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Filosofia, Antropologia, e Letteratura....

A CLAUDE LÉVI-STRAUSS (CENTO ANNI IL 28 NOVEMBRE 2008). E AL SUO LAVORO "TRISTI TROPICI" - UN’OPERA UNICA, ASSOLUTA. Una nota di Antonio Gnoli - a cura di pfls

Sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo.
venerdì 23 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell’esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un’opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri (...)

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> A CLAUDE LÉVI-STRAUSS ---- Addio al padre dell’antropologia. --- Note di Gravagnuolo, Tito, Niola, Galimberti

mercoledì 4 novembre 2009

l’Unità 4.11.09 Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo occidentale di Bruno Gravagnuolo

La scomparsa Il padre dell’antropologia si è spento in Borgogna nel fine settimana a quasi 101 anni La vita Le spedizioni, i «Tristi Tropici», lo strutturalismo: così ha cambiato il modo di vedere l’uomo Ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Dalle spedizioni in Amazzonia negli anni ’30 fino all’indagine sul simbolico, ritratto di uno dei più grandi studiosi del ’900. I suoi funerali si sono già svolti in Borgogna. Avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Ma non ce l’ha fatta. In compenso ha traguardato il secolo di vita, con un’attività intellettuale lucida fino all’ultimo. E con un’opera ciclopica, che ha cambiato il nostro «sguardo» sul mondo. Eppure Claude Lévi-Strauss di suo era un temperamento mite e sembrava destinato a un tranquillo insegnamento nei licei, al più all’Università. Figlio di un pittore, con entrambi i genitori francesi, era nato in Belgio nel 1908 e passò infanzia e giovinezza a Parigi. Laureato in filosofia nel 1931, dopo un breve insegnamento alle superiori, concorre per una cattadra di Sociologia all’Università di San Paolo in Brasile, dove avviene la svolta della sua vita. Una svolta chiamata «antropologia», nel segno dell’etnografia «americanistica», compiuta con due spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia. Due libri da quelle due spedizioni: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, e Le strutture elementari dela parentela (1948 e 1949). Tra l’esperienza brasiliana e il primo viaggio negli Usa nel 1940 c’è intanto la prima rivoluzione di Lévi-Strauss. La connessione tra antropologia americana e linguistica. Dunque tra la lezione di F. Boas, e quella del linguista russo Roman Jacobson, che aveva conosciuto a New York, sospinto dall’interesse per la fonologia. Sta qui il nucleo più profondo dello «strutturalismo», l’invenzione più importante del grande antropologo. Non solo, proprio a partire di qui Lévi-Strauss introdurrà in Europa il frutto più maturo delle scienze umane statunitensi: «l’antropologia culturale». Piccolo inciso. Proprio mentre rivoluziona lo sguardo occidentale sulle «culture» come sistemi, Progresso e «primitivi», lo studioso è del tutto inconsapevole della tragedia che incombe sull’Europa. Di ritorno dagli Usa, tenterà addirittura di tornare ad insegnare nel suo vecchio liceo parigino, prima di essere messo sull’avviso da un funzionario ai permessi di Vichy, che gli dirà: «Professore, con un nome così!. Segno non solo di un temperamento da studioso assorbito dai suoi lavori, ma anche di un certo motato come ministro della pubblica istruzione (non se ne fece nulla).

Ma torniamo alla sua rivoluzione epistemologica, consegnata a opere quali, Strutture elementari di parentela; Razza e Storia; Tristi Tropici; Antropologia strutturale; Il crudo e il cotto. Da un lato c’era la «cultura», in quanto sistema di relazioni sociali. «Unica», nelle sue varietà geografiche e storiche, secondo la linea di Boas. E cultura riletta con gli occhi di Durkheim, risposta «funzionale» ai bisogni di produzione e riproduzione del mondo. Dall’altro però c’era il linguaggio. Ma non tanto come lingua parlata, bensì come modello: sistema di segni alla Saussure. E segni coincidenti con le «strutture di parentela». Con i riti e i miti, le abitudini alimentari. Ecco la rivoluzione: il linguaggio come sfera del simbolico. Codificato in invarianti, inclusioni ed esclusioni, tabù e procedure consentite/obbligate. Era la famosa «struttura». Atemporale, inconscia, sovrapersonale. Irriducibile ad altre strutture di altre culture, benché confrontabile, sul piano metodologico.

