise mai di incoraggiare l’immaginazione artistica: nel nord Europa si distruggevano le immagini sacre, da noi Michelangelo dipingeva il Giudizio universale!
Nella capacità di tornare a esprimere in modo credibile la gloria del divino si determina in non piccola parte il futuro del cattolicesimo: se tornerà cioè a saper incidere nell’anima contemporanea, non solo in senso etico spingendola a essere buona, ma prima ancora in senso estetico, affascinandola per la sua bellezza e per la sua gloria. Il guaio è che ben pochi tra le gerarchie ecclesiastiche sembrano rendersi conto di tutto ciò.
“Bioteologia” la scommessa che riavvicina Dio e Natura
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 13 novembre 2015)
Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali.
La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.
La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio.
La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.
Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.
Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia.
E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007).
Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.
Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura.
Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.
Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano spiegare l’esistenza di strutture complesse - fossero il mondo, la mente o il linguaggio - se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente.
Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.
Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza - tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta - solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abba- stanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920).
Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.
La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste.
Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».
Addio dogmi, un dio giusto nel mondo
di VITTORIO COLETTI (la Repubblica-Genova, 15 novembre 2015)
COME ormai da qualche tempo, anche quest’anno, dal 2 al 4 dicembre, Vito Mancuso terrà a Palazzo Ducale il suo corso intensivo di teologia, per il quale sono già aperte le iscrizioni. Mai come questa volta vi si discuterà un tema entusiasmante e provocatorio, annunciato dal formidabile libro che Mancuso ha appena pubblicato da Garzanti: Dio e il suo destino. Con la generosità e la passione intellettuale che lo contraddistinguono, il teologo si accinge infatti a dichiarare finita l’idea di Dio che ha caratterizzato le religioni del Libro, ebraismo, cristianesimo e islam, basate su un’immagine di Dio come entità onnipotente radicalmente distinta dal mondo che ha creato, misterioso responsabile quindi di tutto, dell’inizio e della fine, del bene e del male.
MANCUSO propone una nuova immagine di Dio, data dal suo coinvolgimento nella vicenda del mondo che egli ha originato e con il quale, però, non coincide, essendo anche il superiore fine di ordine e armonia (logos) cui l’universo tende dalla sua immensa complessità cosmica (caos). Questa nuova idea di Dio si sviluppa dal riconoscimento delle due logiche che governano l’esistenza, quella del senso e del bene e quella dell’assurdo e del male, e della loro rispettiva imprescindibilità: sono vere entrambe e contemporaneamente. Dio deve dar conto di questa costitutiva contraddizione del creato e lo può fare solo assumendola in se stesso, entrando anche lui nella vicenda di bene e di male, di gioia e di dolore, di senso e di assurdità, di stelle e buchi neri, ma garantendo, in questo modo, anche alla negatività e al dolore una ragione, che è, per il cosmo, quella dell’indeterminazione e, per l’uomo, quella della libertà di scegliere tra bene e male, perché se tutto fosse già perfetto non ci sarebbe né evoluzione né libertà di scelta, non essendovi ragione per modificarlo.
Mancuso crede in questo nuovo Dio perché ritiene di dover optare per il bene e per la giustizia, di dover cercare nel caos della natura e nelle sofferenze della storia quella via dell’ordine armonioso e giusto che solo la più avanzata delle creature conosciute, l’uomo, è in grado di vedere e volere. La sua teologia ha un così forte fondamento etico che il libro è dedicato a don Andrea Gallo e si chiude nel ricordo della sua istintiva, candida percezione di un Dio “antifascista”, che si batte cioè costitutivamente per la giustizia contro la sopraffazione e l’iniquità in tutte le loro forme.
