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Individuo e Stato. Psicologia di massa del fascismo (Wilhelm Reich).

ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE. Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente - a cura di Federico La Sala

Per la studiosa tedesca un regime non si poteva defìnire totalitario senza il terrore e un dittatore dalla mente criminale.
lunedì 16 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Se il conformismo e il misticismo politico erano mali del fascismo trasmessi alla democrazia, altrettanto grave era un’altra tendenza del totalitarismo fascista che pareva avesse contagiato i partiti della democrazia, cioè la tendenza a organizzare le masse con appelli al settarismo fanatico, e la loro propensione a prevaricare lo Stato per i loro interessi, producendo così, dopo l’esperienza del dominio del partito unico, una nuova forma di dominio partitico, che fu definito, fin (...)

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> ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE. --- L’eredità fascista - è la tesi di Gentile - va rintracciata anche "nel modo di concepire e praticare la politica di massa" nella lunga età repubblicana, "nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari", "in quella costante confusione tra gli interessi dei partiti e gli interessi dello Stato" che ha minato la democrazia (di Simonetta Fiori, intervista a EMILIO GENTILE).

giovedì 19 giugno 2008

Il nuovo fascismo. Che cosa resta di quell’eredità

-  di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19.06.2008)

"Un lascito va rintracciato nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari e degli interessi dello Stato"

ROMA. Soltanto uno storico come Emilio Gentile, non nuovo a interpretazioni "scomode", poteva inoltrarsi in un terreno non facile come l’eredità del totalitarismo fascista nell’Italia contemporanea. Un’eredità rintracciata non solo nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, traslocati senza epurazione dal regime fascista a quello repubblicano. Né soltanto nella lunga presenza in Italia del più forte partito neofascista europeo, che dopo il lavacro di Fiuggi partecipa al governo del paese e oggi occupa la terza carica dello Stato.

L’eredità fascista - è la tesi di Gentile - va rintracciata anche "nel modo di concepire e praticare la politica di massa" nella lunga età repubblicana, "nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari", "in quella costante confusione tra gli interessi dei partiti e gli interessi dello Stato" che ha minato la democrazia.

L’occasione per questa inedita riflessione è l’uscita della terza edizione de La via italiana al totalitarismo, ormai un classico degli studi sul fascismo, tradotto in Europa e in America Latina, ora arricchito di tre nuovi capitoli che investono anche il tema dell’eredità del totalitarismo (Carocci, pagg. 422, euro 26,50). Solo la conoscenza storica del ventennio nero può servire a fare i conti con il suo ingombrante retaggio nel costume, nella mentalità e nei comportamenti degli italiani durante gli ultimi sessant’anni. «Invece prevale ancora oggi la tendenza a caricaturizzare il fascismo, liquidato come regime da operetta, oppure ad alleviarne le gravi responsabilità, quasi non ci fosse mai stato. Tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione d’una collettività è stato cancellato».

Lei ha coniato la formula "defascistizzazione del fascismo". Un’operazione che ha molti responsabili, anche nella cultura antifascista.

«Sì, vi hanno contribuito molto antifascisti oltre che neofascisti o ex fascisti non pentiti, naturalmente con opposti propositi. Per molti anni ha prevalso a sinistra l’immagine d’un regime ventennale sciolto come neve al sole, una dittatura fondata sul niente, solo violenza e opportunismo, sostanzialmente una "nullità storica". Per Norberto Bobbio non è mai esistita una cultura fascista, il fascismo era solo "un’ideologia della negazione". Franco Venturi inventò l’espressione "il regime delle parole". Guido Quazza arrivò perfino a confinarlo nel mondo degli "epifenomeni politici". Debbo confessare che, ancora alla metà degli anni Settanta, mettere in discussione la tesi della "nullità storica" del fascismo significava per molti fare apologia del fascismo».

Parla per esperienza diretta?

«Quando pubblicai Le origini dell’ideologia fascista, nel 1975, fui accusato da Quazza di voler riabilitare il fascismo. Un assurdo storiografico».

Poi c’erano gli ex fascisti o i nostalgici che avevano tutto l’interesse di annacquare la ferocia dittatoriale del fascismo.

«Sì, l’immagine oscillava tra la caricatura e l’indulgenza, specie nella comparazione con il nazismo o lo stalinismo. Cominciò a circolare la tesi che dura tutt’oggi del fascismo modernizzatore, e niente altro. Soprattutto si negava che il regime fosse stato una "dittatura intenzionale", ma piuttosto "preterintenzionale", nata per caso. Questa era la tesi del Movimento Sociale, fino agli anni Ottanta. Mentre tra gli storici, quando pure oggi parlano di totalitarismo fascista, alcuni negano poi il sostantivo con aggettivi come "zoppo", "tronco", "imperfetto" e simili».

Gli stessi protagonisti del fascismo fecero di tutto per ridimensionare le proprie responsabilità.

«Dopo il 1945, vari artefici del regime ci hanno rivelato che in fondo o non erano stati veramente fascisti o erano stati fascisti dissidenti, critici od ostili alla politica totalitaria, come fecero Bottai, Grandi, Federzoni. Forse, se fosse stato vivo Starace, avrebbe sostenuto d’essere stato solo un maestro di educazione fisica per il benessere degli italiani. Un’autoassoluzione impossibile in Germania».

