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Individuo e Stato. Psicologia di massa del fascismo (Wilhelm Reich).

ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE. Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente - a cura di Federico La Sala

Per la studiosa tedesca un regime non si poteva defìnire totalitario senza il terrore e un dittatore dalla mente criminale.
lunedì 16 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Se il conformismo e il misticismo politico erano mali del fascismo trasmessi alla democrazia, altrettanto grave era un’altra tendenza del totalitarismo fascista che pareva avesse contagiato i partiti della democrazia, cioè la tendenza a organizzare le masse con appelli al settarismo fanatico, e la loro propensione a prevaricare lo Stato per i loro interessi, producendo così, dopo l’esperienza del dominio del partito unico, una nuova forma di dominio partitico, che fu definito, fin (...)

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> ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE. ----- Che cosa fu il totalitarismo e chi sono i suoi eredi? Risponde lo storico del fascismo Emilio Gentile (intervista di Bruno Gravagnuolo).

sabato 21 giugno 2008

PARLA EMILIO GENTILE

-  Che cosa fu il totalitarismo e chi sono i suoi eredi? Risponde lo storico del fascismo
-  dell’Università di Roma che pubblica una nuova raccolta di saggi dedicati all’Italia

«Il mito religioso ha sconfitto la politica»

-  Totalitario è innanzitutto un «metodo» dell’azione politica novecentesca
-  I conflitti globali generano movimenti emozionali e tesi al Sacro

-  di Bruno Gravagnuolo

Discutere con Emilio Gentile è sempre arduo e appassionante. Storico di fama internazionale, molisano, 62 anni è studioso «tosto» e dai saldi convincimenti. Maturati alla scuola metodologica di Renzo De Felice (del quale però non si considera allievo). E tra i suoi chiodi fissi, in questi decenni, ve ne è uno in particolare: la natura «totalitaria» del fascismo. Sostenuta contro le «sdrammatizzazioni» all’italiana del regime. E anche contro il giudizio di Hannah Arendt, che del fascismo faceva un regime «autoritario», forse e solo dopo il 1938 con tratti totalitari. In questi giorni esce un nuovo libro di Gentile, in sintonia con questa discussione: La via italiana al totalitarismo (Carocci, pp. 414, Euro 26,50). Con saggi editi e inediti, che corrispondono all’intero percorso «post-defeliciano» dello storico. E nel quale ricordiamo per Laterza libri come La Grande Italia, il mito della nazione; Fascismo, storia e interpretazione; La democrazia di Dio, sugli Usa neocon; e il più recente Fascismo di pietra. La raccolta per Carocci è l’occasione giusta per riaffrontare la questione «totalitaria. Per verificare quanto il totalitarismo (metodo o sistema?) sia lontano. O se invece sopravviva in qualche forma, dove e fino a che punto.

Professore da anni lei insiste sul carattere «totalitario» del fascismo. Se quel regime sia stato totalitario o meno, potrebbe apparire questione accademica. Perché è ancora importante venire in chiaro su questo punto?

«Quello del totalitarismo è problema decisivo per capire il 900 e la società di massa. Assieme ai rischi totalitari che in tale società allignano, e che minacciano le democrazie parlamentari. Per di più il tema è stato individuato in Italia dalla cultura antifascista. Prima ancora del regime a partito unico. E con la denuncia e l’individuazione di un certo metodo politico, al di là dei proclami e dell’ideologia fasciste. Metodo specifico di conquista e di gestione del potere politico, nei pochi anni che vanno dalla nascita del Pnf alla soppressione totale delle libertà».

Ma il totalitarismo è una specifica possibilità insita nella democrazia parlamentare, oppure riguarda in generale gli sconvolgimenti mondiali del 900?

«Non faccio una teoria, una tipizzazione. Traccio un bilancio della situazione nei primi decenni del secolo trascorso. Ebbene, a differenza che in Russia, in Europa all’indomani della prima guerra mondiale, veniva proclamato il trionfo della democrazia parlamentare. Come mai dunque, nell’Italia democratica, era sorta la novità fascista? Da Amendola, Sturzo, Salvatorelli e Basso proviene in quegli anni l’indicazione a studiare un inedito fattore di organizzazione delle masse. Basato non più sulla razionalità, ma sul “mito”, peculiarità che il fascismo detiene in modo assoluto. Poiché, a differenza degli altri movimenti politici - non privi di elementi mitologici - il fascismo si richiamava espressamente al mito, e al suo ruolo rigeneratore. Contro la ragione e in nome della forza, oltre che del mito».

Concezione nichilistica del mito quasi come gioco?

«Non nichilistica, visto che il fascismo si concepiva in positivo come movimento di rigenerazione, in un’Europa giudicata decadente e corrotta a causa della democrazia, del liberalismo e del socialismo. Nel fascismo c’è un’affermazione contro qualcosa di negativo».

Il nichilismo può essere affermativo e culminare nell’adesione al mito arbitrariamente proclamato...