Mancuso archivia il Dio monarca cattivo dei vecchi monoteismi, oggi venerato soprattutto dall’ islam come si è appena visto nella strage di Parigi, e porta a conseguenze radicali il Dio fraterno del nuovo cristianesimo di papa Francesco, un Dio disseminato nella creazione, di cui condivide la potenza e la fragilità e alla quale indica (non coincidendo quindi con essa, ma restando oltre, trascendendola) la strada, la meta della perfezione, del bene e della giustizia.
Farà molto discutere questo libro, perché smonta integralmente la teologia occidentale, archivia i dogmi, ridimensiona i culti e i riti, proponendo un Dio che è mescolato nel suo universo e lo condivide con l’uomo e le altre creature, estremo, radicale frutto teologico della grande intuizione cristiana del Dio incarnato, fatto natura biologica e storia umana.
Mancuso riprende ovviamente il suo precedente lavoro teologico, perché questa nuova concezione di Dio non si darebbe senza un ripensamento (da lui fatto in altri libri) dell’uomo e della vita alla luce delle nuove scoperte scientifiche, che indurrebbero a cogliere l’anima spirituale dell’uomo nel surplus di energia che lo caratterizza e lo mette, unica tra le creature note, in condizione di operare liberamente, assecondando o ostacolando la tensione all’armonia, alla complessità ordinata, al bene, al giusto, che percorre l’universo e la nostra esistenza.
Mancuso è un intellettuale onesto oltre che un teologo straordinariamente preparato: si dichiara credente ma non nasconde che la religione in questo nuovo Dio istituisce un legame diverso tra Dio e l’uomo, in cui ognuno, l’uomo e Dio, è responsabile dell’altro. Non c’è dubbio che solo dal cristianesimo moderno, così ispirato ai principi del bene e della giustizia, alla protezione dei deboli e ora anche della natura, poteva svilupparsi una teologia che cambia radicalmente i connotati del Dio tradizionale e propone un nuovo Dio, personale e cosmico, ricco di amore distribuito e di dolore condiviso. Il Dio di Mancuso è trinitario perché costituito di relazioni, col mondo naturale e con gli uomini: «trinitas esprime la relazione quale dimensione prima e ultima della realtà».
Basterà questa coraggiosa novità teologica a salvare Dio dal suo destino, che lo fa o troppo cattivo e potente, braccio armato del sempiterno delirio di potenza, o così tenue e lontano da sparire dall’orizzonte dell’uomo occidentale, che sempre più ne fa oggi a meno, rinunciando a chiedersi ragioni e direzione della vita e puntando solo sui beni materiali, senza attesa e voglia di bene e di giustizia?
Non lo so. Non lo sa, onestamente, neanche Mancuso, che ammette che la sua fede in questo Dio nasce da una decisione morale per il bene e il giusto, per la pace, prima che dalla riflessione teologica. Mancuso sa che si può amare la vita, il bene, l’ordine armonioso, la pace e la giustizia e non cercare Dio per spiegarli, ma è convinto che solo la misura assoluta della trascendenza garantisca la tenuta di questi valori morali e cosmici.
Senza il pensiero di Dio, secondo lui, bene e giustizia restano appesi a un filo troppo fragile: perché si dovrebbero cercare, con la fatica che comportano, anche quando, poniamo, sarebbe molto più comodo e redditizio infischiarsene? Sta qui la generosità morale di questa teologia rivoluzionaria, che non si ferma di fronte a nessun rischio conoscitivo perché crede in un progetto di bene, di senso, in una creazione continua, bisognosa di incessante perfezionamento e miglioramento da parte di Dio e da parte dell’uomo.
Mancuso si rivela figlio maturo del cristianesimo proprio nel momento in cui ne congeda gran parte della storia e della teologia: solo un cristiano convinto può infatti avere ancora tanta fiducia nell’uomo da puntare sulla sua ansia di senso, di armonia, di bellezza, di bene, piuttosto che sulla sbadataggine ottusa in cui a me sembra purtroppo, oggi come non mai, immerso. Ma una cosa è certa, dopo l’orrore di Parigi, e il libro di Mancuso la insegna con coraggio: bisogna ripudiare il dio potente e oscuro nel cui nome si è ucciso, si uccide e ci si uccide, rispuntato imprevedibilmente dal Medioevo teologico nel XXI secolo ad armare i nuovi fondamentalisti.
