L’arsura del potere
Il critico: La prole di Napoleone, di Roberto Escobar
Lo storico: Impreciso ma efficace, di Emilio Gentile
Il film di Marco Bellocchio Vincere racconta, più che il presunto matrimonio religioso del duce, la buia ascesa di un uomo che approfittò della Grande guerra per smania di dominio
Il critico: La prole di Napoleone
di Roberto Escobar *
Dal buio emergono indistinte figure "in marcia". Intanto, rivolto a Ida DaIser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. C’è fanatico amore di sé, nei suoi occhi. E c’è rapimento affascinato in quelli della sua amante (più tardi diventata sua moglie). Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi.
Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere (Italia e Francia, 2009,128’). Non è una storia d’amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l’amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni.
Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute. Chi è il giovane verboso che approfitta della Grande guerra per la sua sete di dominio? Chi è l’uomo che esibisce una virilità di cui oggi (forse) si ride? Chi è l’oratore che torce la bocca in slogan di morte? Tutto è troppo visto e insieme troppo dimenticato, per non passarci davanti senza lasciar traccia. Ogni crimine è ormai fantasma. Ma nel film, nel suo racconto di due vite distrutte, il fantasma riprende corpo. Le carni e il sangue di Ida e del figlio diventano il luogo - molto materiale, molto "evidente" - in cui la Storia torna a parlarci, obbligandoci a prender posizione. Ida non è antifascista, e non lo è il figlio. Anzi, sull’una e sull’altro il capo del fascismo esercita un fascino almeno pari a quello che esercita sulla gran maggioranza degli italiani Ed è questo che li condanna: da lui vogliono un amore impossibile, e per loro dunque mortale.
«Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori», consiglia a Ida un medico. il Paese è muto e sordo, compatto nell’annullamento d’ogni libertà e pietà. Conviene, aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s’affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe.
Lo storico: Impreciso ma efficace
di Emilio Gentile *
Benito Mussolini non era a Trento nel 1907, ma vi fu per quasi un anno nel 1909. Ma non fu a Trento, bensì a Losanna nel 1904, che egli avrebbe sfidato Dio a colpirlo entro dieci minuti per provare la sua esistenza. La smargiassata, con la quale inizia Vincere, non è di sicura fonte mussoliniana, ma gli è stata attribuita dalla sua ex amante e maestra di marxismo Angelica Balabanoff.
Un fìlm ambientato storicamente non è un compito di storia, perciò non implica una critica alla sua qualità artistica il segnalare qualche imprecisione, inesattezza e anacronismo. Come, per esempio, un gagliardetto degli Arditi, nella sede del «Il Popolo d’Italia» prima dell’intervento italiano nella Grande Guerra, perché il corpo degli arditi fu costituito nel 1917. Oppure il tentato incontro fra la Dalser e il ministro Fedele, avvenuto nel 1926, ambientato nel mausoleo a Cesare Battisti inaugurato nel 1935. O il riferimento alla Guardia Regia, sciolta nel 1922, fatto dall’umanissimo psichiatra del manicomio di Venezia in un colloquio con Ida negli anni Trenta.
Uno storico non può evitare di verificare i riferimenti storici che un film contiene, ma può apprezzare egualmente quanto il regista propone per interpretare una vicenda storica. Può apprezzare, per esempio, la rappresentazione del presunto matrimonio religioso di Mussolini con la Dalser, che sarebbe avvenuto in una chiesa del Trentino nel settembre 1914, come una sorta di appagamento onirico della donna sedotta e abbandonata. Un matrimonio religioso nell’Austria in guerra, fra una cittadina austriaca e uno dei massimi dirigenti nazionali del partito socialista, direttore dell’organo ufficiale del partito, molto noto nel Trentino come virulento mangiapreti e spregiatore di Dio, avrebbe forse lasciato tracce più clamorose, anche in mancanza di una trascrizione nel registro parrocchiale, mai rintracciata.
E altrettanto efficace appare storicamente, l’interpretazione della ostentata ostinazione con quale Ida pretendeva di essere accanto al duce al potere, padre del suo unico figlio che portava il suo nome. lda non voleva rassegnarsi a esser cancellata come non fosse mai esistita, e neppure accettare nell’ombra una vita normale, mentre il preteso marito era all’apoteosi in Italia e nel mondo. Voleva per sé e per il figlio la gloria del duce. Vittima della sua stessa spasmodica ambizione, finì schiacciata dal cinico potere mussoliniano.
Storicamente efficace appare, infine, l’evocazione dell’ambiente di un regime totalitario, nel contrasto fra folle adoranti il duce, cortei di alti prelati congiunti ad alti gerarchi, madri dalle grandi poppe allattanti la nuova prole italica e la spietata reclusione manicomiale, fino alla morte, di Ida e di Benito Albino. Nelle ultime scene, il figlio sembra annunziare, con l’imitazione del padre a Berlino, il destino tragico di un Mussolini hitlerizzato. Che alla fine riappare, giovane, nell’atto di sfidare Dio, sotto lo sguardo affascinato di Ida, per finire schiacciato in effige dalla disfatta della storia. Qualcuno potrebbe pensare che, alla fine, trentasei anni dopo, Dio avesse accettato la sfida.
* Il Sole 24 Ore Domenica 24.05.2009