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Individuo e Stato. Psicologia di massa del fascismo (Wilhelm Reich).

ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE. Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente - a cura di Federico La Sala

Per la studiosa tedesca un regime non si poteva defìnire totalitario senza il terrore e un dittatore dalla mente criminale.
lunedì 16 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Se il conformismo e il misticismo politico erano mali del fascismo trasmessi alla democrazia, altrettanto grave era un’altra tendenza del totalitarismo fascista che pareva avesse contagiato i partiti della democrazia, cioè la tendenza a organizzare le masse con appelli al settarismo fanatico, e la loro propensione a prevaricare lo Stato per i loro interessi, producendo così, dopo l’esperienza del dominio del partito unico, una nuova forma di dominio partitico, che fu definito, fin (...)

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> ORIGINI DEL TOTALITARISMO. Emilio Gentile, "La via italiana" --- Renzo De Felice, la storia d’italia, e il misticismo dei giacobini.

domenica 22 maggio 2016

Renzo De Felice (1929 - 1996) / 1

Preoccupato per l’Italia

di Emilio Gentile 22 maggio 2016

      • Storico. Renzo De Felice era nato a Rieti l’8 aprile 1929. Della sua opera si ricordano la biografia di Mussolini in otto tomi (Einaudi, 1965 - 1997), la «Storia degli ebrei sotto il fascismo» (Einaudi, 1961, ultima ed. 1993), «Le interpretazioni del fascismo» (Laterza, 1969); «D’Annunzio politico» (Laterza, 1978), «Fascismo, antifascismo, nazione» (Bonacci, 1996),

«A più di un mese dalle elezioni ... i dati più significativi mi sembrano due. Il primo ... è quello rappresentato dal nuovo aumento delle astensioni di vario genere ... Il secondo dato più significativo è costituito a sua volta dalla conferma dell’esistenza di un consistente voto fluttuante. In una situazione normale, entrambi questi dati non mi sembrerebbero preoccupanti e, assai probabilmente, li considererei positivi. ... Il fatto è che la situazione italiana non è normale, per cui entrambi questi dati, piuttosto che indici di salute, sono indici di malattia: di una sfiducia diffusa e crescente nel sistema politico-partitico esistente, di una sfiducia che, sotto lo stimolo di accavallantisi stati d’animo, certo indebolisce la democrazia italiana e può persino sfociare in situazioni non dico senza ritorno (ché in un Paese economicamente e socialmente sviluppato e integrato nel sistema politico-economico occidentale come l’Italia ciò è impensabile), ma certo tali da mettere irreparabilmente a terra l’economia nazionale e far cadere l’Italia nel girone dei dannati al sottosviluppo»; «oltre tutto, il processo di integrazione dell’Europa segna il passo e addirittura regredisce, sicché, a livello di massa, da un lato le speranze in essa ... si attenuano e tendono a trasformarsi in sfiducia e, da un altro lato, acquista ancora maggior consistenza la tendenza a occuparsi e preoccuparsi veramente solo dei problemi di casa».

Le parole ora citate, che paiono descrivere l’attuale situazione italiana ed europea, sono state scritte trentadue anni fa, dopo le elezioni europee del giugno 1984, dallo storico Renzo De Felice.

Noto in Italia e all’estero per gli studi sul fascismo e la biografia di Mussolini (e per le aspre polemiche di quanti lo accusarono di subdoli intenti apologetici), a venti anni dalla morte avvenuta il 25 maggio 1996, De Felice è meno conosciuto, se non addirittura sconosciuto, come osservatore della crisi della democrazia. Interamente dedito al lavoro storiografico, egli non era solito commentare l’attualità politica, ma ogni tanto, con qualche intervista, entrava nelle acque dell’attualità, e contribuiva ad agitarle con qualche dichiarazione eterodossa, provocando scandalizzate reazioni. Come quando, alla fine del 1987, propose di cancellare dalla Costituzione le norme transitorie che vietavano la ricostituzione del partito fascista. La vera minaccia per la democrazia italiana non era nel Movimento sociale italiano, che ormai esisteva da decenni, ma si annidava nei cambiamenti della società moderna.