Ancora cercare il tuo volto
di Angelo Casati (Il Gallo, settembre 2011)
Mi seducono, lo confesso, immagini e simboli. E sogno, tu lo sai, una chiesa che non si scosti molto da Gesú. Dalla sua arte sorprendente di parlare per immagini e simboli.
Elia in cerca di Dio
Tra le immagini a seduzione oggi vorrei evocare la caverna. Precisamente la caverna del monte di Dio, l’Oreb, in cui entrò per passarvi la notte il profeta Elia. Elia arriva al monte Oreb. Il suo non è, come uno potrebbe immaginare, un pellegrinaggio di tutto riposo. Arriva, Elia. dopo aver scannato quattrocentocinquanta profeti di Baal nelle acque del torrente Kison. Così gli sembrò si dovessero difendere i diritti di Dio. Con questo zelo. Succede! Succede anche oggi.
«Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti» risponderà al Signore che gli chiedeva «Che fai qui Elia? Che fai qui, nella caverna?».
La caverna, fin dall’antichità, è sempre stata un simbolo. Un simbolo di avvistamento del mistero e, insieme, di distanza dal mistero. Avvistamento e nascondimento: Dio c’è, e ci sono luci e ci sono ombre nella caverna.
Ed Elia prende coscienza che Dio è distante. Distante dal suo modo di immaginarlo, lontano dallo zelo, che gli aveva fatto scannare quattrocentocinquanta profeti. Pensando di onorare cosí Dio! Dio non era, come lo aveva immaginato, nei segni della potenza: non era nell’uragano, non era nel terremoto. Era -la nostra traduzione dice «nel mormorio di una brezza leggera», o meglio, come dice il testo ebraico, era «nel suono di un silenzio sottile»- il suono... del silenzio. Pensava, Elia, di trovare sul monte la conferma a una fede dal volto agguerrito. Trova un Dio che fa tacere la rabbia, l’intransigenza, l’uragano del suo cuore. È un Dio che mette silenzio, il Dio del silenzio sottile.
È un Dio che è presente non nella forza delle armi, ma nella forza mite della fede, nella forza mite della ragione. Non nella forza degli urli. Altro è lo stile di Dio.
Alterità di Dio L’immagine della caverna sul monte, terra di avvistamento, ma anche terra di piccolezza e di ombra, ha sostato a lungo nei miei pensieri in questi mesi, quasi a fugare un certo disagio patito per le molte parole proclamate da una parte e dall’altra, a proposito e a sproposito di relativismo.
C’è, e non vogliamo negarlo, un relativismo rozzo e spento, quello superficiale di coloro per i quali una cosa vale l’altra. Né vale la pena di consumare cuore e fatica nell’assurda ricerca. Quasi non esistesse luce da cui lasciarsi guidare, né preghiera che ce l’avvicini. La caverna è vuota. Ma c’è anche un relativismo cristiano. Cosí lo chiamò il cardinale Martini nell’omelia del suo venticinquesimo di episcopato nel Duomo di Milano. È il relativismo, oserei dire, della caverna. Da cui intravedi luci e rimani sedotto, affascinato. Ma mai e poi mai ti azzarderesti a dire che la caverna possiede l’intera luce dell’orizzonte. C’è il miracolo della luce, ma è quella che può filtrare da uno squarcio del monte, quasi figura di una finestra in attesa.
Sarebbe una grazia, io penso, se fossimo tutti piú consapevoli che il nostro è e sarà sempre un balbettare. Di Dio e degli umani. Se fossimo interiormente persuasi che la verità è anche Altro, è anche oltre e che Dio non può stare solo nelle nostre parole, è anche in altre parole, che Dio non può stare solo nel nostro colore, è anche in altri colori.