LA POLEMICA CON SARTRE

Stanno qui le radici della famosa disputa tra storicisti e strutturalisti, la polemica con Sartre e l’ esistenzialismo. Se gli storicisti rivendicavano il ruolo dell’umano e della storia, lo strutturalismo mirava alla struttura tendenzialmente non modificabile, se non per rotture, «coupures» epistemologiche. Come quelle dei «paradigmi linguistici» in Foucault o in Althusser, o in storici della scienza come Kuhn. E il punto affermato da Lévi-Strauss era questo: nelle società primitive era il «simbolico» a fungere da tecnica produttiva. Cioè l’incesto e la sua proibizione, le regole familiari e claniche. E l’economia era riproduzione culturale e non «economica». Come accade nello «scambio simbolico» del dono teorizzato da Marcel Mauss, tra i maestri di Levi-Strauss. All’opposto, con la modernità occidentale, è l’economia a fare cultura, almeno in una prospettiva marxista o post-marxista (anche in Weber). Ne derivava non solo un’intera scuola di pensiero: Lacan, Foucault, Baudrillard. Ma un nuovo criterio interpretativo del vivere sociale, dove l’immaginario inconscio e rappresentativo è inseparabile dall’economia, anche nelle società moderne. La sfida teorica che Levi Strauss ci lascia è allora questa: il potere dei segni come forza produttiva di ogni società e di ogni relazione. Ieri come oggi.❖


l’Unità 4.11.09

L’ultima intervista

«I miei Tristi Tropici, come un romanzo»

di Anna Tito

2005, nel cinquantenario di quella sua opera, concesse a l’Unità una delle sue ultime rare interviste. La ricerca sul campo, l’odio per i viaggi, l’ebraismo, Hitler, la politica. Ecco cosa ci disse

Nel 2005 Claude Lévi-Strauss concesse a l’Unità una delle rare interviste dei suoi ultimi anni. Ecco ampi stralci di quel colloquio.

In occasione dell’Anno del Brasile in Francia, Lévi-Strauss accetta di tornare con noi sul suo rapporto con il Paese dal legno color brace. Ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Tristi Tropici, un romanzo più che un testo scientifico, dedicato agli indios del Brasile, che ha segnato un’epoca e che tuttora seduce e intriga: «Lo scrissi per diversi motivi spiega -: in primo luogo perché mi ero appena sposato per la terza volta e la mia vita era cambiata, poi perché l’editore Plon mi aveva chiesto un libro per lanciare una nuova collana, e infine per cimentarmi nella narrativa». (...) «Il Brasile rappresenta l’esperienza più importante della mia vita, specie per la lontananza e il contrasto. La natura mi appariva tanto diversa da quella che conoscevo. Me ne andai nel 1939 e vi tornai, per pochi giorni, nel 1985. Quel viaggio mi sconvolse: San Paolo, scomparsi i residui dell’epoca coloniale, era ormai una città spaventosa».(...) Dopo il Brasile abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: (...) «Io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo... Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”».

Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista». (...) Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno». (...) Ricorda ridendo che: «nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato! ».(...) Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni». E poco lo interessava il sionismo (...). Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco (...)».

È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione (...). La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo. Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente: «il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».❖


Repubblica 4.11.09

Le lezioni di un mestro che reinventava il mito

di Marino Niola

Insegnava al Collège de France e venivano ad ascoltarlo da tutto il mondo La sua opera è ricaduta come una pioggia benefica su tutti i campi del sapere

Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l’ironia tagliente e l’erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l’amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un’atmosfera gelidamente silenziosa.

Eppure era questo stile d’altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell’uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L’effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l’urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell’Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell’Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell’Occidente. In un nuovo modo di pensare l’uomo. Facendo così dell’antropologia il fondamento di una critica radicale dell’Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava.

L’uomo che ha inventato l’antropologia ha incarnato in pieno l’ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell’umanità. In questo senso l’autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane. Nessun antropologo ha esercitato un’influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall’arte alla musica contemporanea, l’opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell’uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica.

Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell’astrazione pura che parla dell’uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa.

È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.


Repubblica 4.11.09

Dalla delusione per la filosofia all’incontro con i popoli selvaggi

La fuga dall’occidente alla ricerca dell’altro

di Umberto Galimberti

Dopo l’avventurosa peregrinazione nel Mato Grosso si chiede: "Cosa sono venuto a fare qui?"

Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po’ perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissionoe incaricata di organizzare l’università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.

In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell’Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell’antropologia del Novecento.

Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un’inquietudine che rode l’anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.

Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d’origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un’avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c’è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell’orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l’esistenza dell’Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.

Agli "antipodi" dell’Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?».

Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l’Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l’ha promossa, l’intenzione profonda che l’ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.


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