Michele Ciliberto ha scritto un libro prezioso per interpretare la politica degli ultimi vent’anni
Dispotismi. Berlusconi e il sonno della politica
di Luca Landò (l’Unità, 15.05.2011)
Berlusconi siamo noi. Certo, spiegarlo agli operai in cassa integrazione o ai loro figli senza lavoro, sarà difficile. Ma se vogliamo capire perché l’Italia ruoti da sedici anni intorno a un imprenditore “sceso” in politica per difendere i propri interessi un signore anziché quelli del Paese, sarà bene guardarsi allo specchio. E porsi qualche domanda. Per quale motivo gli italiani hanno firmato un assegno in bianco a un signore indagato per corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e adesso imputato con l’accusa di concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile. Tutto merito del grande comunicatore, come viene definito con involontario umorismo il padrone delle tv private e controllore di quelle pubbliche? O non c’è piuttosto un concorso di colpa, una manina inconscia con la quale tutti noi abbiamo aiutato la resistibile ascesa del Cavaliere? Insomma, genio lui che ci ha fatti fessi, o fessi noi che lo abbiamo lasciato fare?
È la domanda che ha spinto Michele Ciliberto, noto studioso del Rinascimento ad occuparsi di una questione che di rinascimentale ha ben poco. Il fatto è che Ciliberto, oltre che docente di storia della Filosofia alla Normale di Pisa, è uno di quei (pochi) intellettuali impegnati sopravvissuti alla grande estinzione, un dinosauro d’altri tempi, convinto che lo studio e la riflessione siano un cardine portante su cui far poggiare e ruotare l’intera azione politica.
Il risultato è un libro prezioso dal titolo volutamente contradditorio, La democrazia dispotica (Laterza, 202 pagg, 18 euro), che riprende un concetto espresso due secoli fa da Alexis de Tocqueville nella molto citata (ma poco studiata) Democrazia in America. Da buon normalista, Ciliberto parte dai classici dell’ottocento e del novecento: Marx, Weber, Toqueville appunto, ma anche Gramsci e Thomas Mann. Non per guardare l’oggi con gli occhiali di ieri (esercizio pericoloso quanto inutile) ma per capire i dubbi che spinsero quei geniali signori a interrogarsi sulle nuove forme di convivenza democratica.
Perché in democrazia, prima o poi, arriva inesorabile una scelta: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi? Certo, la schiavitù democratica è morbida e gentile, è psicologica anziché fisica. E soprattutto è volontaria. A finire in catene non è il corpo ma il libero arbitrio. Lo spiega bene Tocqueville in uno dei passaggi più urticanti, perché ci spinge sull’orlo del burrone, a due passi dal tabù: «Vedo una folla di uomini che non fanno che ruotare su loro stessi... Al di sopra si erge un potere immenso e tutelare, che si occupa da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. È così che giorno per giorno rende sempre più raro l’uso del libero arbitrio».
Non basta dunque parlare genericamente di democrazia. Sempre meglio specificarne il tipo, la marca. E quella che stiamo vivendo è una democrazia asimmetrica, a immagine e somiglianza, non del popolo che vota e sceglie, ma del capo scelto e votato. Un uomo solo al comando, ma col voto entusiasta degli elettori. E qui si cela il paradosso di questa democrazia di forma ma non di fatto: il sostegno della popolazione a un leader che non fa gli interessi della nazione ma quelli più personali e fin troppo privati. Un masochismo democratico che, secondo Ciliberto, sarebbe però sbagliato ricondurre a nuove forme di fascismo o di rinnovato peronismo: quella che si realizza con Berlusconi, infatti, è una malattia della democrazia moderna e, come tale, potrebbe ripresentarsi in altre forme e in altri Paesi. Spiace dirlo, ma l’Italia è in questo caso un laboratorio di alto valore internazionale. Perché comprendere quel che avviene da noi diventa di fondamentale importanza per qualunque sistema democratico.
Le cause sono tante. Ma il brodo di coltura, come direbbero i patologi, è legato al crollo dei grandi partiti di massa del Novecento, quelli per i quali, a destra come a sinistra, l’individuo era una goccia nel mare della storia, un organismo il cui senso esistenziale si completava solo contribuendo allo sviluppo di un progetto collettivo e inarrestabile. I movimenti del ’68 prima, il crollo dei muri dopo, hanno eroso questa visione della politica e del mondo, lasciando il campo a una interpretazione più individuale e libera della vita. È il personale che diventa politico, certo, ma anche un nuovo individualismo che cresce a dismisura.