In un midrash della letteratura rabbinica si narra di alcuni rabbini che un giorno si misero a disputare accesamente su un punto della legge. Rabbi Eliezer produsse argomenti possibili per dimostrare il suo punto di vista. Ma gli altri rabbini non si lasciavano convincere dagli argomenti di Rabbi Eliezer. Alla fine una voce celeste sembrò confermare il pensiero di Rabbi Eliezer. Ma Rabbi Joshua súbito esclamò: «Non è in cielo!». «Che cosa significa questa citazione delDeuteronomio "non è in cielo"?». Rabbi Jirmijah spiegò: «La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che continuiamo a occuparci di voci celesti: la Torah del Sinai contiene già il principio che è decisivo, il voto di maggioranza».
Il midrash sulla accesa disputa si conclude raccontando che quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta Elia. E gli domandò: «Che cosa ha fatto Dio in quel momento?». Il profeta rispose: «Dio ha sorriso e ha detto: "I miei figli mi hanno superato!"». Incantamento e povertà delle parole
Che il Dio della Bibbia abbia il volto del Dio che sorride per i figli che mettono in campo tutta la loro arte di interrogare e di interrogarsi, e non per i figli che sonnecchiano pigri accettando tutto passivamente, è una buona notizia. È notizia di un Dio che onora ed è onorato dall’intelligenza, un’intelligenza che è incantamento davanti al mistero, che è la gioia di dire un nome e súbito percepirlo relativo, segnato da una povera misura e súbito ricorrere a un altro nome e a un altro ancora. In una gara da innamorati.
Come succede agli amanti del Cantico dei cantici, inesausti nel dare nomi all’amato, all’amata. Sembra loro di ricongiungersi, ma ecco si perdono. In un gioco che non è solo quello dell’amore, ma anche della verità. Un gioco che non è, se non per chi vive nell’asfissia dei palazzi grigi delle presunte verità, rozzezza dello spirito, ma freschezza di incantamento, un’esperienza di innamorati.
Solo uomini
cui non toccò mai
l’avventura di amare
né il brivido d’innamorarsi
oseranno dire
sempre uguale, monotono,
il racconto misterioso
del torrente dei monti.
Incantamento e, insieme, confessione della povertà delle parole a dire l’avventura che ci conduce. Noi confessiamo, non senza emozione, che Gesú è la verità, è la luce, ma le parole hanno la debolezza della nostra fragile tenda. La tenda dà ospitalità al mistero, ma riconosce anche la povera misura dei suoi teli.
Leggerezza della verità
Non tutto è nella mia tenda. L’infinito è accaduto nella tenda di Gesú, nella sua carne. Ma non sempre ci soffermiamo a pensare che nelle mani noi abbiamo non uno solo, ma quattro vangeli. Quasi a dire che una notizia cosí sorprendente, come quella della vita di Gesú, non sarebbe bastato uno a raccontarla. Ci vollero quattro voci. E forse non è cosí stravagante pensare che qualche sussulto di lui sia rimasto nell’aria, qualche voce forse al di là dei quattro vangeli. Non aveva forse detto Gesú ai discepoli: «Molte cose ho ancóra da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando poi verrà lo Spirito di verità, egli vi condurrà alla verità tutta intera»? (Gv 16, 12-13)
La verità dunque non è un muro di fine corsa, è la porta, è l’ introduzione .
La verità, si dice, è roccia di solidità. Ma l’immagine qualche volta purtroppo è stata usata nel senso della pesantezza. Giusto un anno fa, un gesuita dell’Istituto biblico di Gerusalemme, occhi chiari, ci additava le rocce del deserto, l’incanto delle loro striature e ci parlava della roccia come bellezza. La verità come pesantezza, come arroganza del possesso, ha generato profeti che scannano profeti e ancóra oggi torrenti portano il segno e la maledizione del sangue versato. Perché la verità senza amore diventa dominio, imposizione. E dove c’è dominio non c’è Dio. Dove c’è dominio, fosse pure delle coscienze, dove uno è in alto e uno è in basso, diventa sacrilegio mettere il nome di Dio. Come insegna un midrash della tradizione rabbinica.
