il caso
Goethe, da duecent’anni alfiere della lotta allo scientismo
Usciva nel 1810 il saggio sui colori, nel quale attaccava Newton
Lo scrittore non accettava un sapere appiattito sulla matematica
DI VITO PUNZI (Avvenire, 29. 09.2010)
Johann Wolfgang Goethe s’è interessato dei fenomeni naturali quasi per l’intera sua esistenza e il suo scritto Sulla dottrina dei colori, pubblicato per la prima volta duecento anni fa, da questo punto di vista può essere inteso come contrappunto alla composizione del Faust , cui Goethe lavorò per più di sessant’anni. Si trattava di un’idea con contenuti di grande modernità: Goethe voleva raccogliere intorno a sé le migliori intelligenze del suo tempo.
Tuttavia il suo amico Johann Georg Schlosser lo mise subito di fronte alla difficoltà anche solo d’interessare altri su di un simile progetto. Dopo cinque anni Goethe dovette prendere atto dell’impossibilità di trovare dei collaboratori all’ambizioso progetto. In una lettera a Friedrich Schiller del 1798 riferisce essere rimasti al mondo due soli uomini con cui poter discutere dei suoi lavori sulla dottrina dei colori. In realtà continuò a lavorarci da solo, finché dodici anni dopo, nel 1810, pubblicò quella che sarebbe rimasta l’opera sua più poderosa, più discussa e più coraggiosa.
Ci voleva infatti coraggio, allora, ad intavolare una disputa con Isaac Newton, il fondatore della meccanica classica e delle moderne scienze naturali, che Goethe accusò di aver «ostacolato fortemente una libera visione delle manifestazioni dei colori».
Newton aveva spiegato che i colori «s’insinuano nella luce», e i seguaci dell’inglese, a proposito della formazione del colore, dimostrarono di perseguire modelli esplicativi astratti allorquando ne individuarono l’origine nella rifrazione della luce.
Goethe procedette diversamente, battendosi contro l’idea che il mondo sensibile soggiaccia a leggi calcolabili. Il nocciolo dell’obiezione goethiana ad avversare la pretesa di potere di una scienza naturale che, rappresentando tutti i suoi fenomeni come calcolabili e dunque spiegabili, aveva iniziato a piegare il mondo a sé.
Carl Friedrich von Weizsäcker, nel 1960, per spiegare il motivo per cui il poeta per quarant’anni aveva frainteso alcuni punti nodali della dottrina newtoniana, non trovò altro motivo che questo: «Si sbagliò perché voleva sbagliare». Sotto questa stessa ottica va letta una frase del 1826, dunque del vecchio Goethe: «Stimo la matematica in quanto essa è la scienza più eccelsa e più utile, almeno finché la si impiega lì dove essa è al proprio posto; solo, non posso lodare il fatto che se ne abusi per cose che non appartengono al suo ambito, così da far apparire la nobile scienza una follia. Come se tutto possa esistere solo se dimostrabile matematicamente ».
L’accusa di argomentare in forma non scientifica cadeva nel vuoto, poiché lui si concepiva come fondatore di una forma più elevata di scienza. Del resto la riscoperta che del suo saggio fecero nel primo Novecento artisti come Kandinskij e Klee o mistici come Florenskij avvenne in quanto essa di rivelava utile a comprendere i «fondamenti psicologici del simbolismo dei colori, perché naturalmente un certo colore diventa per noi simbolo di questa o quella idea per il fatto che suscita in noi quasi il presentimento di questa idea, ci inclina a questa idea» (così Florenskij in La colonna e il fondamento della verità, San Paolo 2010).
Il genio francofortese non si contrappose alle opinioni dominanti del tempo solo nell’ambito della matematica e della fisica. Prese posizione contro un altro grande scienziato della natura, il botanico Linneo, il cui sistema si era imposto per la determinazione delle piante. Linneo studiò le caratteristiche singole delle piante, così da poterle distinguere le une dalle altre: lui voleva identificare e classificare le piante, mentre Goethe voleva comprenderle. Una pretesa che appare ancor oggi più modesta, più umana, ma nello stesso tempo anche più radicale.