«Certo, chi afferma il mito finisce col crederci. Col credere nella potenza, nell’Impero e nella rigenerazione totale. I fascisti sono gli eredi di tutta la cultura irrazionalitica di fine 800. E pertanto accusano la democrazia di essere immorale, fintamente razionale, a fronte dell’intima verità vitalistica e irrazionale dell’essere umano. E qui il ruolo decisivo di un certo Nietzsche, che finisce con l’ispirare una sorta di brutale realismo della forza istintiva e creatrice. Insomma, un realismo che “smaschera” l’umanesimo razionalista e le sue giustificazioni morali».

Realismo, smascheramento, volontarismo. Qual è allora la differenza col bolscevismo leninista?

«Differenza di fondo. Perché il bolscevismo, benché fortemente caricato di mito, continua a concepirsi sulla base di una concezione “scientifica”. Che attribuisce all’uomo, in quanto essere sociale, il carattere della razionalità. Da un parte c’è chi fa leva sul mito, come ingrediente irrinunciabile dell’umanità. Dall’altra, chi invece critica la “falsa coscienza” delle mitologie. In base alla scientificità marxista, in grado di oltrepassarle. E su questo c’è una continuità tra illuminismo, liberalismo e comunismo».

Abbiamo evocato il discrimine. Ma quali sono le analogie totalitarie tra fascismo e comunismo?

«E qui torniamo al totalitarismo. A parte le differenze di contenuto sociale e culturale, quel che è importante sottolineare sono le analogie di metodo. Ed è di “metodo totalitario” che occorre parlare, non già di regimi totalitari. Il totalitarismo non è un modello del quale verificare di volta in volta la corrispondenza a certi contenuti. Per cui si possa dire una volta che quel regime soddisfa il modello, e un’altra volta no. Il punto non è se il fascismo, il nazismo e il comunismo si siano avvicinati alla “definizione”, o fino a che soglia, se nei fatti o solo nelle intenzioni. Questo modo di ragionare ci porta fuori strada. La strada giusta è un’altra: è il totalitarismo inteso come metodo. Metodo di conquista e gestione monopolistica del potere da parte di un partito unico. Al fine di trasformare radicalmente la natura umana attraverso lo stato e la politica. E tramite l’imposizione di una concezione integralistica del mondo. Con questo identico metodo, c’è chi è proteso all’Impero e al dominio globale, ancorati ad una comunità latina mitica. Chi è volto al dominio mondiale della razza ariana e germanica. E chi infine lotta per il comunismo internazionale, e per l’estinzione dello stato».

Scorge reviviscenze o eredità di questo «metodo» nel contesto del mondo contemporaneo?

«Sono molto cauto nella comparazioni col presente. E nelle riattualizzazioni di un concetto - il totalitarismo - nato in un ben preciso contesto, ormai alle nostre spalle. Non si possono più immaginare partiti unici animati dalla scopo di rigenerare per intero l’uomo. Anche i residui regimi comunisti si sono infatti laicizzati. E nemmeno si può parlare di totalitarismo o di fascismo, a proposito dei regimi islamici o del fondamentalismo. Sarebbe un anacronismo. Anche perché i fondamentalismi sono religiosi. Laddove i fascismi erano secolari, e tentavano di annullare o di incorporare la religione nelle loro mitologie laiche. Al più i fondamentalismi hanno rubato qualcosa ai totalitarismi, utilizzandone certe tecniche, ma pur sempre in un registro religioso. Le democrazie dal loro canto sono vaccinate, e difficilmente potrebbero ripiombare in dinamiche totalitarie. Il nuovo rischio semmai è costituito da due fattori. Il rifiuto del conflitto, tipico di una società moderna e immersa nella globalizzazione: con il contraccolpo identitario ed etnico. E poi la ricerca di mitologemi salvifici, per combattere l’insicurezza identitaria e conflittuale».

A che tipo di fuga nel mito si riferisce? Mito politico, mito religioso o entrambi?

«Al ritorno massiccio alla militanza religiosa. Che non è solo riscoperta dell’esperienza vissuta del divino. Bensì desiderio di riportare la società ad una unità religiosa totalizzante. Per trovare nella religiosità i fondamenti della vita civile. E ciò riguarda sia l’Europa che l’America. Secondo moduli che ripercorrono a contrario le movenze del fondamentalismo islamico».

È il sogno degli atei devoti e dei «teocon» tra Europa e Usa?

«Non proprio e non solo. Specie i primi sono piuttosto dei machiavellici. Che dicono: “la religione ci serve per garantire l’ordine”. Quanto ai teocon, Usa, anch’essi proclamano l’utilità politica di Dio. E solo alcuni sono credenti. Mentre invece Bush jr è un vero credente, un cristiano rinato. Ecco, proprio questa ambiguità rende molto difficile comparare i miti del passato a quelli del presente. Fascismo, comunismo e nazismo si autodefinivano in modo molto chiaro. Oggi dobbiamo parlare di “movimenti emozionali”, tesi a una risacralizzazione della vita collettiva, e non di totalitarismo. La novità politica sta nel voler restituire potere sulla vita civile alle religioni tradizionali. Non già nel professare mitologie di massa secolari. E si tratta di una tendenza mondiale, non soltanto italiana o euro-americana. Basti pensare in America latina ai movimenti “nepentecos- tali”, che non sono la vecchia Teologia della Liberazione di una volta, ma si propongono come alternative totali di vita. Comunitarie, e in definitiva anche politiche».


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