Dio è nel sussurro Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a lèggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero».
Continuammo a lèggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».
Dio non è nell’arroganza. Nemmeno nell’arroganza della verità. È nel suono di un silenzio sottile. È nel sussurro. Sussurro, una parola che ho ritrovato piú volte nella lettera dell’estate di una giovane amica che raccontava del cambiamento radicale della sua vita grazie al sussurro della voce di Dio: Dentro di me appena un sussurro, ma continuo, incessante. Ho passato mesi faticosi e dolorosi, ma alla fine cosí rigeneranti, di una vita nuova che non conoscevo come mia.
Ora è un’ansia continua che mi sospinge al di là di quelle che un tempo reputavo fossero barriere, adesso intravedo varchi. passi e sentieri, anche tra le mura della nostra invivibile città, ci sono vie cosí belle dietro le orme del Signore! Non sai
Non so per quale motivo Dio mi si è messo accanto con tale insistenza da farmi cambiare tutte le mie prospettive e da allentare le mie rigidità.
Da allora non mi ha mai abbandonato il sussurro. E la gioia piú grande è riuscire a condividere con gli altri la mia fede. Da quando ho incominciato a tirar fuori Dio dall’oscuro sgabuzzino in cui l’avevo rinchiuso solo per me, riesco a parlare di lui senza vergogna e timore di giudizi, e mi rende felice.
La verità non è immobilità. È la freschezza, la leggerezza, la bellezza di un cammino. Con un auspicio:
all’ultimo tornante
ancóra
cercare
il tuo volto.
Mancuso e Dio
un corto circuito teologico
Nel nuovo saggio lo studioso tenta anche il recupero di classici come Kant
Ma non c’è traccia del riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico
Il teologo Vito Mancuso è docente allla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Storico e politologo Gian Enrico Rusconi è docente di Scienze politiche all’Università di Torino
L’IMPIANTO Da un lato c’è il rifiuto del dogmatismo tradizionale dall’altro una teologia di libertà
LA PARTE «COSTRUENS» Rischia però di essere una continua rassicurazione della centralità della religione
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 18.09.2011)
Non è chiaro che cosa sia «il ritorno della religione» oggi. Quello che è certo è che non poggia più sulla teologia nel suo senso tradizionale. Sembra anzi non averne neppure bisogno. Il «ragionare su Dio» anziché mirare a solidi argomenti «razionali» (anzi questo termine è guardato con estremo sospetto), è diventato un parlare a ruota libera, un eclettico accostamento di emozioni più o meno profonde e di pensieri edificanti.
La rilevanza pubblica della religione oggi è dovuta quasi esclusivamente al fatto che offre una dottrina morale - sia che essa venga accolta e (apparentemente) praticata o che venga politicamente strumentalizzata. In ogni caso non è più una dottrina che poggia su concetti teologici forti - peccato (originale), redenzione, salvezza. Questi sono concetti che i moralisti e i pastori d’anime non sono più in grado di spiegare in modo convincente. Lo fanno solo in modo metaforico, allusivo, letterario. Al posto dei ragionamenti tradizionali ci sono discorsi di carattere psicologico, antropologico. Persino un certo uso della parola «spiritualità» dissimula la fine della teologia. I più sofisticati parlano di «teologia narrativa», confondendo esegesi biblica con fondazione teologica.