Una trasformazione antropologica, come la chiama Ciliberto, che gli eredi dei grandi partiti di massa non sono stati in grado di anticipare e tanto meno affrontare. Non lo ha fatto la Democrazia Cristiana, travolta dal crollo di un sistema politico ormai logoro e contraddittorio. Ma non lo ha fatto nemmeno la sinistra, il Pci e le sue evoluzioni, legata a una visione di politica e di impegno che guardava più al Novecento che al nuovo millennio.
È in questo deserto della politica che Berlusconi si presenta come il salvatore, l’unico capace di attraversare il Mar Rosso e portare il popolo abbandonato dai vecchi partiti verso nuove sponde e un nuovo futuro. È lui il cantore di questo incontenibile individualismo e non è un caso che a intonare la musica non sia un politico di professione. In questo senso, ed è qui uno dei punti più interessanti del libro, Berlusconi non rappresenta l’antipolitica, ma la post-politica. Perché il Cavaliere la politica non la uccide, la usa.
Soffiando sul fuoco dell’individualismo e del “tutti padroni a casa propria”, Berlusconi smonta con il consenso popolare le istituzioni su cui poggia quel bene collettivo chiamato Stato. Attacca il Quirinale, ignora il Parlamento, sbeffeggia i simboli dell’antifascismo, minaccia i giudici e adotta un linguaggio irrituale condito da battute e privo di ogni bon ton istituzionale. Una demolizione del passato presentata agli elettori-telespettatori come il nuovo che avanza.
È con questo show insistente e permanente che Berlusconi costruisce il suo carisma di leader, di politico innovativo solo perché diverso. Non importano più i contenuti ma le parole, non più i risultati (peraltro negativi, anzi disastrosi) ma le promesse.
È da qui, da questo leader carismatico che nasce la nuova democrazia dispotica, una sorta di dittatura morbida in cui il popolo sovrano rinuncia alle proprie richieste, abdica al libero arbitrio e anziché difendere i propri interessi, sceglie con entusiasmo quelli del proprio capo.
Esiste un modo per uscire da questo infernale tunnel? Una terapia per ridare vigore e ossigeno a una democrazia sempre più pallida? La risposta di Ciliberto è una sola: il risveglio dell’impegno e della passione politica. Il motivo è evidente: se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della politica genera Berlusconi. Solo una politica rinnovata, anzi risvegliata, sarà dunque capace di contrastare simili fenomeni e tali derive. Ma il punto è proprio questo: chi è in grado, oggi, di risvegliare la Bella Addormentata? Non certo un Principe Azzurro, se così fosse ricadremmo nella patologia appena descritta, con un nuovo leader carismatico, fosse anche di sinistra, al posto di Berlusconi. No, il risveglio della politica è il risveglio dei cittadini. Ed è su questo che un partito deve lavorare. Non tanto o non solo per battere Berlusconi. Ma per curare la democrazia.
Il punto, avverte, Ciliberto, è nel guardare in faccia il problema senza cercare scorciatoie. Le primarie, tanto per esser chiari, non saranno mai la soluzione se alle loro spalle non cresce prima un partito con la voglia e la forza di tornare ad ascoltare e discutere, di essere centrale (nei palazzi) ma anche capillare nelle città, nei quartieri, nelle fabbriche. Perché l’obiettivo non è cavalcare la piazza, ma trasformare la piazza in politica, l’agora in polis. Ridare ai cittadini il senso che per cambiare le cose non bastano le promesse di uno: ci vuole l’impegno di tutti.
PS
C’è un aspetto che Ciliberto non tocca e che i fatti del nord Africa impongono invece con irruenza. È il ruolo di Internet come strumento di controinformazione ma anche luogo di discussione politica. Una sorta di gigantesca sezione virtuale in cui riprendere a discutere e partecipare come si faceva un tempo nelle fumose sezioni di partito. In fondo non è un caso se l’unico Paese in Europa a non essersi ancora dotato di un programma di sviluppo digitale sia proprio il nostro. Nella società addormentata dalla tv e da Berlusconi, il web potrebbe diventare un pericoloso strumento. Chissà che il risveglio della politica non passi proprio dalla Rete. Dall’altra parte del Mediterraneo è già accaduto.