«Nelle società moderne - argomentava la sua proposta De Felice - si sviluppano oggi processi che vanno in direzione contraria a quella della democratizzazione», perché «il potere si concentra al vertice, con tratti di vero oligarchismo, e si frammenta alla base, con tratti di vero anarchismo. Il risultato è che crescono le concentrazioni di autorità e decresce invece, alla base della piramide, la governabilità». Con la burocratizzazione di apparati sempre più incontrollabili, l’avanzamento della tecnocrazia, l’«estrema specializzazione delle conoscenze necessarie a mandare avanti la macchina sociale», era «in atto una sottile riduzione del potere dei cittadini, del loro massimo potere: quello di essere informati sui termini della scelta, e poi di scegliere». Per far fronte alle disfunzioni della democrazia italiana, lo storico riteneva utile una revisione della Costituzione, che doveva essere venerata come «monumento archeologico», ma rispettata come «cosa viva e vivificabile».

È però probabile che per lo storico, la revisione costituzionale per sanare le disfunzioni della democrazia non sarebbe stata efficace senza aver risolto prima la “questione morale”, che fin dal 1984 egli definiva «il nodo della vita democratica italiana», sostenendo che per i partiti veramente democratici un «aspetto non secondario» della questione morale era costituito «dalla chiarezza delle posizioni, dal rifiuto pregiudiziale - educativo direi - dei tatticismi volti a presentarsi nel modo, nei panni ritenuti più accetti alle masse, agli elettori, anche se ciò vuol dire adeguarsi ai pregiudizi, ai miti, alle mode correnti, alla cultura meno viva e, addirittura, di tipo vietamente giornalistico». Scivolando sulla china demagogica, concludeva De Felice, anche i settori più avanzati del Paese sarebbero stati spinti «o a rassegnarsi all’immobilismo o a puntare sulla roulette russa di nuovi esperimenti politici destinati ad aggravare la situazione».

De Felice tornò a esporre le sue preoccupazioni sulla situazione italiana in un convegno a Trieste nel settembre 1993. Trattando il tema del rapporto fra democrazia e Stato nazionale, abbozzò una nuova riflessione sulla crisi della democrazia in Italia, divenuta ormai cronica, considerandola sia come «aspetto fondamentale della crisi degli Stati nazionali e della stessa idea di nazione, oggi sempre più a rischio di far naufragio», sia come manifestazione «della crisi funzionale che travaglia la democrazia (non come principio cioè, ma come effettiva capacità di far fronte a un numero crescente di problemi)». De Felice estendeva la sua riflessione alla crisi della democrazia occidentale, individuandone le disfunzioni nella concentrazione del potere al vertice e della sua frammentazione alla base: due processi «che gli strumenti classici della democrazia non sono in grado di fronteggiare, o lo sono sempre meno (a seconda del grado del “senso nazionale” ancora vivo nei vari Paesi)».

Ventitre anni fa, De Felice ammoniva che le disfunzioni della democrazia occidentale «denunciano ogni giorno di più il rischio o di una demotivazione collettiva, che equivarrebbe alla fine della democrazia stessa, o di un prevalere di gruppi, economici o di mero potere, che non possono che essere un ostacolo mortale sulla via, già tanto accidentata, di una progressiva integrazione di Stati nazionali, in grado di esprimere valori, tradizioni, esperienze ed energie comuni, necessarie a perpetuare una civiltà che - almeno per ora e, credo, ancora per molto tempo - è l’unica che possa farsi carico dei problemi dell’umanità».

Come ho dimostrato altrove (E. Gentile, Renzo de Felice. Lo storico e il personaggio, Laterza 2003), la riflessione sulla crisi della democrazia, svolta con un realismo che appare oggi preveggente, fu per De Felice l’assillo dei suoi ultimi anni, mentre nello stesso periodo studiava da storico la tragedia del popolo italiano nella guerra civile del 1943-45. Egli si definiva uno «storico puro», ma in realtà fin dall’inizio la sua storiografia ebbe una motivazione etico-politica: storico esordiente a ventiquattro anni (era nato a Rieti l’8 aprile 1929), De Felice riteneva che «gli interessi storiografici fioriscano e rinverdiscano sia in funzione di intendere storicamente il presente, sia sulla base degli ideali, dei problemi, degli interessi della società nella quale lo storico vive».


Renzo De Felice (1929 - 1996) / 2

Il misticismo dei giacobini

di Francesco Perfetti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.5.16

L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura.

Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).

Emersero subito, da questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.

Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo.

Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».

La polemica accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice - come dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori - emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e composito.

La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».

Gli avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario», venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a Parigi.

In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o franco-spagnoli di territori italiani. Il che spiegava perché le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese.

Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».

Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

-  KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.

-  ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE.
-  Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente

-  STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
-  VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere


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