In questo contesto da alcuni anni si muove polemicamente con grande verve Vito Mancuso, «il teologo fuori le mura», come volentieri si lascia chiamare. Il suo ultimo libro - dal titolo impressionante Io e Dio (Garzanti, 488 pp., 18.60 euro) è un ambizioso, denso, appassionato tentativo di proporre nientemeno che una nuova «teologia fondamentale». L’impianto del lavoro è dato da un lato dal rifiuto della dottrina dogmatica tradizionale, la cui forza starebbe esclusivamente nell’ autoritarismo della Chiesa, e dall’altro dalla proposta di una teologia fondata sulla libertà. «Questo libro difende la libertà contro la duplice minaccia dell’autoritarismo religioso e dello scientismo negatore del libero arbitrio».
Il libro si presenta quindi con una «pars destruens» e una «pars construens». La parte critica contro l’autoritarismo religioso è articolata in modo fermo, efficace e competente (evidentemente Mancuso conosce bene l’oggetto di cui parla...). La parte positiva invece rischia di essere una continua rassicurazione della centralità e della insostituibilità della religione («unico pensiero forte», «energia intellettuale che oltre a riempire la mente, tocca la vita, scalda il cuore, alimenta la passione, muove i popoli»). Ma gli argomenti offerti per questa nuova concezione non sono convincenti.
Faccio un esempio. Mettendo in guardia dall’associare immediatamente Dio ad un essere personale nel senso della dottrina tradizionale, Mancuso parla di Dio come della «sorgente e porto dell’essere-energia, nonché la sorgente dell’informazione che consente all’energia di strutturarsi in materia organizzata così da diventare vita, vita intelligente, vita come spirito creativo». Si tratta di espressioni enigmatiche (Dio-energia, sorgente dell’informazione che struttura la vita) che rimandano ad altro libro di Mancuso, L’anima e il suo destino , 2007. Qui con ingegnose e spericolate innovazioni espressive, liberamente prese dal linguaggio dell’evoluzione, l’autore propone il ritorno della «finalità della natura-physis ad una teleologia iscritta nell’essere naturale, coincidente con lo stesso presentarsi dell’essereenergia, già da sempre in essa presente».
Questo tortuoso modo di esprimersi di Mancuso è il tentativo di replicare al deficit più serio della dottrina della Chiesa - quello del concetto di natura. Retaggio di un modo di pensare metafisico, il concetto di natura che innerva l’intera dottrina morale della Chiesa, è incapace di tenere testa allo sviluppo delle scienze dell’uomo (dalla teoria dell’evoluzione alle neurobiologie) che vengono semplicemente diffamate come «scientismo». Ma non è chiaro come Mancuso possa tenere insieme una teleologia naturale che rimanda ad un Dio-energia, con il Dio che è in intimo rapporto con l’io-persona. («L’ io che raggiunge la dimensione dello spirito-libertà, può infrangere la struttura che l’ha generato e che lo mantiene in vita, spezzando la forza di gravità biologica e sociale»).
Confesso che questi ragionamenti mi paiono avventurosi. Fortunatamente nel libro ci sono molte lucide pagine di analisi realistiche della dottrina della Chiesa e della sua storia dogmatica. I corposi capitoli centrali (dal III al VIII) affrontano le questioni cruciali della figura storica di Gesù, le controversie legate alla risurrezione di Cristo, la storia della redazione dei Vangeli. Intendiamoci: in Mancuso che non ci sono novità interpretative, ma la ripresa di critiche storicamente consolidate che danno luogo a puntigliose contestazioni di alcune posizioni della Chiesa (compresa una brillante «Disputa immaginaria con il card. Ruini» sulla consistenza delle prove tradizionali dell’esistenza di Dio).