Conseguenza di questo diffuso "negazionismo" fu la rimozione della categoria di "totalitarismo", secondo lei essenziale per la comprensione del fascismo e del Novecento.

«Una categoria che è stata a lungo rimossa dalle scienze politiche e dagli studi storici. Eppure serve a definire un metodo che fu esportato in Europa proprio dal nostro paese. La stessa parola "totalitarismo" fu usata la prima volta dagli antifascisti italiani».

Quando c’era un regime a partito unico?

«No, tre anni prima. E in questa precocità è la genialità della definizione. Pochi mesi dopo la marcia su Roma, quando il governo era ancora parlamentare, personalità come Amendola, Sturzo e Salvatorelli presero a usare il nuovo vocabolo. In fondo il sistema parlamentare non era ancora molto dissimile da quello delle altre democrazie europee, però essi osservarono il partito fascista e come operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di "partito-milizia", incompatibile con la democrazia e inevitabilmente portato a creare "un sistema totalitario"».

Un’intuizione che però poi s’è persa per strada.

«Negli anni Venti e Trenta ebbe grande fortuna, in Europa e negli Stati Uniti, anche grazie agli scritti di Sturzo come Fascism and Italy. Ma dopo la guerra, la categoria di totalitarismo riferita al fascismo fu messa da parte per diversi motivi. Ho detto della "defascistizzazione del fascismo" nella cultura antifascista: il "nulla" non può avere carattere totalitario. Aggiungo che l’uso del termine totalitarismo per indicare il sistema sovietico lo rendeva sospetto agli occhi di intellettuali che simpatizzavano per il Pci».

Ma in questa liquidazione ebbe un grande peso Hannah Arendt, a cui lei dedica un capitolo di severa e argomentata critica.

«Ancora non riesco a capire come una studiosa intellettualmente onesta come lei possa essere stata così approssimativa e confusa. Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, la Arendt escludeva - fino al 1938 - il carattere totalitario del fascismo. In realtà le sue fonti erano inconsistenti, materiali di propaganda fascista e citazioni di seconda mano. Anche la bibliografia è lacunosa: mi stupisce che non avesse mai letto Fascism and Italy di Sturzo o i saggi di Raymond Aron. Sul piano del metodo, poi, le sue pagine hanno molte incongruenze e contraddizioni».

Ma influenzò radicalmente storici come Acquarone e De Felice. E anche Aron cambiò opinione dopo aver letto il suo libro.

«Sì, la cosa incredibile è che nessuno si è preso mai la briga di andare a verificare le sue tesi. Cosa sapeva veramente la Arendt del fascismo italiano? La sua identificazione del totalitarismo con lo sterminio di massa era così forte ed evidente che sembrò a tutti persuasiva in via definitiva. Nel caso di Acquarone e De Felice, credo agisse in sottofondo un’altra motivazione: una visione sostanzialmente riduttiva del fascismo come autoritarismo sgangherato, che non ebbe mai la coerenza feroce del nazismo e del comunismo. In seguito, De Felice cambiò giudizio».

Questa lettura riduttiva è stata anche favorita dalla mancanza di un Olocausto fascista.

«Non avendo il fascismo la responsabilità d’uno sterminio di massa, esso è potuto scivolare tra le fessure dei totalitarismi nazista e comunista, scuotendosi di dosso lo stigma di regime totalitario».

Ancora oggi la destra postfascista sembra incerta su questa definizione.

«Anche lì c’è molta confusione, mancano ragionamenti articolati. Nel momento in cui Fini riconosce il valore etico e politico dell’antifascismo, rinnega il fascismo e il suo carattere totalitario. Ma è solo una mia deduzione. Il 25 aprile, per il presidente della Camera, è "liberazione dai totalitarismi": ma nel suo discorso non è detto chiaramente che uno di quei totalitarismi fu il fascismo italiano. La confusione, a dirla tutta, alberga anche altrove: diffusa è la resistenza a prendere sul serio il totalitarismo fascista».

Eppure non manca una preziosa memorialistica di tanti giovani che documentarono "l’atmosfera totalitaria" del regime, il suo carattere pervasivo e avvolgente.

«Sì, mi capita di citare spesso una bella pagina di Eugenio Scalfari sulla sua gioventù sotto il fascismo. Se ci fossimo affidati a queste testimonianze, oggi saremmo più consapevoli non solo dell’esperienza totalitaria del fascismo ma anche delle conseguenze esercitate sul modo di far politica in democrazia».

Lei rintraccia questa eredità soprattutto nell’uso dello Stato per fini di partito.

«Sì, la "mistica del partito" che prevale su tutto, come la definiva il repubblicano Mario Ferrara, anche il coinvolgimento emotivo delle masse. Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo - libero dallo sterminio di massa - è una tecnica politica che può essere applicata continuamente in una società di massa. Potrebbe essere adottata anche oggi. Una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione».

Lei pensa che la nostra democrazia sia così fragile da consentire tentativi autoritari?

«Oggi in Europa una dittatura non sarebbe possibile, ma sempre più mi domando se la democrazia non stia diventando una recita: nessuno ci impedisce di essere democratici - siamo liberi di votare, di criticare chi ci governa, di esprimere le nostre opinioni. Compiamo riti democratici, anche con convinzione. Ma le decisioni le prendono in pochi, ai governati non rimane che assecondarle. Una democrazia recitativa».


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