L’autore si muove con sicurezza nei testi evangelici, analizza criticamente i passaggi classici di Paolo, Agostino, Tommaso su su sino a Benedetto XVI. Mostra i loro punti deboli o sbagliati - ma alla fine è volontaristicamente solidale con loro nella comunanza della fede che non intende affatto abbandonare. Va detto che con altrettanto impegno rilegge e ricupera i classici laici, in particolareKant. Ma questa operazione è inficiata dalla esclusiva preoccupazione di Mancuso di guadagnare strumentalmente i grandi autori laici (credenti) alla sua idea della centralità assoluta della fede presentata come unico modo autentico di fare domande e dare risposte di senso alla vita. Non c’è traccia significativa del riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico.
Vorrei chiudere riportando un passaggio rivelatore. Nel cuore di un’argomentazione decisiva che affronta la figura storica di Gesù e del suo ebraismo, Mancuso scrive «Alla domanda sulla legittimità della connessione tra Gesù-Yeshua e Gesù-ilCristo è la fede personale di ciascuno a rispondere. Ancora una volta non c’è niente che si frappone tra Io e Dio». Mi chiedo come si possa costruire una solida teologia critica su questo corto-circuito soggettivo.
«Io e Dio», la teologia da supermarket di Vito Mancuso
Un libro consolatorio. La ricerca di un nuovo senso della fede che semplifica un po’ troppo le connessioni tra cristiani e non
di Fabio Luppino (l’Unità, 28.09.2011)
Ci sono stati laici che per una vita hanno cercato un dialogo con Dio, rinunciandovi dopo molte sofferenze. Altri, anche comunisti, hanno scelto la conversione religiosa da anziani, quando l’età lascia più tempo agli interrogativi. Altri ancora hanno speso molta parte della loro vita negando la necessità di Dio.
Vito Mancuso, teologo, semplifica e invera: Io e Dio possono toccarsi. L’altra sera Fabio Fazio ha definito il volume di Mancuso, Io e Dio. Una guida per i perplessi (pagine 488, euro 18,60, Garzanti), un libro che fa scandalo. Mah... Il teologo ha detto che Dio è un fatto personale. Allora diciamo che siamo in un altro ambito, diciamo che stiamo facendo filosofia. La forza dell’uomo, le sue scelte di sofferenza, battersi per ideali, principi, anche a costo della vita, qui è la verità secondo l’autore. Stiamo parlando di un’altra categoria che con la religiosità non ha nulla a che fare. Stiamo parlando di eroi, uomini a volte nelle mani del caso.
Genesi 22: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Mancuso ha raccontato da Fazio che la Bibbia non è tutta così. Lui ha rassicurato i suoi figli che mai farebbe un tale sacrificio. Si tratta di una lettura del testo che stravolge il testo stesso, annega in uno scantinato secoli di esegesi, di dottrina, la teologia, appunto. La Bibbia è un insieme di rinvii simbolici e la citazione televisiva fa credere che sia un testo da leggere, tout court.
Mancuso esalta Io e lo vede vicino a Dio. Dio è una scelta. Io e Dio viaggeranno sempre paralleli. Chi ha deciso di entrare nel mistero divino e ci è rimasto tutta la vita non risolvendolo, cercando e non trovando, non ha mai considerato Io in corsa con Dio. Negli scorsi decenni ci sono stati molti sacerdoti di base critici con le gerarchie ecclesiastiche, che non avevano scrupoli nel dire che il potere temporale della Chiesa sia stato la sua stessa negazione. Al contrario la critica è sempre stata all’assenza di Dio, di Cristo da certi altari, l’indulgenza per una pallida interpretazione dei sacramenti.
Nemmeno la teologia della Liberazione si sognava di far incontrare Io e Dio, ma puntava al Dio autentico, rivoluzionario in luoghi in cui la Chiesa aveva coperto regimi sanguinari. Anche Hans Kung ha puntato il dito sul deficit di Cristo nella Chiesa: «Come Pio XII fece perseguitare i più importanti teologi del suo tempo, allo stesso modo si comportano Giovanni Paolo II e il suo Grande Inquisitore Ratzinger scrisse Kung dieci anni facon Schillebeeckx, Balasuriya, Boff, Bulányi, Curran, Fox, Drewermann e anche il Vescovo di Evreux Gaillot e l’arcivescovo di Seattle Huntington. Nella vita pubblica mancano oggi intellettuali e teologi cattolici della levatura della generazione del Concilio. Questo è il risultato di un clima di sospetto, che circonda i pensatori critici di questo Pontificato. I vescovi si sentono governatori romani invece che servitori del popolo della Chiesa. E troppi teologi scrivono in modo conformista oppure tacciono».
Io e Dio di Vito Mancuso segue nel viaggio di laicizzazione della teologia il precedente, L’anima e il suo destino. Siamo alla teologia da supermarket. Alla consolazione. Dopo averlo letto si può anche dire, pur non essendolo mai stati, in fondo anche Io sono cristiano.
Mancuso e la fede individuale
di Andrea Consoli (il Messaggero, 30 settembre 2011)
NEL nuovo saggio di Vito Mancuso «Io e Dio» (Garzanti, 496 pagine, 18,90 euro) c’è uno strano impasto di hybris e di umiltà, di fraternità rivendicata fino negli anfratti più «bassi» della realtà, lì dove domina il deforme, il dolore sordo, le nuove identità, il collasso della speranza e della fede. Pur riconoscendo il principio di autorità, Mancuso sta cercando - con coraggio, e con qualche compiacimento ribellistico - di spronare la Chiesa ad aprirsi a una moltitudine di uomini che cerca e trova Dio in una miriade di esperienze inedite.
Anche quando argomenta, anche quando rilegge la tradizione teologica cristiana, Vito Mancuso pare sempre che urli come un disagio di stare al mondo, tant’è che in apertura di libro s’immagina in alto, nell’atto di osservare il brulichio terrestre con infinita perplessità: un misto di gioia di vivere e di impossibilità di comprendere il senso di tutti questi accadimenti e dello stesso Dio, benché la conoscenza di Dio mediante ragione sia essa stessa un dogma della Chiesa. Mancuso non crede che la ragione possa portare a Dio, ma non crede neppure che il senso ultimo della scienza sia la stessa scienza. Mancuso non è né scientista né dogmatico, ma testimone di una Chiesa - di cui rivendica l’appartenenza - obbligatoriamente in divenire, in bilico sulle domande e sulle mutazioni del mondo e delle creature che lo abitano. Sarebbe riduttivo perciò definire Vito Mancuso un cattolico anticlericale (non lo è, essendo il suo discorso teologico tutto interno alla Chiesa), e poi perché il discorso di Mancuso è un tentativo di ridefinire le fondamenta della fede e della cultura cristiana.
Leggendo Mancuso si ha come l’impressione che a ogni uomo sia dato il dovere (nonché la solitudine) di ripensare e riflettere Dio, magari per mescolare le parole antiche con quelle moderne, le paure e le speranze di sempre con le paure e le speranze nuove, del qui e ora, del mondo di oggi (come fosse davvero incompiuta, l’opera creatrice di Dio). Per quanto la Chiesa possa adontarsi per tale testimonianza individualistica (e, tutto sommato, letteraria, quasi testoriana), rimane la forza di un discorso teologico che espone la fede attraverso ferree argomentazioni spaesate e tumultuose, per indicare una fede nuova, irrobustita dall’esperienza della realtà e della modernità.
Se nel mondo l’80% dell’umanità si dichiara religiosa - in forme e modalità tutte diverse - lo dobbiamo anche a un rinnovato corpo a corpo, sempre più necessario, benché «contaminato» di spiritualismo moderno, tra le singole vite delle persone e Dio, ovvero tra «io e Dio». Ma, ci domandiamo umilmente, cosa succede a una Chiesa quando chiunque decide di interpretare Dio e le sue leggi in base al sentire e argomentare del proprio io? E davvero la Chiesa è un ostacolo al dialogo speciale e irripetibile tra ogni io con Dio?